Sul Parlangeli

immagine tratta da: http://www.oldsite.unile.it/ateneo/ateneo/sedi/
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di Pier Paolo Tarsi

Distinzioni minime: spazio e luogo

Come un uomo non è riducibile al suo corpo, così un luogo non è riducibile a uno spazio fisico. Perché questo sia un luogo occorre anzitutto almeno una motivazione che lo abiti e lo organizzi, ci vuole almeno un significato complessivo che lo animi dotandolo di una identità funzionale minimale. Questo è un luogo per lo studio, quello un luogo di culto, quell’altro un luogo per lo svago, ogni luogo è tale per almeno un fine che gli attribuiamo, ossia per un significato totale, identitario, connotante, sulla base del quale lo spazio è palesemente organizzato nei suoi elementi tangibili. Il luogo è dunque la forma che organizza lo spazio fisico, la sua entelechia. È nel luogo che si accomodano e si incontrano propriamente le persone, è ai luoghi che ci affezioniamo, è questo, e non lo spazio, lo sfondo sul quale si stagliano le nostre esperienze vissute. Tali esperienze si sedimentano nel tempo in memorie che, nel persistere identico per tutti dello spazio, ampliano invece continuamente i confini dell’altro, lo diversificano e lo pluralizzano in tanti micro-luoghi quante sono le persone e i loro incontri, apportandovi inoltre motivazioni ulteriori non ricomprese nel fine originario. Si da allora il caso che vi siano, persino nel recinto circoscritto delle nostre case, porzioni di spazio che non sono mai diventate porzioni di un luogo per noi o qualcuno. Ci sono intere sale o angoli che non si sono mai prestati ad un nostro sguardo interessato, ad un significato qualunque, ad un frammento di memoria; ci sono vedute su questo spazio tracciato dai geometri e dai documenti che possiamo scoprire con stupore e possiamo abitare solo dopo questo nuovo ingresso. Il nostro luogo-casa è ritagliato entro lo spazio-casa complessivo, ma non coincide mai con esso. Ciò di cui possiamo veramente dire “è il posto in cui viviamo” è il nostro luogo personale, un ritaglio entro uno spazio oggettivo di cui sanno qualcosa solo gli atti notarili o i contratti d’affitto ma che noi di fatto non viviamo, non abbiamo conosciuto né testimoniato, non abbiamo mai investito di vissuti e significati, uno spazio che non ci è mai appartenuto, nel quale non vi abbiamo mai preso dimora. Ciò di cui possiamo testimoniare è solo il nostro luogo in quello spazio. La sedia che è lì, la porta che le è accanto sono elementi nello spazio a tutti accessibile. Ma il filo di ricordi che dipana da quella sedia, il suo significare per me, la connessione che mi riporta a chi me l’ha donata, mi appartengono personalmente come una parte del luogo in cui soggiorno solo io. Posso cedere, vendere o affittare il mio spazio-casa ma non il mio luogo-casa, perché questo emana da tutta la mia personalità e dalla mia storia di singolo e dalla storia di chi mi è intorno: è più di un semplice bene immobile il cui possesso mi è riconosciuto dalle leggi o dai costumi, è un bene personale, è mio in un senso più inalienabile della proprietà, non posso che portarlo necessariamente con me come fosse il mio corpo, mi appartiene come un’estensione personale, è un habitus su misura.

Parlangeli: lo spazio

Il Parlangeli è un posto raccapricciante. Ogni volta che ne varco la soglia, qualunque sia il mio stato d’animo, percepisco come fosse la prima volta chiaramente lo scandalo di questo orrore spigoloso, di questo nido grigio e monotono di cemento, di questo incubo ordinato e immobile. Il palazzo è una coazione a ripetere di poche figure squadrate con una sola concessione alla rotondità: una rampa di scale a chiocciola posta a intervalli regolari, una spirale psichedelica che sfocia in una cupola nera. Ogni scala è una voragine, una pausa posta tra le geometrie quadrate prima che riprenda lo spartito, il ritornello ossessivo di rettangoli e quadrati riproposti in identiche proporzioni ed esibiti nelle medesime, costanti combinazioni. Qui un ingresso vale l’altro, un piano vale l’altro, un ascensore vale l’altro (a meno che uno non funzioni per davvero!), una rampa di scale vale l’altra, un’aula vale l’altra, uno studio vale l’altro, una finestra vale l’altra: ogni cosa è perfettamente indistinguibile dalla corrispondente, ognuna è perfettamente equivalente all’altra per forma, dimensione, incolore e pallore. Ovunque si diriga lo sguardo la scena che si offre è quella di uno spettacolo di un fiume amorfo e ipnotico di regolarità tra cui non ha alcun senso preferire qualcosa a un’altra, non ha senso scegliere nulla. Tutto è predisposto alla luce di una maniacale uguaglianza, ogni elemento sembra cospirare contro il principio logico dell’identità degli indiscernibili, come se tutto volesse tendere al tentativo di una sua falsificazione fisica: il risultato è un’empirica congiura architettonica a Leibniz, una smentita del suo sistema. Se non vi fossero quelle targhette incise ad indicare con un numero decimale il piano, con una unità la successione e, infine, con una lettera il settore, nessun essere umano potrebbe minimamente orientarsi nel mezzo di un universo così privo di segni distintivi o differenze a cui ancorarsi per collocarsi, nessuno potrebbe capire in qualche altro modo da dove viene e dove va: mi domando se non sia proprio per queste ragioni e per una cinica allusione che sia stato scelto quel dannato palazzo per insediare proprio il corso di laurea in filosofia.

Parlangeli: il luogo

Che ci si creda o no, ed è una prova ulteriore della distinzione iniziale, anche in uno spazio così terrificante possono sorgere luoghi importanti, significativi, piacevoli e irrinunciabili per chi vi soggiorni. Per descrivere questi luoghi dovrei certo restituire al lettore ragnatele di memorie di molti anni della mia esistenza, da studente prima e, dopo anni trascorsi altrove, da dottorando poi; dovrei così far nomi e cognomi di amici e compagni preziosi, narrare aneddoti e fatti più o meno improbabili. Ma è preferibile credo limitarmi a qualche fotografia, a qualche istantanea che lascia supporre, suggerisce, testimoniando per frammenti qualcosa che è stato, come fanno le immagini fisse estrapolate da una storia più vasta e vivida di una generazione di studenti, una delle tante che appartengono irrimediabilmente al luogo. Ed allora ciò che prima restava indistinto, anonimo, impersonale e ripetitivo nella resa dello spazio, immediatamente si colora di decise distinzioni se coi ricordi mi addentro nello stesso palazzo sub specie loci. Ora ogni cosa è davvero unica e irripetibile, ha un colore netto ed una personalità definita e conosciuta, familiare, racchiude una memoria chiara. Il quarto piano ad esempio, non era affatto un piano come gli altri, era il “nostro” piano, quello cioè della tribù degli studenti in filosofia. Anche il secondo ci apparteneva molto, soprattutto fino a quando c’era lì il bar di R., un tipo bravino nel fare il caffè ma straordinario nel rullarsi perfettamente la sigaretta con una sola mano. L’altra gli mancava. Mi chiedo ancora oggi come diavolo ci riuscisse. Il secondo piano era dunque un avamposto, una frontiera tra studenti di filosofia e iscritti ad altri corsi di laurea e pertanto indegni della minima considerazione da parte di menti impegnate nella ricerca della verità come noi, intellettualmente disprezzati, ma solo intellettualmente trattandosi spesso di graziose studentesse di pedagogia o simili. Il primo e il terzo piano non erano invece affar nostro. Per quanto mi riguardava sentivo talmente estranei quei piani che, per dirne una, se dovevo correre in bagno e si dava il caso che al quarto o al secondo fossero tutti occupati, mi era difficile persino rendermi conto che c’erano altre possibilità. Si dice che i filosofi vivano nei cieli: ma come si fa ad essere piantati per terra quando ci si è formati al secondo piano di un palazzo senza un primo piano a reggerlo, e con un quarto piano edificato senza un terzo? Nemmeno nell’Iperuranio si starebbe talmente sospesi!

Il piano terra era invece territorio di tutti, era soprattutto quello delle biblioteche e di qualche aula più capiente. Nelle biblioteche non esistevano badge elettronici e tesserini magnetici: al loro posto c’era essenzialmente lui, S., il bibliotecario dalla memoria infallibile o “lulliana”. S. ti trattava come un vecchio zio brusco ma infinitamente buono, ti dava pazientemente i libri, e senza segnarsi nemmeno il tuo nome un giorno ti beccava nel bar e ti guardava male al punto che il caffè che stavi sorseggiando ti andava storto: quello era il segnale che il prestito era scaduto da molto, troppo tempo. Non era necessario che un software inviasse email automatiche alla tua casella elettronica come avviene oggi. La tecnologia era tutta lì, nella memoria e negli sguardi di S. Non occorrevano nemmeno parole spesso. Forse però è ora di finirla, prima che queste istantanee diventino un album di ricordi o peggio prendano a rincorrersi in un flusso nostalgico. Menzionerò soltanto l’ironia che il Parlangeli sa riservare. Tornandoci anni dopo per il dottorato, ad esempio, mi trovai a frequentare quasi esclusivamente il terzo piano. Chi l’avrebbe mai detto?

Al mio ritorno incontrai S. all’ingresso, seduto su un parcheggio in ferro per biciclette. La cosa mi colpì per la sua stranezza e così mi fermai, scoprendo che il mio primo giorno da dottorando coincideva col suo primo da pensionato. Per la prima volta in quella circostanza scambiammo due parole non riguardanti prestiti librari in sospeso. Non seppe resistere quel giorno alla forza di un’abitudine scavata una vita. Come non comprenderlo? Lo salutai con un affetto sentito ma non manifestato, proprio come si fa con uno zio burbero che non si vede da anni, anche se credo che lui non sapesse il mio nome. Ma su questo non ci scommetterei, con una memoria del luogo come la sua non si sa mai. Un’ultima cosa resta da dire, in merito alla provvisorietà eterna del Parlangeli, ormai proverbiale. Anche all’inizio di quest’anno, come negli ultimi diciotto, ossia sin dal tempo in cui ero una matricola, è stato puntualmente annunciato l’imminente sgombero delle attività universitarie dal palazzo. Non passo da lì da molti mesi ormai, sono però sicuro che anche l’anno prossimo leggerò lo stesso annuncio: su questo ci scommetterei, puntando tutto stavolta.

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Un commento a Sul Parlangeli

  1. Buongiorno Signor P.Tarsi,
    nel suo articolo si riferisce forse al
    Docente Universitario residente a Siena Prof. Oronzo Parlangeli
    cittadino Novolese da me conosciuto e Presidente Nazionale
    della SIE società Italiana di Ergonomia cognitiva,
    oppure potete indicarci il luogo, il nome e professione “Sul Parlangeli”
    in attesa di una vostra gradita risposta
    i Salentini di Torino
    vi inviano i migliori saluti
    Ersilio Teifreto

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