Tradizioni paesane dal Salento: una volta diventati compari, si resta tali per sempre

pini

di Rocco Boccadamo

 

Sino all’età di diciannove anni, ho vissuto permanentemente nel luogo di nascita, inserito a trecentosessanta gradi in quella minuscola comunità, a voler dire che, secondo il costume in voga fra coabitanti tre quarti di secolo fa, ero conosciuto è seguito da tutti, sin dalla fanciullezza e poi procedendo verso l’adolescenza e la prima giovinezza, queste ultime correlate, nel mio caso, con la frequenza delle Superiori.

Per il carattere vivace, la sveltezza nell’approccio, la confidenza istintiva e spontanea nei confronti dei compaesani, il buon profitto negli studi e, più in generale, il ruolo di spicco fra coetanei e non solo, non passavo, invero, inosservato.

Forse, questo insieme di connotati, in aggiunta all’appartenenza a un nucleo famigliare modesto ma stimato, ha fatto sì che, sovente, fossi scelto quale padrino di piccoli battezzandi e/o cresimandi; ciò è accaduto anche nei primi periodi in cui mi trovavo già lontano da Marittima per lavoro.

Se la memoria non m’inganna, essendo ormai trascorso così tanto tempo, m’è capitato di essere chiamato a svolgere la funzione in parola dodici o tredici volte.

Si badi, non si trattava di un evento o rito, o come lo si voglia definire, di carattere momentaneo e isolato; al contrario, ogni volta, s’instaurava e materializzava un importante e speciale nuovo valore aggiunto, in pari tempo interpersonale e comunitario, oltremodo diffuso e allargato, ossia a dire esteso anche alla parentela completa dei diretti genitori del/della figlioccio/ figlioccia.

Da considerare, altresì, che il vincolo o legame di compare/comare che si formava in virtù di ciascuna chiamata, era destinato, anche tutt’ora è così, a permanere senza soluzione di continuità, valicando le generazioni, insomma per sempre.

Non è, perciò, un caso fortuito o strano che io, pure il giorno d’oggi, girando per Marittima e incrociando i miei compaesani, sia portato a scambiare il saluto “buongiorno, buonasera, caro, cara, ciao”, non semplicemente con l’aggiunta del nome dell’incontrato, ma inserendo e anteponendo chiaramente l’appellativo di “compare” o “comare”.

Fra i maschi,  uno dei dodici/tredici marittimesi con cui, nell’epoca citata prima, ho avuto la ventura o il privilegio d’intessere rapporti più intensi in collegamento alla somministrazione di sacramenti, è compare Vitale, un contadino che ora ha pressappoco ottantacinque anni, nato e vissuto in un vicoletto attiguo alla piazza del paese, da qualche tempo rimasto vedovo di comare Salvatora, attivo come pendolare fra casa e qualche campagna mediante il suo moto furgone Ape, in altri termini sostanzialmente autonomo, sia pure con spunti d’assistenza resigli dalle figlie.

Quando mi trovavo già impegnato in altra residenza per via dell’attività impiegatizia, da lui e da sua moglie fui designato a battezzare una neonata, la prima o la seconda della loro numerose parole, cinque femmine e un maschio.

Lontano dal paese al momento del battesimo e rimasto fuori per circa quaranta anni, non ho mai avuto l’occasione di distinguere e tantomeno di conoscere la figlioccia in discorso.

Anche se, più o meno in tutte le occasioni in cui ritornavo momentaneamente al paese, avevo l’opportunità di notare o d’incontrare fugacemente i genitori, specialmente compare Vitale.

Un paio di estati fa, mia figlia Imma, la quale vive all’estero, si trovava a Marittima, per trascorrervi, come accade immancabilmente, una parentesi di vacanza insieme con la sua bambina e mia adorata nipotina bionda Elena, all’epoca avente circa quattro anni.

Una sera, rientrando nella nostra villetta del mare, Imma richiamò la mia attenzione su un particolare piacevole episodio che l’aveva appena coinvolta, nell’atto di entrare in un bar del paese per acquistare un ghiacciolo per la piccola.

Seduto all’esterno del locale, se ne stava un anziano signore, occupato a sorbire lentamente la sua birretta. Se non che, mentre madre e figlia s’avvicinavano ed erano sul punto di accedere nel bar, egli si determinò veloce a domandare qualcosa a un vicino di sedia, apprendendo così che le due figure erano rispettivamente la mia figliola e la mia nipotina.

“Come, fanno parte della famiglia del mio compare Rocco? “, si chiese e chiese in un baleno compare Vitale e, sempre rapidissimo, si fece avanti nei confronti di Imma, presentandosi e dichiarando, deciso, che, in virtù dell’antico legame esistente, si sentiva in dovere di essere lui ad offrire ciò che erano intenzionate ad acquistare nell’esercizio.

“Papà, non c’è stato verso”, passo a precisarmi Imma, “il tuo compare ha voluto, ad ogni costo, regalare il ghiacciolo a Elena”.

Ma, a proposito di continuità e valenza di costumi, più precisamente del perpetuarsi oltre le generazioni anche del ruolo di compare, senza volerlo e del tutto casualmente, ecco un secondo e indicativo episodio, più o meno correlato, successo una settimana fa nella vicina Castro.

Com’è nostra consolidata abitudine al termine d’ogni uscita in barca a vela, io e Vitale A., non il compare, bensì un altro Vitale mio carissimo amico, ci siamo fermati ad uno dei chioschi del porto, accomodandoci all’ombra per una breve sosta rigenerante e ordinando la solita gassosa arricchita con due dita di granita di limone.

In aggiunta alla titolare dell’attività, ho scorto, a servire al banco, una simpatica e sveglia ragazza mai vista prima, che, per la verità, non si poteva non notare, a motivo del suo capo completamente rasato e tinto di biondo.

Nel momento in cui la giovane si è accostata per servirci le bibite, l’amico Vitale, a bassa voce, mi ha riferito: ”Guarda, Rocco, questa ragazza dev’essere mezza marittimese, per via della madre, a suo tempo andata in sposa a uno di Castro”. Ha quindi continuato Vitale: “Deve appartenere alla famiglia di tale Vitale, conosciuto con il nomignolo o soprannome  ‘u cuzzune “.

Guarda caso, proprio il mio compare del quale ho raccontato prima. Al che, è scattata la solita molla della curiosità, che sovente finisce con impattare o fare incrocio con concomitanze o coincidenze, quasi ne fosse alleata.

“Giada” tale il nome della ragazza dalle lunghe chiome “tu hai forse un nonno Marittima? Come si chiama?”.

Prontissima, come fosse stata proprio nell’aria, la risposta: “Vitali (Vitale) ‘u cuzzune”.

“Guarda, Giada, che tuo nonno è mio compare, avendo io tenuto a battesimo, molti decenni fa, una sua figlia, fra quelle, mi sembra di aver sentito sei, da lui avute”.

E Giada a replicare: “Sì, esattamente sei, cinque femmine e un maschio”.

E io: “Ora, non so stabilire quale fra le cinque sia la mia figlioccia”.

Nuovamente svelta e determinata la ragazza, a smanettare sullo Smart Phon: ”Mamma, come si chiama il tuo padrino di battesimo?”.

Dall’altra parte del telefono: “Si chiama Rocco, e però non l’ho mai conosciuto”.

Ancora da figlia a mamma: “Guarda che è qui, accanto a me, al chiosco del porto, il tuo padrino, in carne ed ossa”.

E la genitrice: “Oddio, dopo cinquanta tre anni, è un autentico prodigio, passamelo, gli voglio parlare, Giada e dopo, ti raccomando, fagli una foto per me”. Quindi a me: “Compare Rocco mio, che sorpresa, che piacere”. E io a risponderle: “Cara Anna”, questo è il nome della figlioccia ritrovata, “sono anch’io contento e commosso, mi fa molto piacere, complimenti per tua figlia, mi sembra in gamba. Allora, ti sei sposata a Castro?”.

E lei di rimando: “Ero sposata a Castro…Desidero conoscerti presto di persona, segnati il seguente mio indirizzo……..”.

Finale ed esito doveroso e scontato dell’imprevisto e inatteso incontro/colloquio, mi sono formalmente impegnato ad andare quanto prima a trovare Anna.

Intanto, lei, avanti di scrutare dal vivo le sembianze del suo padrino finalmente ritrovato, potrà prepararsi e familiarizzare attraverso il selfie scattato e sicuramente passatole da Giada.

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