Misteri, prodigi e fantasie nell’antica Terra d’Otranto

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Il Salento delle leggende.

Misteri, prodigi e fantasie nell’antica Terra d’Otranto

 

di Antonio Mele ‘Melanton’

 Quando muoiono le leggende finiscono i sogni.

Quando finiscono i sogni, finisce ogni grandezza.

 

Il nostro Salento ha mille storie da raccontare.

Non tutte, e non sempre, sono leggende o racconti fantastici.

Avrete certamente notato anche voi come alla memoria risalgano talvolta certe atmosfere intessute di mistero o meraviglia, specialmente quelle affastellate durante gli anni dell’infanzia e della prima adolescenza, gli anni dell’età dell’oro.

Nel ricordo addolcito e sfumato dei mille specchi del tempo, eccole poi, che ci appaiono vivide e davvero leggendarie, come se noi stessi, per un sorprendente sortilegio, avessimo vissuto realmente avventure con orchi e principesse, e con maghi, e streghe, e castelli incantati, in luoghi immaginari e inimmaginabili.

Viene allora da pensare che la vita non è poi così breve come dicono, e abbiamo al contrario disponibili molte vite, già vissute e da vivere, giorno dopo giorno.

Il segreto, semmai, è dentro di noi.

È infatti evidente che ognuno, a suo modo, ha la percezione e la misura del tempo con ‘orologi’ diversi. Talora più rapidi. Altre volte più lenti. Quando non perfino muti, e immoti, e tanto silenziosi da diventare impercettibili. Non si spiegherebbe, altrimenti, che s’incontrino vecchi che sono ancora giovani, e giovani che sono già vecchi.

Dov’è, allora, il segreto?

Forse nell’amore. O nell’amicizia. Nella curiosità, nel coraggio, nella bellezza della vita… O forse non ci sono segreti. Ed è anzi tutto così chiaro che non riusciamo a vederlo.

 

Il tempo – come mi ripeteva lu Cosimu Ricchie-te-branda, vecchio pescatore gallipolino, mentre riparava pazientemente le sue reti – non passa mai per chi ama il mare.

In questa nostra privilegiata terra, il mare è anche dove non c’è. Se non c’è, s’indovina. Si sente dovunque. Il suo profumo salso e forte arriva lontano. Si apre e si diffonde nei vicoli, nelle campagne, sulle serre, fra i muri delle case. Il mare è il nostro sogno reale.

Al mare si legano peraltro fiori di leggende dolcissime. E fra le più suggestive è certo quella dei faraglioni di Torre dell’Orso, i due candidi scogli dorati che si ergono nell’Adriatico, non lontani dalla riva della splendida località marina di Melendugno.

Si racconta che, all’origine dei tempi, in una contrada nel cuore della Grecìa salentina, viveva una povera famiglia di contadini, costituita da padre, madre e dodici figli: i primi dieci erano tutti maschi, e per ultime due gemelle, belle come il sole, delle quali non ci è stato tramandato il nome, e che noi chiameremo Alba e Aurora.

Il lavoro e i prodotti dei campi rappresentavano l’unica risorsa di quella famiglia, e Alba e Aurora ne erano occupate in misura particolare.

Le gemelle, infatti, s’interessavano di tutti i frutti di stagione e della loro conservazione dopo il raccolto, per venderli poi nei mercati dei paesi vicini. Fra le varie incombenze c’erano quelle di raccogliere e sgusciare le mandorle e le noci; di aprire i fichi in due, adagiandoli in bell’ordine su un lettino di canne, per esporli al sole e farli essiccare; di ordinare l’uva bianca o nera nelle ceste, conservandone sotto spirito gli acini più carnosi, e seccandone altri per farne uva passita; di raccogliere i capperi uno ad uno, ponendoli sotto sale; ed altre accurate operazioni, che molto le affaticavano, al punto d’addormentarsi quasi sempre appena faceva buio, senza neanche scambiarsi la “buona notte”…

Avvenne, in un meriggio di mezza estate, che il sole fosse così cocente da affannare le due fanciulle, fino a farle quasi perdere il respiro. E sentendo giungere come una brezza di frescura dall’orizzonte, seguirono quella scia, finché arrivarono sul promontorio che oggi è segnato dall’antica Torre dell’Orso, e da lì videro per la prima volta il mare.

La bellezza e il profumo erano tali che ne furono irresistibilmente attratte, e dall’alto della scogliera ebbero forte l’impulso di tuffarsi fra le onde verdi e cristalline. Ma non sapevano nuotare…  Così sparirono entrambe tra la spuma, annegando quasi abbracciate.

Gli dei, che tutto avevano visto, e conoscevano bene la storia, le fecero però riemergere una accanto all’altra, in forma di scogli dorati, proprio lì dove ancora si possono ammirare in tutta la loro bellezza.

 

L’antico Monastero di Santa Teresa delle Carmelitane Scalze di Gallipoli è depositario di un evento storico straordinario, che accadde poco più di un secolo fa, esattamente all’alba del 16 gennaio 1910.

Anche questa ricerca me l’ha suggerita lu Cosimu Ricchie-te-branda.

Fondato nel 1692 dal vescovo castigliano Antonio Perez De La Lastra, il Monastero è ancora oggi, nella propria configurazione e struttura religiosa, fra i più importanti d’Italia, e ospita una ventina di consorelle. Le suore, giovani e meno, attualmente circa una ventina, che qui conducono la loro esistenza, consacrata a Santa Teresa d’Avila e all’altra santa Teresa, detta Santa Teresina, o Santa Teresa del Bambino Gesù, o anche – dal nome della sua città francese di origine – Santa Teresa di Lisieux, vivono in raccolto silenzio i loro tempi cadenzati di lavoro e meditazione. E, nei rari momenti liturgici in cui si aprono le tende che scoprono le grate della stanza di preghiera, si può osservare tutto il candore che accompagna queste consorelle, insieme alla «ridente fermezza – come recitano alcuni testi dedicati – di chi ha fatto la scelta esaltante di dedicare la propria vita ad una spiritualità impeccabile e assoluta».

Nel 1910 il Monastero versava in condizioni economiche assai difficili, per un debito contratto con l’erario. La Priora Madre Carmela s’era peraltro ammalata di pleurite, e non riusciva ad interessarsi, come sempre aveva fatto, per trovare le donazioni adeguate a superare la precaria contingenza.

Per tutta la notte si girò inquieta nel letto, e alle prime luci del sole di quel 16 gennaio ebbe nel dormiveglia la sensazione che qualcuno la scuotesse come per svegliarla e farla alzare, mentre intorno si diffondeva un profumo di rose. Lei chiese di essere lasciata dov’era, perché era stanca, e tutta sudata. Ma una dolce voce femminile l’avvertì: «Quello che faccio, lo faccio per il vostro bene. Ecco: io vi porto 500 lire per sovvenire ai bisogni della vostra comunità». Poi, dopo altre affettuose parole, si accomiatò, presentandosi: «Io non sono la nostra santa Madre Teresa d’Avila, ma la Serva di Dio, suor Teresa di Lisieux». Poco dopo, svanito il sogno, ma con una forte sensazione di curiosità e meraviglia, Madre Carmela si alzò, e si diresse verso la cassetta delle offerte, scoprendo che vi erano proprio le 500 lire, offerte al Monastero da Santa Teresina, con le quali avrebbe sanato il debito!

Del fatto miracoloso informò poi l’omologa Madre Agnese, Priora del Carmelo di Lisieux, con una lettera, gelosamente conservata negli archivi di quel Monastero.

Tra il sacro e il profano è lu cuntu (che ha tutti i caratteri della leggenda) di uncerto Mèsciu Pati di Tiggiano, nel Capo di Leuca, devotissimo di san Francesco, benché il patrono del suo paese fosse proprio santu Pati (Ippazio).

Lu Cosimu Ricchie-te-branda questa volta non c’entra: la ‘soffiata’ me l’ha data una ottima pi di Sannicola, che saluto, e che vuole restare anonima.

Al tempo dei miti, quando il Salento contadino era un immenso crogiuolo di storie, questo Mèsciu Pati raccontava ai suoi nipoti che il 4 di ottobre di ogni anno, lui faceva una grande festa in omaggio a san Francesco, con musiche, balli, luci e dolciumi, per ringraziarlo di un miracolo che aveva ottenuto quand’era fante di trincea nella Grande Guerra.

A ottobre di quell’anno, però, Mèsciu Pati non aveva neanche un centesimo, e la sera della vigilia sospirò: «Cce paccàtu… Pe fare la festa a santu Frangiscu, mi vindìa puru l’anima!». Di questo ne approfittò naturalmente il Diavolo, che – prendendolo in parola – si presentò subito al suo cospetto, nelle sembianze di un elegante signore, offrendogli un grosso prestito di denaro, con la clausola che Mesciu Pati glielo avrebbe restituito in capo a un anno. Se, però, non avesse potuto onorare il debito, il Diavolo creditore avrebbe incassato, per l’appunto, la sua anima!

No, no… Sì, sì… L’accordo, alla fine, fu concluso.

Passato l’anno, il devoto e generoso Mèsciu Pati – che aveva intanto distribuito il denaro ai suoi familiari e parenti, e a qualche povero paesano, e provveduto inoltre ad apportare qualche piccola miglioria alla sua modesta casa – era rimasto completamente all’asciutto, e non sapeva come fare per il debito in scadenza.

Allora, gli si presentò un monaco cercantino (che era stato incaricato alla bisogna da san Francesco in persona), il quale lo rassicurò che a risolvere il problema ci avrebbe pensato lui. E quando arrivò il Diavolo, sempre camuffato da ricco signore, il monaco gli manifestò subito che Mésciu Pati non poteva far fronte al debito, ma che comunque, secondo i patti, era pronto a cedere la sua anima. «Purché – aggiunse –, prima di ciò, come ultima invocazione di saluto, tu reciti insieme a me “li trìtici punti t’a verità”».

«E me pansava cce ggh’era!…», replicò il Diavolo. «Ccumenza tie, ca ieu te sècutu!».

E si mise a ripetere la lunga tiritera dei ‘tredici punti della verità’ recitati dal monaco: «Unu, un solo Dio…, Dòi, lu Sole e la Luna…, Tre, li tre patriarchi nobisarchi…». Ma più il Diavolo replicava, più egli si sentiva come se gli mancasse il terreno sotto i piedi… Finché non giunsero all’ultima formula: «Trìdici, non c’è più patti, lassa lu denaru, e tie, namìcu, scatti!»… Era la formula che cancellava definitivamente il debito. Terminata la quale, il povero Diavolo fu inghiottito negli inferi, tra una grossa vampata di fuoco, che la videro fino a Leuca..

Lu cuntu nu fue cchiui, diciti n’addhu vui… Alla prossima

 

Pubblicato su Aracne

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