Salento: storia di una crescita negata

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da internet. Non è stato possibile individuare l’autore della foto ed è gradita la segnalazione per rimediare

di Leonardo Gatto

 

Leggere fa bene. Leggere invece che guardare la tv, solitamente fa ancora meglio. Leggere con l’obiettivo di capire cosa ci succede intorno accrescendo la percezione del reale, in fondo, sarebbe il massimo. Leggere la quotidianità salentina cogliendone criticità e punti di forza, nel  tentativo di invertire la rotta rispetto a quello che un manipolo di opportunisti chiama sviluppo, dovrebbe essere esercizio obbligato al giorno d’oggi.

Obbligato perché la sensazione è che si stia vendendo per sviluppo qualcosa che assomiglia più alla  devastazione definitiva di un pezzo di mondo ad alta qualità territoriale. Sponsorizzando gasdotti, trivelle ed in un futuro non troppo lontano magari pure Ulivi Ogm, una fetta di politici, intellettuali in malafede e  giornalisti politicizzati, legati alla concezione del territorio buono solo per gli affari, sono convinti che alla fine, come già accaduto in passato, la popolazione si farà abbindolare da quattro spiccioli. Pannelli fotovoltaici e le pale eoliche docent, ricordate vero? Nessuna progettualità condivisa alla base degli investimenti e soldi a pioggia come se non ci fosse un domani. Ed in effetti un domani non c’è stato, almeno energeticamente parlando.

Leggere la quotidianità legandola a doppio filo al recente passato ci porta ad uscire dai confini (ammesso che ancora ce ne siano) salentini e cercare di capire come sta evolvendo l’economia ed insieme ad essa i sistemi di sviluppo locale sostenibile in un mondo governato dalla globalizzazione. Lo so, sembrano parole grosse, ma vi assicuro che non lo sono per niente, si tratta solo di dirci in faccia qualcosa che in fondo è sotto gli occhi di tutti.

Il nostro piccolo ed accogliente Salento ha da sempre avuto un scarsa propensione ad immaginare qualcosa di diverso dal ristretto mercato turistico dei mesi di luglio ed agosto, l’economia locale sopravvive (a stento) alla crisi senza che nessuno si preoccupi di capire cosa c’è che non va. Non v’è traccia di qualcuno che ipotizzi, per una volta, il Salento come un unico attore economico in grado di interfacciarsi adeguatamente col mondo globalizzato in modo unitario, muovendosi da “Comparto Salento” invece che in ordine sparso, in piena aderenza alla dottrina economicamente imperante al giorno d’oggi: morte tua, vita mia.

Tutti sappiamo bene come l’economia nella nostra piccola territorialità poggi sostanzialmente sulle gambe di piccoli e coraggiosi imprenditori, la cui attività è indirizzata principalmente alla produzione locale di generi alimentari tipici e qualitativamente validi, dal vino  ed olio di qualità (non voglio credere che davvero un insulso batterio fastidioso possa distruggere millenni di storia dell’ulivo nella nostra terra), passando per tutta una serie di produzioni agricole e vivaistiche a carattere esclusivamente biologico e la discreta capacità manifatturiera (che in questi ultimi anni sta soffrendo sotto i colpi di una crisi che riguarda prima di tutto l’innovazione delle metodologia di offerta più che le caratteristiche del prodotto finito). Il tutto valorizzato da un settore turistico in continua crescita le cui potenzialità sono tutte da scoprire. L’insieme di queste tipicità rendono l’idea del  prodotto “Salento” nel suo complesso, lo stesso che negli ultimi anni numerose testate internazionali hanno elogiato come “il gioiello del sud” mettendo in evidenza, guarda caso, la qualità enogastronomica e l’ottimo stile di vita, arrivando a definirci edonisti. Non si capisce come mai un tale gioiello non debba approdare sul mercato globale anziché giocare una stupida partita d’azzardo contro petrolieri e faccendieri del gas, molto più in forma di noi sulla speculazione del territorio.

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Arriviamo al nodo della questione, il ruolo delle istituzioni e della politica locale nel processo di sviluppo della nostra terra. Ci sarebbe da scrivere un libro sul perché non esiste un’idea di sviluppo sostenibile in Terra d’Otranto, ma ora ci interessa capire cosa non è stato fatto e da chi. Per capirlo basta ragionarci un po’ su, guardandosi bene intorno e “leggendo” a dovere quello che non c’è, non la miseria che hanno lasciato. Il Salento non ha mai avuto una classe politica al passo coi tempi, in grado di creare ricchezza diffusa valorizzando la piccola e media impresa. I politici locali non si sono preoccupati di creare infrastrutture che collegassero adeguatamente il Salento al suo interno creando catene di valore diffuso. Non si sono preoccupati di connettere questo finis terra con l’ambiente economico e sociale esterno, proprio quel mondo globalizzato che oggi ci vede un po’ come meta turistica di qualità un po’ come corridoio e magazzino per il gas e il petrolio europeo. Lo spirito imprenditoriale del singolo non viene valorizzato anzi peggio, se non funzionale al sistema clientelare di bassa leva, è osteggiato in tutti i modi quando non deriso dal popolare brusio di fondo che tutto critica e nulla sa coltivare e valorizzare.  I nostri rappresentanti in tutte le sedi hanno tenuto più alla poltrona che allo sviluppo economico di lungo periodo, non hanno saputo creare infrastrutture culturali che portassero il prodotto Salento fuori dai confini regionali. In realtà non hanno nemmeno saputo immaginarlo il prodotto Salento, se non per una breve ed intensa campagna di marketing e merchandising (che è cosa diversa dall’infrastruttura culturale) sostenuta da alcuni operatori privati e denominata “Salento D’Amare”. Sappiamo tutti com’è andata a finire.  Non è mai stato stimolato un processo collaborativo tra pubblico e privato in grado di mettere a valore conoscenze e capacità organizzative proprie del territorio. La classe dirigente salentina, di qualsiasi credo o colore politico, ha trasformato le istituzioni in comitati d’affari e centri di potere che “ti fanno il favore” invece che stimolare la crescita indiscriminata del territorio. In poche parole non hanno saputo dare slancio ai rapporti interni al Salento, creando collaborazioni a 360 gradi che imponessero reti di valore in grado di fare da cuscinetto anche alle crisi più dure.

Grazie al cielo i tempi stanno cambiando, il mercato sta cambiando e con esso la società salentina. La crisi impone un ripensamento generale della gestione delle risorse. Il ruolo delle istituzioni, rimodulato in chiave globale, è quello di fare da cerniera tra l’unicità di una produzione difficilmente replicabile in scala industriale e il resto del mercato globale, ormai sempre più libero da condizionamenti e vincoli legati a limiti culturali. La nascita della rete web ha rotto definitivamente i confini dei mercati locali mettendo in connessione domanda ed offerta come mai prima. Le informazioni viaggiano per il globo in modo del tutto autonomo, tanto che uno sversamento di petrolio in Adriatico dopo l’arrivo delle trivelle è probabile nel Salento quanto non lo fosse in Nuova Zelanda, Scozia, Usa, India, Cina o negli altri 75 Paesi in cui è successo dal 1910 ad oggi.

Globalizzare oggi vuol dire valorizzare il proprio locale e renderlo competitivo sul mercato mondiale, senza farsi fregare dalla politica della produzione di massa. Quella che vede contrapposta la pizza ad un happy meal, le trivelle alle immersioni a scopo scientifico o turistico, i prodotti tipici alla produzione geneticamente modificata. Oggi globalizzare il Salento vuol dire scegliere tra una meta turistica tipo villaggio attrezzato o crociera (produzione di massa) ed un sano week end tra gli ulivi. Vuol dire scegliere se fare del nostre coste un oasi marina incontaminata o l’approdo di tubature e piattaforme petrolifere. La decisione spetta a noi, ma dobbiamo essere pienamente consapevoli degli effetti delle nostre scelte e non farci ingannare da chi queste domande non se le pone, convinto com’è che il popolino si beve tutto e dimentica in fretta.

Il rapporto tra Locale e Globale si identifica oggi con un ritorno alla qualità del prodotto e del territorio, degli stili di vita come della cura del paesaggio. Tutto fa brodo, e che brodo. La qualità è valore che sempre più si impone nelle scelte di tutti i giorni e che lentamente sta prendendo il posto della quantità da accumulare, della cementificazione selvaggia di suolo, dell’utilizzo non sostenibile di materie prime quali carbone e petrolio, dell’uso della terra come bene da sfruttare al massimo e non come valore aggiunto da salvaguardare. Quantità, produzione di massa ed insostenibilità del modello economico occidentale sono le vere misure ad essere entrate in crisi all’inizio del 2007.

In quest’ottica parlare di Tap e trivelle in Adriatico o abbattimento degli ulivi a causa della Xylella fastidiosa diventa quasi una sfida: chi lascerebbe morire una miniera d’oro come questo Salento per prendersi quel poco che viene da una speculazione politica ed informativa a tutto vantaggio del profitto immediato e mai sudato, tipico dell’epoca in cui viviamo. Prima che questa terra diventi un deserto tutti abbiamo il dovere di fare quello che è in nostro potere per fermare lo scempio del territorio, magari cercando di riportare alla ragione quanti ancora parlano di sviluppo senza tenere conto delle reali potenzialità della terra che calpestano.

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