Dalla festa all’”uttisciana”, dall’assenteismo agli impianti di riscaldamento …

di Armando Polito

Ci sono fenomeni sui quali i sociologi, e non solo loro, versano fiumi d’inchiostro e durissimo è lo scontro, per così dire, tra chi dà vita al fenomeno e chi è costretto a subirne le conseguenze. Recentissimo è il caso che ha visto protagonista la maggior parte dei vigili urbani a Roma e dei netturbini a Napoli, episodio che, almeno a caldo, sembrerebbe in procinto di scatenare un altro capitolo di quella pantomima di guerra tra governo (locale o centrale, che differenza c’è?) e sindacato (il colore conta poco …), il primo ostinato nel suo programma di disintegrazione di diritti fondamentali, il secondo altrettanto protervamente e criminalmente testardo nel volerne difendere l’uso improprio o il loro abuso. Eppure, basterebbe poco a risolvere la questione: sedersi ad un tavolo insieme e stilare ex novo (cioè senza il rompicapo di rinvii a commi di norme precedenti …) una legge apposita (cioè non miscelata, come spesso succede, nell’osceno calderone di provvedimenti pomposamente definiti organici) con pochissimi articoli redatti con parole tutte aventi un significato univoco, tale, cioè, che nemmeno il migliore avvocato-filologo sarebbe in grado di sfruttarle a vantaggio del proprio cliente disonesto.

Bisognerebbe, perciò, bandire da ogni testo legislativo non solo quelle parole che hanno un significato sfumato ma anche quelle che nativamente si prestano all’equivoco. Una di queste è l’aggettivo feriale, che dal significato del latino ecclesiastico feria ha assunto quello di (giorno) non festivo della settimana ma anche quello opposto, per esempio nella locuzione periodo feriale o ferie, connesso col significato di festa che feria aveva nel latino classico.

Sembra che il principio fondamentale ignorantia legis non excusat (in cui oggi ignorantia va preso, oltretutto, con beneficio d’inventario) sia stato disintegrato da quello dell’impunibilità per incapacità d’intendere e di volere (reale, presunta, dubbia o fasulla …) fino alla sublime giustificazione a mia insaputa. C’è da meravigliarsi, perciò, se lo sport nazionale non è il calcio ma, insieme con la corruzione, l’assenteismo, parolaccia calunniosa che andrebbe sostituita con prolungamento delle ferie (da cui andrebbe dedotto, però, il tempo perso per timbrare il cartellino e subito dopo uscire non per andare a prendersi un caffè, per quanto lungo …, ma per fare la spesa, andare in palestra e tornare sul posto di lavoro mezz’ora prima, giusto per senso di responsabilità …, della fine del turno)?

Posso permettermi il lusso di queste osservazioni, e chi è in grado di farlo mi smentisca, perché nella pratica professionale, e non solo in quella, la puntualità è stato il mio difetto peggiore, tant’è che un bidello, traumatizzato dal fatto che puntualmente quando avevo la prima ora mi sorprendeva davanti al cancello della scuola chiuso, una volta ebbe a sbottare simpaticamente – Professò, quasi quasi ti to li chiai a ssignuria – (- Professore, quasi quasi do le chiavi a lei -); e un preside, peraltro puntuale (perché se così non fosse stato non si sarebbe sviluppato il purgatorio, come avvenne, ma l’inferno …), ebbe ad accusarmi di zelo eccessivo.

Non rimpiango di essere stato puntuale e mi dispiace pure, nella mia perversità, di essermi assentato solo per licenza matrimoniale, per due lutti familiari e, in trent’anni di carriera, non più di un mese per motivi, non fasulli, di salute. Anche mentre mia moglie partoriva io facevo lezione, non so come, ma la facevo. E, se non posso illudermi che per la mia costante presenza in classe i ragazzi tra loro mai abbiano usato frasi tipo  – Ma quistu mai more? – (- Ma questo mai muore? -), posso garantire che sicuramente sarà circolata la frase (anche se non l’ho sentita) – Ma a qquistu no llu pigghia mancu nna fursione? – (- Ma questo non lo colpisce neppure un’influenza? -).

Quando, però, certi fenomeni, sempre esistiti, assumono dimensioni notevoli e nulla o poco si fa per stroncarli si corre il rischio che il cittadino corretto a lungo andare si senta come il povero fesso che non ha capito nulla di come va il mondo, pur sapendo benissimo come dovrebbe andare. E questo, purtroppo, non vale solo per l’assenteismo ma anche per le raccomandazioni, l’evasione fiscale, etc. etc.

La rivoluzione, è risaputo, è avvenuta sempre dal basso (anche se in alcuni casi fomentata strumentalmente da porzioni di alto alla ricerca di maggior potere …) ma bisogna attendere che il livello di sopportazione si riduca ai limiti estremi, che la maggioranza, cioè, reagisca, anche violentemente, per fame. Cosa c’è da aspettarsi da un potere politico preoccupato solo di mantenere in vita se stesso se non annunci e riforme che strizzano l’occhio ora all’una ora all’altra parte nel tentativo disperato (mi auguro illusorio …) di mantenere un artificioso consenso?

Nella fattispecie, poi, l’accampata esiguità delle risorse si è tradotta nella riduzione dei controlli a livelli ridicoli ed è risaputo da tempi immemorabili che quandu la muscia non c’è li sùrici bbàllanu (quando la gatta non c’è i sorci ballano).

La compiacenza del medico attestante la malattia resterà sempre presunta e difficilmente dimostrabile, a meno che in ogni studio o in ogni abitazione non vengano installate microspie che registrino battute di questo tipo:

Tottò, osce no sta mmi vae cu mmi llèticu cu llu principale

(- Dottore, oggi non mi sta andando di litigare con il principale -)

– Aggiu capitu; ti segnu nnu ggiurnu pi ffursione, siccomu aggiu istu ca sta tti cola lu nasu –

(- Ho capito; ti segno un giorno per influenza, siccome ho visto che ti sta colando il naso -)

– Nnu ggiurnu? Tottò, puttana pi nna faa puttana pi nn’ungulu: sègnaminde cinque! –

(- Un giorno? Dottore, puttana per una fava, puttana per tutto il baccello: segnamene cinque! -)

– Allora tocca mmintimu no ffursione ma stitichezza cucciuta ti na sittimana –

(- Allora dobbiamo mettere non influenza ma stitichezza ostinata e perdurante da una settimana -)

– Tottò, minti cce bbuei, tantu no ppensu ca lu mièticu ti controllu, sempre ci mi troa, mi quarda an culu –

(- Dottore metti quello che vuoi, tanto non penso che il medico di controllo, sempre che mi trovi, mi guarda in culo -) 

Anche il medico destinato al controllo, salvo casi eclatanti, per esempio quello di uno colpito ufficialmente da stitichezza ma sorpreso mentre si sta scolando una boccetta di astringente, dovrà giocoforza avallare la diagnosi e la prognosi del collega. Vogliamo, allora, almeno eliminare l’idiozia e la presa in giro delle fasce orarie di reperibilità? Se uno è ammalato è bene che, finché non guarisce, si riguardi e che se ne stia a letto o in poltrona, ma in casa, a meno che non sia stato costretto (lo stato di necessità è diventato fratello dell’incapacità d’intendere e di volere e del a mia insaputa …), proprio nel momento della visita fiscale (che, per essere seria, dev’essere sempre incombente, senza preavviso, pure di notte …, per tutta la durata della presunta malattia), a uscire di casa per andare a dare l’ultimo saluto alla madre morente o per soccorrere il povero passante che chiedeva disperatamente aiuto a cinque isolati di distanza …

E a proposito di controlli: quanto di voi ricordano (dell’argomento mi sono già occupato in https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/12/13/dalla-bulla-alla-bolletta-dai-bollini-della-spesa-a-quelli-della-provincia-di-lecce-per-ricordare-che-sta-per-scadere-la-dichiarazione-impianti-termici/) che per la nostra provincia è previsto per le caldaie degli impianti di riscaldamento un controllo di almeno il 5% degli impianti presenti nel territorio di competenza?  (articolo 10 del regolamento approvato dal Consiglio provinciale del 6/8/2012; l’intero regolamento in http://www.nuovasalentoenergia.it/regolamenti/docs/Regolamento%20controllo%20impianti%20termici%202012.pdf).

Quis custodiet ipsos custodes? (chi controllerà gli stessi controllori?), si chiedeva desolatamente poco meno di duemila anni fa Giovenale nella sesta satira. Chi controllerà, mi chiedo io oggi altrettanto desolatamente, che quel miserabile almeno 5% sia stato rispettato o no? E, soprattutto,  quale sanzione è prevista a carico di chi si è aggiudicato la gara d’appalto, nel caso in cui tale oscena percentuale non sia stata rispettata?

Già, si diceva, l’esiguità delle risorse: ma con quale spudoratezza viene messa in campo questa locuzione quando ad ogni finanziaria, puntualmente, accanto ad ulteriori prelievi fiscali subdolamente nascosti tra le righe, ci si sciacqua la bocca con locuzioni tipo lotta agli sprechi e, addirittura ogni volta viene costituito un apposito nuovo team d’esperti per individuare questi rami secchi, che continuano a succhiare linfa vitale imperterriti, perché evidentemente i potatori, pur lautamente pagati, hanno fatto un lavoro (ammesso che non siano stati anche loro assenteisti …) che non è tenuto in nessun conto da chi ha il dovere di farlo?

Il quadro è desolante e, poiché ogni popolo ha il governo che si merita, in attesa che arrivi la fame diffusa di cui sopra, l’unica alternativa sarebbe una svolta autoritaria che, per il nostro bene, col tempo si riveli anche e soprattutto autorevole (e l’autorevolezza può venire solo dall’esempio …). Sulla scena politica, purtroppo, non vedo ombra di chi potrebbe interpretare questa parte, tutto sommato, ingrata ma salvinifica, chiedo scusa  (l’ironia e il sarcasmo sono le due componenti essenziali, mi auguro inesauribili, del mio kit di sopravvivenza …), salvifica.

Il giorno feriale (in cui, a scanso di equivoci, feriale assume il suo significato meno gradito, cioè lavorativo) nel nostro dialetto è uttisciàna. Per il Rohlfs la voce deriva dalla locuzione latina die(m) quotidiana(m), a sottolineare anche la sua originaria contrapposizione all’eccezionalità della festa (perfino il Padreterno nel settimo giorno si riposò …).

Rispetto a tale etimo, sostanzialmente corretto, ritengo, però di dover fare qualche piccola integrazione/precisazione. Intanto analizzo il primo componente del nesso messo in campo dal filologo tedesco. Quotidiana (di cui quotidianam è l’accusativo femminile singolare) è aggettivo dall’avverbio quotidie=ogni giorno, formato dall’indeclinabile quot=quanti+die=giorno (formazione analoga quotannis=ogni anno). Va pure detto che già nel latino classico è attestata l’alternanza cotidianus/quotidianus/cottidianus per l’aggettivo e quotidie/cotidie/cottidie per l’avverbio.

Nel latino degli umanisti , oltre alle tre forme appena indicate, compare pure quottidianus: Guarino Guarini (XV secolo), De linguae Latinae differentiis: Octavianum Augustum  quottidiano  sermone “simus” pro “sumus” usurpasse legimus (Leggiamo che Ottaviano Augusto aveva usato nella lingua di ogni giorno simus invece di sumus); Lorenzo Valla (XV secolo), Ars grammatica: …separat in binas hominum sollertia voces, exceptis paucis, certa ratione, quod aut sint quottidiana domi aut oculis insignia nostris: quottidiana  caper sunt et capra sive capella … (… la solerzia degli uomini separa in due le voci, ad eccezione di poche, per un motivo sicuro, poiché o sono cose quotidiane in casa o nobili ai nostri occhi: sono quotidiane caper e capra o capella …); Francesco Filelfo (XV secolo), Epistola a Lorenzo il Magnifico: … num putemus oratores vel in senatu, vel in foro, vel apud populum alia usos oratione quam latina, hoc est  quottidiana  vulgarique …? (Forse dovremmo considerare oratori o nel senato o nel foro o presso il popolo quelli che usano una lingua diversa dalla latina, cioè quella di ogni giorno e popolare …?).

Da quottidianus e cottidianus i volgari quottidiano e cottidiano: Giovanni Sabadino degli Arienti (XV secolo), Novelle Porretane, XXIV: Advenne dunque uno giorno che, dolendose del sinistro portava per el tardo advenimento del famiglio cum uno miser Piero Goso scolaro savonese, suo  quottidiano compagno, omo callido, astuto e piacevole gabatore oltra modo, li disse il dicto miser Piero che non se pigliasse affanno …

Baldassar Castiglione (XVI secolo), Il libro del cortegiano, II, 17: Ma in somma non bastaranno ancor tutte queste condizioni del nostro cortegiano per acquistar quella universal grazia de’ signori, cavalieri e donne, se non arà insieme una gentil ed amabile manera nel conversare  cottidiano.

Con ellissi di febbre come in terzana e quartana: Pietro Crescentio (XVI secolo), Opera di agricoltura: Ancora diamo la sua polvere assolvere et vale alla cottidiana e alla terzana … contro la cottidiana di flegma falsa et contra la rogna si pesti …  et cotale oximelo vale contra la quartana et cottidiana se non fosse già di flegma falsa …

Il nostro uttisciana ha seguito la seguente trafila partendo non da (diem) quotidiana(m), come vuole il Rholfs, la cui proposta non dà conto della caduta di qu– e della geminazione di –t-), ma da (diem) cottidiana(m) per passare a cottidiana(m) (ellissi di diem), poi a ottidiana (affievolimento di c-, compensato con v– nella variante vuttisciana in uso nel Leccese a Alessano e Castrignano dei Greci e nel Brindisino a Carovigno e Ostuni), quindi a ottisciana [da notare il normalissimo sviluppo -dia->-scia- come in sciàna=disposizione d’animo, umore (da Diana, per cui vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/12/16/lu-spilu-e-la-sciana/])>uttisciana] e, infine, a uttisciana.

Come non ricordare il detto Nana, nana, comu la festa l’uttisciana, riferito genericamente al trascorre sempre uguale del tempo e in particolare a persona che nel giorno  feriale vestiva allo stesso modo di quello festivo? Si trattava di qualcosa di eccezionale, dati i tempi. Proprio feriale è l’aggettivo che il Boccaccio  (XIV secolo) usa a tal proposito nell’Elegia di Madonna Fiammetta, V, 31: Semplicemente, e di feriali vestimenti vestita, vi vado.

E il riferimento, questa volta diretto, alle ristrettezze economiche non manca neppure nella ninna nanna, di cui il detto precedente sembra essere la versione riveduta ed ampliata: E Ninina e Ninana/comu la festa l’uttisciana./Ci turnisi no ‘ndi tegnu,/comu àggiu ffare tti mantegnu? (E Ninina e Ninana, come la festa così il giorno feriale. Se non ho soldi, come devo fare a mantenerti?).

Da notare come il Ninina (che già si era evoluto per ragioni di rima in Ninana), diminutivo di Nina (a sua volta abbreviazione di Antonina, ma come non ricordare lo spagnolo niña=bambina?) e pure foneticamente vicino alle voci infantili ninni (=bambino) e ninna nanna, diventa nel primo detto Nana, abbreviazione di Antonia. Bella la domanda che conclude la ninna nanna, paradossalmente proprio perché retorica: il genitore avrebbe dato la vita pur di non far mancare al bambino l’indispensabile.

Già, l’indispensabile; ma non solo quello alimentare e di prima necessità, anche quello affettivo, sensoriale ed emozionale. E oggi? Oggi, probabilmente, il genitore (o chi per lui), ammesso che avesse  il tempo e la voglia di farlo, canterebbe così: E Ninina e Ninana/comu la festa l’uttisciana./Pi llu pane non c’è nn’eurinu/ma tieni nu beddhu telefoninu (E Ninina e Ninana, come la festa così il giorno feriale. Per il pane non c’è un centesimo di euro ma hai un bel telefonino).

Sarebbe già tanto, ma meno male che qualcuno (regressione infantile?) può contare, prima che la fame dilaghi, sull’aiuto di un amico veramente … insospettabile.

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