I fichi secchi dei botanici greci e latini

Ficus si capisce, ma carica?

 

di Armando Polito

La tassonomia, si sa, è scienza relativamente recente e unanimemente ne è considerato il padre Linneo, naturalista svedese del XVIII secolo, inventore del metodo binomiale, basato cioè sull’attribuzione ad ogni pianta di un nome formato da due componenti, il primo riferentesi  al genere di appartenenza (comune alle specie che presentino alcune caratteristiche principali), il secondo alla specie. Era il superamento del sistema precedente, invalso fin dai tempi dei botanici greci e latini, basato su una descrizione più o meno dettagliata di ogni pianta (con una rozza applicazione del metodo comparativo in espressioni del tipo con le foglie simili a quelle della…) ma improntata, tutto sommato, a criteri arbitrari, vale a dire personali (il che rendeva operazione difficoltosa, anche per gli addetti ai lavori, la comparazione e il controllo). Anche se era fatale che alcune nuove denominazioni si sostituissero, aggiungessero o affiancassero a quelle di Linneo, non è un caso che il terzo componente più frequente in ogni nome scientifico è ancora oggi proprio l’abbreviazione del suo nome.

È il caso di un’essenza particolarmente diffusa nel mondo mediterraneo e che fino alla metà del secolo scorso ebbe una rilevante importanza economica nel nostro territorio: il fico.

Ficus carica L. è il suo nome scientifico e, tralasciando il primo componente già oggetto di ampia trattazione in più di un post su questo sito, soffermerò la mia attenzione su carica. La voce in latino ha il significato letterale di fico secco della Caria e quello traslato di fico secco in genere.

Plinio

Per il primo significato ecco la testimonianza di Plinio (I° secolo d. C.): “La Siria oltre a questo ha altri alberi peculiari. Nel genere delle noci sono conosciuti i pistacchi. Si dice che giovino contro i morsi dei serpenti come cibo e bevanda, Poi nel genere dei fichi quelli di Caria e altri dello stesso genere più piccoli che chiamano cottani1”; “Appartengono a questo genere [i fichi], come dicemmo, i cottani,  quelli di Caria e quelli di Cauno che furono di presagio a Marco Crasso mentre si apprestava ad imbarcarsi per la campagna contro i Parti quando un venditore pronunziò il loro nome2. Lucio Vitellio, che poi fu censore, li introdusse nel suo podere di Alba dalla Siria, quando era ambasciatore in quella provincia, negli ultimi anni dell’impero di Tiberio3”; “I datteri piacciono per la carnosità, quelli di Tebe per il guscio, le uve e certi datteri per il succo, pere e mele per la callosità, le more per la polpa, i noccioli per la cartilagine, certe in Egitto per i chicchi, i fichi di caria per la pelle. Questa viene tolta ai fichi verdi come scorza e invece è massimamente gradita nei secchi4”.

 

Ovidio

La voce compare pure in Ovidio (I° secolo a. C.): “Dissi: -Che pretendono per loro il dattero e il rugoso fico di Caria?-5; “Qui c’è la noce, qui c’è il fico di Caria misto ai rugosi datteri6”. La scarsa considerazione per il fico di Caria manifestato da Ovidio nel primo dei due brani appena citati viene ribadita per i cottani da Giovenale (I°-II° secolo d. C.): ”Io non dovrei evitare la porpora di costoro? Che prima di me firmi un documento e si riposi disteso sul letto migliore uno venuto a Roma spinto dallo stesso vento che porta prugne e cottani?7”. E il contemporaneo Marziale lo ribadisce a più riprese: “Nulla mi hai fatto avere in cambio del mio piccolo dono, e già son trascorsi cinque giorni dei Saturnali. Dunque, neppure pochi grammi di argento settiziano8, né la tovaglia inviatati dal cliente lamentoso? Neppure un piatto che rosseggia del sangue di tonno di Antipoli9? Neppure uno che contenga piccoli cottani?10”; “Mi hai mandato, o Umbro, tutti i regali che ti hanno portato in cinque giorni per i Saturnali: dodici tavolette a tre fogli per scrivere e sette stuzzicadenti; a questi si aggiunsero come compagni una spugna, un tovagliolo, un bicchiere e mezzo moggio di fave con un cesto di olive del Piceno e un nero vaso di mosto cotto di Laletania11; e vennero piccoli cottano con biondeggianti prugne e un vaso pieno pieno di fichi della Libia. Credo che questi doni a me recapitati da otto imponenti (facchini) di Siria a stento valgano tutti trenta nummi. Con quanto minore sforzo un tuo garzone avrebbe potuto recapitarmi cinque once d’argento!12”; “Questi cottani che ti giunsero riposti a forma di ritorta colonnetta sarebbero stati fichi se fossero stati più grandi13”.

Lucio Anneo Seneca

Eppure, che tavolette da scrivere e cottani fossero tra i regali consueti in occasione di importanti festività è chiaro dalle parole di Seneca (I° secolo d. C.) : “Dal pranzo nulla potè esser tolto. Fu preparato in non più di un’ora, in nessun caso senza fichi di Caria, in nessun caso senza tavolette per scrivere. QuellI [i fichi] se ho il pane fungono da companatico, altrimenti, invece del pane, ogni giorno mi rinnovano il nuovo anno, che io rendo fausto e felice con i buoni pensieri e con la grandezza d’animo14”.

Lascio per ultima la testimonianza di Petronio (I° secolo d. C.) per la sua attualità estrema che da una parte, secondo me troppo sbrigativamente, può essere valutata come la solita laudatio temporis acti (nostalgia del tempo che fu) oppure, peggio, dall’altra  (non certo da quella dei poveracci e degli onesti…) come qualunquistica: “E così in quel tempo  approvvigionarsi era come raccogliere cicorie selvatiche. Se tu compravi un asse di pane non avresti potuto consumarlo interamente neppure con un altro. Ora ti tocca un panino che è più piccolo dell’occhio di un bue. Poveri noi, ogni giorno peggio! Questo paese cresce in senso contrario, come la coda di un vitello. Ma perché abbiamo un edile che non vale tre fichi di Cauno, il quale darebbe la nostra vita in cambio di un asse? E così se la gode a casa sua e in un giorno guadagna più nummi di quanto riesca a guadagnarne un altro in tutta una vita15. So benissimo donde ha arraffato mille monete d’oro. Ma se noi avessimo i coglioni16 non se la godrebbe così. Il fatto è che il popolo in casa è un leone, fuori una volpe17”.

Non sono un giocattolo a molla e nemmeno un cavalleggero, ma la carica si è esaurita…

_______

1Traduco così il còttana del testo originale (Naturalis historia, XIII, 10: Syria praeter hanc peculiares habet arbores. In nucum generepistacis nota. Prodesse adversus serpentium traduntur morsus, et potu et cibo. In ficorum autem caricas et minores eius generis, quae cottana vocant).  La variante còctana potrebbe facilmente indurre a supporre che il nome sia forma aggettivale neutro plurale dalla radice (coct-) del supino (coctum) del  verbo còquere, con riferimento al fatto che si trattava di una varietà particolarmente adatta all’essiccazione se non, addirittura, alla successiva cottura nel forno; nulla di tutto questo perché in latino nel suffisso aggettivale –ànus/-àna/-ànum la a è sempre lunga, per cui avremmo dovuto avere cottàna e non còttana come nel nostro caso. In realtà la voce pliniana è trascrizione del plurale del greco kòttanon (in cui la a è breve, per cui in latino l’accento risulta sulla sillaba precedente) attestato in Ateneo di Naucrati (autore del II°-III° secolo d. C., ma la sua opera contiene citazioni di poeti perduti di molto più antichi), Deipnosofisti, IX, 34 (385°): “Dicendo un altro che era un piatto gradevolissimo anche la gallina in salsa di olio e aceto, Ulpiano che ha sempre da dire la sua, il solo che se ne stava disteso mangiando poco e tenendo d’occhio quelli che parlavano, disse: -Che è mai la salsa di olio e aceto se voi non nominerete i cottani e il lepidio, cibi caratteristici della mia patria?-“.

2 Ne aveva parlato Cicerone (I° secolo a. C.), De divinatione, II, 40: Cum M. Crassus exercitum Brundisii imponeret, quidam in portu caricas Cauno advectas vendens, -Cauneas- clamitabat. Dicamus, si placet, monitum ab eo Crassum caveret ne iret: non fuisse periturum si omini paruisset (Mentre Crasso imbarcava a brindisi l’esercito, un tale che vendeva nel porto fichi importati da Cauno [città della Caria] andava gridando: -Fichi di Cauno!-. Diciamolo pure, se vogliamo: ammonito da questo fatto, Crasso si sarebbe dovuto ben guardare dal partire; non sarebbe morto se avesse dato retta al presagio). La predizione nefasta coinvolgerebbe i fichi di Cauno solo marginalmente perché sarebbe tutta imperniata su un gioco di parole in base al quale il Cauneas! gridato dal venditore non sarebbe altro che la contrazione della locuzione cave ne eas!=guardati bene dal partire!

Op. cit., XV, 21: Ex hoc genere sunt, ut diximus, cottana et caricae quaeque conscendendi navem adversus Parthos omen fecere M. Crasso venales praedicantes voce, Cauneae. Omnia haec in Albense rus e Syria intulit L. Vitellius, qui postea censor fuit, cum legatus in ea provincia esset, novissimis T. Caesaris temporibus.

4 Op. cit., XV, 34: Carne palmae placent, crusta Thebaicae, suco uvae et caryotae, callo pira ac mala, corpore mora, cartilagine nuclei, grano quaedam in Aegypto,  cute caricae. Detrahitur haec ficis virentibus ut putamen, eademque in siccis maxime placet.

5 Fasti, I, 185: -Quid volt palma sibi rugosaque carica?- dixi.

6 Metamorfosi, VIII, 674: Hic nux, hic mixta est rugosis carica palmis.

7 Satire, III, 77-79: Horum ego non fugiam conchylia? Me prior ille/ signabit fultusque toro meliore recumbet,/advectus Romam quo pruna et cottana vento?

8 Di bassa lega, da saeptum=recinto, con riferimento al luogo dove i Romani contrattavano e vendevano a peso.

9 Oggi Antibes.

10 Epigrammi, IV, 88, vv. 1-6: Nulla remisisti parvo pro munere dona,/et iam Saturni quinque fuere dies./Ergo nec argenti sex scriptula Sepriniani,/missa nec a querulo mappa cliente fuit?/Antipolitani nec quae de sanguine thynni/testa rubet? Nec quae coctana parv gerit? Il motivo, però, era comparso un secolo prima in Stazio, Silvae, IV, 9, 27-28: Nusquam turbine conditus ruenti/prunorum globus atque coctanorum? (In nessun caso [hai da mandarmi] un ammasso informe di prugne e di cottani buttati giù da un vento rovinoso?).

11 Regione della Spagna.

12 Op. cit., VII, 53: Omnia misisti mihi saturnalibus, Umber,/munera, contulerant quae tibi quinque dies: bis senos triplices et dentiscalpis septem;/his comes accessit spongia, mappa, calix/semodiusque fabae cum vimine Picenarum,/et Laletanae nigra lagena sapae; parvaque cum canis venerunt coctana prunis,/et Libycae fici pondere testa gravis./Vix puto triginta nummorum tota fuisse/munera, quae grandes octo tulere Syri./Quanto commodius nullo mihi ferre labore/argenti potuit pondera quinque puer!

13 Op. cit., XIII, 29: Haec tibi quae torta venerunt condita meta,/si maiota forent coctana, ficus erant.

14 Epistole, 87: De prandio nihil detrahi potuit. Paratum fuit non magis hora, nusquam sine caricis, nusquam sine pugillaribus. Illae, si panem habeo, pro pulmentario sunt; si non, pro pane quotidie mihi annum novum faciunt, quel ego faustum et felicem reddo bonis cogitationibus  et animi magnitudine.

15 Si direbbe, tanto per fare un esempio già citato nel pregevole post di Gianni Ferraris Ahi Alessano, terra di Tonino Bello! del 13 gennaio u.s., il “trota” ante litteram. Vallo a spiegare all’interessato quello che ho appena finito di dire…; credo, però, che la spiegazione sarebbe complicata anche per i destinatari dei benefici di cui ci dà notizia Rocco Boccadamo nel suo contributo Pugni nello stomaco alla crisi del 14 gennaio u.s….

16 Mai traduzione dell’originale sed si nos coleos haberemus fu così doverosamente letterale.

17 Satyricon, 44: Itaque illo tempore annona pro luto erat. Asse panem quem emisses, non potuisses cum altero devorare. Nunc oculum bublum vidi maiorem. Heu heu, quotidie peius! Haec colonia retroversus crescit tanquam coda vituli. Sed quare nos habemus aedilem trium cauniarum, qui sibi mavult assem quam vitam nostram? Itaque domi gaudet, plus in die nummorum accipit quam alter patrimonium habet. Iam scio unde acceperit denarios mille aureos. Sed si nos coleos haberemus, non tantum sibi placeret. Nunc populus est domi leones, foras vulpes. Nel volpe (puntualmente, arbitrariamente e erroneamente, per quanto dirò, trasformato dai traduttori in pecora) contrapposto a leone, un’amara autocritica, con la citazione della favola di Esopo che così riassumo: La volpe la prima volta che vide il leone morì quasi dallo spavento, la seconda si spaventò di meno, la terza divenne così coraggiosa da attaccarci bottone. Morale: l’abitudine rende tollerabile ciò che prima ci turbava profondamente.

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