Una sponsorizzazione femminile dell’anfiteatro di Rudiae nella travagliata storia di una fantomatica epigrafe (CIL IX, 21)? (Prima parte)

di Armando Polito

immagine tratta da http://www.leccesette.it/archivio/img_archivio1682013151042.jpg
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Prima che le risultanze archeologiche ne dessero conferma, l’unica notizia  sull’esistenza di un anfiteatro a Rudiae era quella lasciataci da Girolamo Marciano (1571-1628) nella sua Descrizione, origine e successi della provincia d’Otranto uscita postuma a Napoli per i tipi della Stamperia dell’Iride nel 1855, dove, a pag. 502, si legge: Io ho visto e letto un instrumento mostratomi dal curiosissimo Francesco Antonio De Giorgio mio amico, nel quale si legge che l’anno 1211 a 10 di dicembre Gaita moglie di Orazio Ruggiero di Rudia dimorante in Lecce donò un pajo di case al monastero di S. Niccolò e Cataldo. Dal quale si raccoglie che sebbene la città di Rudia fu distrutta l’anno 1147 da Guglielmo il Malo, tuttavia insino al detto anno 1211, e forse più se ne mantennero in piedi gli avanzi, dappoichè gli abitatori non si ridussero totalmente dentro la città di Lecce. Delle reliquie di questa città oggi non si vede altro che rottami di pietre ed il sito dell’anfiteatro, in cui non sono molti anni fa fu ritrovato un marmo, che oggi si conserva in casa del signor D. Vittorio Prioli1 in Lecce con questa iscrizione:

OTTACILLA M. F. SECUNDILLA

       AMPHITEATRUM

Non si legge altro che questo nel marmo, non essendo intero, ma in molte parti spezzato.

Da quanto appena riportato risulta che l’epigrafe era viva e vegeta fino a buona parte della prima metà del secolo XVII e che il suo rinvenimento, a Rudiae, doveva essere avvenuto presumibilmente (altrimenti, come intendere non sono molti anni fa?) nella seconda metà del secolo XVI2.

Pellegrino Scardino, Discorso intorno l’antichità e sito della città di Lecce, Stamperia G. C. Ventura, Bari, 1607, pag. 12: Fuori della Città presso le mura, in un luogo, dove oggi si vede il convento dei Frati Scalzi di San Francesco, era a’ tempi passati l’Anfiteatro per gli spettacoli del Popolo, del quale, benche oggi nessuna parte ne sia in piedi, nientedimeno fra le cose guaste, e rovinate ne appariscono alcuni segni. Acquista di ciò fede al vero un Marmo ritrovato fra gli edifici sotterranei con inscrittione che comincia OTTACILLA M. F. SECUNDILLA/AMPHITEATRUM non si legge più di questo nel Marmo, non essendo intero; ma in molte parti spezzato e lacero, mercè degli anni che a lungo andare rodono a guisa di tarlo ogni cosa.  Conservava gli anni a dietro questo picciolo Marmo nel suo leggiadretto Museo, degno di vedersi per la varietà dei libri e di molte cose antiche, il signor Ottavio Scalfo, medico e filosofo singolarissimo, la cui acerba ed immatura morte oscurò in buona parte non solo la gloria delle Muse, ma tolse ancora al Mondo la maniera dei più nobili e cortesi costumi. Oggi, fra la compagnia d’altri marmi si vede ricoverato dal signor Vittorio de Priuli, gentiluomo Leccese, sottile investigatore delle cose antiche, il quale, infiammato di ogni virtuoso pensiero, si rende huomo singolare in ogni maniera di alto e liberale mestiere.  

Nonostante l’ambiguità di edifici sotterranei lo Scardino collega senza esitazione il marmo all’anfiteatro di Lecce e in più ci fornisce la notizia che il marmo era stato custodito prima da Ottavio Scalfo3 e poi, confermando il Marciano, da Vittorio Prioli.

Giulio Cesare Infantino (1581-1636), Lecce sacra, Micheli, Lecce, 1634 (cito dall’edizione anastatica Forni, Sala Bolognese,1979, p. 213): Fuori le mura della Città di Lecce, e propriamente nel Parco, è l’antica, e Regia Cappella di S. Giacomo Apostolo, Protettore delle Spagne: la qual Cappella in questi ultimi anni, cioè nel 1610 fù conceduta insieme con un giardino, e parte delle stanze a’ Padri Scalzi di San francesco, i quali hoggi vi dimorano, havendo dato buon principio alla fabrica de’ loro Chiostri. E Cappella assai divota, massime dapoi che i detti Padri vi vennero ad habitare, per essere molto assidui alle confessioni, & altre loro religiose osservanze. Quivi era ne’ tempi antichi un’Amfiteatro per gli spettacoli del popolo, del quale benche hoggi niuna parte ne comparisca, pure frà le cose guaste, e rovinate ne compariscono alcuni segni. Testimonio ne fa un marmo antico, ritrovato sotterra, se ben spezzato, e lacero,che gli anni à dietro conservava appresso di sé con molt’altre cose antiche, degne da vedersi, Ottavio Scalfo Medico in questa Città, e Filosofo singolarissimo, honor di questa Provincia: hoggi si conserva in casa di Giovanna Paladini che fù moglie di     D. Vittorio Prioli, gentil’huomo Leccese, Conte Palatino, & à suoi tempi diligente investigatore delle cose antiche, il cui principio è questo

Ho riportato in formato grafico il resto del testo4 riguardante proprio la nostra epigrafe perché il lettore comprenda più agevolmente come la questione, già complicata di per sé, deve fare i conti con problemi accessori. Un esempio per tutti: quell’Amphiteatrum riportato in tal modo fa pensare che fosse leggibile (da chi?) solo la A e che il resto fosse integrazione (di chi?). In più compare un RE. P. R. che, come vedremo nella prossima puntata, non è presente nella trascrizione del CIL.

Giovan Battista Pacichelli (1634-1695), Il regno di Napoli in prospettiva, Parrino, Napoli, 1703, v. II, pag.. 167 e 168: Accenna Livio, che Lecce, detta ancor Licia, e Lupia, doppo il dominio de’ Salentini, ubbidì al Senato di Roma, e Colonia de’ Romani la testifica Plinio, & un Marmo ritrovato nelle rovine della distrutta Rudia l’autentica.

C. Claudio C. T. M. N. Neroni Cos./ob rem felicissime in Piceno adversus Poenorum/ducem Asdrubalem gestam Sen. Pop.& militum/statio Lupien. A. H. P.5

 [Lecce] esperimentò le vicende della fortuna con l’altre Città distrutte dal re Guglielmo il Malo l’anno 1147, come nota Antonello Coniger nella sua Cronica6 , assieme con la sua Compagna Rudia fabricate ad un tempo dal sudetto Malennio, che per somministrarsi scambievolmente i soccorsi, le congiunse con una strada sotterranea7 , che anche ritiene il nome di Malenniana e se ne scorgono alcuni vestiggi.

Trascurando l’ultimo autore che, fra l’altro, crea un po’ di confusione mettendo in campo l’epigrafe rudina di cui mi sono occupato non molto tempo fa (https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/05/01/lepigrafe-di-rudie-ovvero-cil-ix-23-un-maquillage-ben-riuscito-pero/), un bilancio potrebbe così essere stilato: non sappiamo se la testimonianza del Marciano fosse stata già redatta alla data di pubblicazione del lavoro dello Scardino, ma anche se così non fosse stato è da presumere che un umanista del calibro del Marciano abbia trascritto de visu il testo dell’epigrafe ed è difficile immaginare che si sia inventato la contestualizzazione del reperto che, comunque, risulta, come s’è visto, meno generica di quella dello Scardino. Quando, poi, all’assenza o ai dubbi di contestualizzazione si aggiunge pure la scomparsa del reperto, la frittata è fatta.  Così passano i secoli e le memorie spesso sono costrette ad intrecciare le loro nebulosità  non per colpa loro ma degli uomini. Ѐ il caso della nostra epigrafe che, nel frattempo dimenticata e pure fisicamente perduta, ritorna in auge nel 1938 quando, durante la risistemazione dell’anfiteatro di Lecce (Lupiae), venne rinvenuta un’iscrizione oggi, anch’essa, scomparsa:

TRAIANI

IMP III CO

PATRE LIBE

Da allora la costruzione dell’anfiteatro di Lecce, che prima quasi concordemente era stata attribuita ad Adriano, fu da parecchi studiosi attribuita a Traiano. Ci fu pure chi si spinse oltre: G. Paladini8 e R. Bartoccinila considerarono in relazione con la nostra. L’operazione apparve arbitraria già al Susini (Fonti per la storia greca e romana del Salento, Tipografia della S.T. E. B., Bologna, 1962, p. 107) e M. Bernardini (La Rudiae salentina, Editrice salentina, Lecce, 1955, pp. 37-38) dal canto suo rivendicò la probabile provenienza rudina della nostra epigrafe; anche a me pare un’operazione discutibile sul piano metodologico ma alla resa dei conti inaccettabile perché non tiene in alcun conto la testimonianza del Marciano nella quale più chiara non poteva essere la contrapposizione tra Lupiae e Rudiae, tanto più che il brano citato fa parte del capitolo XXIII che ha per titolo Della città di Rudia, sua origine e distruzione. Tuttavia, per onestà intellettuale e prima che qualcuno me lo faccia presente, debbo dire che il lavoro del Marciano fu pubblicato, come s’è detto, postumo con aggiunte del filosofo e medico Domenico Tommaso Albanese di Oria (1638-1685), come recita il frontespizio; secondo me è piuttosto improbabile che una delle aggiunte abbia riguardato, integralmente e pesantemente, proprio questo capitolo.

 

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/09/una-sponsorizzazione-femminile-dellanfiteatro-di-rudiae-nella-travagliata-storia-di-una-fantomatica-epigrafe-cil-ix-21-seconda-ed-ultima-parte/

__________

1 Nelle immagini sottostanti uno scorcio dell’omonima via, Palazzo Prioli al civico 42 (settembre 2011; oggi, dopo il restauro, è sede del resort Mantatelurè)  e il dettaglio dello stemma della famiglia Prioli.

 

Vittorio Prioli, appartenente ad una famiglia di origini venete, fu una delle figure di spicco della cultura leccese tra XVI e XVII secolo. Fu sindaco nel 1593; il suo nome compare più volte negli atti del processo di beatificazione del gesuita Bernardino Realino di Lecce (Sacra rituum congregatione Eminentissimo et Reverendissimo Domino  Cardinali Pedicini relatore Neapolitana seu Lyciensis beatificationis et canonizationis venerandi servi Dei Bernardini Realini Sacerdotis Professi Societatis Jesu, Summarium super virtutibus, Tipografia della Reverendissima camera apostolica, Roma, 1828, passim) come donante di una cassa di cipresso foderata di tela d’oro in cui fu trasferito il gesuita a due mesi dalla morte avvenuta, appunto, il 2 luglio 1616. Egli  era sicuramente vivo alla data del 1627 perché nel catasto di Monopoli di quell’anno, carta 489 v.,  Giovanni di Francesco Palmieri risulta debitore di ducati 233, 1, 13 nei confronti del monastero di San Giovanni Evangelista  di Lecce e di ducati 116, 3, 6 a don Vittorio Prioli della stessa città).

Per le sue mani potrebbe essere passato, oltre alla nostra epigrafe, anche il manoscritto delle Cronache di Antonello Coniger (Ferdinando Galiani, Del dialetto napoletano, Mazzola-Vocola, Napoli, 1779, p. 109: … si conserva ms. presso del Signor Conte D. Vittorio Prioli; per motivi temporali dovrebbe trattarsi di un discendente del nostro).

E proprio nelle  Cronache del Coniger all’anno 1511 si legge: In questo anno alo primo de maggio fo morto mio fratello Gio. Francisco Coniger, & per non haver fillij lecitimi ho successo io Antonello Coniger, & alla Baronia. In questo anno alle 29 di Maggio lo dì della Sensa (?) venne uno Corsaro de Turchi cum dui barcie, una Galera e cinq. fusti  in San Cataldo pigliò la Turre per forza, amazò tutti trovati dentro, mise foco a magazeni, & pigliò più di cento butti pieni di Oglio di Citatini di Lecce, tra li quali Messer Vittorio de prioli ncinde ebbe cinquanta, & cinq. Molto probabilmente il Vittorio de prioli qui nominato era il nonno del nostro.

C’è da pensare che mai il Prioli sospettò che l’iscrizione da lui custodita potesse riferirsi all’anfiteatro di Rudiae leccese, se è attendibile quanto afferma Jacopo Antonio Ferrari (1507-1587) nell’ Apologia  paradossica (Mazzei, Lecce, 1707; cito dalla seconda edizione, stesso editore, stesso luogo, del 1728, p. 141) : Rodia è quella che scrisse Strabone d’essere situata meno di diece miglia lontana da Brindisi, le cui vestigie essendo per molti secoli a pochissimi note, per trovarsi tra la terra di Misagne ed il Castello di Latiano, li signori Claudio Francone Signore di detto Castello di Latiano, e ‘l Signor Vittorio Prioli suo affine nostri Patrizj Leccesi dottissimi, essendo insieme andati a ritrovare tra quei boschi di olive, che ora l’hanno coverte, l’hanno parimente vedute, e chiaritisi d’essere quella, per ritenere quel deserto luogo il suo antico nome di Rodia presso de’ popoli vicini e de’ pastori, che là pascono la loro gregge.

Un’altra notizia sugli interessi antiquari del nostro è contenuta in Girolamo Marciano, op. cit., p. 28: Si conserva un marmo di queste antiche lettere [messapiche] nella città di Lecce in casa del chiarissimo e diligentissimo investigatore delle memorie antiche dott. Vittorio Prioli con una sottoscrizione di suo zio dott. Scipione De Monti, dal quale furono ritrovate in un antico muro della città di Lecce, e dal medesimo con diligenza conservata.  

Per le mani del Prioli dovette passare anche un manoscritto realizzato appositamente per lui; esso sarà oggetto di studio in un prossimo post ispiratomi da una segnalazione di Giovanna Falco, che qui pubblicamente ringrazio.

2  Non  riesco a capire, anche per l’esplicito riferimento al Marciano nella stessa edizione da me utilizzata per la citazione,  la datazione proposta da Mariagrazia Bianchini in Diritto e società nel mondo romano, 1. Atti di un incontro di studio, Pavia, 21 aprile 1988, New Press, Como, 1988, pag. 83, nota 40: Si ha notizia che l’iscrizione (CIL IX, 21), rinvenuta a Rudiae sulla fine del XIV secolo nel “sito dell’Anfiteatro” (vd. G. MARCIANO, Descrizione, origine e successi della terra d’Otranto, Napoli, 1855, 502) …

3 Una scheda dedicata ad un Ottavio Scalfi, letterato, poeta, dedito agli studi filosofici e medici nato a Galatina è presente nel Dizionario Biografico degli Uomini Illustri di Terra d’Otranto di Francesco Casotti, Luigi De Simone, Sigismondo Castromediano e Luigi Maggiulli, Lacaita, Manduria e Roma, 1999; essendo vissuto dal 1539 al 1612 sarà stato un omonimo parente del nostro per il quale lo Scardino parla di morte acerba ed immatura. Quest’ultima non può essere considerata neppure una formula di cortesia a sottolineare il fatto che sempre acerba e prematura è la morte di un uomo di grande levatura, perché l’Ottavio della nostra scheda era ancora in vita quando (1607) uscì il lavoro dello Scardino. Non è da escludere, tuttavia, che la data di morte nella scheda sia da correggere in 1602, anche perché il resto della stessa così prosegue: Riunì in un museo privato varie antichità della provincia che dopo la sua morte passò nelle mani del Conte Vittorio de Priuli. Nella bibliografia che correda la scheda è citato il testo Galatina letterata di Alessandro Tommaso Arcudi, uscito per i tipi di Giovan Battista Cilie a Genova nel 1709, testo chiaramente utilizzato nella compilazione della scheda ed al quale, perciò, è ascrivibile l’errore, se di errore  si tratta, prima ipotizzato. D’altra parte non dovrebbe essere l’unico se alla fine della trattazione della vita di Ottavio Scalfo (pp. 130-131) l’Arcudi, che all’inizio aveva indicato come data di nascita il 1539, scrive:  Nella quale città [Lecce] sodisfece al comune tributo della natura nel 1612 all’età di 65 anni.

4 Ringrazio la signora Giovanna Falco (la stessa di prima …) per avermi segnalato la testimonianza dell’Infantino ed avermi fornito la copia fotostatica del brano riguardante l’argomento.

5 Questa iscrizione non è registrata nel CIL (a suo tempo il Mommsen la giudicò falsa). Il Pacichelli molto probabilmente la trae dal Marciano (op. cit., pag. 520) che scrive:  E così anche si legge in alcuni marmi, come in uno ritrovato secondo il Ferraris (non si tratta di Antonio De Ferrariis più noto come il Galateo, ma di Iacopo Antonio Ferrari che nella sua Apologia paradossica, Mazzei, Lecce, 1707,  la riporta così: C CLAVDIO C. F. M. N./NERONI COS./OB REM FELICISSIME IN PICENO/ADVERSVS POENORVM DVCEM/ASDRVBALEM GESTAM , SEN./POP. ET MILITVM STATIO LVPIENS./A. H. P.) tra le rovine di Rugge, città distrutta a sé convicina, che dice così:

C. Claudio C. T. M. N. Neroni Cos. ob rem felicissime/in Piceno adversus Poenorum/ducem Asdrubalem /gestam Sen. Pop.& militum statio Lupien. A. H. P.

Da notare come i tre testi differiscono nella disposizione delle linee.

6 A voler essere precisi nel Coniger si legge: 1157 Rugieri Duca di Calabria primo genito de Re Gullielmo per non li haver voluto dare obedienza la Cità di lecce, e tutte le altre Terre del Duca di Athena, & Conte de lecce; ne ad Re Rogieri, ne a Re Gullielmo suo padre, per retrovarse in Francia detto Duca di Athena, venne in campo ad Lecce cum molto esercito dove la tenne assediata anni tre, infine la pilliao per tradimento chi fe lo Camberlingo, entrò dentro, el Duca di Calabria ditto Rogieri jettao le mura, & tutte le case atterra reservato quell l’adomandao di gratia, & a lui li fe talliare la testa, pillao tutte altre terre, & fe jettare case, & mure chi erano del Duca de Athena, como ad Rugge, Balisu, Vste, & Colomito, & fe bandoZenerale, che nisciuno possa fare case in ditta Cità, & Terre se non alte da terra una canna & mezza al più, e le porte fossino senza archi, & quelle de legname ad stantoli, & questo che le casamente alte chi erano in Lecce li fero …. Essendo dentro che non da faci.

7 Già il Galateo nel De situ Iapygiae aveva scritto:  Duas urbes idem populus habitat, ut de Neapoli dicunt, & Palepoli; quin etiam inter ipsas fama est subterraneas fuisse specus, per quas mutua auxilia sibi invicem cum opus erat, praestabant. Inter has urbes minus quam duorum millium passuum spatium interiacet. Rhudiae, seu Rhodeae, & a Stephano Ρόδαι, seu Rui, per literam I vocalem, sive per j literam consonantem crasso quodam, ut mos est, regionis sono Rugae dicuntur: unde Lupiarum porta, & quarta pars urbis, quam Pittacion Graeco nomine appellant, Rhudiarum dicuntuur. Hae penitus interiere, ut vix cognoscas quo loco fuerint, tantum nomen restat inane … harum aedificia tempus obruit, & rusticus antiquitatum omnium eversor eversat aggeres. Alicubi murorum cernuntur sepulchra innumera fictilibus vasculis, & ossibus plena. Huius urbis nomen & fama apud complures homines, ut & ipsa, cecidit; nunc tota aut feritur, aut oleis consita est …(Lo stesso popolo abita due città [Lecce e Rudie], come dicono di Napoli e di Palopoli; anzi si dice che tra le stesse ci siano state cavità sotterranee attraverso le quali si davano aiuto l’un l’altra all’occorrenza. Tra queste città c’è uno spazio di meno di due miglia. Si dice Rudie o Rodee, e secondo Stefano Ρόδαι [leggi Ròdai], o Rui, Rute per mezzo della i vocale o della consonante in un  suono grossolano  della regione, com’è costume; perciò la porta di Lecce e il quartiere della città che con parola greca chiamano pittagio sono dette di Rudie. Essa è completamente perduta, sicché a stento riconosceresti in quale luogo si trovasse e ne resta solo il vuoto nome …  il tempo ha sotterrato i suoi edifici e il contadino distruttore di ogni antichità rivolta i terrapieni. In qualche luogo si scorgono innumerevoli sepolcri in muratura pieni di piccoli vasi di terracotta e ossa. Il nome e la fama di questa città presso molti uomini, come essa stessa, decadde; ora viene tutta vandalizzata o coltivata ad oliveto …).

8 Guida storica ed artistica della città di Lecce, 1952. L’autore giunge alla conclusione che Otacilla Secundina eresse la fabbrica di Lecce sotto Traiano.

9 All’epoca della scoperta dell’anfiteatro (1929) il Bartoccini era sopraintendente e la primitiva attribuzione della costruzione ad Adriano porta la sua firma (Il teatro romano di Lecce, estratto da  Dioniso, XIII, 1, 1935) anche se era stato Cosimo De Giorgi (Lecce sotterranea, Stabilimento tipografico Giurdignano, Lecce, 1907, pp. 193-197) il primo ad ipotizzarlo. Dopo la scoperta del 1838, però, il Bartoccini, considerando la nuova epigrafe integrazione della nostra, attribuì a Traiano l’edificazione della fabbrica (Apud Susini, op. cit, p. 107) e a Otacilia Secundilla solo il ruolo di intermediaria nella sovvenzione.

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5 Commenti a Una sponsorizzazione femminile dell’anfiteatro di Rudiae nella travagliata storia di una fantomatica epigrafe (CIL IX, 21)? (Prima parte)

  1. Sono io che devo ringraziare lei Armando, perché grazie ai suoi preziosi scritti ci permette di venire a conoscenza di particolarità della nostra storia, altrimenti difficili da apprendere.

    • Sarebbe interessante avere una foto dell’intera epigrafe che, a quanto leggo in rete, dovrebbe trovarsi nel Museo Nazionale di Taranto. Solo così, forse, si avrebbe la certezza (a parte il gusto di capirne almeno il contenuto) che ΣΕΚΟΝΔΑ, intanto, non è parte di parola. Una pura curiosità perché, poi, dimostrare la parentela filologica tra ΣΕΚΟΝΔΑ e SECUNDILLA (partendo dall’unica certezza di quest’ultima come diminutivo di SECUNDA) sarebbe impresa disperata e, almeno in teoria, condannata all’insuccesso. La ringrazio, comunque, della segnalazione e se le capita la foto dell’inizio …

  2. Le uniche foto della suddetta epigrafe di Diso sono quelle pubblicate su:
    1) “DISO – Ricerche storiche” di Vittorio Boccadamo – Ed.MEZZINA, Molfetta 1966
    2) “Corpus Inscriptiorum Messapicarum” di F. ribezzo – EDIPUGLIA, Bari 1978

    Saluti

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