Fatti e misfatti sulla fava

di Armando Polito

 

* Per la serie non è vero ma ci credo

L’appetito (per ora, sia chiaro, mi sto riferendo solo al vegetale) vien mangiando, dice un vecchio proverbio. Fuor di metafora (ma ancora con riferimento preciso al legume) la conoscenza è frutto di una reazione a catena di solito indotta da fattori esterni. Insomma, se non avessi letto l’agile e gradevole recente post dell’amico Massimo (https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/04/14/storia-e-credenze-sulle-fave-legume-eccellente-per-i-salentini/), peraltro molto competente nel suo campo, forse non avrei dato vita alle righe che sottopongo all’attenzione dei gentili lettori.

Può sembrare deformazione professionale ma credo che Massimo gradirà la citazione che mi accingo a fare dei principali autori latini e greci che hanno dedicato la loro attenzione al vegetale (pazienza, ancora lui … ma solo per poco) in oggetto. Per motivi pratici di ogni citazione riporterò la mia traduzione e in nota il testo originale.

Comincio da Plinio (I secolo d. C.), al quale risale la più antica testimonianza sulla avversione di Pitagora e dei suoi seguaci non solo per la carne (come vedremo anche quella umana …) ma anche per le fave: Segue la natura dei legumi, tra i quali la fava ha il massimo onore perché con esse si è tentato di fare pure il pane. Lomento si chiama la loro farina e il peso aumenta con essa e con quella tratta da ogni legume ed è buona anche per alimento nella preparazione del pane in vendita. Molteplice è l’uso della fava per ogni specie di quadrupede, ma soprattutto per l’uomo. Presso parecchi popoli viene pure mescolata col frumento e soprattutto col miglio, integra o leggermente pestata. Anzi secondo il rito antico la farinata di fave è nel sacrificio in onore degli dei della propria religione. Si crede che valga soprattutto come companatico ma che obnubili i sensi e procuri pure incubi; per questo fu condannata per decisione di Pitagora, come alcuni hanno tramandato, poiché in essa ci sarebbero le anime dei morti, motivo per cui viene usata nei sacrifici funebri. Varrone tramanda che il flamine non se ne ciba per questi motivi e per il fatto che nel suo fiore si troverebbero lettere funeree.

 

Essa è oggetto di un particolare rito: infatti è costume ancora oggi per buon auspicio portarla a casa non appena ha dato il frutto1 e  perciò è chiamata referiva. E credono che sia vantaggioso usarla nelle vendite all’asta . Di certo è la sola tra i frutti a riempirsi con la luna crescente anche se è stata rosa. Non si cuoce in acqua marina o altro liquido salato. È tra i legumi il primo ad essere piantato prima del tramonto delle Pleiadi affinché preceda l’inverno. Virgilio raccomanda di seminarla in primavera secondo l’uso dell’Italia circumpadana, ma i più preferiscono fave maturate dopo essere state piantate al momento giusto che un frutto di tre mesi. I baccelli e i gambi sono cibo prelibato per il bestiame. La fava ama moltissimo l’acqua quando è in fiore, ne vuole poca quando la fioritura è cessata. Fertilizza come se fosse letame il suolo in cui è stata seminata. Perciò nei territori intorno alla Macedonia e alla Tessaglia arano i campi quando comincia a fiorire. Nasce pure spontaneamente in moltissimi luoghi, come nelle isole del mare settentrionale che per questo chiamiamo Fabarie2; allo stesso modo selvatica in Mauritania ma molto dura e tale da non poter essere cotta. Nasce pure in Egitto col gambo spinoso per cui i coccodrilli, temendo per i loro occhi, la evitano. La lunghezza del gambo, notevolissima, è di quattro cubiti, la grossezza di un dito. Se non mancassero i nodi, sarebbe simile ad una molle canna; la testa è di papavero, dal colore roseo, e in esso le fave non superano il numero di trenta; le foglie sono ampie, il frutto aspro anche nell’odore, ma la radice graditissima come cibo agli abitanti, cruda e cotta in ogni modo, simile alla radice delle canne. Nasce anche in Siria, in Cilicia e lungo il lago della calcidica Torone.3

Alle notizie di Plinio su Pitagora ne aggiungerà altre piuttosto curiose (non è detto che lo strano sia meno attendibile …) il greco Diogene Laerzio (II-III secolo d. C.): E sui piaceri sessuali dice così: “L’amore va fatto d’inverno, non d’estate; in autunno e in primavera è più leggero ma in ogni stagione molesto e non buono per la salute”. Anzi, interrogato una volta, disse che bisogna avere rapporti quando ci si vuole indebolire.4  

E sulla carne non umana …

Si dice che egli per primo abbia allenato gli atleti nutrendoli con carni e che il primo sarebbe stato Eurimene, secondo quanto dice Favorino nel terzo libro delle Memorie, mentre precedentemente li si nutriva con fichi secchi e formaggi umidi, ma anche con granaglie, secondo quanto dice lo stesso Favorino nell’ottavo libro della Storia varia. Alcuni credono che li abbia nutriti in questo modo un certo Pitagora allenatore, non il nostro5. Si dice, infatti, che egli vietava di uccidere gli animali e di gustarne poiché hanno in comune con noi il diritto dell’anima. E questo però era un pretesto: in verità proibiva di toccare essere dotati di anima per educare ed abituare gli uomini ad una vita frugale, così che ci fossero per loro cibi facili da procurare, indirizzati verso alimenti non cotti e bevendo semplice acqua e che da questo derivasse anche la salute del corpo e l’acutezza della mente.6          

Più di ogni cosa vietava di mangiare il fragolino7 e il melanuro8 e di astenersi dal cuore e dalle fave; Aristotele dice talvolta pure dalla matrice9 e dalla triglia.

 

Alcuni dicono che egli si nutriva di solo miele o del suo decotto o di pane, che non beveva vino durante il giorno10; come companatico per lo più si nutriva di verdure bollite e crude, raramente di cibi marini. Il suo vestito era bianco,  pulito e bianche erano le coperte di lana: i tessuti di lino, infatti, non erano giunti ancora in quei luoghi. Non si seppe mai né se defecava, né se faceva sesso, né se si ubriacava. Si asteneva e dal ridere e da ogni compiacenza, come da battute e racconti molesti. Adirato, non punì nessuno, schiavo o libero che fosse. Diceva che ammonire era come cambiare in meglio. Si serviva della divinazione fatta con invocazioni e presagi, per niente di quella fatta con sostanze bruciate, eccetto quella fatta per mezzo dell’incenso. Usava offerte inanimate, altri dicono solo di galli e capretti lattanti e di quelle carni dette tenere, per niente di agnelli. Aristosseno invece dice che egli ammetteva di mangiare tutti gli altri animali e che si asteneva dal bue da lavoro e dal montone.11

E ancora sulle fave:

(Raccomandava) di astenersi dalle fave per il fatto che, essendo generatrici di flatulenza, avevano moltissimo in comune con la forza vitale e d’altra parte i ventri che non le consumavano funzionavano più regolarmente. E per questo diceva che nei sogni si formavano visioni leggere e tranquillizzanti.12

A questo punto debbo osservare che, se la testimonianza di Diogene Laerzio corrisponde a verità, vuol dire che Pitagora in vita sua non assaggiò mai lampascione … ma sarebbe bastata la sua avversione alle fave per farlo morire … e non di flatulenza, secondo una delle tante leggende che circolano sull’evento, riportata insieme con altre dal nostro autore.

Pitagora morì in questo modo: mentre teneva una riunione con i soliti amici in casa di Milono avvenne che la casa fu fatta crollare per invidia da uno di coloro che non erano stati giudicati degni di essere ammessi; alcuni invece ritengono che abbiano fatto questo proprio quelli di Crotone che temevano un pericolo di tirannide, che Pitagora fu catturato mentre fuggiva e che trovatosi presso un campo pieno di fave lì si fermò dicendo: – Piuttosto morire che andare avanti [essere ucciso è meglio che essere oggetto di chiacchere]; e così fu sgozzato da quelli che lo inseguivano. 13

Non sapremo mai, infine, se erano frutto di invidia o stigmatizzavano alcuni suoi atteggiamenti quelle che potremmo considerare come canzoncine di scherno che circolavano sul suo conto:

Non solo tu, Pitagora, tieni lontane le mani dalle cose animate, ma anche noi: chi mai infatti ha gustato cose animate? Ma, quando una cosa sia stata bollita, arrostita e salata, allora pure noi la mangiamo mentre non ha anima. 

Fu dunque Pitagora sapiente a tal punto da non gustare le carni e da dire che era peccato, ma da farne mangiare gli altri. Ammiro il sapiente: egli diceva di non peccare ma faceva peccare gli altri. 14

Ahi, ahi, perché Pitagora venerò tanto le fave? E morì insieme con i suoi allievi. C’era un campo di fave: per non calpestarle in un trivio fu ucciso dagli Agrigentini.15

Sulle fave di Pitagora basta e avanza e mi sarei fermato qui se non avesse attratto la mia attenzione l’affermazione secondo cui Aristofane (V-IV secolo a. V.) nella sua commedia “Le  rane” avrebbe nutrito fra gli intervalli delle sue leggendarie fatiche, il mitico Ercole, con una superenergetica, quanto ghiotta, purea di fave.

Ignoravo questo dettaglio ed umilmente mi son riletto la commedia a caccia delle fave. Di loro non ho trovato ombra, anche se potrebbe essere interpretato restrittivamente il generico κατερεικτῶν χύτρας ἔτνους (alla lettera: pignatte di passato di cose spezzate, in cui cose può passare a legumi e questo a fave) dei versi 505-506. Perché si comprenda meglio quanto osserverò è necessario, però, che io riporti più ampiamente il testo e, precisamente, i vv. 503-507 (è una serva che parla):

O Ercole amatissimo, sei arrivato? Entra qui! La dea, appena ha saputo che venivi, subito ha cotto il pane, ha messo sul fuoco due o tre pignatte di passato di cose spezzate, ha cotto un bue intero, ha infornato focacce appiattite. Ma entra!16

Se l’identificazione del contenuto delle pignatte con la purea di fave ci può stare17 (e l’amico Massimo molto correttamente ha scritto avrebbe nutrito), debbo però, far notare che il personaggio al quale la serva si rivolge non è Ercole ma Dioniso travestito da Ercole. Sarebbe un dettaglio di poco conto (tanto più che tutto quel ben di Dio senza, però, essere accompagnato nemmeno da un fiasco di vino sarebbe più confacente ad Ercole e non a Dioniso …), se l’equivoco non avesse favorito il proliferare di affermazioni “allargate” che io trovo semplicemente criminali.

Da Tipico italiano di Annalisa Barbagli e Stefania Barzini, Giunti, Firenze, 2010, ho tratto il sottostante dettaglio della pag. 130.

Qui la purea di fave ha assunto proprietà addirittura afrodisiache. È sembrato doveroso, però, alle autrici far diventare diecimila le cinquanta vergini figlie di Tespio (o Testio, a seconda dei mitografi) con cui Ercole si sarebbe accoppiato in una sola notte.

Così confezionata la notizia della fava (nel duplice significato …) di Ercole era troppo ghiotta perché non passasse dalla carta stampata alla rete. Solo due, tra quelli che recano la firma dell’autore e la data più antica , dei tanti esempi, per evitare al lettore (le lettrici sono esenti da questo pericolo …) ulteriori rotture della fava:

In http://www.cucinerotica.com/ricette/le-fave-di-ercole/ leggo: Aristofane nella sua commedia Le Rane ci racconta di Ercole, il figlio di Giove, che dopo aver fatto un adeguato pasto col suo piatto preferito, i pugliesi sostengono addirittura che si trattava ‘Ncapriata (nome pugliese di fave e foglie poi italianizzato in Capriata), fece cambiare di stato più di diecimila vergini. (a firma di Angie Cafiero; pubblicato il 5/1/2011).

In http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/notizie/cronaca/2012/13-febbraio-2012/altro-cult-purea-fave-cicoriepuglia-tipicita-tradizione-1903267783174.shtml leggo: Un piatto dell’arte culinaria pugliese, gustoso ma semplice, nutriente e facile da digerire. Persino Aristofane narra che se ne cibasse Ercole tra una fatica e l’altra per il valore energetico. (a firma di Mariangela Pollonio; pubblicato il 13/2/2012).

Dopo aver ribadito, come in altre occasioni, che il campanilismo, anche quello culinario,  non può nutrirsi del cibo indigesto, anzi, velenoso, della mistificazione (riguardi essa il mito o la storia), chiudo con tre altri tuffi nel passato.

Dioscoride (I secolo d. C.), nel De materia medica dedica alla fava due capitoli del libro II.

Nel 105: La fava greca genera flatulenza, gonfiore, è difficile da digerire, fa fare brutti sogni, utile però contro la tosse e atta a generare la carne18; cotta in acqua e vino e mangiata con la buccia blocca i flussi della dissenteria e i disturbi intestinali e mangiata in abbondanza è utile contro il vomito; produce meno flatulenza se prima si butta via l’acqua durante la cottura. Quando è verde invece procura maggior fastidio allo stomaco e maggior flatulenza. La farina di fave applicata come cataplasmo da sola o con farina di orzo calma le infiammazioni dovute a trauma, rende uniforme il colore delle cicatrici , giova alle mammelle  gonfie per i grumi di latte e infiammate e blocca la produzione del latte. Con il miele e la farina di fieno greco elimina foruncoli, parotite e i lividi agli occhi, con la rosa, incenso e bianco d’uovo le borse sotto gli occhi e lo stafiloma. Impastata col vino lenisce la sinchisi e i traumi degli occhi e la fava dopo essere stata masticata senza buccia a mo’di cataplasmo viene applicata sul volto e bollita nel vino cura le infiammazioni dei testicoli. E applicata, sempre come cataplasmo, sul pube dei fanciulli, li mantiene a lungo impuberi e cancella pure la vitiligine. Le bucce applicate come cataplasmo rende atrofici e sottili i peli che rinascono dopo essere stati strappati; con farina di orzo, scisto e olio vecchio applicate come cataplasmo curano la scrofolosi e il loro decotto tinge le lane. La fava scorticata viene applicata anche contro le emorragie procurate dalle sanguisughe dopo essere stata divisa in due sulle parti dove le sanguisughe erano fissate e ferma l’emorragia premuta a metà.

Nel 106: La fava egizia, che alcuni chiamano pontica, nasce abbondante in Egitto e si trova nei laghi in Asia e in Cilicia. Ha una foglia grande, come un cappello, il gambo lungo un cubito, grosso un dito,  il fiore roseo, il doppio di quello del papavero, che dopo la fioritura forma una capsula simile ad un vespaio, nel quale c’è la fava che nella parte superiore ha un piccolo opercolo come una bolla. Si chiama anche ciborio o cibotio19 per il fatto che il seme viene posto nella zolla umida e così abbandonato nell’acqua. La fava viene mangiata anche verde, essiccata è nera e più grande di quella greca ed ha proprietà astringenti e salutari per lo stomaco. La sua farina, impastata con acqua in sostituzione di quella di orzo, giova agli affetti da malattie intestinali e ai celiaci e viene somministrata ridotta in poltiglia. Le bucce sono più efficaci bollite in vino e miele e bevute nella misura di tre tazze; e il loro seme verde a metà è efficace contro il mal di orecchi, amaro al gusto, gradevole se mescolato a qualche goccia di estratto di rosa.20

Nel primo brano la fava greca spicca per le sue molteplici proprietà terapeutiche e tra quelle della sfera genitale la sua efficacia contro l’orchite. A tal proposito non saprei dire se è l’applicazione del proverbio chiodo scaccia chiodo oppure del similia similibus curantur che è alla base dell’omeopatia …

Isidoro di Siviglia (V-VI secolo d. C.): Gli antichi quando dovevano cantare si astenevano prima dai cibi; tuttavia i salmisti si cibavano costantemente di legumi per la voce. Perciò anche i cantori presso i pagani furono chiamati mangiatori di fave.21

Meno male che il foscoliano di evirati cantori allettatrice era di là da venire, altrimenti sarei stato costretto a fare una considerazione in linea con quella dedicata al passo precedente …

Siccome, però, voglio chiudere in bellezza, lo farò con l’ultimo brano che è poi quello col quale pure l’amico Massimo conclude il suo post.

Il Regimen sanitatis Salernitanum (XII-XIII secolo) ebbe nel tempo un numero spaventoso di redazioni e di versioni.  Una delle prime edizioni a stampa del testo originale latino, di 364 versi, col commento di Arnaldo di Villanova fu pubblicata nel 1484. a Parigi (nella foto sottostante l’incipit; l’intero testo in http://books.google.it/books?id=wdxQAAAAcAAJ&printsec=frontcover&dq=regimen+sanitatis+salernitanum&hl=it&sa=X&ei=L2A9U-ObHcrAtAb7nYHIDQ&ved=0CGwQ6AEwCA#v=onepage&q=regimen%20sanitatis%20salernitanum&f=false).

Da questa edizione propongo il brano sull’argomento tratto dal capitolo LXXVIII con la mia traduzione e qualche osservazione.

Il componimento è formato da tre esametri e da un elegiaco. Traduzione: I bagni, il vino, il sesso, il pepe, il fumo, i porri con le cipolle, la lenticchia, il pianto, la fava, la senape, il sole, il coito, il fuoco, la fatica, il trauma, le punture, la polvere: tutto ciò nuoce agli occhi. Ma restare svegli (nuoce) di più.

Credo che la sequenza balnea vina venus non sia casuale ma citazione di quella che compare su un’iscrizione (CIL, VI, 15258)  rinvenuta a Roma nelle Terme di Caracalla sulla tomba di Tito Claudio Secondo, liberto dell’imperatore Claudio (dunque risalente al I secolo d. C.).

V(ixit) an(nos) LII / d(is) M(anibus) / Ti(beri) Claudi Secundi / hic secum habet omnia / balnea vina Venus / corrumpunt corpora / nostra se<d=T> vitam faciunt / b(alnea) v(ina) V(enus) / karo contubernal(i) / fec(it) Merope Caes(aris) / et sibi et suis p(osterisque) e(orum)

(Visse 52 anni. Agli dei Mani di Tiberio Claudio Secondo. Qui con ha tutto con sé. I bagni, i vini, il sesso corrompono i nostri corpi, ma la vita la fanno i bagni, i vini, il sesso. Per il caro compagno di tenda fece [costruire questo sepolcro] Merope di Cesare e per sé  e per i suoi e per i loro posteri).

Cinquantadue anni non era una durata della vita da buttar via per quei tempi ma a Salerno dopo più di un millennio si pensò bene di aggiungere altri dettagli per allungare la vita …

Nella individuazione generica dell’amore (venus) e particolare del coito (coitus) tra ciò che nuoce agli occhi è da ravvisare, secondo me, un’anticipazione delle teorie terroristiche contro la masturbazione  messe in campo agli inizi del XVIII secolo, secondo le quali tale pratica indurrebbe, tra l’altro, la cecità.

E, dopo questa fesseria che ha dovuto attendere due secoli per essere smentita, non voglio io essere il padre di un’altra affermando, con un gioco di parole che un tempo sarebbe stato definito senz’altro triviale, che la fava prima fece male perché stimolante, poi perché stimolata …

Per il resto, proverbi salentini sul tema compresi, rinvio a https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/04/28/lungulu-ovvero-il-baccello-della-fava-verde/

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1 Credo che questa funzione propiziatrice, tenendo conto della forma fallica del baccello, sia parallela a quella apotropaica che avevano le innumerevoli immagini di falli ancora oggi visibili a Pompei. In basso un esemplare con la “didascalia”: HIC HABITAT FELICITAS (Qui abita la felicità).

2 Oggi Borkum, sul mar Baltico.

3 Naturalis historia, XVIII, 48: Sequitur leguminum natura, inter quae maxime honos fabae, quippe ex qua temptatus sit etiam panis. Lomentum appellatur farina ex ea, adgravaturque pondus illa et omni legumine, iam vero et pabulo, in pane venali. Fabae multiplex usus omnium quadripedum generi, praecipue homini. Frumento etiam miscetur apud plerasque gentes, et maxime panico solida ac delicatius fracta. quin et prisco ritu puls fabata suae religionis diis in sacro est. Praevalens pulmentari cibo, set hebetare sensus existimata, insomnia quoque facere, ob haec pythagoricae sententiae damnata, ut alii tradidere, quoniam mortuorum animae sint in ea, qua de causa parentando utique adsumitur. Varro et ob haec flaminem ea non vesci tradit et quoniam in flore eius litterae lugubres reperiantur. in eadem peculiaris religio, namque fabam utique ex frugibus referre mos est auspici causa, quae ideo referiva appellatur. Et auctionibus adhibere eam lucrosum putant. Sola certe frugum etiam exesa repletur crescente luna. Aqua marina aliave salsa non percoquitur. Seritur ante vergiliarum occasum leguminum prima, ut antecedat hiemem. Vergilius eam per ver seri iubet circumpadanae italiae ritu, sed maior pars malunt fabalia maturae sationis quam trimestrem fructum. eius namque siliquae caulesque gratissimo sunt pabulo pecori. Aquas in flore maxime concupiscit, cum vero defloruit, exiguas desiderat. Solum, in quo sata est, laetificat stercoris vice. Ideo circa Macedoniam Thessaliamque, cum florere coepit, vertunt arva. nascitur et sua sponte plerisque in locis, sicut septentrionalis oceani insulis, quas ob id nostri fabarias appellant, item in Mauretania silvestris passim, sed praedura et quae percoqui non possit. Nascitur et in Aegypto spinoso caule, qua de causa crocodili oculis timentes refugiunt. Longitudo scapo quattuor cubitorum est amplissima, crassitudo digiti. Ni genicula abessent, molli calamo similis; caput papaveri, colore roseo, in eo fabae non supra tricenas; folia ampla, fructus ipse amarus et odore, sed radix perquam grata incolarum cibis, cruda et omni modo cocta, harundinum radicibus similis. Nascitur et in Syria Ciliciaque et in Toronae chalcidices lacu.

4 Vite dei filosofi, VIII, 1, 9: Καὶ περὶ ἀφροδισίων δέ φησιν οὕτως: “Ἀφροδίσια χειμῶνος ποιέεσθαι, μὴ θέρεος· φθινοπώρου δὲ καὶ ἦρος κουφότερα, βαρέα δὲ πᾶσαν ὥρην καὶ ἐς ὑγιείην οὐκ ἀγαθά.” Ἀλλὰ καί ποτ᾽ ἐρωτηθέντα πότε δεῖ πλησιάζειν εἰπεῖν  ὅταν βούλῃ γενέσθαι σωυτοῦ ἀσθενέστερος.

5 Lo stesso Diogene Laerzio in un passo successivo (VIII, 1, 46) ci informa che quasi contemporaneamente al nostro vissero altri tre Pitagora.

6 Op. cit. VIII, 1, 14-15: Λέγεται δὲ καὶ πρῶτος κρέασιν ἀσκῆσαι ἀθλητάς, καὶ πρῶτόν γ᾽ Εὐρυμένην, καθά φησι Φαβωρῖνος ἐν τρίτῳ τῶν Ἀπομνημονευμάτων, τῶν πρότερον ἰσχάσι ξηραῖς καὶ τυροῖς ὑγροῖς, ἀλλὰ καὶ πυροῖς σωμασκούντων αὐτούς, καθάπερ ὁ αὐτὸς Φαβωρῖνος ἐν ὀγδόῃ Παντοδαπῆς ἱστορίας φησίν. Οἱ δὲ Πυθαγόραν ἀλείπτην τινὰ τοῦτον σιτίσαι τὸν τρόπον, μὴ τοῦτον. Τοῦτον γὰρ καὶ τὸ φονεύειν ἀπαγορεύειν, μὴ ὅτι γεύεσθαι τῶν ζῴων κοινὸν δίκαιον ἡμῖν ἐχόντων ψυχῆς. Καὶ τόδε μὲν ἦν τὸ πρόσχημα· τὸ δ᾽ ἀληθὲς τῶν ἐμψύχων ἀπηγόρευεν ἅπτεσθαι συνασκῶν καὶ συνεθίζων εἰς εὐκολίαν βίου τοὺς ἀνθρώπους, ὥστε εὐπορίστους αὐτοῖς εἶναι τὰς τροφάς, ἄπυρα προσφερομένοις καὶ λιτὸν ὕδωρ πίνουσιν, ἐντεῦθεν γὰρ καὶ σώματος ὑγίειαν καὶ ψυχῆς ὀξύτητα περιγίνεσθαι.

7 Nei vocabolari greci la voce originale (ἐρυθρῖνος, leggi eriuthrìnos) è tradotta dubitativamente con serrano o con fragolino. Secondo me l’identificazione corretta è nel secondo pesce per due motivi: a) la voce greca deriva da ἐρυθρός (leggi eriuthròs), che significa rosso (indicazione che mi sembra più calzante per il fragolino che per il serrano); b) proprio dal greco ἐρυθρῖνος è derivato il salentino lutrinu, nome dialettale del pagello fragolino.

8  Comunemente noto col nome di occhiata, dal latino oculata(m)=dotata di grandi occhi. Il pesce è detto anche, come nel nostro brano, melanuro, che è dalla radice dell’aggettivo μέλας/μελαῖνα/μέλαν (leggi melas/melàina/melan)=nero+οὐρά (leggi urà)=coda.

9 In realtà dovrebbe trattarsi della vulva della scrofa che in parecchi autori, tra cui Plutarco (I-II secolo d. C.) e Ateneo (II-III secolo d. C.), è citata come un’autentica ghiottoneria.

10 Il che significa che di notte se la spassava con la signora Giovanna (non in carne ed ossa ma quella che etimologicamente ne è derivata: la damigiana)?

11 Op. cit., VIII, 1, 19-20

Παντὸς δὲ μᾶλλον ἀπηγόρευε μήτ᾽ ἐρυθρῖνον ἐσθίειν μήτε μελάνουρον, καρδίας τ᾽ ἀπέχεσθαι καὶ κυάμων· Ἀριστοτέλης δέ φησι καὶ μήτρας καὶ τρίγλης ἐνίοτε. Αὐτὸν δ᾽ ἀρκεῖσθαι μέλιτι μόνῳ φασί τινες ἢ κηρίῳ ἢ ἄρτῳ, οἴνου δὲ μεθ᾽ ἡμέραν μὴ γεύεσθαι· ὄψῳ τε τὰ πολλὰ λαχάνοις ἑφθοῖς τε καὶ ὠμοῖς, τοῖς δὲ θαλαττίοις σπανίως. Στολὴ δ᾽ αὐτῷ λευκή, καθαρά, καὶ στρώματα λευκὰ ἐξ ἐρίων· τὰ γὰρ λῖνα οὔπω εἰς ἐκείνους ἀφῖκτο τοὺς τόπους. Οὐδέποτ᾽ ἐγνώσθη οὔτε διαχωρῶν οὔτε ἀφροδισιάζων οὔτε μεθυσθείς. Ἀπείχετο καὶ γέλωτος καὶ πάσης ἀρεσκείας οἷον σκωμμάτων καὶ διηγημάτων φορτικῶν. Ὀργιζόμενός τ᾽ οὔτε οἰκέτην ἐκόλαζεν οὔτ᾽ἐλεύθερον οὐδένα. Ἐκάλει δὲ τὸ νουθετεῖν πεδαρτᾶν. Μαντικῇ τ᾽ἐχρῆτο τῇ διὰ τῶν κλῃδόνων τε καὶ οἰωνῶν, ἥκιστα δὲ τῇ διὰ τῶν ἐμπύρων, ἔξω τῆς διὰ λιβάνου. Θυσίαις τε ἐχρῆτο ἀψύχοις, οἱ δέ φασιν, ὅτι ἀλέκτορσι μόνον καὶ ἐρίφοις γαλαθηνοῖς καὶ τοῖς λεγομένοις ἁπαλίαις, ἥκιστα δὲ ἄρνασιν. Ὁ γε μὴν Ἀριστόξενος πάντα μὲν τἄλλα συγχωρεῖν αὐτὸν ἐσθίειν ἔμψυχα, μόνον δ᾽ἀπέχεσθαι βοὸς ἀροτῆρος καὶ κριοῦ.

12 Op. cit., VIII, 1, 24: Τῶν δὲ κυάμων ἀπέχεσθαι διὰ τὸ πνευματώδεις ὄντας μάλιστα μετέχειν τοῦ ψυχικοῦ καὶ ἄλλως κοσμιωτέρας ἀπεργάζεσθαι τὰς γαστέρας, μὴ παραληφθέντας. Καὶ διὰ τοῦτο καὶ τὰς καθ᾽ ὕπνους φαντασίας λείας καὶ ἀταράχους ἀποτελεῖν.

13 Op. cit., VIII, 1, 39: Ἐτελεύτα δ᾽ ὁ Πυθαγόρας τοῦτον τὸν τρόπον· σσυνεδρεύοντος μετὰ τῶν συνήθων ἐν τῇ Μίλωνος οἰκίᾳ [τούτου] ὑπό τινος τῶν μὴ παραδοχῆς ἀξιωθέντων διὰ φθόνον ὑποπρησθῆναι τὴν οἰκίαν συνέβη· τινὲς δ᾽ αὐτοὺς τοὺς Κροτωνιάτας τοῦτο πρᾶξαι, τυραννίδος ἐπίθεσιν εὐλαβουμένους. Τὸν δὴ Πυθαγόραν καταληφθῆναι διεξιόντα· καὶ πρός τινι χωρίῳ γενόμενος πλήρει κυάμων, ἵνα [αὐτόθι] ἔστη, εἰπὼν ἁλῶναι ἂν μᾶλλον ἢ πατῆσαι [ἀναιρεθῆναι δὲ κρεῖττον ἢ λαλῆσαι]· καὶ ὧδε πρὸς τῶν διωκόντων ἀποσφαγῆναι. Οὕτω δὲ καὶ τοὺς πλείους τῶν ἑταίρων αὐτοῦ διαφθαρῆναι, ὄντας πρὸς τοὺς τετταράκονταΟ· διαφυγεῖν δ᾽ ὀλίγους, ὧν ἦν καὶ Ἄρχιππος ὁ Ταραντῖνος καὶ Λῦσις ὁ προειρημένος.

14 Op. cit., VIII, 1, 44: Οὐ μόνος ἐμψύχων ἄπεχες χέρας, ἀλλὰ καὶ ἡμεῖς· τίς γὰρ ὃς ἐμψύχων ἥψατο, Πυθαγόρα; Ἀλλ᾽ ὅταν ἑψηθῇ τι καὶ ὀπτηθῇ καὶ ἁλισθῇ, δὴ τότε καὶ ψυχὴν οὐκ ἔχον ἐσθίομεν.

Ἦν ἄρα Πυθαγόρης τοῖος σοφός, ὥστε μὲν αὐτὸς μὴ ψαύειν κρειῶν καὶ λέγεν ὡς ἄδικον,σιτίζειν δ᾽ ἄλλους. Ἄγαμαι σοφόν: αὐτὸς ἔφα μὲν οὐκ ἀδικεῖν, ἄλλους δ᾽ αὐτὸς ἔτευχ᾽ ἀδικεῖν.

15 Op. cit., VIII, 1, 45: Αἲ, αἴ, Πυθαγόρης τί τόσον κυάμους ἐσεβάσθη; καὶ θάνε φοιτηταῖς ἄμμιγα τοῖς ἰδίοις.

Χωρίον ἦν κυάμων· ἵνα μὴ τούτους δὲ πατήσῃ, ἐξ Ἀκραγαντίνων κάτθαν᾽ ἐνὶ τριόδῳ.

16 Ὦ φίλταθ᾽ ἥκεις Ἡράκλεις; δεῦρ᾽ εἴσιθι.

Ἡ γὰρ θεός σ᾽ ὡς ἐπύθεθ᾽ ἥκοντ᾽, εὐθέως

ἔπεττεν ἄρτους, ἧψε κατερεικτῶν χύτρας

ἔτνους δύ᾽ ἢ τρεῖς, βοῦν ἀπηνθράκιζ᾽ ὅλον,

πλακοῦντας ὤπτα κολλάβους. Ὰλλ᾽ εἴσιθι.

17 O amicissimo Hercole sei venuto? entra quà, che questa dea, poi che ti ha sentito à venire, hà impastato, e parecchiato il pane. ha messe à fuoco le pugnate de legumi, ciò è due, ò tre di fava, ha cotto un bove integro, ha rostito fugaccie, ischizzate, hor entra.

(Da Bartolomio e Pietro Rositini de Prat’Alboino, Le comedie del facetissimo Aristofane, Vincenzo Vaugris al segno d’Erasmo, Venezia, 1545)

Ercole, caro, caro, sei tu? Entra!

La Dea, come ha saputo ch’eri qui,

ha impastato del pane, ha cotto due

o tre pignatte di purè di ceci,

ha fatto arrosto un bove intero intero,

ha messo in forno torte e pasticcini.

(Da Ettore Romagnoli, Le commedie di Aristofane, Zanichelli, Bologna, 1927)

18 C’è invece un detto neretino che recita: Mangia fae ca ti ‘ntòstanu l’osse! (Mangia fave che ti si induriscono le ossa!).

19 Κιβώριον (leggi chibòrion) come nome comune significa coppa, cupola. Κιβώτιον (leggi chibòtion) come nome comune significa cassetta ed è diminutivo di κιβωτός (leggi chibotòs) che significa cassa e, come termine matematico, cubo. Anche il primo sembra presentare un suffisso diminutivo, per cui non mi pare azzardato, considerando anche che Dioscoride li usa come sinonimi, supporre per entrambi una comune derivazione da κύβος (leggi chiùbos) che significa cubo, dado.

20 Questa volta per brevità do il testo in formato immagine (da Pedanii Dioscuridis Anazarbei De Materia Medica, Weldmann, Berlino, 1907, v. I, pagg.180-181

21 De ecclesiasticis officiis, II, 12, 5: Antiqui, pridie quam cantandum erat, cibis abstinebant, psalientes tamen, legumine causa vocis assidue utebantur. Unde et cantores apud gentiles fabarii dicti sunt.

Approfitto per ricordare che baggiano, sinonimo di sciocco, anticamente era l’appellativo con cui i Bergamaschi chiamavano gli abitanti dello Stato di Milano (Alessandro Manzoni, I promessi sposi, cap. XVII); la voce deriva da baggiana, varietà di fava a semi molto grossi, a sua volta dalla locuzione latina faba baiana=fava di Baia.

 

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