Calcare e calcinari nell’Arneo


di Fabrizio Suppressa

La calce, come affermano le fonti antiche di Vitruvio e di Plinio il Vecchio, fu scoperta molto probabilmente per caso a seguito dello spegnimento di un forte incendio di un edificio costruito in pietra calcarea[1]. Già dal IV secolo a.C. era conosciuta da Greci e Fenici che la diffusero attraverso le loro rotte mercantili in tutto il Mediterraneo.

Dagli scavi archeologici risulta che anche i Messapi utilizzarono la calce, sotto forma di malta, per la realizzazione delle proprie abitazioni; anche se per l’edificazione delle cinte murarie a difesa delle polis preferirono impiegare a secco enormi blocchi in calcarenite locale. E’ però con l’ascesa dei Romani che la calce assunse una qualità maggiore, per la realizzazione di infrastrutture ad ampia luce e di edifici mai realizzati fino ad allora. Nel nostro ambito territoriale, la calce, assieme al tufo, estratto nelle tagghiate, costituisce un connubio perfetto che ancora riesce a caratterizzare l’architettura salentina, sia essa aulica o rurale.

 

ph Fabrizio Suppressa

 

La calce e le calcare

La calce viva si ricavava, fino a pochi decenni or sono, in fornaci tradizionali chiamate calcare o meglio carcare nel vernacolo salentino. Queste primitive attività industriali erano localizzate in aree che avevano due caratteristiche imprescindibili: la presenza di boschi o di macchie per la fornitura di combustibile, come legna da ardere e carbone, e la giusta pietra calcarea per la cottura. Quest’ultima doveva essere, tra tutte le rocce del Salento, quella con formazione cristallina tipo pietra viva e dai riflessi chiari, precisamente un “calcare dolomitico a frattura irregolare”.

Queste proprietà sono tali che il posto prediletto nei secoli per l’impianto di una calcara sia stato il vasto bacino dell’Arneo, che fino a qualche decennio fa era coperto da estese macchie superstiti dell’antica foresta oritana che si estendeva fino all’odierna marina di Sant’Isidoro di Nardò.

Le fornaci di tipo tradizionale ricordano molto i furnieddhi o pajare. Infatti una calcara, quando non caricata, altro non è che un anello in pietra a secco dell’altezza tra i due e tre metri, il cui diametro varia dai sette ai dieci metri e al cui interno, sulle pareti interne ed in sommità, vi è un rivestimento di uno strato di calce di scarto. Il fondo è scavato nel banco roccioso, per più di un metro, e comunica con l’esterno attraverso una piccola apertura laterale, per poter agevolmente alimentare e gestire il fuoco all’interno.

Quando bisognava mettere in funzione la carcara si disponeva il carico di pietre all’interno dell’anello (mureddha), realizzando, con lo stesso procedimento costruttivo dei furnieddhi, una falsa cupola; il vuoto creato, comunicante con l’esterno, serviva appunto da camera di combustione.

 

Schema di una calcara
Schema di una calcara

Sopra di essa, si disponeva il restante materiale calcareo, come pietre di medie dimensioni, pietruzze e schegge, cercando inoltre di lasciare tra pietra e pietra, lo spazio necessario per far arrivare le fiamme e far passare il fumo. Il carico così disposto continuava in altezza fino a superare le pareti in pietra a secco e realizzando in sommità un cono, ricoperto poi da uno spesso strato di terreno argilloso, intervallato ogni tanto da dei fori circolari in modo da far defluire i fumi di combustione. L’operazione era affida ai calcinari (caucinari o carcaluri), un mestiere molto pericoloso a causa delle forti temperature e del gas che la reazione chimica sprigionava: l’acido carbonico.

Oltre i pericoli c’erano anche i saperi che si tramandavano nelle generazioni di calcinari, come ad esempio i nomi degli utensili e le parti che costituivano una calcara, i periodi giusti per l’accensione, la durata della cottura, tutte esperienze che sono ormai scomparse o che stanno scomparendo. Ma anche la terminologia è ormai desueta e giova ricordare che l’alimentazione del fuoco si indicava con la continua mena ti li glione, indispensabile per il raggiungimento della giusta temperatura; lu criddhu ti la carcara altro non era se non il residuo dell’estrazione, ricercatissimo per realizzare con esso i celeberrimi ed indistruttibili pavimenti salentini in battuto (àstricu).

 

calcara su un altare di Lecce

Dobbiamo dunque trarre dalla manualistica empirica ottocentesca, in particolare dal trattato di Rondelet, per ben capire il procedimento di trasformazione.

Per convertire le pietre in calce, conviene aver riguardo di non riscaldare il forno che a gradi: primo, perché se le pietre sono assalite da un fuoco troppo vivo, si spezzano e fanno crollare quelle che si dispongono nel forno a guisa di volta a giorno per facilitare la cottura di esse; secondo, perché è da temersi che le pietre prese troppo rapidamente dal fuoco non possano più convertirsi in calce; invece un fuoco moderato in principio le fa sudar lentamente e ne ritira l’umidità senza fenomeno. E’ necessario che il calore aumenti sempre senza interruzione; e a tale proposito domina fra gli operai una opinione ripetuta da molti libri, cioè che quando è stato interrotto il fuoco prima che la pietra sia cotta come conviene, un bosco intero non basterebbe a ridurla in calce. Devesi osservare che ciascuna fornata sia di una sola specie di pietra, e della stessa cava, se è possibile, onde la calce che ne deve provenire sia d’una stessa qualità. Quando per empiere il forno è forza prendere più specie di pietre, o di cave diverse, non bisogna mischiarle alla rinfusa, ma collocarle in ragione della qualità, acciocché essendo ridotte in calca si possano separare, se è necessario, e sperimentare il grado di calore che ad esse conviene. Le pietre più dure e più grosse debbono porsi al centro, le più tenere e minute, alla circonferenza. La maggior parte degli scrittori e fra gli altri Alberti e Palladio dicono che occorrono almeno sessant’ore di un fuoco vivo, violento e continuo per ridurre le pietre in calce. Secondo Scamozzi sono necessarie cent’ore, o quattro in cinque giorni; tempo che vi s’impiega comunemente. Non è possibile indicare il tempo preciso, perché dipende, primo, dalla qualità delle pietre, secondo, dai combustibili impiegati, terzo dalla costruzione del forno, e da altre circostanze diverse. […]”[2]

Pertanto la forte temperatura ottenuta con la combustione, che arrivava a circa 900°, consentiva la reazione chimica di calcinazione e data la scarsa capacità di ottenere queste temperature, era necessario che il calore prodotto, si disperdesse verso l’esterno il meno possibile, per questo motivo la calcara veniva realizzata, parzialmente nel banco roccioso, con uno spesso muraglione e con la calotta in terra sulla sommità.

ph Fabrizio Suppressa

Lo spegnimento della calce

Una volta terminata la cottura le pietre, lasciate raffreddare, venivano caricate su di un traìno e trasportate al cantiere; il carico poteva raggiungere anche i 10 – 12 quintali, rispetto ai circa 100 ottenuti da una grande fornace in cui erano stati posti a “cuocere” dai 1000 ai 1500 quintali.

Ogni capomastro (lu mesciu) aveva il suo caucinaro e ad esempio, nel comune di Copertino, attorno agli anni ’60 del Novecento, ve ne erano circa quattro. Una volta scaricato il contenuto in cantiere dei manovali si occupavano dello spegnimento realizzando delle vasche chiamate camini di cauce. Non appena la calce viva (cagge vèrgine) veniva a contatto con l’acqua dolce contenuta nelle pile, una violenta reazione chimica sprigionava così tanto calore da portare all’ebollizione istantanea l’acqua e al contempo le pietre, che fondendo diventavano come gelatinose. Spesso capitava che a causa dell’impeto dell’ebollizione alcuni schizzi raggiungessero gli operai addetti allo spegnimento con casi di forti ustioni agli arti e molti episodi di cecità.

 

rara immagine di addetto alla calacara, da filmato dell'istituto Luce
rara immagine di addetto alla calacara, da filmato dell’istituto Luce

Se durante l’estinzione la calce assorbiva molta acqua veniva definita grassa (grascia) ed era più pregiata, al contrario veniva chiamata magra (macra); questa differenza era causata principalmente dalle impurità presenti nella pietra calcarea. Quando l’acqua raggiungeva la quantità sufficiente per il completo spegnimento l’impasto assumeva l’aspetto di una poltiglia lattiginosa (latte di calce) che lasciato raffreddare e sedimentare si trasformava in una massa bianca, plastica e untuosa, che prende il nome di grassello.

Lo spegnimento si concludeva infine con una lunga stagionatura della massa in apposite vasche, procedimento molto importante, poiché il calcare nel Salento ha forti dosi di salinità[3]. Paradossalmente ai giorni nostri la calce è prodotta mediante procedimenti industrializzati: il prodotto semilavorato arriva direttamente in cantiere, all’interno di sacchi ermetici già premiscelati e pronti all’uso.

Le ultime calcare

L’attività di trasformazione delle pietre calcaree in calce svanì non appena l’industrializzazione approdò anche nell’edilizia, rendendo poco competitiva la tradizionale e consolidata attività di calcinazione. Fu però un passaggio graduale, poiché ancora alcune calcare sopravvissero fino alle soglie degli anni Ottanta del secolo scorso ad uso di maestranze minori e per lavori di piccola entità.  Il tempo e l’uomo fecero cadere nell’oblio questa importante attività proto-industriale e molte precarie strutture in pietra a secco furono smantellate per far posto a colture agricole. Mediante fonti orali, segnalazioni, indagini cartografiche e sopralluoghi in sito, siamo riusciti ad individuare ancora i resti di alcune calcare che come ruderi di antiche civiltà testimoniano un paesaggio agrario molto differente da quello attuale.

Le più famose, erano le calcare dei Samali, situate sulla direttrice Copertino – Sant’Isidoro, dove un tempo vi erano le floride macchie di Villanova; il luogo che oggi appare pietroso e brullo è stato in parte lottizzato dalla riforma agraria di metà Novecento. Sulla cartografia[4] sono rappresentate come buche circolari raggiungibili solo da dei sentieri non carrabili, ed oggi altro non rimane che alcuni terrapieni ricoperti da canne e rovi. Una di esse era la più grande, tanto da divenire in antichità punto di riferimento dei limiti giurisdizionali della foresta oritana. Così infatti è riportato nel Travaglini:

“…principiando dal lato del mare da una torre nominata la Torre delli Scianuri, si prende il cammino per verso il vento tra Levante e Tramontana… con passarsi in appresso della massaria nominata Sedici Suergi (masseria Giudice Giorgio), e si arriva ad una calcara vecchia grande. D’appresso la medesima calcara principia un parietone divisorio, e camminandosi per il medesimo parietone si passa duecento passi in circa lontano da una masseria nominata li Samari”[5].

Un altro sito di produzione di calce molto rinomato per la qualità del calcare è l’area della masseria Sarparea de Pandi[6], in cui insistono due camini immersi nella secolare foresta primigenia ed ancora in buono stato di conservazione (purtroppo sono destinati a scomparire dalla brutale cementificazione di un controverso villaggio turistico). Poco più a nord, nei pressi della masseria Belvedere, sono stati identificati i resti di alcune calcare, di cui però altro non rimane che il basamento scavato nella roccia e alcune pietre a secco del terrapieno. Queste al contrario delle altre sono realizzate sfruttando un forte pendio di una scarpata, così da garantire nel passato una agevole gestione del fuoco all’interno della falsa cupola. Meritano menzione anche le carcare in contrada La Grotta, a pochi Km dall’abitato di Nardò e quasi a ridosso della masseria Ande.

La più antica calcara presente in questa parte del Salento è senza dubbio la Petra ti lu tiaulu[7],situata sulla costiera di levante nel comune di Porto Cesareo e da alcuni studiosi considerata anche una fornace di terraglie e anfore di epoca romana. Oggi non rimane altro che un ammasso di scarti di lavorazione con inglobate alcune pietre calcaree e dei conci tufacei, che danno l’impressione di uno scoglio naturale immerso nel mare. In realtà la carcara anticamente si trovava sulla terraferma e per bradisismo negativo è ora circondata dalle acque marine e dall’inquinamento portato dalla darsena recentemente installata, un brutto epilogo per un pezzo di storia cesarino.

Altre segnalazioni ci portano verso Scianne dove, sempre sulle cartografie, alle spalle dell’omonima masseria, è indicata una fornace, ma anche qui non restano altro che alcuni ruderi e un caseggiato accidentato. Ed ancora la cartografia ci porta verso il pendio di Case Arse, da cui forse deriverebbe il toponimo, dove in questo caso le calcare sono rappresentate da recinti a secco in forma circolare. Le fonti storiografiche ci indicano inoltre una calcara molto antica, ad uso esclusivo delle proprietà del monastero delle clarisse di Copertino, nei pressi della masseria Palombi, al confine con masseria Ciccojattu (Ciccogatto). Infine, senza escludere ulteriori segnalazioni che potrebbero giungere da chi legge, una possessione con camino di calcara chiusa di pariti di pietra con albori d’olive, attestata nel 1619 in una proprietà ubicata nel feudo copertinese di Cigliano[8] e quella a ridosso della masseria Colella di Missere, sempre nell’Arneo. In un rogito del 1589, dove si descrive il complesso, si legge infatti che essa comprende, oltre a terre fattizze, macchiose e sterilibus, le  curti, una casa diruta ed una calcara termititis, parietibus dirutis. Ancora più antico un altro atto, del 1575, in cui si legge che tal Paolo Greco possiede un terreno detto le terre de la carcara, della capacità seminativa di 30 tomoli, sito in località Monteverruca (attuale Monteruga, sempre nell’Arneo), vendutogli dal copertinese Sertorio Zurlo; il 30 maggio dello stesso anno metà di tale terreno veniva concesso a titolo di permuta a Cinzia Morelli[9].


[1] Jean Baptiste Rondelet ,  Trattato teorico e pratico dell’arte di edificare, Napoli, Del Gallo, 1839, Tomo I, capo III, art1.

[2] Ibidem

[3] De Pascalis G., L’arte di Fabbricare e i Fabbricatori  in terra d’Otranto, Nardò, Besa Editrice

[4] IGM serie 25.000, foglio 213, quadrante 1° N-E, rilievo del 1947.

[5] E. Travaglini, I limiti della foresta oritana in documenti e carte dal 1432 al 1809, Oria 1977.

[6] G. De Pascalis, L’arte di fabbricare e i fabbricatori  in Terra d’Otranto, Nardò 2001.

[7] G. Pasanisi, Porto Cesareo: dalle origini ai nostri giorni, Lecce 2002.

[8] Si ringraziano per la consulenza: Emilio Falangone di Nardò, Giuseppe Greco di Copertino (Mesciu Pippi), Francesco Politano di Leveranno.

[9] Ringrazio l’amico Marcello Gaballo per la segnalazione dei due documenti notarili.

pubblicato su Spicilegia Sallentina n°6

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3 Commenti a Calcare e calcinari nell’Arneo

  1. Finalmente ho trovato la risposta dell’interrogativo che mi ponevo: perchè la Masseria Giudice Giorgio veniva dai miei familiari chiamata Sitici Suergi. Così era denominata nei secoli scorsi.

  2. Credo che l’ultima calcarea di tipo tradizionale in funzione sia stata quella situata tra Secli e Neviano, condotta sino agli 80 del secolo scorso da tal mesciu Nanu!

  3. Quanta ne ho colata in una vasca piena d’acqua e mi dicevano che se eri raffreddato e respiravo il fumo ti passava

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