La telefonata

I  R A C C O N T I  D E L L A  V A D E A

L A  T E L E F O N A T A

di Pippi Onesimo

Le lampe (bicchieri da un quarto colmi di vino), rappresentavano il baratto privilegiato per pagare la commissione della telefonata.

Ma anche alcune foglie secche di tabacco o un sacchiettino di trinciato, insieme cu nnu pacchettu de cartine (pacchetto di strisce rettangolari di carta velina, lunghe circa sette centimetri, bianche, sottili e trasparenti, gommate su un lembo del lato lungo e adatte per confezionare, al bisogno, sigarette artigianali) avevano lo stesso valore.

A volte l’esigenza di fumare (“mi sigge na tirata”, ripeteva spesso lu Cheròndula) la avvertiva già prima di telefonare, specialmente dopo aver bevuto più di una lampa.

Serviva anche per darsi un tono e un contegno e con studiata teatralità confezionava, all’istante, una sigaretta fatta a mmanu (artigianale).

La procedura del confezionamento era molto semplice, anche se era necessario possedere una certa esperienza, una buona perizia ed una non comune dose di abilità.

Prima estraeva dal pacchetto una cartina e la posizionava, leggermente arcuata per tutta la sua lunghezza, fra il pollice e l’indice della mano sinistra, ai quali rimanevano strettamente collegate alle altre dita, piegate in dentro a mo’ di protezione.

Poi con la mano destra pizzicava del tabacco secco triturato, o del trinciato ricavato da foglie umide finemente tagliuzzate,direttamente dalla tasca dei pantaloni, o dal taschino della camicia, o da un sacchetto di stoffa, disponendolo in quantità sufficiente e distribuendolo in modo uniforme sulla cartina.

A questo punto subentrava la fase più delicata: inumidiva leggermente, ma senza bagnarlo, uno dei bordi lunghi della cartina, passandolo delicatamente sulla punta della lingua e immediatamente lo ripiegava su quello asciutto, arrotolandolo con una leggera pressione del pollice, aiutato dall’ indice e dal medio insieme, di entrambe le mani.

Eliminava, infine, qualche eventuale residuo di tabacco dalle due estremità e la sigaretta era già bella e confezionata, alla faccia dei monopoli di Stato.

Cu nnu pòsparu a tàvula (un fiammifero di legno), sfregato sul muro e tenuto ben saldo fra l’indice e il pollice della mano destra, accendeva la sigaretta delicatamente sorretta fra le labbra, mentre riparava dal vento la tenue fiammella con la mano sinistra, portata vicino alla bocca e arcuata a mo’ di schermo.

Fra una boccata e l’altra, aspirava voluttuosamente il fumo acre e biancastro.

A volte lo arrotolava nella bocca socchiusa a semicerchio, riuscendo abilmente a formare sottili rotelle di fumo.

Con sequenza concentrica il fumo saliva in alto, dondolando leggero e trasparente, mentre i cerchi si dissolvevano nell’aria, creando, così, una disincantata magia surreale.

Con malcelato sussiego, non privo di una certa affettazione di importanza, si conferiva, in quel modo, un tono presuntuosamente dignitoso e altezzosamente sostenuto.

E in questa scenografia, così puntigliosamente costruita, si inseriva la telefonata de lu Cheròndula.

La sua specialità, quasi un copyright, era quella fatta con l’Aldilà, o meju, cu lli morti toi(i tuoi parenti defunti).

Il suo cellulare, senza alcun limite di campo, poteva metterti in contatto con chiunque ed ovunque.

Il rituale della telefonata ( quella più solenne era fatta preferibilmente in piedi ), era molto semplice: lu Pietruzzu si toglieva la coppula, riponendola nella tasca posteriore dei pantaloni, e si addossava al muro di un vicino fabbricato .

Poi dava uno sguardo in giro con fare circospetto, come per conferire più solennità al gesto che stava per fare.

Intanto spegneva la sigaretta, stropicciando la punta accesa col pollice, l’indice e il medio ; poi conservava accuratamente lu muzzone (il mozzicone) nel taschino del gilet.

Insieme alla mano, che poggiava arcuata sul bordo del padiglione auricolare, al fine di amplificarne la ricezione, infine accostava l’orecchio sinistro preferibilmente vicino ad una crepa o ad una fessura, come quella usata per presa d’aria nei cucinini o nei bagni di servizio delle vecchie abitazioni.

A volte, ma solo raramente, se era stanco o più spiritoso del solito, preferiva fare la telefonata sdraiato per terra, a pancia in giù e a gambe divaricate, con l’orecchio leggermente schiacciato su un tombino dell’acquedotto, o lievemente adagiato sul coperchio della condotta della fognatura bianca.

Gli spettatori, intanto, accostati al muro della Chiesa della Purità, prospiciente sull’ansa che si modella fra l’Istituto Immacolata e il Palazzo Vallone, dopo così lunga e paziente attesa, cominciavano a dare segni di insofferenza per il noioso e snervante rituale della preparazione.

Ma era inutile spazientirsi.

Al punto in cui si era arrivati, bisognava prendere o lasciare, avendo commesso l’imprudenza di pagare con largo anticipo la commissione.

Oltretutto l’ebbrezza dell’aleatico de lu Muscia, che aleggiava ancora sorniona su tutta la compagnia, non era definitivamente del tutto svaporata, mentre il nervosismo cominciava a prendere pericolosamente il sopravvento e… si rischiava de ssire alle vigne dell’arciprèvate (uscire fuori strada, scantonare, perdere il senno o la ragione ).

Lu Pietruzzu, vientu de nanzi e tramuntana de retu (impertubabile), continuava a prendersela comoda e, impassibilmente serafico, rimaneva accostato al muro.

Poi, dopo una ennesima pausa, finalmente, con un lento, misurato atteggiamento pontificale allargava il braccio destro, in uno studiato rituale scenico, per dare il segnale d’inizio.

Dopo aver chiesto e ottenuto il silenzio dei presenti, roteava freneticamente il braccio, piegato ad angolo retto, mentre teneva il pugno chiuso come se girasse la manovella di un vecchio apparecchio telefonico, di quelli che la Sip usava allora installare, appendendoli al muro ad altezza d’uomo.

Intanto imitava con leggeri, susseguenti, intervallati e studiati borbottii della bocca il rumore della sua suoneria.

Quindi, finalmente, esordiva: “Prontu, prontu… parlu cu lli morti de mesciu Ntoni Pizzicazzi?“ (pronto, pronto… parlo con i defunti di maestro Antonio Pizzicazzi ?, che era uno dei committenti della telefonata, presente nel gruppo).

I soprannomi o le ngiurie costituivano una anagrafe parallela a quella ufficiale tenuta dal Comune e, a volte, la superavano per la particolarità dei dettagli e per la inappuntabilità dei riferimenti storici e genealogici.

Infatti allora (più di oggi), esse identificavano con precisione quasi maniacale le famiglie galatinesi e, volendo, potevano individuare, senza alcun margine di errore, tutta la relativa strappigna (la discendenza, l’albero genealogico).

L’indicazione del cognome diventava superfluo, anzi inutile.

Dopo una breve pausa, l’espressione del volto con gli occhi pensosi e semichiusi e la fronte corrucciata preannunciavano un improbabile contatto telefonico.

Poi proseguiva: ”Si… si sentìtime sanu: lu Ntoni, lu menzanu de li frati vosci, vu manda a ddire ca li mancati tantu e ca vulia tantu cu bbu viscia” (“ Si, si ascoltatemi con attenzione: Antonio, il mediano dei vostri fratelli, vi manda a dire che gli mancate tanto e che desidererebbe tanto rivedervi).

Cce ttanu dittu “ (che ti hanno detto?), chiedeva mesciu Ntoni, fingendo di stare al gioco.

Ca… se propriu cci tieni tantu cu lli vidi, cce spetti… cu bbai lli trovi!“ (se ci tieni veramente tanto a vederli, sbrigati a partire e quindi a… morire!), era la impietosa risposta fulminante de lu Pietruzzu.

Tutti scoppiavano a ridere, tranne mesciu Ntoni, ca rimania ‘mpalatu (rimaneva di sasso).

Poi, riprendendosi dallo smarrimento, lo rimproverava con tono bonario: “na stu mucculone! (uomo di poco conto) Mo ti cazzu le mpuddhre (adesso ti punisco). A ‘mie, ca taggiu sempre crisciutu a muddhriculeddhre (con le briciole), mi faci sti scherzi!

In altri termini gli traduceva, in modo paterno ma deciso, il suo pacato risentimento: “ingrato, non puoi mancarmi di rispetto, perché sono stato sempre generoso con te!“.

Lu Pietruzzu, impassibile, chiudeva il telefono (cioè abbassava il braccio e toglieva l’orecchio dal muro), mentre si copriva accuratamente il capo cu lla coppula, che recuperava dalla tasca dei pantaloni, dove l’aveva momentaneamente riposta prima della recita.

Con tutta la calma serafica, che la solennità del momento imponeva, si concedeva una breve pausa, come se fosse riportata sul copione di una fantasiosa sceneggiatura improvvisata, mentre aspirava con evidente e studiata voluttà un’altra boccata di fumo, dopo aver riacceso lu muzzone, che aveva recuperato dal taschino.

Intanto la punta del mozzicone, tenuto in precario equilibrio fra le labbra ruvide e screpolate, ad ogni tirata si arroventava ad intermittenza, bruciando parte della cartina e parte del tabacco, mentre liberava nell’aria qualche breve, fugace favilla.

La cenere biancastra, man mano che il fuoco si ritirava consumando la sigaretta, si staccava a grumi compatti e, rotolando giù, pennellava impertinentemente il gilet e la sua camicia con una polverina sottile e irriverente.

Qui, la commedia della telefonata, ben assortita e ottimamente interpretata, si concludeva.

 

 

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