Il mio incontro con “campisciare”: due braccia sottratte all’agricoltura?

di Armando Polito

Vincent Van Gogh, Seminatore al tramonto (1888), Museo Kröller-Müller, Otterlo
Vincent Van Gogh, Seminatore al tramonto (1888), Museo Kröller-Müller, Otterlo

Ci usamu li taulini luenghi càccianu cchiù ccristiani e campisciamu megghiu – (- Se utilizziamo i tavoli lunghi possiamo mettere a sedere1 più persone e … meglio -)

La mancata traduzione immediata di campisciàmu corrisponde allo spiazzamento che ho provato nel sentire questo vocabolo proferito con l’intera frase dialettale da un commensale, per ora non aggiungo altro dettaglio, qualche sera fa mentre si cenava in casa mia.

Mi son fatto ripetere immediatamente la parola misteriosa per essere sicuro di aver sentito bene: era proprio campisciare ed era la prima volta che le mie orecchie percepivano quell’insieme di suoni. Potevo far finta di niente? Trascurando, almeno io,  la cena già avviata mi son chiesto, mentre contemporaneamente lo chiedevo pure agli ospiti, quale fosse l’etimo.

A loro: a chi? È giunto il momento di aggiungere il dettaglio, non per soddisfare l’improbabile curiosità di qualche lettore ma per ripercorrere insieme le tappe che mi hanno portato prima a sapere dell’esistenza del verbo in questione, poi del suo etimo. Ma ecco il dettaglio che costituisce anche il contesto, fondamentale per studiare qualsiasi fenomeno. Mio cognato è titolare di un agriturismo e l’espressione, usata da sua moglie, era riferita all’allestimento di un pranzo con un numero decisamente cospicuo di partecipanti. Molto genericamente, dunque, campisciàre, in quel contesto, era sinonimo di risolviamo il problema.

Per esperienza sapevo che proprio perché troppo generico quel significato molto probabilmente era la conseguenza  di uno slittamento metaforico da quello inizialmente assunto. Ma quest’ultimo, quale poteva essere?

Con l’atteggiamento ieratico che mi contraddistingue in simili circostanze, cui si contrappone puntualmente il solito sorrisetto, non so se più ironico che di gradimento o compiacimento, di mio cognato, ho sparato il lancinante dilemma: campisciàre è intensivo  o iterativo da campare2, ragion per cui alla lettera significherebbe tirare a campare e più che di forma intensiva si dovrebbe parlare di forma approssimativa o stentativa (questa l’ho creata sul momento)? oppure è da campo e in questo caso alla lettera significherebbe disporre in campo?

Di fronte a tanta capacità analitica mio cognato ha abbandonato il sorrisetto che nel frattempo era diventato  inequivocabilmente beffardo e, pur non assumendo, da usurpatore,  il mio atteggiamento sacerdotale ma uno da chierichetto (non per niente è stato in Seminario) molto sveglio (da quando, tanti anni fa, lo feci uscire …), mio cognato, dicevo, imprenditore agricolo serio e non improvvisato, che, insomma, ha fatto tutta la gavetta maneggiando personalmente zappe, pompe, trattori e ruspe, ha ricordato che nel linguaggio contadino campisciàre veniva usato nel senso di spargere adeguatamente la semente nel campo, seminare in modo ottimale.

A quel punto ho provato la stessa sensazione di un chirurgo invertito, cioè, a scanso di equivoci, del primario che, dopo aver fatto eseguire l’intervento dal suo aiuto, sutura il paziente. Con un atteggiamento ancora più ieratico di prima (che ipocrita che sono!) ho sollevato il mio augusto sedere dalla sedia, mentre gli altri non lo facevano con i loro considerandoli, evidentemente, più augusti del mio, e ho emesso a denti stretti la sentenza con questa formula: – In nome della scienza filologica,  in base all’articolo 1 concernente la congruità semantica e al 2 quella fonetica, dichiaro che campisciàre è da campo e non da campare -.

Nel frattempo pensavo alla bellezza della, credo inconscia, similitudine: la sala era diventato il campo e i clienti altrettanti semi che avrebbero dato alla fine il loro frutto, il conto (salato? non è per fare pubblicità, ma di salato in quella sala ci potrà essere, per un eccezionale errore di preparazione, solo qualche piatto … e non vale l’immagine di pollo da spennare praticata da altri conformemente a quanto riportato in nota 1).

Ho mantenuto i denti stretti per un minuto, poi li ho allentati, anche perché nel frattempo i miei ospiti avevano ripreso la cena con una voracità che denotava scarso rispetto per la scienza, ma io non potevo correre il rischio di andare a letto a digiuno …

Sono uno che tende sempre a mettere in dubbio anche le più eclatanti certezze; così il giorno dopo (il vino era buono e certe cose conviene farle a mente lucida …) sono andato a controllare nel vocabolario del Rohlfs, dove il lemma campisciàre (nel terzo volume anziché nel primo, il che dimostra  che è stato accolto tardivamente) reca la sigla L58: significa  che il vocabolo non è stato registrato, è il caso di dire, sul campo, ma è di origine “letteraria”, tratto nel nostro caso da un vocabolario leccese, rimasto manoscritto, di Enrico Costantini; la definizione che l’accompagna è vivere parsimoniosamente. Evidente la derivazione da campare.

Dopo il Rholfs è la volta del Garrisi dove leggo:

campisçiare1 intr.; pres. campìsçiu,… campisçiamu, ecc.; p. rem. campisçiài, ecc.; pp. campisçiatu. Vivacchiare, campare stentatamente: ni basta sta chiesureδδa cu ccampìsçianu basta loro questo poderetto per vivacchiare; teramu a ccampisçiare tiriamo a campare alla meno peggio. [da campare + suff. durat. -sçiare].

campisçiare2 tr. e intr. Condurre al pascolo di qua e di là per la campagna, cambiando spesso di luogo: nu ttene né pàsculi e nné fattizza e lle pècure le campìsçia non possiede né pascoli e né terre lasciate incolte e conduce le pecore qua e là. [da campu + suff. ripetitivo –sçiare].

Si è ripresentato il dilemma della cena, anche se campisciàre2 presenta qualche elemento di contatto col ricordo d’uso di mio cognato.

A quel punto non resta che fare una puntatina in rete, dove3 leggo (mi sono permesso solo di correggere la punteggiatura un po’ casual …): In un tempo remoto, soprattutto nelle famiglie contadine, la carne veniva acquistata solo per Natale, Pasqua e la Festa della Madonna Annunziata. Siccome in questa ricorrenza tradizione voleva (e vuole tuttora) invitare anche i parenti dei paesi vicini, si aveva bisogno di tanta carne. Ma, non potendo permetterselo, era usanza fare le polpette, perché lievitavano (“campisciare” in dialetto tugliese) di più essendo fatte con carne (poca), formaggio grattugiato (poco) e pane grattugiato (molto).

Polpette di pane (2013) Casa Polito
Polpette di pane (2013) Casa Polito

Anche qui campisciàre, tenendo conto del sinonimo lievitare, sembra non avere nulla a che fare con campare e tutto con campo; in fondo appare come la trascrizione dell’italiano campeggiàre usato nel senso di stagliarsi sullo sfondo. Ne approfitto per ricordare che pure campeggiàre nel significato di attendarsi è da campeggio il quale, a sua volta, è da campo.

Per farla completa cerchiamo di risolvere anche un altro dubbio … esistenziale.  Pure campare e scampare sono da campo e secondo me i loro significati nascono da quello non agricolo ma militare della parola d’origine; sicché campare significherebbe alla lettera restare nel campo di battaglia a combattere (cosa che può fare solo un vivo; scampare, invece, uscire (vivo) dal campo di battaglia.

Per me non c’è scampo …: o le cose stanno così o l’interrogativo che chiude il titolo acquista valore affermativo. Per fare il modesto e non certo il furbo dichiaro di propendere per la seconda ipotesi. Ma, alla mia età, quale contributo all’agricoltura possono ormai dare le mie braccia? Avrei dovuto farlo molto, ma molto prima: chissà che cavoli (amari …) , e non finocchi … , sarebbero venuti fuori!

____________

1 Così ho tradotto gentilmente cacciare che alla lettera significa entrarci e  corrisponde alla stessa voce italiana nel senso di spingere a forza, infilare, ficcare; cacciare è forma deverbale dal latino medievale càptia=caccia (Glossario del Du Cange, tomo II, pag. 148, dove sono registrate pure le varianti càcia, chàcea, chàcia, chàsea, càchia, càicia, caça, cassa e i verbi derivati caciàre, chaciàre , caçhiàre caçhàre), a sua volta deverbale dal classico captàre=tentare di prendere, forma conativa di càpere=prendere.

2 Sul suffisso -isciàre vedi: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/01/22/un-relitto-greco-in-latino-in-italiano-e-in-neretino/

3 http://www.tuglie.com/10 domande.asp

 

 

 

 

 

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