di Giorgio Cretì
Lo chiamavano “Muto”, non perché non possedesse il dono della favella, ma perché parlava pochissimo e solo con poche persone. La gente non sapeva dire da dove venisse. Chi si ricordava di quando era arrivato, e chi lo aveva sentito parlare qualche volta, diceva che doveva essere di un paese in fondo al Capo, dalle parte di Gagliano. Tore Capijancu ricordava che un giorno si era presentato alla Petrosa, una sua cisura(1), e gli aveva chiesto se poteva fare qualche prova sopra una spianata di roccia affiorante, coperta solo di licheni e di qualche arbusto. Si era presentato con un piccone da cava, una pala ed un sacco, dentro cui teneva poche sue cose.
Tore non aveva avuto nulla in contrario, perché proprio di quella cutara(2) non sapeva cosa fare, anzi gli aveva dato anche il permesso di dormire nel pajaru(3) costruito alla buona, anche se solido, che serviva da riparo in caso di pioggia.
Così Sante, che questo era il suo nome, aveva iniziato a spianare quella chiancara(4), partendo dalla linea che segnava il confine con la strada campestre. Secondo lui, lì c’era un banco di roccia buono da sfruttare per qualche anno.
Tore non ci credeva perché nessuno aveva mai provato a saggiare la pietra in quella contrada e se ne era andato a zappare in un pezzo di terra, bonificata dalle pietre, che in autunno intendeva mettere a grano.
Sante aveva poi comincialo a tagliare, con fessure a caso, e senza misure, la roccia di superficie. Quindi con la ucca del suo piccone, la parte larga e corta