San Giuseppe e la tradizione

di Emilio Panarese

 

La festa di S. Giuseppe, che a volte precede di poco la Pasqua, è la prima festa di primavera, legata a ricordi di vecchie tradizioni, in parte scomparse, come la taulàte de S. Giseppe* (le tavole col ricco pranzo per nove poveri servito da una padrona devota) e le pagnuttelle benedette con la rituale massaccìciri bbullente/ca fuma de li piatti sbitterrati, consumata la vigilia e chiamata a Lecce cìceri e ttria: taglierini fatti in casa mescolati con ceci e con qualche taglierino fritto spezzettato sopra.

cìciri e tria, tipico piatto salentino consumato nella festività di S. Giuseppe

 

Tutto il Salento per la festività di San Giuseppe

Nardò, chiesa di San Giuseppe, particolare dell’altare maggiore

di Paolo Vincenti

Da Casarano a Palmariggi, da Minervino a Diso, da Sanarica a Poggiardo, da Nardò a Giuggianello, dal leccese al brindisino, in tutto il Salento si festeggia San Giuseppe.

San Giuseppe è uno dei santi più amati dalla comunità cristiana. E non potrebbe essere diversamente. L’umile falegname è il padre terreno di Gesù e riassume in sé tantissimi valori cristiani:  la fede, la castità, la mitezza e la bontà d’animo, la povertà, l’amore paterno. Marzo è il mese in cui la  natura si risveglia dopo il lungo torpore invernale e quindi, fin dalla notte dei tempi, un periodo di transizione, un passaggio fondamentale nel ciclo della natura tra il freddo della stagione che si avvia a conclusione e la dolce brezza portata dalla nuova stagione primaverile. Marzo è il mese di San Giuseppe. Nel Salento, questa festa è molto sentita ed accompagnata da una serie di antiche e coloratissime, oltre che gustosissime, tradizioni culinarie.

La  Taulata de San Giuseppe è uno  dei riti più diffusi di tutto il Salento. Sono tredici le pietanze che compaiono sulla tavolata e ognuna di queste ha una spiegazione: pittule, pampasciuni, alici marinate, legumi, pesce ( pesce frittu o a sarsa), arance, la cuddhura,  l’insalata di San Giuseppe, e ovviamente lu mieru,  il vino rosso; ma su tutte, spicca  la massa di San Giuseppe. E ancora, peperoni, pezzetti di carne al sugo, le pucce, farcite in diverso modo, i lupini, olive nere, ronghetto o stoccapesce, finocchi, maccarruni cu lu zuccaru, ecc.

Il numero delle portate può variare da tredici, come i discepoli di Cristo, compreso Giuda il traditore, a  nove, sette, cinque, a secondo dei paesi; ciò che conta è che sia sempre un numero dispari. Intorno alla tavola, si siedono tredici santi che sono impersonati dagli abitanti del luogo o anche, in alcuni paesi, da altrettanti bambini che devono fare la prima Comunione.

il matrimonio di Giuseppe e Maria in una rara edizione a stampa del XVI secolo (ripr. vietata)

I tredici santi sono: San Giuseppe, la Madonna, Gesù Bambino, San Giovanni Battista, Sant’Anna, San Gioacchino, Santa Elisabetta, San Zaccaria, Santa Maria Maddalena, San Filippo, Santa Agnese, San Giuseppe d’Arimatea, Sant’Antonio, che sono fissi, ai quali poi ogni paese aggiunge i propri santi protettori e altri santi a piacimento, fino ad arrivare al numero di tredici.

San Giuseppe è sempre il primo a sedersi a tavola e, battendo le posate sul piatto, dà inizio al pranzo, anzi alla grande abbuffata. La massa, conosciuta anche come tria, è una pasta ricavata dalla sfoglia di farina impastata con acqua, tagliata a striscioline e mescolata con ceci o cavoli e condita con olio d’oliva e cannella. Che sia con i ceci oppure con i cavoli, non devono mancare sulla massa, come la ciliegina sulla torta,  i frizzuli, delle piccole strisce di massa fritta. Il termine dialettale tria è antichissimo e deriva dall’arabo itrya, che significa “pasta secca”.

La cuddhura, dal greco kollura, ha forma circolare, come la sfera dell’ostensorio, e simboleggia, come il serpente che si morde la coda, il cerchio del tempo che si rinnova; ma il pane è anche un elemento fondamentale della Comunione cristiana e rappresenta, come sappiamo, il corpo di Cristo che si è immolato sulla Croce,  come il vino ne rappresenta il sangue. Su questa specie di ciambella di pane, sono rappresentate la verga fiorita di San Giuseppe, cioè il bastone, un Rosario, e al centro viene messa una arancia oppure un finocchio; queste forme di pane vengono posizionate ai piedi della statua di San Giuseppe o vicino ad un  quadro del Santo.

La leggenda della verga fiorita dice che, quando il Buon Dio cercava un padre putativo per Gesù Bambino, che doveva venire al mondo, inviò un angelo sulla terra; l’angelo convocò tutti gli anziani del paese, i quali si accompagnavano con il bastone, ma solo sul bastone di San Giuseppe fiorirono dei fiori di iris e delle piante di ceci e così Giuseppe fu scelto da Dio come padre del Bambin Gesù. Giuseppe era un umile falegname e, da qui, il suo protettorato sui falegnami e, in genere, su tutti i lavoratori.

il primo piatto tipico della festa di San Giuseppe, i cìciri e tria

Il Santo è, inoltre,  protettore dei poveri e delle persone umili  ed  essendo egli stato sempre casto e morigerato, è anche tutore delle ragazze da marito, che a lui si rivolgono per trovare l’anima gemella . Quando Giuseppe e Maria con Gesù nel grembo ( “Maria lavava, Giuseppe stendeva, suo Figlio piangeva, dal freddo che aveva”, recitava una deliziosa canzoncina che ci facevano imparare a scuola da piccoli), sfuggendo alle persecuzioni di Erode, erano alla ricerca di un posto dove stare, tutti chiusero loro la porta e non riuscirono a trovare una dimora che li accogliesse, se non  una fredda ed inospitale grotta di Betlemme. In ricordo di quell’atto di egoismo ed ingenerosità, quasi a consolazione,  si allestiscono oggi le tavolate di San Giuseppe, cosicché il Santo possa idealmente trovare accoglienza ed ospitalità.

Le verdure sono un cibo povero, che rimanda alla primitiva economia di raccolta, basata sui vegetali. I legumi, soprattutto ceci e fave, oltre a richiamare la verga fiorita di San Giuseppe, rimandano alla religione pagana quando venivano offerte ai defunti le primizie della terra. Il pesce è un rimando a Cristo che, durante le persecuzioni dei cristiani, veniva disegnato, sulle pareti delle catacombe, proprio con la forma di pesce.

Gli altri simboli legati a questa festa sono: la palma, che si associa alla Madonna, ed è anche un simbolo di pace (nella Domenica delle Palme si ricorda il trionfale ingresso a Gerusalemme di Gesù, accolto da tantissime palme festosamente sventolanti); la mano, il bastone e la barba di San Giuseppe;  il serpente, che rimanda al peccato, di cui si macchiò Giuda il traditore; e poi il martello e la scala, che alludono alla Crocifissione. Sulle tavolate, sono offerte anche noci, mandorle, noccioline.

Dovrebbero mancare la carne, i formaggi e le uova, cibi vietati in periodo di Quaresima, caratterizzato dalla penitenza e dalle rinunce, ma non tutti i Comuni riescono a farne a meno sulle loro tavolate.

Immancabili, inoltre, le zeppole. Queste gustose frittelle si associano alla festa di San Giuseppe e sono di origine napoletana.

le zèppole, tipico dolce della festa di San Giuseppe

Inventate dai maestri pasticceri partenopei nel Cinquecento, come dolce del Carnevale, in seguito, nel Settecento, esse si legarono anche ad altre ricorrenze, come soprattutto quella di San Giuseppe, e si diffusero in tutta Italia, quindi anche in Salento.

I fiori che ingentiliscono le tavolate devono essere bianchi e gialli, perché così vuole la tradizione. In molti Comuni, le tavolate, anche dette mattre, sono allestite all’interno delle abitazioni private. Coloro che ospitano le mattre sono fedeli, particolarmente devoti al Santo, magari per avere ricevuto una grazia o perché San Giuseppe è apparso loro in sogno, ed allora  enormi tavolate vengono allestite nel locale più ampio della casa e vengono spalancate le porte per permettere a tutti di entrare.

Nel pomeriggio della vigilia, le tavole vengono benedette dal parroco del paese e il giorno dopo, esse possono fare bella mostra di se ai  visitatoti che accorrono da tutto il Salento.

In alcuni Comuni, alla festa si associa anche la tradizionale “Cuccagna”, un antico gioco di piazza che consiste nell’arrampicarsi su di un palo, reso scivoloso dall’aggiunta di grasso, in cima al quale si trova un ricco premio.

La sera di San Giuseppe si tiene poi la tradizionale focara. Anche queste focare o focareddhe rimandano a riti pagani antichissimi, cioè ai riti stagionali del fuoco, riti di purificazione agraria. Nella società contadina del passato, si usava bruciare enormi cataste di ramaglie nei campi alla fine della stagione invernale; i contadini accatastavano tutti i residui inutilizzati del raccolto dei campi e appiccavano il fuoco, volendo in questo modo, anche simbolicamente, chiudere una stagione, facendo pulizia, e aprirne un’altra. La festa di San Giuseppe diventava perciò l’occasione più propizia . Recitava un detto del passato: La Madonna ‘mpastava lu pane, l’Angelu li purgia la pasta, a San Giuseppe li vinia la fame; “Maria, se su pronte le cuddhure, sciamu ‘ntaula cu manciamu, ieu, tie e lu Signore; chiama puru Gioacchinu e Anna, cusì se consuma tutta sta manna!”.

La zèppola di San Giuseppe

zeppole1

di Massimo Vaglio

La zèppola, è in Puglia e soprattutto nel Salento, il dolce tradizionale della festa di San Giuseppe; invero non si tratta propriamente di un dolce salentino, o perlomeno, non esclusivamente. Questo dolce, è infatti, ormai obiettivamente ascrivibile alla tradizione italiana. Si ritiene, comunque, che sia d’ origine napoletana.

Bartolomeo Scappi, (celebre autore della monumentale: Opera dell’arte del cucinare, Venezia 1570 ) che è primo a menzionarlo, lo descrive come una frittella di farina di ceci, zucchero e uva passa, molto simile alle zeppole che  nello stesso secolo vengono attestate in uso a Napoli come dolce del carnevale. La voce zeppole, in seguito, ricorrerà in molti antichi testi partenopei e persino in un “Privilegio” del Viceré Conte di Ripacorsa. 

Varie fonti scritte e persino delle inequivocabili stampe popolari, segnalano come,  nella  festosa e pittoresca Napoli del Settecento, tale usanza fosse già di dominio pubblico, tanto, che nel giorno di San Giuseppe, i friggitori, per onorare il proprio Santo patrono, si cimentavano all’aperto, su improvvisati banchetti, ma con plateale maestria, alla preparazione delle zeppole. Altre fonti, inquadrano verso la fine del Settecento, attribuendola al famoso pasticcere napoletano Pintauro, l’idea di preparare questi dolci (ricordanti nell’aspetta vagamente i trucioli) nel giorno di San Giuseppe, quale simbolo del Santo falegname. Questi pare che avesse a sua volta attinto la ricetta dal  “Cuoco galante” dell’oritano Vincenzo Corrado (1738-1836), nella cui versione però si presentavano senza crema e con della confettura di amarena al centro,  avendoli appellati, tortanetti di pasta bugnè.

Probabilmente entrambe le ricostruzioni storiche sono attendibili e le zeppole erano già in auge a Napoli, ma nella versione più popolare; semplici ciambelle, fritte e dolcificate, ad uso, come si diceva al tempo,  del popolo minuto. 

Pintauro, quindi, si limitò semplicemente a  migliorarle elevandole così di rango e facendole rivenire un prodotto di pasticceria degno anche dei palati più raffinati.

L’odierna zeppola, salentina, ha peculiarità sue che mantiene inalterate da diverse generazioni, da alcuni anni però il suo consumo non è più limitato esclusivamente alla ricorrenza di San Giuseppe, ma comune in ogni periodo dell’anno, e piegandosi alle ragioni della dieta, si va sempre più affermando l’uso di cuocere le zeppole anche in forno, orrore!!! Mi verrebbe da gridare, permettetemi di esprimere il mio disappunto, e perdonatemi la parafrasi con un noto slogan di caffè : la zeppola, è zeppola! E, se non è fritta, che zeppola è?

Si ritorni pure a mangiarla solo una volta all’anno, ma che non si continui a profanare questo semplice, gustosissimo storico capolavoro dell’ingegno italico. 

 

La ricetta

Ingr. Farina 500 g , acqua ½ litro, uova 10, strutto 100 g ,  zucchero semolato q.b. , sale un pizzico, olio per frittura, strutto, crema pasticcera q.b. 

Mettete sul fuoco, in una casseruola, l’acqua, il sale, e lo strutto. Quando inizia a bollire, toglietela dalla fiamma  ora. Con un sacco a poche, con bocchetta a stella del diametro di circa tre centimetri, realizzate su dei fogli di carta oleata unti di strutto delle ciambelle toroidali di una decina di  centimetri di diametro. Per la frittura occorrono due padelle colme di olio o strutto a differenti temperature; passate le zeppole, prima nella padella con olio a temperatura tiepida, onde si gonfino e si rassodino, quindi passatele nella seconda padella, contenente olio a temperatura maggiore o preferibilmente strutto perché finiscano di cuocere e acquisiscano un’invitante colorazione bruno dorata.

Sgocciolatele, e quando si raffreddano cospargetele di zucchero semolato, e guarnitele, a mezzo della sacca, di crema pasticcera e spolverizzatele di cannella in polvere.

Lo strutto, consigliato nella ricetta, al contrario di quanto si possa pensare, è uno dei grassi più raccomandabili dal punto di vista nutrizionale, in quanto possedendo un punto di fumo notevolmente elevato, alle normali temperature di utilizzo non si altera,  quindi non si ha la formazione della pericolosissima acroleina, una sostanza notoriamente epatotossica, nefrotossica, gastrolesiva  e altamente cancerogena.

Tutto il Salento per la festività di San Giuseppe

Nardò, chiesa di San Giuseppe, particolare dell’altare maggiore

di Paolo Vincenti

Da Casarano a Palmariggi, da Minervino a Diso, da Sanarica a Poggiardo, da Nardò a Giuggianello, dal leccese al brindisino, in tutto il Salento si festeggia San Giuseppe.

San Giuseppe è uno dei santi più amati dalla comunità cristiana. E non potrebbe essere diversamente. L’umile falegname è il padre terreno di Gesù e riassume in sé tantissimi valori cristiani:  la fede, la castità, la mitezza e la bontà d’animo, la povertà, l’amore paterno. Marzo è il mese in cui la  natura si risveglia dopo il lungo torpore invernale e quindi, fin dalla notte dei tempi, un periodo di transizione, un passaggio fondamentale nel ciclo della natura tra il freddo della stagione che si avvia a conclusione e la dolce brezza portata dalla nuova stagione primaverile. Marzo è il mese di San Giuseppe. Nel Salento, questa festa è molto sentita ed accompagnata da una serie di antiche e coloratissime, oltre che gustosissime, tradizioni culinarie.

La  Taulata de San Giuseppe è uno  dei riti più diffusi di tutto il Salento. Sono tredici le pietanze che compaiono sulla tavolata e ognuna di queste ha una spiegazione: pittule, pampasciuni, alici marinate, legumi, pesce ( pesce frittu o a sarsa), arance, la cuddhura,  l’insalata di San Giuseppe, e ovviamente lu mieru,  il vino rosso; ma su tutte, spicca  la massa di San Giuseppe. E ancora, peperoni, pezzetti di carne al sugo, le pucce, farcite in diverso modo, i lupini, olive nere, ronghetto o stoccapesce, finocchi, maccarruni cu lu zuccaru, ecc.

Il numero delle portate può variare da tredici, come i discepoli di Cristo, compreso Giuda il traditore, a  nove, sette, cinque, a secondo dei paesi; ciò che conta è che sia sempre un numero dispari. Intorno alla tavola, si siedono tredici santi che sono impersonati dagli abitanti del luogo o anche, in alcuni paesi, da altrettanti bambini che devono fare la prima Comunione.

il matrimonio di Giuseppe e Maria in una rara edizione a stampa del XVI secolo (ripr. vietata)

I tredici santi sono: San Giuseppe, la Madonna, Gesù Bambino, San Giovanni Battista, Sant’Anna, San Gioacchino, Santa Elisabetta, San Zaccaria, Santa Maria Maddalena, San Filippo, Santa Agnese, San Giuseppe d’Arimatea, Sant’Antonio, che sono fissi, ai quali poi ogni paese aggiunge i propri santi protettori e altri santi a piacimento, fino ad arrivare al numero di tredici.

San Giuseppe è sempre il primo a sedersi a tavola e, battendo le posate sul piatto, dà inizio al pranzo, anzi alla grande abbuffata. La massa, conosciuta anche come tria, è una pasta ricavata dalla sfoglia di farina impastata con acqua, tagliata a striscioline e mescolata con ceci o cavoli e condita con olio d’oliva e cannella. Che sia con i ceci oppure con i cavoli, non devono mancare sulla massa, come la ciliegina sulla torta,  i frizzuli, delle piccole strisce di massa fritta. Il termine dialettale tria è antichissimo e deriva dall’arabo itrya, che significa “pasta secca”.

La cuddhura, dal greco kollura, ha forma circolare, come la sfera dell’ostensorio, e simboleggia, come il serpente che si morde la coda, il cerchio del tempo che si rinnova; ma il pane è anche un elemento fondamentale della Comunione cristiana e rappresenta, come sappiamo, il corpo di Cristo che si è immolato sulla Croce,  come il vino ne rappresenta il sangue. Su questa specie di ciambella di pane, sono rappresentate la verga fiorita di San Giuseppe, cioè il bastone, un Rosario, e al centro viene messa una arancia oppure un finocchio; queste forme di pane vengono posizionate ai piedi della statua di San Giuseppe o vicino ad un  quadro del Santo.

La leggenda della verga fiorita dice che, quando il Buon Dio cercava un padre putativo per Gesù Bambino, che doveva venire al mondo, inviò un angelo sulla terra; l’angelo convocò tutti gli anziani del paese, i quali si accompagnavano con il bastone, ma solo sul bastone di San Giuseppe fiorirono dei fiori di iris e delle piante di ceci e così Giuseppe fu scelto da Dio come padre del Bambin Gesù. Giuseppe era un umile falegname e, da qui, il suo protettorato sui falegnami e, in genere, su tutti i lavoratori.

il primo piatto tipico della festa di San Giuseppe, i cìciri e tria

Il Santo è, inoltre,  protettore dei poveri e delle persone umili  ed  essendo egli stato sempre casto e morigerato, è anche tutore delle ragazze da marito, che a lui si rivolgono per trovare l’anima gemella . Quando Giuseppe e Maria con Gesù nel grembo ( “Maria lavava, Giuseppe stendeva, suo Figlio piangeva, dal freddo che aveva”, recitava una deliziosa canzoncina che ci facevano imparare a scuola da piccoli), sfuggendo alle persecuzioni di Erode, erano alla ricerca di un posto dove stare, tutti chiusero loro la porta e non riuscirono a trovare una dimora che li accogliesse, se non  una fredda ed inospitale grotta di Betlemme. In ricordo di quell’atto di egoismo ed ingenerosità, quasi a consolazione,  si allestiscono oggi le tavolate di San Giuseppe, cosicché il Santo possa idealmente trovare accoglienza ed ospitalità.

Le verdure sono un cibo povero, che rimanda alla primitiva economia di raccolta, basata sui vegetali. I legumi, soprattutto ceci e fave, oltre a richiamare la verga fiorita di San Giuseppe, rimandano alla religione pagana quando venivano offerte ai defunti le primizie della terra. Il pesce è un rimando a Cristo che, durante le persecuzioni dei cristiani, veniva disegnato, sulle pareti delle catacombe, proprio con la forma di pesce.

Gli altri simboli legati a questa festa sono: la palma, che si associa alla Madonna, ed è anche un simbolo di pace (nella Domenica delle Palme si ricorda il trionfale ingresso a Gerusalemme di Gesù, accolto da tantissime palme festosamente sventolanti); la mano, il bastone e la barba di San Giuseppe;  il serpente, che rimanda al peccato, di cui si macchiò Giuda il traditore; e poi il martello e la scala, che alludono alla Crocifissione. Sulle tavolate, sono offerte anche noci, mandorle, noccioline.

Dovrebbero mancare la carne, i formaggi e le uova, cibi vietati in periodo di Quaresima, caratterizzato dalla penitenza e dalle rinunce, ma non tutti i Comuni riescono a farne a meno sulle loro tavolate.

Immancabili, inoltre, le zeppole. Queste gustose frittelle si associano alla festa di San Giuseppe e sono di origine napoletana.

le zèppole, tipico dolce della festa di San Giuseppe

Inventate dai maestri pasticceri partenopei nel Cinquecento, come dolce del Carnevale, in seguito, nel Settecento, esse si legarono anche ad altre ricorrenze, come soprattutto quella di San Giuseppe, e si diffusero in tutta Italia, quindi anche in Salento.

I fiori che ingentiliscono le tavolate devono essere bianchi e gialli, perché così vuole la tradizione. In molti Comuni, le tavolate, anche dette mattre, sono allestite all’interno delle abitazioni private. Coloro che ospitano le mattre sono fedeli, particolarmente devoti al Santo, magari per avere ricevuto una grazia o perché San Giuseppe è apparso loro in sogno, ed allora  enormi tavolate vengono allestite nel locale più ampio della casa e vengono spalancate le porte per permettere a tutti di entrare.

Nel pomeriggio della vigilia, le tavole vengono benedette dal parroco del paese e il giorno dopo, esse possono fare bella mostra di se ai  visitatoti che accorrono da tutto il Salento.

In alcuni Comuni, alla festa si associa anche la tradizionale “Cuccagna”, un antico gioco di piazza che consiste nell’arrampicarsi su di un palo, reso scivoloso dall’aggiunta di grasso, in cima al quale si trova un ricco premio.

La sera di San Giuseppe si tiene poi la tradizionale focara. Anche queste focare o focareddhe rimandano a riti pagani antichissimi, cioè ai riti stagionali del fuoco, riti di purificazione agraria. Nella società contadina del passato, si usava bruciare enormi cataste di ramaglie nei campi alla fine della stagione invernale; i contadini accatastavano tutti i residui inutilizzati del raccolto dei campi e appiccavano il fuoco, volendo in questo modo, anche simbolicamente, chiudere una stagione, facendo pulizia, e aprirne un’altra. La festa di San Giuseppe diventava perciò l’occasione più propizia . Recitava un detto del passato: La Madonna ‘mpastava lu pane, l’Angelu li purgia la pasta, a San Giuseppe li vinia la fame; “Maria, se su pronte le cuddhure, sciamu ‘ntaula cu manciamu, ieu, tie e lu Signore; chiama puru Gioacchinu e Anna, cusì se consuma tutta sta manna!”.

Zèppole e zòppole

Le zèppole tra mito e realtà

di Pino de Luca

Non ci si può sottrarre ad alcuni eventi, tanto sono antichi e tanto perpetuati che fanno parte integrante delle nostre cellule. Da tempo immemore le Idi di marzo rappresentano un momento di passaggio importante nella cultura italica. Il 17 di marzo ricorrevano i “Liberalia” oltre al compleanno della Patria Unita, erano i giorni nei quali “insanire licet.” E in onore di Bacco e Sileno si dava fondo al vino e si cuocevano frittelle di frumento che si condivano con il miele in onore dell’uno e dell’altro operando una sorta di “captatio benevolentiae”.

Da li sembra derivino i dolci tipici del 19 marzo, San Giuseppe Lavoratore. Dolci alteri e aristocratici che, come regine, vestono in questa data gli scaffali delle pasticcerie. Qualcuno ne attribuisce la paternità al convento di San Gregorio Armeno, altri a quello di Santa Patrizia. Altri ancora alle Lucchesi monache della Croce o a quelle dello Splendore.

La prima ricetta trasmessa ai posteri la dobbiamo ad un personaggio della cucina Napoletana: Ippolito Cavalcanti duca di Buonvicino. Così lui

San Giuseppe e la tradizione

di Emilio Panarese

 

La festa di S. Giuseppe, che a volte precede di poco la Pasqua, è la prima festa di primavera, legata a ricordi di vecchie tradizioni, in parte scomparse, come la taulàte de S. Giseppe* (le tavole col ricco pranzo per nove poveri servito da una padrona devota) e le pagnuttelle benedette con la rituale massaccìciri bbullente/ca fuma de li piatti sbitterrati, consumata la vigilia e chiamata a Lecce cìceri e ttria: taglierini fatti in casa mescolati con ceci e con qualche taglierino fritto spezzettato sopra.

cìciri e tria, tipico piatto salentino consumato nella festività di S. Giuseppe

 

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