Epopea del Natale

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di Lucio Toma

 

Che farsene del Natale? Dei personaggi del presepe? Perché dovremmo ancora baloccarci con questo giocattolo? Non ci coinvolge solo il tempo dell’infanzia, per poi essere relegato nelle chincaglierie puerili? Se non possediamo affezioni, barlumi di sentimento verso i riti, perché semplicemente non dimenticarli e lasciarli scomparire? Perché questa ostinazione?

Siamo capaci di viverlo come viene, gustando il piacere di stare insieme, degli abbracci, dei sorrisi, dei regali? Proprio questi sono spesso causa di rifiuto verso una apparato di comportamenti che francamente vorremmo evitare. Nel mezzo di una giostra di pensieri, di voci che discutono, che si tirano da una parte all’altra. Sullo sfondo della battaglia, una macchia di luce (una cometa?), spesso offuscata da nubi di dubbio, come un occhio ci osserva lacrimando inquietudine.

Il lavoro di Wilma incarna questa ostinazione a riproporci la “faccenda”, ma è un’ostinazione soffice e, quello che fa più timore, sincera. I personaggi di “Voci per un presepe” sono sotto l’influenza di un bisogno metafisico. Il punto di vista cristiano non è una limitazione, ma una chiave. Questo è un bisogno che non dipende dalla loro condizione di povertà, non è il loro oppio. È la loro urgenza ad infiammare la cometa, a farne un fenomeno più che astronomico. Se distogliessero lo sguardo dal cielo, se interrompessero i loro passi, la cometa si spegnerebbe all’istante come una stella filante. Si può fare a meno di questo bisogno? Se ne può fare a meno, certo, ma resterebbe sempre in fondo un frammento caldo che pungolerebbe l’animo per tutto il tempo della vita. Nessuno sfugge a questa urgenza tra i personaggi del presepe di Wilma, neppure quelli in apparenza più calcolatori. Sono convinto che sotto la saccenza dello Scriba e l’interesse del Mercante si celi il maggior bisogno. Il loro passo è il più svelto verso la stalla e non per dimostrare l’ignoranza della gente o per la fretta di fare affari. È un malanno da cui i personaggi sono affetti, proprio come lo siamo noi in quanto uomini. Li vediamo alcuni di questi personaggi sulle tavole di Marco Musarò. Scolpiti in blocchi di colore, restituiscono una solidità in cui tutto appare come un mosaico di pietra dura, avvolto dalla morbida luce notturna. Con le sue tavole, ci racconta, in modo personale, i diversi punti di vista, la peculiare sospensione di ogni figura davanti all’insolito avvenimento, che accade in realtà nel firmamento interiore. Possiamo avvisare un silenzio di stupore, un loro pensiero giocoso o di carità, qualcosa di pratico che si dicono sottovoce.

Le voci che si alternano nel libro sono voci di una coscienza unica che oscilla tra incredulità e abbandono, tra il vizio della ragione e l’assurdità del dono. Queste voci, sebbene usino a volte le parole di speranza, p.es “[…] Colui che ci sgraverà dal peso della vita e ci darà ali per volare[…]”, la speranza l’hanno già risolta. I loro passi verso la stalla sono già un volo, carichi di un’energia che li ha riempiti, e ha nutrito il loro bisogno.

La notte del presepe non è una notte silenziosa. Alle voci immaginate da Wilma, se ne aggiungono altre. Non è affatto difficile vedere i musicisti e i cantanti protagonisti del disco aggregarsi ai personaggi del presepe, avvicinarsi piano e sedersi intorno alla culla. E poi incominciare a suonare i loro strumenti, sommare una a una le loro voci per la Strina oppure intonare la ninna nanna per il bambino. Immaginiamo, per puro caso, oggi, di avere l’animo intirizzito, che ha abusato del cinismo, delle sicurezze di una ragione utilizzata con sicumera. Sguainiamo il coltello della ragione, contro nemici invisibili, mentre sono le nostre mani a sanguinare. Cosa potremmo augurare a noi stessi? Rispondono volti amici che aprono la porta, t’offrono un bicchiere, ti fanno accomodare davanti al camino e cantano e suonano con tanta sincera lietezza che vorresti spaccare il bicchiere e fuggire via. Ma è troppo tardi ormai, perché t’è sfuggito il primo sorriso e non puoi più tornare indietro. Ahimè sei a tuo agio, sei fregato e ora vuoi restare nel cerchio che ti sembra perfetto e non importa se auguri o meno buon Natale, sei un ceppo anche tu ora del focolare. Qualcuno maledica la nostra debolezza umana che ci lascia sensibili alla musica, al vino, a un sorriso.

È un disco briccone, che s’insinua nell’orecchio, velenoso. Ci propone la sfacciataggine di temi tradizionali, l’arroganza di lingue minori in via d’estinzione e perfino (sic!) del dialetto. Ci ha preso già la mano e intontito dai ghirigori del fuoco, batti una gamba, o forse lasci andare gli occhi ad una ninna nanna, o ti maledici di non sapere bene le parole di quella canzone lì e poi ti culli sul quel tema di chitarra che è piacevole sentire prolungare ancora e ancora.

Nel disco avviene un incontro luminoso di esperienze artistiche diverse che vivono la propria terra amandola a cuore aperto, a cuore piagato dalla sua modestia, a cuore lacerato dalla sua ricchezza e bellezza svendute per pochi soldi, ma con dignità enorme e forza bellissima. Forse a chi fa il mestiere del musicista in questo angolino d’Italia, sembra delle volte di suonare in una stalla, per pochi zotici accorsi per una curiosità in apparenza molto poco metafisica. Ma il loro bisogno, come quello delle “Voci”, li tiene in equilibrio, li sostiene e loro non lo tradiscono, grazie ad un’ostinazione che sfiora la follia. Sono per noi riferimento, come una cometa alimentata dal calore che questa musica sprigiona. Siamo invitati a metterci in cammino.

Viola fra gli Angeli

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Dev’esser arrivata fino in Paradiso la crisi se così tanti bimbi vengono chiamati in cielo ad impinguare le schiere di angeli e cherubini nunzianti.

Ed è un annuncio che ci costa molto questo, questo sacrificio di bimbi sulla Terra, ed è la sola cosa che fa sgorgare spontanee le lacrime in chiunque si sia indurito nel cammino della vita.

Viola dicevamo, la bella bimba che di angelo aveva le sembianze, capelli biondi ed occhi chiari come il cielo che ha raggiunto in queste ultime ore.

E viene rabbia a dover usare una metafora usata ed abusata nelle morti giovani. Ma come si fa a non ricorrere ad essa, Viola era un Angelo già in terra, per i famigliari che l’hanno avuta in questi brevi anni. Un Angelo certo per i suoi genitori, per quel “papà” che l’ha generata con quei buoni principi di cui è rappresentante e testimone.

Ma non è solo Viola ad essere sacrificata … tanti bimbi di cui non conosciamo il nome, e a conoscerlo avremmo difficoltà a pronunciare, tanti bimbi che, presi da un andare verso terre promesse, non ci arrivano o ci arrivano solo le loro spoglie.

E le lacrime non chiedono permesso … e la rabbia di non saper far niente per impedire questi sacrifici riempie gli occhi e il cuore.

Ci bastavano gli Angeli di sempre, le schiere d’angeli in festa nei dipinti degli artisti più bravi, nelle rappresentazioni di Cristo in Gloria e di Madonne assunte in cielo, negli annunci del Natale.

Bene e Natale sia ! ma una volta nati, li vorremmo tenere qui fra noi, sulla Terra.

Wilma Vedruccio

Mitilo Salentino e le sue scrasce. Come far parlare la natura salentina su Facebook

ph Fabrizio Arati
ph Fabrizio Arati

di Oreste Caroppo

IN TERMINI NATURALISTICI VI E’ UN ALTRO IMPORTANTE “MIRACOLO CULTURALE” PARTITO DAL SALENTO in questi mesi e che sta già ampiamente valicando i confini salentini, diffondendo la sua costruttiva filosofia rinaturalizzante ovunque: parliamo della massima nobilitazione delle erbe spontanee, la loro riscoperta, il ritorno a prestare ad esse massima attenzione, il risveglio della curiosità scientifica e per la biodiversità più in generale, come per la storia naturale!
Un’ attenzione ed una sensibilità antica, che negli ultimi decenni dei criminali agro-nemici servi delle industrie dei diserbanti chimici di sintesi avevano del tutto cancellato, prima nelle menti di tante persone, poi, “de factu”, facendo irrorare tali veleni su piante, funghi e animali (insetti, lumache, ecc.) utilissimi e bellissimi, come ogni specie vivente!
E così oggi quotidianamente nel Salento, e non solo, data la potenza e apertura dello strumento facebook, decine di persone si guardano ovunque attorno, fotografano, come un tempo dipingevano, rapiti da bellezza e meraviglia della natura, postano foto e commentano, ricercano, si informano, scambiano informazioni etnografiche e biologiche, con anche l’amichevole consulenza di tanti esperti delle più varie discipline.


Questo miracolo nasce dalla sensibilità di Mitilo Salentino (Wilma Vedruccio), fondatrice del gruppo facebook di cui discorriamo, intitolato “Fra Le Scrasce”, che ormai conta adesioni innumerevoli e da ogni parte del mondo. Un fenomeno della rete, i cui effetti cominciano a valicare piacevolissimamente la dimensione del social network, e le persone cominciano a scambiarsi semi, a ripropagare piante autoctone di oggi o di un tempo, e non, anche rare e a rischio di estinzione, per salvarle, per restaurare il paesaggio, per la rinaturalizzazione dei luoghi, facendo da esempio e pungolo per le istituzioni pubbliche affinché avviino politiche di scientifica riforestazione, di ricostruzione paesaggistica rinaturalizzante con restauro anche dei beni culturali nel principio “dov’ erano e com’ erano”.

Ed è così che i propri giardini si riscoprono in tutta la loro potenzialità di veri e propri orti botanici, oasi nei deserti artificiali della compromissione, depauperamento e devastazione della natura da risanare, e pertanto centri di ripropagazione e ripopolamento da cui le specie possono ridiffondere nei loro territori antichi; giardini delle meraviglie, e arche di Noè della beatitudine naturalistica!

Anche il termine “scrascia”, in dialetto salentino il nome degli spinosi rovi, aveva, fino alla creazione del gruppo, un’ accezione negativa, che in questa riaffermazione di dignità territoriale e paesaggistica storica e naturalistica, è andata fortemente ridimensionandosi!
https://www.facebook.com/groups/fralescrasce/

Ho voglia di malesciana

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di Giuliana Coppola.

Ci sono delle storie che entrano nell’anima e occupano subito un posto che non facilmente abbandoneranno; fanno parte di te, della tua vita, del tuo modo di essere e di pensare; ti danno respiro anche quando pensi che stai per perderlo lungo la strada; riprendi in mano “La Casa del Sale” di Wilma Vedruccio e tu torni a respirare; vai perché è con te la sua scrittura, le sue sillabe, la sue storie; con te anche Idrusa da non  scordare mai.

Dietro di me il “suo” angelo custode; finalmente non mi fa più paura, accompagna i miei passi, non va via se lo faccio arrabbiare; è sereno e sorridente come gioco di metafore e dolcezza di sillabe, appartiene a tutti; sorride, perché, pur nei momenti più difficili, sorride il segno linguistico nelle pagine di Wilma; lei è la maestra delle immagini che si concretizzano in parole, di segni che generano significati e intanto mantengono leggerezza di muschio su pietra.

“ La luce della luna sulla superficie del mare, un firmamento tra le onde”, un cielo che si capovolge per specchiarsi o forse immergersi sono un miracolo di prosa lirica che cattura arcobaleni e ragnatele e d’un tratto ho voglia anch’io di intrecciare sillabe, spago, paglie, fiori zagareddhe, ho voglia di racchiudermi in un profumo di erbe selvatiche e fieno, di ginestrini in fiore. Per sinestesia lo vedo il giallo delle ginestre e lo sento il profumo, un regalo da parola a parola, da immagine ad immagine; ho voglia della Gianna e della Rossa, ho voglia di malesciana, di perdermi in pleniluni e nel volo d’una coccinella, chè non si perda in me il senso di quella mano e quel sorriso di copertina; ho pensato a lungo a questa immagine, nostalgia di granelli di sabbia; ne ho pieno un pugno e loro scivolano via, piano con il ritmo che io imprimo alla loro danza nel vento; ho nostalgia di valle degli Olmi e di canto di sirena su statale 16. Tota pulchra è Maria, e forse un giorno anche Maria sarà stata sirena.

Mano chiusa per ragnatele di arcobaleni e di pensieri, per “grumi di memoria”, già, ma anche e soprattutto per grumi di speranze e di sogni concreti, da realizzare belli come quinta sinfonia di Mahler che è musica dell’anima e di scrittura in quest’altro Salento che non lascerò più andare ora che l’ho scoperto nelle lucide, misurate, calibrate pagine di Wilma che non conoscono refusi.

La Casa del Sale. Il Salento in termini essenzialmente lirici di Wilma Vedruccio

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 di Elio Ria

 

Viviamo nel tempo dell’affievolirsi della luce in un luogo che era un incanto, un lembo di terra dove non vi era urgenza del fare, vigeva l’orologio della lentezza delle tradizioni, con un sole pacato, un mare azzurro congiunto al cielo, una campagna di alberi d’ulivo, fichi d’india, grano e vitigni, muri a secco, orti e ortolani, sinfonia d’autunno, contadini temprati nell’acciaio della fatica. Questa è la narrazione del Salento, della memoria della gente e del luogo, trascritta da Wilma Vedruccio nel suo libro La casa del sale. Storie di un altro Salento (Kurumuny edizioni).

Un altro Salento. Quello che non è mercificato e riesce a mantenersi nella tradizione orale, svincolato da false ideologie moderniste che fanno perdere il senso di ciò che siamo stati. Che cosa dobbiamo dunque chiederci e fare a questo proposito per evitare il pericolo dell’ovvio? Partire dall’evidenza di tutto quanto è ancora a disposizione dei nostri occhi e della nostra memoria. Non è una questione di verità, né un tentativo di ricerca di un qualunque fondamento veritativo, ma una riaffermazione di un canto corale che nel corso dei secoli si è trasformato in sapienziale esistenza di una gente che non ha mai perso di vista il sacrifico e ha saputo riscattare il dolore dalla brutalità del suo accadere. Gente forte in un luogo che era un incanto. Era. Non lo è più. Il messaggio è fin troppo chiaro: Storie di un altro Salento. Vedruccio nelle sue storie sembra avvertire il sentimento, sempre più acuto, della mancanza di tempo, la fretta che uccide presente e futuro, condensando nella nudità dell’accelerazione l’indifferenza, o peggio la scomposizione di misteri di bellezza naturali in fragili emotività che depauperano la quotidianità di significato.

La Casa del Sale è la casa di un tempo andato, consumato, che potrebbe vivere nella memoria. Era così chiamata in paese, e si diceva un po’ questo e un po’ quello sul suo passato, storie di contrabbandieri, leggende d’amore e di coltelli… Brrr, brividi di paura, che quelle incrostazioni, quelle pietre sgretolate certo non facevano svanire.

La Casa del Sale è il pretesto narrativo per intessere in un ricamo letterario di storie e di personaggi, ma anche di  luoghi mitici e irreali.

La scrittura segue con attenzione l’agire di una comunità intenta sempre alla costruzione di alti significati esistenziali. Altro Salento. Ma anche altre storie che non si ascoltano più, ma soprattutto non accadono, atteso che l’oggetto della tradizione è in continua mutazione per adattarlo ai canoni di una superficiale idea di modernismo.

Il Salento della Vedruccio è il Salento della nostalgia? No! È il Salento poetico di cui si può accertare il suo carattere incondizionato di inestimabile purezza. È il Salento che fa fatica a riemergere, a delineare le sue appartenenze alla tradizione, sconquassato da un turismo ossessivo e compulsivo, scosso dalle insidie delle multinazionali che intendono industrializzarlo e renderlo una ciminiera di fumi che devono soddisfare l’economia mondiale.

Vedruccio ha preso la parola, quella di una volta, per discorrere dell’ideale relazione tra uomo e natura, non per trarne un astratto modello logico-concettuale del Salento ma per tirarsi fuori dalle onnivore strategie e delle pretese consumistiche che vorrebbero il Salento un grande supermercato dove si può comprare il sole e il mare in barattoli. Non ha voluto raccontare idee o fantasmi, ma guardare, respirare, lasciarsi trasportare dal vero tempo, e percepire ancora il profumo dei fiori, l’odore della terra, vedere lo Ionio, i paesi con i campanili che comandano l’aria del tempo, le vie strette e labirintiche, i preti con la veste nera (pochi), le donne timorose di Dio, i rosari fra le mani, le preghiere, le suppliche a Dio e ai santi, le processioni, le bande, le piazze, le comari.

Terra d’approdo

ph Anna Sterpone

di Wilma Vedruccio

La si può trovare a Est, lasciando la litoranea che da S. Cataldo va verso Otranto, annidata su un costone di calcare. Non una torre ma un faro-torre, il faro di Missipezza che ammicca nella notte sul Canale d’Otranto per segnalare ai naviganti alcune secche antistanti su cui cresce, rigogliosa, la posidonia.

E’ la posidonia ad approdare per prima, ad ogni autunno che ritorna, portata dalle correnti del mare ad ammucchiarsi lì,  sulla spiaggetta-porticciolo, ai piedi del faro. Le foglie brune, sminuzzate dal mare, riposano lì, poi non le vedi più, se le riprende il mare.

In direzione Nord si seguono sentieri a strapiombo sul mare, su “scenari mozzafiato” come si usa dire. Bisogna fare attenzione a non lasciarsi distrarre dalla bellezza della costa perché il sentiero può rivelarsi interrotto all’improvviso, inghiottito da una frana provocata dalle piogge o dalle mareggiate.

Ripreso il cammino, un cammino in punta di piedi per non disturbare, si può godere degli odori di stagione: una fioritura di tamerice o di mirto, un mentastro o una santoreggia sollecitati dal proprio calpestio.

E intorno voli, evoluzioni in volo di piccioni di mare, da un nido all’altro, nelle pareti dei faraglioni, cesellate.

Se poi c’è mareggiata, provocata dalla tramontana o dal grecale, il cammino si fa più coinvolgente. Da scalette che fendono la tenera roccia, si può scendere giù al livello del mare e camminare sugli scogli dove approdano le onde.. Estremo e fantastico il percorso, tra un mare mutevole a seconda del vento del giorno, e una roccia color oro che si fa modellare.

C’è il Bastimento, poi il Castello delle Microfate e l’ampia spianata di Acquaduce: qui le acque dolci sotterranee approdano al mare, formando vasche, gallerie, anfratti, dove si può avvertire il gocciolare del tempo e il respiro del mare. Il luogo ideale per la pesca con la canna, per nuotare, per prendere il sole, per meditare.

Se si vuol proseguire si arriva alla punta del Matarico e al costone a sud della baia di Torre dell’Orso con le Due Sorelle.

In direzione Sud da Torre Sant’Andrea, il cammino si fa più intimo, lungo sentieri polverosi d’estate, fangosi poi, dove si possono notare le ossa della terra che affiorano quali carrarecce spontanee e remote.

A lato, cespugli di macchia odorosi in ogni stagione, fioriti all’improvviso anche fuori stagione.

A Est l’orizzonte è solcato da vele e pescherecci, da vecchie petroliere, carghi che rimandano a Conrad e ad avventure letterarie.

Seguono approdi improvvisi,  solitari, per varia umanità, e piccole oasi di sabbia sottile. Aldilà del Canale d’Otranto, a volte, capita di vedere il profilo dei monti d’Albania, che sposta più in là l’orizzonte.

Passo dopo passo si arriva a San Giorgio dove ha inizio una catena di dune che porta a Frassanito e poi oltre, verso Alimini. Radici antiche di ginepro trattengono la sabbia di queste dune maestose sopravvissute al logorio ed alla smania dei nostri tempi e alla furia delle mareggiate.

Una vegetazione spontanea, mediterranea, le ricopre e le infiora e il mare si fa mansueto per non spaventare.

 

Cielo stellato

di Wilma Vedruccio

   L’estate è propizia per alzare gli occhi al cielo nella notte, a osservare il firmamento, più che le altre stagioni. Le notti calde che ridonano il respiro dopo il caldo del giorno, agevolano l’incontro con gli astri, perduti nelle lontananze celesti, smarriti dai nostri orizzonti circoscritti, dimenticati nella smania del vivere, o forse mai conosciuti.

In certe notti, baciate dalla brezza di terra, in luoghi abbandonati alla grazia del buio che avvolge e illumina intorno, può avvenire di perdersi fra le stelle.

Se non si ha fretta, se un po’ di umiltà ci assiste, pian piano prende forma la mappa celeste, il firmamento ci prende per mano e noi, ritornati bambini, ci inoltriamo nelle profondità dell’universo a rincorrere una stella che ammicca lassù…e così, di stella in stella, come gli avi di un tempo, tracciamo segmenti di significato per una geografia astrale, per non smarrire la strada e poter ritornare, novelli Pollicini, su questa terra che sì, ci fa penare ma ci avvolge materna, protettiva e matrigna insieme.

Ma torniamo a perderci fra le stelle per una sera… ecco qui Cassiopea, là il Grande Carro e il Piccolo che si tira dietro la Stella Polare…e noi non più marinai, non carovanieri, non sappiamo che farcene e poi abbiamo il “navigatore”…di altre stelle abbiamo bisogno, fari per l’animo, universo tutto da esplorare, con grovigli di nebulose e buchi neri, e noi incapaci a venirne a capo, non punti di riferimento, non modelli, prospettive nebbiose e incerte.

Storie mitologiche riempiono il cielo, non favolette né telenovele di qualche millennio fa. Miti, netti, indecifrabili, inquietanti. Vita e morte, amori, sacrifici, passioni, gelosie, vendette, capricci e prepotenze son tracciati nella mappa celeste da tempo immemorabile: Orione, Cigno, Aquila, Chioma di Berenice… Un’eredità celeste che attende d’essere goduta da una umanità balbuziente? E’ nel cielo il bandolo della umana psiche?

Troppe domande, troppi problemi per un’esistenza così breve da vivere, ricca di tesori da riconoscere, ammirare e godere in un tempo di cui non ci è data certezza, tempo che non possiamo governare, che scivola via dalle mani e forse s’accumula lassù, nel buio fra una costellazione e l’altra, quale riserva per l’umanità futura, una “previdenza” astrale.

No, troppo difficile trovare una ragione… e già il sonno appesantisce le palpebre… guarda lì una stella cadente! Non una stella, sai, un meteorite.

Sì, va bene, ma hai espresso un desiderio? No, non ne ho avuto il tempo…

Luigi, madonnaro e distributore di santini

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Manuela Tommasi : -Luigi de Giorgi con i santini alla festa di san Brizio

di Wilma Vedruccio

 

Il web sa accendere buoni sentimenti, anche se crederlo ci fa sentire creduloni.

Muore un povero madonnaro, in circostanze prevedibili, la notizia vola sul web e ci ritroviamo in tanti a condividere una tristezza infinita.

Madonnaro e distributore di santini. Ne aveva sempre tanti fra le mani, non sempre erano del santo festeggiato proprio quella volta.

Luigi arrivava per tempo con la sua bici, la piazza assolata e ancora vuota. La banda addossata a far la siesta in quella striscia breve d’ombra, coincidente col campanile o la chiesa, che si trova in ogni piazza di paese, nell’estate inclemente salentina.

Delimitava la sua zona d’azione, molto prossima alla chiesa, se non proprio sul sagrato, e cominciava a tracciare la sagoma del santo di turno.

Mescolava poi i colori di gesso per dar corpo al manto della Madonna o del Santo, su piani stradali sconnessi e scuri, lavagna ostile su cui impressionare una qualche santità.

I lineamenti lasciavano un po’ a desiderare, bisognava immaginarseli, ma i simboli c’erano tutti, riprodotti dalle figurine che da sempre riempivano le sue tasche.

Procedeva serio nel suo impegno ma non disdegnava di rispondere con un sorriso a chi gli rivolgesse un’attenzione.

Rimessosi in piedi, ripulite alla buona le mani sui pantaloni, sistemato il berretto in testa, fa ora il giro fra i tavolini del bar mentre la banda riempie la piazza delle romanze più popolari…celeste Aida…che gelida manina…sono un barbiere di qualità…

I santini girano ora fra le dita della gente buona, c’è ancora qualcuno che abbozza un bacio all’icona, altri infastiditi allontanano il nostro uomo, se non con brutte parole, con un gesto della mano.

Lui va oltre con passo incerto e veloce, sorride a chi lo saluta amichevolmente e gli rivolge parole scherzose. Farfuglia parole di risposta.

Uno scambio di battute col venditore di noccioline, una visita veloce in chiesa per salutare, e poi via verso casa, a cavallo della sua bici.

Questo per tutte le feste di paese nel Salento, dove si fa fatica a contare i paesi ed anche i santi.

Fino a ieri sera, festa di San Brizio a Calimera.

Morte annunciata si diceva, un annuncio che Luigi, il nostro madonnaro, non ha saputo o voluto cogliere per tempo.

E la sua bicicletta col faro in aria, a illuminar le stelle che approfittano dell’assenza della Luna.

Ora in paese son commossi tutti, si prepara a festa la via del suo viaggio finale, con scritte e disegni che ne commemorano le gesta, improvvisati madonnari, con mani sporche di gesso e gli occhi umidi di tristezza.

E un po’ di rabbia in cuore.

Sergio Potenza: -Luigi de Giorgi, il madonnaro
Sergio Potenza: -Luigi de Giorgi, il madonnaro

Borgagne. Borgoinfesta?

 

Borgagne. Ph Raffaele Puce
Borgagne. Ph Raffaele Puce

di Wilma Vedruccio

 

Un sogno ad occhi aperti, di Angelo Pellegrino, diventato un sogno collettivo.

Una scommessa che ogni anno si rilancia sul tavolo da gioco.

Un contagio, se lo sguardo vuol essere negativo.

Una clessidra, dove la polvere d’oro dei giorni di un’intera annata passa dalla strettoia dei giorni di festa e s’ accumula sul fondo quale capitale d’energia per l’anno che verrà quando la clessidra sarà capovolta.

Ma i giorni della festa !!

Rimane il piacevole stordimento della musica ascoltata, una valanga di foto che vorrebbero fermar quei giorni, aneddoti da raccontare.

Resta il gusto di ciò che si è mangiato, ma la ricetta sfugge, bisognerà attendere il prossimo anno per riassaporare piatti che arrivano da tempi di una volta, fino alle nostre moderne papille gustative.

Resta la frenesia della danza nei muscoli e nell’animo sia di chi ha provato la gioia e lo stordimento del ballo collettivo, sia di chi ha solo guardato la folla palpitante pulsare al ritmo della pizzica e di altra musica mediterranea che dalle tarantelle si è lasciata contaminare.

Rimane, in chi è avanti negli anni, la speranza di poter esserci ancora in questa dolce follia collettiva.

Resta l’orgoglio di aver vissuto giorni da città d’arte, respirando la polvere sollevata dagli scalpellini che intagliano la pietra e visitando mostre con istallazioni da provare a capire e a spiegare a chi non c’era.

Di quei giorni rimane il gruzzoletto delle monetine della Solidarietà che assume dignità di ricchezza nella lontana Africa del Benin, nell’orfanotrofio di Ouenou, dove sarà speso per la sopravvivenza.

Alla Comunità del Borgo resta la consapevolezza che si può smovere la crosta dei secoli se si mettono insieme le idee, i progetti, le energie, da condividere per avere tutti insieme un più ampio respiro.

Infine  Borgoinfesta è…la festa che apre le porte alla stagione estiva.

 

Wilma Vedruccio, una scrittrice che sa vedere l’essenziale, invisibile agli occhi

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di Fausta Genziana Le Piane

 

Poco importa che ognuna delle protagoniste della sezione  “Ritratti” del recentissimo libro di Wilma Vedruccio edito da Kurumuny, 2013, proponga un aspetto del Salento: la carnalità di Carmela, “I capelli biondi di Carmela”; il barocco del putto della Pala di Santa Lucia di Lorenzo Lotto, “Il bimbo di Lotto”;  la seduzione, la malizia e la vanità della protagonista de “La casa del Sale”; l’archetipicità di Maria (Maria); la punta di follia di Cocettina; la gioiosità e l’ingenuità della ragazza di copertina… Tutte sfaccettature della femminilità e del Salento che restano indelebili nella memoria.
Poco importa che “Naturalia” ci rinfreschi gli inimitabili panorami – anche dell’anima – del Salento contadino vissuto attraverso ricordi arcaici, ritmi e abitudini di tempi antichi, lunghi e silenziosi (“Orti “, p. 70): “A far bello il Salento, orti e ortolani (…) In primavera la terra, lavorata da mani di antica sapienza, diventa grassa, umida, promettente e le giovani piantine, allineate in filari con grande precisione, incoraggiate da poche gocce d’acqua, crescono in poche settimane, si spandono sul terreno, s’arrampicano a sostegni di fortuna, brillano col loro verde nuovo al sole, promettono frutti e maturano ortaggi e legumi già ai primi giorni dell’estate”.
E’ che in verità in questa ultima raccolta di racconti, il Salento – terra amatissima dalla scrittrice dove è nata, dove vive e dove si “agita”, come lei stessa afferma – è vissuto e amato attraverso un’esplosione dei sensi, di tutti i sensi. Si legga, per esempio, il racconto intitolato “La domenica di un laico solitario” in cui il rapporto con il mondo esterno è ritmato dai sensi: il protagonista va in bicicletta a sentire l’odore della terra dopo la pioggia, a vedere le piantine appesantite dalle gocce d’acqua che dondolano piano di benessere (…) Poi c’è la radio che offre la sua migliore programmazione proprio nel mattino domenicale, bisognerebbe stare col fiato sospeso senza far nulla, per ascoltare (…) Come è buono l’odore della roba lavata, sa di nuovo, sa di leggero come un corpo rinfrancato. Come un’anima nuova” (p. 22). Ancora, in “Delle colombe il non volo”: “La magnificenza di Dio si sarebbe rivelata ai loro occhi, alle loro ali, in tutti gli odori, nella varietà dei sapori, nella varietà delle forme” (p. 41).
Nei racconti si avverte una tensione continua, una volontà, un desiderio, un impegno alla perfezione, alla Bellezza, all’assoluto. E’ così anche per Dio – “Il divino pittore”, p. 44 – nella sua Creazione: “Sulla tavolozza i soliti colori base, erano le sfumature il suo esercizio preferito su cui si ostinava da tempo alla ricerca della pennellata pura per cui poter dire: “Ecco, era proprio questo che cercavo di fare” (p. 44). E’ così per il cane fedele al padrone che non lo vuole più perché è fedele a se stesso (“Randagio”, p. 34). E’ così per la stessa Wilma impegnata, tesa fino alla ultima fibra del suo corpo anche attraverso Facebook a difendere la sua bella terra e a smascherarne abusi e brutture.
Infine, questa raccolta è sotto il segno del sole presente non solo nei titoli  (“Prima del sole”) ma  che è protagonista di ogni racconto. Sole, manifestazione della divinità che ha benedetto questa terra. Sole, energia illuminante, fonte di luce, di calore, di vita.

Wilma Vedruccio, La casa del sale – Storie di un altro Salento, Edizioni Kurumuny, 2013

La Casa del Sale

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di Giuseppe Resta

 

Per me, in una scrittura, è molto importante entrare nel ritmo del respiro che emana, nel battito del cuore che l’ha ispirata. Per me, le pause sono importanti come i pieni. Come in architettura, come in musica, come dappertutto ci sia arte: tutto è una sequenza di pieni e di vuoti, di luci e di ombre, di frasi, di virgole di punti. Un equilibrio di presenze ed assenze.

Se, quando inizi a leggere, trovi immediatamente la sintonia di battito e respiro con lo scrittore te ne innamori subito, lo assimili, lo metabolizzi. I concetti, le storie, i messaggi vengono dopo; prima il ritmo.

Questa sincronia di respiro, questa empatia di ritmo è stata la prima cosa a colpirmi della scrittura di Wilma Vedruccio, subito dopo aver preso il libro LA CASA DEL SALE in mano ed averlo iniziato a leggere dall’incipit del primo racconto. Ché poi non sono racconti, nel senso di piccole storie indipendenti. Anche se a me i racconti intrigano tanto, perché son come gli spot pubblicitari fatti bene: in pochi secondi ti devono veicolare una storia, un ambiente, una sensazione o stato d’animo. Nel piccolo si deve coagulare il grande. E ci vuole maestria.

Il Romanzo ha tempo per dipanarsi, per descrivere, per svolgere; il Racconto è sintesi. Il racconto è Giulio Cesare: veni, vidi, vici. Tutta sostanza liofilizzata, ma senza perdere odori sapori colori, suggestioni, storie. Non sono racconti, si diceva, quelli nella Casa del Sale: sono parti di un unico grande affresco. Parti per gli strumenti di un’unica sinfonia. Ogni voce, ogni timbro serve a comporre armonia, colore, suggestione. Come i particolari di un quadro di Hieronymus Bosch, dove ogni personaggio è una storia, una metafora, un’allegoria e tutti concorrono nel formare un dipinto corale e complesso. Se vogliamo lasciare l’ “Alto” e sprofondare nel “Basso” della comunicazione, passando dalla pittorica alla fumettistica, possiamo pensare alle grandi tavole di Jacovitti: intrecci di personaggi singolari e di particolari eterogenei, di objet trouvée che diventano parti di un tutto inscindibile, con un suo ritmo grafico, senza soluzione di continuità; con un proprio indiscutibile “timbro”. Così le storie degli uomini e delle donne – quelle che poi preferisco- si alternano ai punti di vista degli animali o delle cose, dai mitili, ai cani fino alle coccinelle ed alle pietre stesse.

Si delinea così un paesaggio dell’anima, una geografia dei sentimenti, che trova spazio in un Salento minore, quello degli antichi piccoli borghi, delle liturgie di una volta, di quei riti domestici dignitosi e silenti, rispettosi dei tempi lenti della ruralità, e dell’incanto di un paesaggio archetipo e ancestrale. Personaggi arcaici, o di sempre, si affacciano in questo microcosmo panteistico con la discrezione di ospiti desiderati. Infondendo pace.

La prosa si veste di coefficienti poetici, senza travestirsi di involuti effettacci verbali, di trovate letterarie artificiosamente stupefacenti, ma rimanendo nella poetica delle piccole cose, nella scorrevolezza di un tratto semplice e lineare, limpido come un orizzonte marino in una giornata di vento freddo da tramontana. La Natura Madre, si veste di incanto, diventa accogliente e provvidente, si fa curare e coltivare secondo le descrizioni minute e accorte, ma mai pedanti, di una sensibilità femminilmente materna. Panteismo, dicevo, coralità e armonia tra uomo, animali e natura.

Uno sguardo che diventa un abbraccio di questo mondo che fa sfondo a questi piccoli cammei, dove il Salento è certamente personaggio coprotagonista, presente ma non invadente, ma che, si suppone, la sensibilità e la delicatezza della scrittrice potrebbe benissimo esprimersi altrove, su altri territori, con altri orizzonti ma con uguale sensibilità, purché si senta pienamente a casa. Perché, come scrive Josephine Hart nell’incipit de “il Danno”: “C’è un paesaggio interiore, una geografia dell’anima; ne cerchiamo gli elementi per tutta la vita. Chi è tanto fortunato da incontrarlo, scivola come l’acqua sopra un sasso, fino ai suoi fluidi contorni, ed è a casa” .

 

 

 

La casa del sale. Storie di un altro Salento

wilma

La Casa del Sale è un’antologia di storie, di racconti che narrano di un altro Salento e di un tempo sospeso nello spazio dell’anima. È difficile quanto inutile cercare il confine tra racconti e ricordi autobiografici a cui l’autrice attinge come a uno scrigno segreto, che custodisce frammenti preziosi che diventano nella scrittura ricami di arazzi introvabili.

Pur conservando la sua unitarietà nell’ispirazione della scrittura, il libro consta di cinque sezioni: Ritratti, Fantasticherie, Naturalia, Istantanee, Miscellanea. A ognuna corrisponde una raccolta di scritti su argomenti diversi e davvero dei più vari, dall’arte alla musica, dall’autobiografia al sogno. E così l’autrice ci accompagna in un Salento che a volte si fa paesaggio ben definito, territorio con tutte le sue delizie e le sue croci, a volte sfuma fino a diventare un anfratto nascosto dell’anima.
Nell’ultima parte del libro, l’autrice ha voluto ospitare alcuni racconti di un caro e giovane amico, Lucio Toma, la cui scrittura ben si integra con il resto dell’opera, e senza nessuna frattura, gli ultimi tre racconti costituiscono una sorta di epilogo in bilico tra sogno e realtà.

 

LA CASA DEL SALE
Storie di un altro Salento

 

In appendice tre racconti di Lucio Toma

 

ISBN 978-88-95161-93-8
cm. 15×21; 164 PAGINE; € 13,00
Collana: Racconti

 

Lo sguardo di Oreste

oreste caroppo

di Wilma Vedruccio

 

Scrivevo così di Oreste Caroppo, conosciuto sul web, rincorrendo ora uno ora l’altro, dei suoi tanti interessi, per cercar di capire.

Uno scritto che pensavo un po’ fantasioso, per metter insieme alcuni indizi che si potevano cogliere dai suoi appunti, dagli articoli numerosi, dalle posizioni sull’uso del nostro territorio.

Poi è arrivata la strabiliante notizia, diffusa dalla stampa locale: la presenza, nel nostro territorio, dell’unico esemplare di una Quercia unica al mondo, denominata “Quercus Caroppoi ” dagli studiosi dell’Università del Salento.

 

Lo sguardo di Oreste

Era stato sempre così, fin dalla scuola elementare.

Aveva avuto un bel da fare il suo maestro a tenere a bada quell’alunno che squarciava l’orizzonte dell’aula a ogni lezione per proiettarsi nell’ampio mondo geografico, senza frontiere, senza il rispetto dei tempi convenzionali ma come a bordo della macchina del tempo.

Apportava dunque correttivi alla lezione svolta secondo i programmi, ma non il giorno dopo, dopo approfondimenti nel pomeriggio ovattato fra le mura domestiche e colte… no, subito, lì per lì, partivano le domande, i distinguo, le precisazioni a cui il maestro, preoccupato all’equilibrio della classe intera, provava a porre un argine.

Erano domande, prospettive inusitate che offriva e pretendeva risposte rigorose, non gli importava se i compagni seguissero le sue traiettorie, contava su una certa naturale fascinazione che faceva sì che avesse seguaci fedeli pronti a tutto. Per non dire delle femminucce, si schieravano in suo favore a prescindere, senza neppur sapere il motivo del contendere.

Qualche problema cominciò ad averlo alle superiori, ai professori non andava a genio che ne sapesse più di loro…era imbattibile se si trattava del proprio territorio, pareva aver vissuto prima in un’altra vita, tanto ne sapeva. Le visite al museo erano frequenti, presso la biblioteca comunale era di casa, ma soprattutto era a cavallo di una vecchia bicicletta che il mondo circostante gli svelava i suoi intriganti e fascinosi segreti.

Metteva in relazione i segni, ipotizzava, cercava il conforto nei libri, forzava un po’ la mano… e giungeva a conclusioni che potevano essere diffuse con probabilità e certezza scientifiche.

Forzava la mano? Solo per dare alimento a certe sue teorie che pareva non stessero in piedi e a cui teneva molto, col tempo sarebbero state accettate e si poteva così esplicitarle bene. “Discorsi utopici” tagliava corto il professore al quale non andava che nello svolgere la sua funzione istituzionale di insegnare, potesse offrire il più piccolo spiraglio per una qualunque innovazione, anche solo linguistica.

Ma Oreste non mollava…alla prima interrogazione utile si presentava armato di citazioni, riferimenti dotti, documenti. Presa la parola non accennava a privarsene se prima non avesse esplicitato interamente la sua ricerca con uno argomentare dialettico che era difficile interrompere. Nel rispetto dei ruoli e delle regole.

Intanto, fra una disavventura scolastica e un successo, portava avanti il suo personalissimo percorso di conoscenza del mondo circostante. Non tralasciava di cogliere ogni segno, storico, geologico, scientifico che fosse. Tracciava collegamenti fra un sentiero, un menhir, un’ icona campestre.

Spiava covate e germogli, riproduceva pianticelle da semi raccolti nella passata stagione, contava i nidi…e sognava di veder la gallinella d’acqua raggiungere senza paura una pozza d’acqua sorgiva nel bosco dei Paduli.

Sognava di veder attraversare i cieli da una stuolo di cicogne, studiava le rotte migratorie e ipotizzava che i volatili avrebbero prima o poi dato una regolatina al loro natural “navigatore” per soddisfare il suo grande desiderio di vederli nel cielo cittadino.

Risvegliava la memoria di animali belli ed estinti nel panorama dell’oggi ed arrivava a prevederne il ritorno se solo avessimo rimosso qualche bilio-tonnellata di cemento e di asfalto dalle nostre mortificate contrade.

quercus caroppoi

Sognava, oltre a cieli da “Popolo Migratore” , oltre a boschi e terre da epoca precolombiana, sognava comportamenti corretti fra la sua gente: no alla corruzione, spese inutili, clientelismi…si appellava a un buonsenso, raro quale merce preziosa, alla professionalità, al rigore, sempre più sconosciuti.

Lo sguardo di Oreste aveva pian piano offerto scenari agli occhi di tanti conterranei, erano scenari semplici di cui solo i più anziani avevano memoria, ed ora erano in più a sognare, sognare… che tornino a volare le cicogne, che l’acqua sorgiva torni a scorrere, che si possa sentire il canto delle gru sui tetti di città garbate. E pur io mi ritrovo a sognare.

 

 

L’uomo della “conza”

 

di Wilma Vedruccio

Da quando sua madre disse “tocca porti lu pane a casa, fiju miu”, aveva allora undici anni suppergiù, aveva impastato  malta senza posa.

Impastato e trasportato malta fino a quindici, venti anni e poi per sempre.

Aveva visto crescere case d’ogni tipologia, secondo la moda del momento, a seconda delle possibilità te li cristiani, case che s’allargavano sempre più dal centro fino a che si parlò di “centro storico” e di periferia.

Era il primo a darsi da fare sul cantiere, fin dalla mattina presto impastava e impastava e poi era pronto a servire. “Conzaaa” e lui correva con il secchio o la carriola a portare l’ impasto che faceva crescere i muri e teneva saldi i mattoni per sempre. Gli piaceva quell’ impasto, grasso, morbido e traballante, somigliava alla pasta del pane, somigliava…alle mammelle della madre quando allattava il piccolo di casa.

Crescevano crescevano le case e lui sempre a correre per portare malta.

Si accorgeva a volte che un albero da frutto era sparito… ma era qui l’anno scorso, avevo mangiato buoni fichi per merenda…ora non c’era più…

Anche l’albero di noci, bello grande era sparito, e lu pajaru anche…più…

Le case intanto non erano più case ma casamenti alti, grandi e brutti, per decine e decine te cristiani, crescevano veloci in pochi mesi, tutti uguali.

Anche la conza non era più la stessa, lui non poteva farci niente, il capocantiere gli aveva detto più volte di aggiungere acqua, di allungare…

Il capocantiere, il geometra, l’ingegnere, l’architetto ( questo prima non c’era), ora arrivavano con macchine sempre più grosse, grandi come le case di una volta, lui andava e veniva con la bicicletta, gli bastava, e poi il vento sulla faccia e fra i capelli gli portava via un po’ del tufo che li incrostava.

Certo che il tufo lui se lo portava sempre appresso, non lo abbandonava mai, anche durante le feste del paese, aivoglia a lavarsi e mettere la camicia nuova, la conza gli stava appiccicata fedelmente. Le ragazze ridevano di lui.

Quando la periferia non ebbe più fine, il nostro amico lasciò di fare conza. Suo nonno, benettanima, gli aveva lasciato una piccola zona nicchiarica, meno di un’ara, lontana da ogni strada. Lui la spietrò e si costruì un rifugio a secco… senza conza. Coltiva fiori e pomodori insieme ed è felice.

Wilma Vedruccio

Wilma Vedruccio

Wilma Vedruccio nasce ad Uggiano la Chiesa il 1949 e consegue l’abilitazione magistrale presso l’Istituto Magistrale “Pietro Siciliani” a Lecce, nel 1967.

Trascorre la sua vita lavorativa, fino al 2011, nella scuola elementare.

Pubblica :

“Voci per un presepe” (Zane 1999)

“La Poesia della Natura nella Bibbia” (Congedo 2003)

“Sulle Orme di Idrusa” (Kurumuny 2012).

 

Incontra per buona sorte Fondazione di Terra d’Otranto, dove vengono ospitati i seguenti articoli e racconti brevi :

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/05/06/idrusa-bambina/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/05/11/paesaggio-dellanima-2/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/05/19/terra-dapprodo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/05/21/il-vento-di-tramontana-soffia-ancora-sulla-brindisi-ventosa/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/06/16/la-signora-degli-ulivi/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/07/02/the-drummer-boy/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/07/06/lungo-il-sentiero-delle-saline/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/07/23/maria/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/07/26/delle-colombe-il-non-volo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/08/04/pensieri-di-luna/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/08/06/lo-cu-lu-bicchieri/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/08/08/fuochi-dartificio/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/08/18/cielo-stellato/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/06/il-guardiano-dei-tacchini/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/09/lestate-del-padre/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/11/luomo-della-conza/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/24/colto-di-sorpresa/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/10/01/un-corriere-daltri-tempi-luvigi-te-love/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/10/10/borgagne-bel-suol-damor/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/01/24/fresco-by-antonio-de-vito/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/04/26/libri-sulle-orme-di-idrusa/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/04/28/idrusa-ritrovata/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/06/01/a-borgagne-sulle-orme-di-idrusa/

Fresco by Antonio De Vito

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di Wilma Vedruccio

Le festività natalizie permettono di rivedere amici, lontani dal Salento.

Così è stato con Antonio de Vito, che avevamo lasciato fra i severi muri della torre Matta ad Otranto, nell’agosto del 2011, volto fra i volti bizantini dei suoi affreschi. Insieme a Lisa Bouvier che nel Salento è ormai di casa.

Chiediamo ad Antonio di aggiornarci sul suo cammino di artista di affreschi, di parlarci dei suoi prossimi impegni e lui, prima di svelare ciò che ha in programma, fa una premessa, ha urgenza di dire…

«Con la nostra forza … bisogna superare la paura e partire con coraggio…

«È una sfida … bisogna affrontare, rilanciare e si riesce… Siamo nella fase della maturità, abbiamo dalla nostra l’esperienza, la capacità di controllo e di risoluzione dei problemi.

«Prendi coscienza di quello che c’è, che puoi fare o, più giusto, di quello che non puoi fare.

«Il materiale c’è, la storia c’è, le opere ci sono … ma per andare avanti, bisogna che si faccia un altro lavoro … economicamente è difficile continuare da soli.

«Io non ho mai creduto nell’intervento delle amministrazioni, a sperare in esse finisce che impigrisci, lamentarsi poi … non lo sopporto…

«Ho la consapevolezza che si può portare quest’arte dell’affresco, molto moderna, arte bizantina, ad una certa appetibilità dei fruitori, il solo modo per non aver bisogno dell’intervento pubblico delle Istituzioni, è creare un interesse verso l’arte in modo che la gente ci vada da sé alle mostre. Manca la promozione dei fatti d’arte. Manca la consapevolezza della loro preziosità.»

Perché dici “moderni” degli affreschi bizantini?

Lisa: «Perché con linee molto elementari riescono a raffigurare financo la spiritualità, ricchi di decorazioni … stilizzati molto. In Matisse una parte della sua arte viene dallo studio sui Bizantini; Chanel, lo stilista, ha messo su una collezione ispirandosi all’arte bizantina.»

Antonio: «A questi motivi si aggiunge il Tempo che è passato e allora, in senso moderno, i segni e i segreti sedimentati nell’arco dei secoli, in essi noi leggiamo scritti, preghiere, forme di devozione … che si sono succedute.»

La premessa, a questo punto, è ormai superata. Superato anche l’inciampo dell’emozione, Antonio de Vito, maestro di affresco, comincia a dirci di ciò che va facendo, a svelare il segreto della sua prossima mostra.

Antonio: «Avevamo fatto un progetto su Michelangelo…»

«Era inevitabile, trattandosi di affreshi, non arrivare a Michelangelo…» commenta Lisa Bouvier

Antonio: «Eravamo in contatto con persone di Taiwan … volevano la mia mostra perché eravamo in grado di offrire la didattica dell’affresco, realizzerò in sede di mostra alcune parti del Giudizio Universale.

«Candidamente ci hanno chiesto se potevamo portare i disegni originali di Michelangelo…

«Fare una mostra con i disegni originali di Michelangelo era assolutamente una cosa inedita … sembrava impossibile … ma poi abbiamo osato.

«Siamo andati direttamente alla Fondazione Buonarroti, per chiedere.

«A Loro è sembrato fattibile ed interessante ed hanno accettato, previa consultazione e previo consenso della Commissione Scientifica della Fondazione. La mostra vedrà ben 14 disegni originali del Maestro.

«Vista corta della gente locale?» Torna a chiedersi Antonio de Vito, pittore di affreschi, nativo di Alessano del Capo.

«La finalità di questo progetto non è cambiata rispetto a quella del progetto salentino sugli Affreschi Bizantini: far conoscere un’Arte che, in realtà, non è complessa per quanto può sembrare e la mostra dà la possibilità di “vedere, toccare, conoscere ed innamorarsi della tecnica dell’affresco” che è poi la finalità didattica.

«Ai promotori della mostra di Taiwan il mio progetto è piaciuto, hanno la necessità di far conoscere Michelangelo e noi andremo a Taiwan, il 26 gennaio ci sarà l’inaugurazione della mostra in cui ci saranno dettagli significativi della Cappella Sistina a grandezza naturale.

«Oltre i miei affreschi, oltre ai disegni originali di Michelangelo, la mostra prevedeva anche la Scultura del Maestro…

«Altro grosso problema … cosa portare? fotografie … non mi convincevano … come fare? abbiamo fatto un altro passo avanti: calchi, calchi originali delle statue! Una nuova avventura…

«Abbiamo cercato i calchi originali fatti nell’ottocento e abbiamo ottenuto che da questi si rifacessero statue per noi. Sono state realizzatele statue del David, la Pietà di Roma, la Pietà Rondanini, il Bacco ed altre più piccole.

«Da un’idea ci siamo trovati a gestire l’universo Michelangelo!

«Cosa succede? Gli interlocutori hanno concordato e le cose si son fatte.»

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Buone prospettive, aspettative alte, dunque, a Taiwan?

«L’aspetto didattico unito all’aspetto “sacrale” (la presenza dei disegni originali inediti) ha reso la mostra appetibile ad un pubblico eterogeneo e … così lontano. Una nave-container è in viaggio e speriamo che arrivi…»

Ci siamo così ritagliato un ambito nel campo dell’arte, Antonio?

Risponde Lisa: «La sua particolarità è quella di studiare l’arte dell’affresco praticandola, reinterpretando gli affreschi dei Grandi Maestri, tanto da entrare nelle mani e nello spirito dell’artista, si possono carpire così aspetti diversi dell’artista oggetto di studio.»

Antonio: «Non è solo un fatto tecnico, ci si rende conto delle strategie espressive … quell’occhio … quella bocca … ti ritrovi a fare uguali alcune cose non perché stai copiando ma perché la tecnica lo impone.»

Dopo Taiwan?

«Un altro museo, il museo di Kaohsiung, si è fatto avanti per richiedere la mostra, con altri disegni originali.»

E dopo l’Oriente?

«C’è all’orizzonte l’America, dove approderà Michelangelo», secondo il salentino Antonio de Vito.

Il Salento?

«Il discorso, lasciato sospeso, sugli Affreschi Bizantini, sarà ripreso con tutto il bagaglio di esperienze, non solo tecniche ma organizzative, fidando in una maggiore collaborazione. Si può veramente osare.»

Gennaio 2013      

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https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/08/03/antonio-de-vito-segni-e-segreti-negli-affreschi-del-salento/

 

Borgagne – Bel suol d’amor

Borgagne su una tela del ‘600

 

di Wilma Vedruccio

Per molto tempo Borgagne non è stato il mio paese, era il paese di mia madre, il paese dei nonni materni che coltivavano garofani in vasi di fortuna, nel loro giardinetto dietro casa, con al centro l’albero di mèndule. La loro casa, sotto un arco di pietra con un rosaio di rosa ndurante per ghirlanda,  in quello che oggi si dice centro storico, si affacciava nella stessa corte dove imperava un geranio  rosso scuro di velluto, dentro una capasa, e dove Romeo, il cacciatore di sanguette, passava i pomeriggi a fumare la pipa e a riposare sul gradone di liccisu.

Odor di rose a maggio, odor di botti di vino in tutte le stagioni.

La poesia di San Martino si mandava a memoria facilmente.

Ora, dopo vicissitudini ed affanni, è il paese in cui vivo stabilmente, io che ho eletto il Salento intero a patria mia poichè un paese solo mi par poco.

Olivi cingono Borgagne tutta in tondo, le vigne le vedi solo se ti inoltri a piedi nel feudo di Pasulo, in alcune conche le puoi ancora trovare, coi cippuni che affondano nell’acqua, nelle annate in cui abbondano le piogge.

Il centro abitato, cresciuto molto negli ultimi decenni, sembra voler assediare gli oliveti,  morde la campagna che si ostina a fiorire intorno, cancella sciardine, innocenti vittime sacrificate al dio delle lottizzazioni, mentre la popolazione è ferma ad un numero costante, circa 2000, che ha cristallizzato istituzionalmente il paese in un dimensione sgradita  di frazione. Poche le sezioni di scuola di base. Tante le macchine e le case.

Duemila anime, dunque, suppergiù, un microcosmo multiforme di culture, dalle roccaforti ancora resistenti di cultura contadina a frange giovanili postmoderne, da stili di vita quasi arcaici a quelli riconducibili a forme sfrenate di consumismo a gogò, con annessa problematica e malcostume inerente a cosa farsene degli oggetti in più, se non abbandonarli nelle campagne quali istallazioni di arte informale.

Il meglio del paese viene fuori nelle occasioni di partecipazione corale a festività, civili e religiose. Dal pellegrinaggio a Roca, nel mese di maggio, alle feste patronali, dalla Maratona di Primavera al premio Vrani, per salentini geniali e operosi, fino allo travolgente Borgoinfesta, tre giorni di ininterrotta giostra di musica, arte, cibo e solidarietà, che si offre a stanziali del Salento e a turisti d’ogni dove e che vuole allungare sguardo e benefici all’Africa lontana del Benin, dove i ragazzi dell’orfanotrofio di Ouenou, guardano a Borgagne quale paese di Bengodi, a ragione.

Ogni iniziativa è frutto di lunga programmazione, di concertazione, di volontariato generoso oltre che di forte motivazione.

La Chiesa Madre è ricca di tracce del passato di cui non si ha memoria,  parla di arte, religione, ricchezza, di pietas e di amore per la natura.

Il santuario di Borgagne è la zona dell’Olmo, sopravvissuta a smanie di lottizzazione. Si trova ai piedi della mappa, quale propaggine naturale per un paese bucolico, da sogno, frammento di coltivi illuminati del passato, quando si combatteva con metodi naturali, la presenza d’acqua, eccessiva.

Ora la zona dell’Olmo è un residuo “culturale” che parla di rapporto positivo fra gente di buona volontà e territorio, di equilibrio fra natura e uomo. Le sue foglie raccontano per tutta la stagione storie scordate.

Lo so, la mia descrizione del paese carezza aspetti di poco conto, marginali, alternativi, non sono queste le cose che contano in banca, che parlano di crescita e di guadagni…voi che ne dite, rincorriamo la modernità ad ogni costo o ci aggrappiamo a ciò che di bello ancora s’intravede?

Borgagne. Bel suol d’amor

 

 

di Wilma Vedruccio

Per molto tempo Borgagne non è stato il mio paese, era il paese di mia madre, il paese dei nonni materni che coltivavano garofani in vasi di fortuna, nel loro giardinetto dietro casa, con al centro l’albero di mèndule. La loro casa, sotto un arco di pietra con un rosaio di rosa ndurante per ghirlanda,  in quello che oggi si dice centro storico, si affacciava nella stessa corte dove imperava un geranio  rosso scuro di velluto, dentro una capasa, e dove Romeo, il cacciatore di sanguette, passava i pomeriggi a fumare la pipa e a riposare sul gradone di liccisu.

Odor di rose a maggio, odor di botti di vino in tutte le stagioni.

La poesia di San Martino si mandava a memoria facilmente.

Ora, dopo vicissitudini ed affanni, è il paese in cui vivo stabilmente, io che ho eletto il Salento intero a patria mia poichè un paese solo mi par poco.

Olivi cingono Borgagne tutta in tondo, le vigne le vedi solo se ti inoltri a piedi nel feudo di Pasulo, in alcune conche le puoi ancora trovare, coi cippuni che affondano nell’acqua, nelle annate in cui abbondano le piogge.

Il centro abitato, cresciuto molto negli ultimi decenni, sembra voler assediare gli oliveti,  morde la campagna che si ostina a fiorire intorno, cancella sciardine, innocenti vittime sacrificate al dio delle lottizzazioni, mentre la popolazione è ferma ad un numero costante, circa 2000, che ha cristallizzato istituzionalmente il paese in un dimensione sgradita  di frazione. Poche le sezioni di scuola di base. Tante le macchine e le case.

Duemila anime, dunque, suppergiù, un microcosmo multiforme di culture, dalle roccaforti ancora resistenti di cultura contadina a frange giovanili postmoderne, da stili di vita quasi arcaici a quelli riconducibili a forme sfrenate di consumismo a gogò, con annessa problematica e malcostume inerente a cosa farsene degli oggetti in più, se non abbandonarli nelle campagne quali istallazioni di arte informale.

Il meglio del paese viene fuori nelle occasioni di partecipazione corale a festività, civili e religiose. Dal pellegrinaggio a Roca, nel mese di maggio, alle feste patronali, dalla Maratona di Primavera al premio Vrani, per salentini geniali e operosi, fino allo travolgente Borgoinfesta, tre giorni di ininterrotta giostra di musica, arte, cibo e solidarietà, che si offre a stanziali del Salento e a turisti d’ogni dove e che vuole allungare sguardo e benefici all’Africa lontana del Benin, dove i ragazzi dell’orfanotrofio di Ouenou, guardano a Borgagne quale paese di Bengodi, a ragione.

Ogni iniziativa è frutto di lunga programmazione, di concertazione, di volontariato generoso oltre che di forte motivazione.

La Chiesa Madre è ricca di tracce del passato di cui non si ha memoria,  parla di arte, religione, ricchezza, di pietas e di amore per la natura.

Il santuario di Borgagne è la zona dell’Olmo, sopravvissuta a smanie di lottizzazione. Si trova ai piedi della mappa, quale propaggine naturale per un paese bucolico, da sogno, frammento di coltivi illuminati del passato, quando si combatteva con metodi naturali, la presenza d’acqua, eccessiva.

Ora la zona dell’Olmo è un residuo “culturale” che parla di rapporto positivo fra gente di buona volontà e territorio, di equilibrio fra natura e uomo. Le sue foglie raccontano per tutta la stagione storie scordate.

Lo so, la mia descrizione del paese carezza aspetti di poco conto, marginali, alternativi, non sono queste le cose che contano in banca, che parlano di crescita e di guadagni…voi che ne dite, rincorriamo la modernità ad ogni costo o ci aggrappiamo a ciò che di bello ancora s’intravede?

Un corriere d’altri tempi. Luvigi te l’ove

di Wilma Vedruccio

Faceva il giro delle masserie con la sua carretta, tutte le mattine.

Una “motom” stracarica di tutto, tutto in una bisaccia a cavalcioni della moto. Buste di ogni tipo, sporte, panare, appese ai due bracci del manubrio. Una montagna di pacchi, lattine, involti, in una cassetta, sul sedile di dietro, ogni cosa separata a seconda della sua natura.

Arrivava con gran rumore di schioppettii del motore, piano piano, in un esercizio di equilibrio fra una pozzanghera e l’altra della vecchia strada e i cani gli andavano incontro festosi, a ricevere un pezzo di pane, un osso, un biscotto, a loro dedicato.

Spento il motore, faceva gli ultimi metri con i piedi, come in un atterraggio di fortuna, come fanno grossi volatili da cortile nel toccare terra.

Calmo, sorridente, un po’ infreddolito, consapevole di essere atteso, appoggiava la moto al muro, toglieva i guanti dito a dito, sollevava la visiera del berretto nel mentre rivolgeva il suo calimera in un bonario sorriso. Di poche parole, cercava nel suo universo di cose, la cosa attesa, ordinata il giorno prima, da consegnare al committente di campagna.

Una spoletta di cotone, dei bottoni, forcine per i capelli, un paio di calzini, un bigliettino d’auguri… come lo si era atteso, immaginato, pregustato… la letterina per  Natale poi… con i luccichii dorati e gli angioletti in trasparenza…veniva consegnata con complicità, in gran segreto alla bambina che sperimentava così la programmazione…

I giornali della settimana, La Domenica del Corriere per il padre, con i fatti della settimana e i fumetti del Signor Bonaventura per la piccola bambina, il Grand Hotel per la madre con infinite storie d’amore in bianco e nero.

Il petrolio per il lume, da un sacco di juta puzzolente, il mastice per la bicicletta che è forata da due giorni, la carne per il sugo, le pastiglie per il

Colto di sorpresa

ph Zefiro 1970, da libero.it

di  Wilma Vedruccio

La morte l’aveva colto di sorpresa nel mentre era occupato a vivere con frenesia, a scoprire il mondo,a sentire il sapore della vita.

Ora era lì inerme il riccetto, sacrificato alla civiltà dell’asfalto nella sua prima primavera.

Gli aculei ancora morbidi, sul muso un’espressione più che di dolore…di sorpresa, il collaretto ancora del color del candore.

Era lì sulla strada nel mattino.

A mezzogiorno già non ci sarebbe più stato, le gazze son solerti e scrupolose in questo.

La notte era stata fresca e dolce insieme, una notte di maggio, con un cielo orgoglioso di mostrare tutti i suoi gioielli messi giusti, appuntati sul velluto della notte.

La campagna odorava di frutti ormai maturi, c’era un albero di gelsi aldilà della strada e poi gli orti, ricchi di verdure nuove e oltre, oltre un muro a secco difficile da superare, un nespolo sovraccarico di frutti.

L’umidità della notte esaltava gli odori.

Seppur molto giovane, il cucciolo di riccio aveva già sentito parlare della morte, veloce, rombante e puzzolente l’avevano descritta, imprevedibile seminava lutti ogni notte nella popolazione dei timidi selvatici.

Ma a quell’ora, prima dell’alba, non c’erano rumori intorno, c’era solo il soffio leggero della brezza di mare prima del mattino e tutti quei buoni odori che

L’uomo della “conza”

 

di Wilma Vedruccio

Da quando sua madre disse “tocca porti lu pane a casa, fiju miu”, aveva allora undici anni suppergiù, aveva impastato  malta senza posa.

Impastato e trasportato malta fino a quindici, venti anni e poi per sempre.

Aveva visto crescere case d’ogni tipologia, secondo la moda del momento, a seconda delle possibilità te li cristiani, case che s’allargavano sempre più dal centro fino a che si parlò di “centro storico” e di periferia.

Era il primo a darsi da fare sul cantiere, fin dalla mattina presto impastava e impastava e poi era pronto a servire. “Conzaaa” e lui correva con il secchio o la carriola a portare l’ impasto che faceva crescere i muri e teneva saldi i mattoni per sempre. Gli piaceva quell’ impasto, grasso, morbido e traballante, somigliava alla pasta del pane, somigliava…alle mammelle della madre quando allattava il piccolo di casa.

Crescevano crescevano le case e lui sempre a correre per portare malta.

Si accorgeva a volte che un albero da frutto era sparito… ma era qui l’anno scorso, avevo mangiato buoni fichi per merenda…ora non c’era più…

Anche l’albero di noci, bello grande era sparito, e lu pajaru anche…più…

Le case intanto non erano più case ma casamenti alti, grandi e brutti, per decine e decine te cristiani, crescevano veloci in pochi mesi, tutti uguali.

Anche la conza non era più la stessa, lui non poteva farci niente, il capocantiere gli aveva detto più volte di aggiungere acqua, di allungare…

Il capocantiere, il geometra, l’ingegnere, l’architetto ( questo prima non c’era), ora arrivavano con macchine sempre più grosse, grandi come le case di una volta, lui andava e veniva con la bicicletta, gli bastava, e poi il vento sulla faccia e fra i capelli gli portava via un po’ del tufo che li incrostava.

Certo che il tufo lui se lo portava sempre appresso, non lo abbandonava mai, anche durante le feste del paese, aivoglia a lavarsi e mettere la camicia nuova,

Paesaggio dell’anima

di Wilma Vedruccio

Mi piace pensare al paesaggio come a una mappa da percorrere a passo d’uomo, in bici, con una utilitaria al massimo, certo non con un suv.

Penso al paesaggio come al luogo dell’anima di ciascuno, dove ciascuno può ritrovare i segni, i punti di riferimento significativi della sua vita.

Un bosco ombroso, uno scoglio di mare da cui pescare o su cui pensare, un sentiero fra i campi, un albero solitario fra un campo e l’altro, un rudere scordato, possono scandire i giorni di una vita d’uomo, rappresentare lo scenario della sua esistenza, essere la landeschape di una generazione intera in un territorio circoscritto. Il paesaggio è scandito dalla toponomastica locale, Google è un’altra cosa, ma anche Google sa riconoscere e indicare questi luoghi, li sa rispettare nella loro unicità.

Un segmento di orizzonte fra le terrazze dei caseggiati, con la chioma di un albero, è il paesaggio a cui può accedere dalla sua finestra, un disabile, un anziano in difficoltà. Forse il solo possibile.

La piazza del quartiere, il mercato rionale, la villetta comunale sono il paesaggio di tante vecchine, la mappa per il loro passo incerto.

Anche il luogo dei morti, il cimitero, fa parte a pieno titolo della mappa.

Ne fanno parte gli spiazzi dove tengono le loro sfide i ragazzi del paese, un ponte, una scalinata, una fontana, una cappella solitaria con la sua campanella e la sua frescura che rigenera il passante, il turista o il contadino.

No, non nell’Ottocento, oggi, nell’Italia del centenario, nella bella Italia del secondo millennio, quella che ha saputo conservare i segni della civiltà.

Per questo il paesaggio non può essere sconvolto, violentemente e impunemente modificato con gli strumenti dell’oggi: pale, trivelle, escavatori… penetrano nell’animo oltre che nella roccia, creano fratture e

L’estate del padre

di Wilma Vedruccio

     Comincia presto al mattino, la giornata del padre in estate.

Apre le vecchie imposte per guardare il tempo, poi esce mentre la luce del sole comincia a farsi vedere da oltre l’orizzonte e l’umidità dell’aria annuncia giorno caldo o la brezza mattutina fresca, giorno ventilato.

La pioggia è un evento raro, auspicato, desiderato, che soggiunge a metà giornata, quasi sempre burrascoso, ma con acqua benefica e benedetta come acqua santa, per i propri lavori e per l’agricoltura dell’intera regione.

Ore lente passate nell’orto, scandite da gesti delle mani sicuri, solleciti, sapienti, per estirpare, legare, zappettare, interrare, innaffiare, raccogliere.

Presto il sole abbaglia gli occhi e il sudore annebbia la vista, bisogna rientrare.

Non a mani vuote, c’è sempre qualche pomodoro arrossato, fiori di zucca con ancora api ronzanti dentro il cuore, un ciuffo di prezzemolo, un fiore.

Un bicchiere d’acqua e zucchero per riprendere fiato mentre ascolta le notizie alla radio, perplessità per i fatti nel mondo, compatimento per i drammi dell’umanità a qualunque latitudine la si trovi, espresso con commenti discreti ma sempre appropriati, mentre fa con le carte un solitario.

Ferma il gioco per una domanda muta, vuol capire, cerca una ragione per i fatti ascoltati, non si dà pace… ma se sei tu a domandare ti risponde, bonario o ironico, ti rassicura, tutto si spiega, c’è una ragione per ogni cosa, il tempo farà venire a galla la verità o il succo che sia.

In cucina non è ancora pronto? Vado a fare un sonnellino prima del pranzo, sono stanco… e dai piedi cade una zolla o due di terra dell’orto.

Ritorna a tavola per il pranzo, riposato, misurato, parco, quasi inappetente poi sbuccia un frutto con cura e lo mangia lentamente e sembra pregare, lui che dice di non essere credente.

Un bicchiere di vino rosso, bevuto sorso a sorso, lo disseta.

Ascolta gli altri, si preoccupa, risponde, argomenta. Il futuro dei giovani lo

Il guardiano dei tacchini

di Wilma Vedruccio

Da bambino aveva fatto il guardiano dei tacchini.

Li aveva rincorsi quando, appena fuori dal pollaio, liberi finalmente ed affamati, s’erano diretti verso l’aia dove s’accumulavano i covoni d’avena, i covoni di grano. Li rincorreva gridando per scoraggiarli ma era lui scoraggiato ed impaurito di non riuscire a tenerli a bada. Li raggiungeva alfine quando s’erano già accaniti a beccare le fascine che crepitavano sotto i loro colpi ed era costretto ad un assalto caotico e disordinato, frammisto di urla, lanci di sassi e gesticolazioni per dissuaderli e allontanarli dai covoni.

Finalmente li menava verso i pascoli concessi, il loro passo era cadenzato come di chi obbedisce malvolentieri, e lo scontento si esprimeva nei versi che gli animali facevan rimbalzare l’un con l’altro.

Il nostro eroe aveva riacquistato dignità, si era munito di un bastone di fortuna e riusciva ora anche a fischiare se era necessario. Li lasciava poi liberi in un campo di stoppie dove avrebbero cercato fra la terra riarsa chioccioline e spighe non raccolte.

   Si poteva distrarre finalmente, guardava le nubi che s’alzavano a occidente, fiutava il vento e progettava di salire sull’albero di fichi di laggiù, vicino al pozzo. Quando poi le bestie pennute, un po’ sazie un po’ vinte dalla calura, s’accoccolavano fra la polvere, il pastorello s’allontanava per salire sull’albero dai frutti dolci come il miele.

Passava di ramo in ramo agile come felino, coglieva i frutti che rosseggiavan fra le fronde, li portava alla bocca, li gustava con i denti, col palato, con la lingua e l’ingoiava avido come se fosse stata acqua di sorgente, fin quando ne scorgeva ancora uno.

Oh no, quei dannati tacchini hanno assalito l’orto dei pomodori…..

Giù dall’albero, corre all’impazzata agitando il bastone e lanciando pietre e fischi. S’affanna un po’ prima di scoraggiare quelle bestie. Vola qualche piuma e molti sono gli schiamazzi.

Era costretto a lunghe camminate sotto il sole in campi di stoppie perché quegli uccelli dal collo troppo lungo, troppo nudo  e troppo avido insieme,

Cielo stellato

di Wilma Vedruccio

   L’estate è propizia per alzare gli occhi al cielo nella notte, a osservare il firmamento, più che le altre stagioni. Le notti calde che ridonano il respiro dopo il caldo del giorno, agevolano l’incontro con gli astri, perduti nelle lontananze celesti, smarriti dai nostri orizzonti circoscritti, dimenticati nella smania del vivere, o forse mai conosciuti.

In certe notti, baciate dalla brezza di terra, in luoghi abbandonati alla grazia del buio che avvolge e illumina intorno, può avvenire di perdersi fra le stelle.

Se non si ha fretta, se un po’ di umiltà ci assiste, pian piano prende forma la mappa celeste, il firmamento ci prende per mano e noi, ritornati bambini, ci inoltriamo nelle profondità dell’universo a rincorrere una stella che ammicca lassù…e così, di stella in stella, come gli avi di un tempo, tracciamo segmenti di significato per una geografia astrale, per non smarrire la strada e poter ritornare, novelli Pollicini, su questa terra che sì, ci fa penare ma ci avvolge materna, protettiva e matrigna insieme.

Ma torniamo a perderci fra le stelle per una sera… ecco qui Cassiopea, là il Grande Carro e il Piccolo che si tira dietro la Stella Polare…e noi non più marinai, non carovanieri, non sappiamo che farcene e poi abbiamo il “navigatore”…di altre stelle abbiamo bisogno, fari per l’animo, universo tutto da esplorare, con grovigli di nebulose e buchi neri, e noi incapaci a venirne a capo, non punti di riferimento, non modelli, prospettive nebbiose e incerte.

Storie mitologiche riempiono il cielo, non favolette né telenovele di qualche millennio fa. Miti, netti, indecifrabili, inquietanti. Vita e morte, amori, sacrifici, passioni, gelosie, vendette, capricci e prepotenze son tracciati nella mappa celeste da tempo immemorabile: Orione, Cigno, Aquila, Chioma di Berenice… Un’eredità celeste che attende d’essere goduta da una umanità balbuziente? E’ nel cielo il bandolo della umana psiche?

Troppe domande, troppi problemi per un’esistenza così breve da vivere, ricca di tesori da riconoscere, ammirare e godere in un tempo di cui non ci è data certezza, tempo che non possiamo governare, che scivola via dalle mani e forse s’accumula lassù, nel buio fra una costellazione e l’altra, quale riserva per l’umanità futura, una “previdenza” astrale.

No, troppo difficile trovare una ragione… e già il sonno appesantisce le palpebre… guarda lì una stella cadente! Non una stella, sai, un meteorite.

Sì, va bene, ma hai espresso un desiderio? No, non ne ho avuto il tempo…

Fuochi d’artificio

di Wilma Vedruccio

 

Tempo d’estate, tempo di feste di paese. Ogni paese un santo da onorare.

L’orizzonte borbotta all’imbrunire di botti, di spari, la notte s’incendia di fuochi d’artificio, la luna impallidisce, si fa discreta, lascia la scena, scompare.

Tutte le sere una festa in terra salentina, si consulta il calendario o la memoria dei vecchi nella casa, per sapere Chi si festeggia, dove la devozione entra in scena e si esprime in un exploit di luce che vuole vincere il buio della notte.

La devozione si fa così pretesto per affermare un bisogno forse primordiale, di scuotere il cielo, riempirlo di meraviglie di luce per pochi minuti, un quarto d’ora… desiderio di onnipotenza forse, complice il santo in questione.

Un santo vale l’altro in questa gara, ogni santo è l’unico per queste mirabilie nel cuore dei devoti, che sia un Santo dei miracoli, dalla vita incredibile ed integerrima, impossibile da imitare, o una Madonna tenera, materna e pietosa. pronta a stendere il suo manto di cielo su ogni povera cosa.

Dopo la processione, lenta, silenziosa, l’aria si riempie d’attesa, la terra si tende come pelle di tamburo, si tende il cuore di ciascuno in attesa del primo botto, dopo di che si entra in un’altra dimensione…

Faville riempiono il cielo e gli occhi di ciascuno, ciascuno ha occhi di bambino nei quali si specchia l’oro dei fuochi d’artificio, fiori di luce riempiono il cielo, petali di luce cadon veloci sulla terra scura mentre ancora e ancora sbocciano fuochi nel nero della notte, rossi, gialli, d’ogni colore, sibilando, crepitando, sfrigolando di sorpresa, di piacere in un crescendo che sospende il respiro, immobilizza il moto delle palpebre per non perdere una sola favilla…

Dopo i tre botti finali tutto tace, piccoli fuochi d’erba secca e fumi che diradano nell’aria sono i segni di un bel sogno già finito, il risveglio alla vita di sempre, quando il santo tacerà nello stipo e bisognerà ascoltare le necessità quotidiane.

Fin già dal prossimo mattino.

l’O cu lu bicchieri

Tommaso De Vivo (1790-1884) Giotto e Cimabue

di Wilma Vedruccio

 

       “cittu tie, ca nu sai fare mancu l’o cu lu bicchieri” era l’invito, il rimbrotto, la condanna, la provocazione, lo stimolo, in tempi in cui non si predicava di autostima, la pedagogia era altra, il rispetto per gli adulti era sovrano e i bambini non avevano voce in capitolo, anche se avevano da dire.

Erano altri anche i bicchieri e qualcuno andava in frantumi a forza di provare e riprovare a fare un cerchio preciso, senza sbavature… non tutti si era come Giotto che lo tracciava col bastone da pastore sulla strada polverosa, dietro al gregge e sotto lo sguardo di un Cimabue.

Altri tempi, altre situazioni, opportunità altre, altre le strade…

Se un bambino di oggi ci vuol provare, ha qualche difficoltà ad essere preciso su una superficie d’asfalto, ne convenite?

Eppure il desiderio è sempre uguale, è una spinta antropologica a realizzare “a mano libera” la perfezione, poter dire con orgoglio “guarda, ci son riuscito!”

Quindi, ci si prova col bicchiere. No, il compasso no, è un’altra cosa.

Anche la matita fa la sua parte, un tempo era sgrossata col coltello, una matita da falegname, altro che punta fina, il segno ben evidente su una carta corposa, spessa, e c’era sempre, seduto al tavolo, un nonno, uno zio, un padre, che aiutava a temperarla, a tener fermo il bicchiere, lo stesso censore che poco

Pensieri di luna

di Wilma Vedruccio

 

Vediamo un po’ cosa mi tocca illuminare questa sera…

La superficie del mare come sempre, con tutte le creature che vivono là sotto . Vivono? Si, pascolano, guizzano, si nascondono, inseguono, ingoiano, sbranano… sono tante, difficili da tenere a bada, d’addomesticare.

Le conosco da sempre, se la vedon fra di loro, le lascio fare.

Certo, mi fa piacere quando vedo la mia luce riflessa sul dorso lucido dei delfini che vanno, lenti, bonari e cantano… mi sento meno sola quelle volte.

Ci sono più problemi sopra la superficie del mare, che sotto, questo è certo. E non posso far finta di non vedere, con tutta questa luce…

Lì c’è una imbarcazione prepotente, lascia una scia profonda e sconvolta di acque, chissà dove la porta tanta fretta, cosa “giustifica” tanto spreco di

Delle colombe il non volo

di Wlma Vedruccio

Aveva lavorato di fino lo scalpellino e dalla pietra eran nate due colombe, vicine affiatate confidenti, parlavan fitto fitto tutto il giorno, beccavano frutti di pietra e nella notte intrecciavano il respiro.

Intorno a loro angeli, santi e frutti opulenti, tutti immortalati nella pietra, sempre lì, ad ogni ora di ogni giorno del mondo, presenti.

Le due colombe sognavano il mondo infinito, se lo raffiguravan nei dettagli, progettavan viaggi nei giardini d’Eden di cui doveva esser fatto, giardini in cui maturavan frutti uguali a quelli che eran lì da sempre nella pietra, ne immaginavano l’odore, ne prefiguravan i colori stagione dopo stagione.

Gli angeli lì intorno con la loro immobilità e col silenzio, sembravan confermare i sogni, certo non li  contraddicevano. E i passeri che eran lì e poi non c’erano, come i viaggiatori nelle stazioni, accertavano coi loro racconti la presenza dei giardini nel mondo, la ricchezza e la varietà dei frutti, la loro dolcezza, i loro succhi.

Le due colombe eran certe, un giorno avrebbero volato libere nel cielo, avrebber sorvolato i giardini in cui occhieggiavan frutti maturi fra le fronde, avrebber raggiunto le nuvole in cui si nascondevan gli angioli con le piume di vapore per poi rituffarsi nell’azzurro del cielo verso le acque luminose come specchi.

Avrebber conosciuto i luoghi e le genti, di cui da sempre avevan sentito narrare stando immobili in quell’angolo dell’altare. La magnificenza di Dio si sarebbe rivelata ai loro occhi, alle loro ali, in tutti gli odori, nella varietà dei sapori, nella varietà delle forme.

Forse la pioggia avrebbe sciupato le loro piume ma avrebber poi  potuto farsi asciugare dal sole. Certo la tempesta un po’ le spaventava, le spaventava il diluvio ma avevan sentito dire di un’arca e di colombe che portavano pace da oltre il nulla delle acque.

No, senz’altro il mondo di fuori era fatto di mirabilie più che di pericoli.

Presto avrebbero volato.

Intanto continuavano a beccare i frutti di pietra come sempre, e a sognare fra le foglie scolpite nell’altare.

Più di tutto le rapiva il desiderio del firmamento nelle notti, non l’avevan mai veduto, chiuse fra arcate di pietra, pur preziose, lontane da vetrate un po’ opache, non avevan mai guardato gli occhi della notte, la brezza non le aveva mai sfiorate.

Sì, i passeri che dormivan fra le fessure dei finestroni, avevan detto a volte di mille luci lontane ma non avevano saputo spiegare. E le parole antiche, che risuonavan fra le panche, parlavano di “lumi infiniti”, parlavano di “luce”, parlavano di un “ricamo di luce” che Dio aveva fatto, originariamente.

Le colombe conoscevan ricami di pietra, preziosi, con foglie e piume cesellate ma il ricamo di luce non l’avevan mai veduto e di figurarselo non erano capaci. Ma il desiderio, sì, le aveva prese.

E aspettavano.

Aspettavan che lo scalpellino desse i due tre colpi necessari a staccare dalla pietra le ali perchè fossero libere di volare.

Aspettavan ogni ora del giorno, ogni giorno del mondo e nelle notti il desiderio era sospeso nel buio e al mattino tornava a riempire il loro cuore di pietra ed era tanto che quasi lo polverizzava.

Venne infine lo scalpellino, le colombe eran pronte al volo, non avevano paura, anelavano al cielo.

Non vibrarono i colpi che le avrebber rese libere, l’uomo lavorò di fino per ridare loro purezza nelle forme. per ridare il colore della pietra e riparò ferite e rafforzò il legame con l’altare.

Insieme alle impurità della pietra, insieme alle croste, furono grattati via i sogni delle tenere colombe.

L’incantesimo continuò a tenerle lì, senza volo, per sempre.

Maria

di Wilma Vedruccio

Le ricamatrici , di Joseph Solomon (1860 – 1927)

Maria è la parte del nome che rimane.

Forse Maria Assunta o Maria Concetta, Maria Luce?

Ricamava nei lunghi pomeriggi estivi, sull’uscio della porta di casa.

Lo schienale della sedia rivolto verso la strada, i piedi posati sullo scalino di pietra, lucido e consunto dal calpestio degli anni.

Ciocche di capelli cadevano sulla tela quando lei piegava il collo per controllar da vicino un punto e le facevano da cortina nel riverbero della luce del tramonto; uno sguardo vellutato scivolava allora furtivo, sulla polvere della carreggiata ad inseguire un cigolio di ruote nell’ora del ritorno dalla fatica, cigolio sempre preannunziato da un odor di erbe selvatiche, di fieno.

Quell’ odore le accendeva le voglie, la rendeva un po’ smaniosa in quel suo stare ferma per ore, diventava più piccola dei piccoletti che nella piazzetta vicina giocavano vocianti. Avrebbe volentieri preso due di loro, uno per mano, per correre lungo il sentiero di campagna a inseguire fantasie senza nome, a cogliere more, ad addentare uno o due fichi maturi, a respirare orizzonti lontani… ma non si decideva mai a “spiccare il volo”.

Voleva metter fine a quel ricamo prima della penombra del crepuscolo, prima del ritorno del padre dai campi, così che la sua giornata avesse dato frutto.

Una tovaglia di lino, ricamata a fiori e frutta, con sfumature di colore da pittura, con orli e smerli fini, per banchetti di chissà quali feste o… per la processione del Corpus Domini.

Il ritorno del padre la rendeva più quieta e contenta, le piaceva ascoltare il suo silenzio, il respiro ritmato che piano allontanava la fatica, il sorseggiare lento

Lungo il sentiero delle Saline

 

di Wilma Vedruccio

 

Lo percorreva ogni giorno, due volte al giorno.

Al mattino, prima del Mattutino, al crepuscolo, dopo i Vespri.

Nelle altre ore del giorno no, non ne trovava il tempo.

Due volte dunque, s’incamminava piano lungo il sentiero che perimetrava le Saline, al lato del canale che porta l’acqua del mare nel laghetto, fino ad arrivare alla spiaggia, poi tornava indietro al suo convento.

Al mattino era così presto che tutta la natura era ancora irretita nel sonno della notte, come la sua anima, ancora preda del sogno.

Rugiada o nebbia o brina, a seconda della stagione, s’attardava sui cespugli, sulle pianticelle, sulla rena delle dune, vapori stazionavano sulle acque del lago, ferme come specchi appannati, in quell’ora antelucana.

Non c’erano animali in giro ma si sentiva il gracidar delle rane, qualche ultimo grido di allocco e sulla rena correvano le piste di animaletti senza nome, bava di lumaca inargentava la via e tele di ragno eran pronte fra un ramo e l’altro dei cespugli al lato del sentiero, pronte a ingannare irrequiete creature.

Passo dopo passo, ricacciava via il sonno dagli occhi, dalla mente, l’aria fresca gli riempiva i polmoni e le idee si facevano più chiare, ringraziava Iddio di averlo fatto svegliare, di aver creato tutte le cose belle, era contento di essere giunto in quell’angolo di paradiso, dopo tanto peregrinare.

Lui veniva da altre contrade, altro clima, altri orizzonti, altro idioma…ma ora si sentiva a casa, gli piaceva l’odor di quella terra, il suo respiro.

La passeggiata pomeridiana era cosa diversa, il sole aveva cambiato un bel po’ la situazione, uccelli migratori, fenicotteri, folaghe, cavalieri, affollavano lo specchio d’acqua, alla ricerca di prede nella melma salmastra, alcuni

The drummer boy

di  Wilma Vedruccio

Suona il tamburo nella banda del paese, precede clarinetti e trombe, a passo di marcia avanza nelle strade e percuote con disciplina lo strumento nei giorni della festa del patrono.

A volte la banda si sposta nei paesi vicini, c’è sempre un san Vito, un san Giuseppe, un’Assunta da festeggiare. Un sant’ Antonio sempre.

Il ragazzo allora si alza presto allegramente, si acconcia con scrupolo nella divisa da bandista, saluta la madre e il cane e a passo svelto raggiunge gli altri nella vicina piazza del paese. Il viaggio in corriera lo riempie d’eccitazione… la campagna è bella e nel paese in festa ci sono senz’altro nuove ragazze da vedere. Alla fiera poi potrà comprare un berretto per il sole.

Prende in cura il suo tamburo, lo ripulisce e lo prova e intanto ascolta scherzi e lazzi dei compagni d’avventura. Mangia con appetito il panino con la mortadella insieme agli altri suonatori all’ombra del muro della chiesa prima dell’inizio delle funzioni. Beve alla fontana. Poi prende posto nella formazione. Avanti, insieme a due altri tamburini.

Vengono poi le cornette, i piatti, i clarinetti, le trombe ed i tamburi. Quando tutti son schierati è lui che dà il via battendo i primi colpi.

Iniziano così a sfilare gli ottoni lungo la via principale del villaggio mentre accorrono a curiosare i ragazzetti. Lui percuote con impegno sul tamburo attento a non sbagliar battuta ed ormai procede per le vie con pretenziosa andatura. Gli capita di dare a volte qualche colpo in più ma è perché s’ispira a delle gonne che svolazzano da un balcone insieme a maliziosi sorrisetti di ragazzine.

Più in là una vecchierella allunga il capo fuor dall’uscio quale tartaruga lasciando il resto nel guscio d’ombra della sua stanzuccia, lo guarda bonaria e balbetta “ bravu fiju miu , sona sona”.

Il tamburino, pieno di missione, interpreta Verdi e Rossini, Mascagni e pure Bellini, muovendo i muscoli delle mani con passione.

Certo gli piacerebbe suonar la tromba o il clarinetto, la sua anima avrebbe così più sfumature per inneggiare, ma ha il fiato corto e il canto ne verrebbe un po’ strozzato.

La pelle del tamburo invece risponde tonante alle sue sollecitazioni, il suono sembra uscire dalle viscere della terra e fa rintronare le vetrate  sul sagrato della chiesa.

Quando la banda tace lui si sgrava del peso del tamburo e lo mette a cuccia lì ai suoi piedi e poi s’incanta a guardare i piccioni che sul cornicione della chiesa prendono il sole, oppure gioca a lanciare messaggi silenziosi ai bandisti che durante la celebrazione se ne stanno oziosi. Quando il maestro richiama l’attenzione, lui dà il via al concerto e non perde un sol colpo, felice di creare la tensione necessaria ad ascoltare, poi, col fiato sospeso, le romanze.

L’odore delle noccioline abbrustolite gli solletica le narici, l’odore del torrone lo fa sognare e il suo tamburo diventa la pelle del cielo che rintrona tutta da occidente a oriente. All’ intervallo compra un palloncino colorato, lo lega al manico del tamburo e si mette a guardar le ragazzette in festa che, intorno alla banda, fanno mulinello scioccamente.

La Signora degli Ulivi

di Wilma Vedruccio

Desiderio di Volare, pirografia di Silvana Bissoli

Esile, bionda, sorridente, sempre pronta al dialogo, la Signora degli Ulivi.

Scuri, massicci, silenziosi, gli Ulivi che Ella ama senza misura e riproduce col fuoco su fogli di legno. Elementi di una contraddizione che non spiegano ma confermano il mistero della nascita di un amore che diventa una vera e propria passione. Come ogni storia d’amore che si rispetti.

Mi meraviglia la sua capacità di ascoltare “Quello che gli ulivi ci dicono” con un solo sguardo, il suo incanto intriso di compatimento per ogni piega, contorsione, per ogni piegamento, per ogni spasmo del tronco. E sono mille  i tronchi oggetto del suo sguardo, non oliveto, come per noi, ma individui d’albero con nome proprio.

Mi meraviglia come sappia cogliere lo slancio dei rami da tronchi feriti e veda in essi una dimensione esistenziale che va oltre una volontà vegetale, come sappia gioire per ogni resurrezione d’ulivo, come cerchi il cielo con essi, foglia a sua volta, insieme a una miriade di piccole foglie, carezza di fuoco, segno bruno nella carne di legno di alberi fratelli all’ulivo.

Si posa il suo sguardo su un singolo albero e già l’albero non è più tale, è già figura mitologica che ha impressa nelle rughe una storia, un sopruso, uno scherzo del tempo; agronomi e contadini non hanno più voce, l’ulivo racconta ben altro che una potatura, una malattia o un abbandono di coltivo, l’albero si fa umano e assume caratteristiche da creatura arcaica che giunge a noi dopo

A Borgagne Sulle orme di Idrusa

 

sabato 2 giugno h. 20,30
nell’ambito della manifestazione Borgo in Festa
Frantoio Turi Borgagne (Le)

presentazione del volume

Sulle orme di Idrusa

di Wilma Vedruccio

Intervengono: Giuliana Coppola, Luigi Chiriatti, e Lucio Toma.
A seguire: Letture a cura di Wilma Vedruccio e musiche a cura di Rocco Nigro.
 
L’Idrusa di Wilma Vedruccio è l’Idrusa inventata dalla compianta Maria Corti, quella donna d’Otranto davvero – trasfigurata dalla storia al mito – Idrusa è la ribelle. La donna ribelle. La donna ribelle otrantina per antonomasia. Che

Terra d’approdo

ph Anna Sterpone

di Wilma Vedruccio

La si può trovare a Est, lasciando la litoranea che da S. Cataldo va verso Otranto, annidata su un costone di calcare. Non una torre ma un faro-torre, il faro di Missipezza che ammicca nella notte sul Canale d’Otranto per segnalare ai naviganti alcune secche antistanti su cui cresce, rigogliosa, la posidonia.

E’ la posidonia ad approdare per prima, ad ogni autunno che ritorna, portata dalle correnti del mare ad ammucchiarsi lì,  sulla spiaggetta-porticciolo, ai piedi del faro. Le foglie brune, sminuzzate dal mare, riposano lì, poi non le vedi più, se le riprende il mare.

In direzione Nord si seguono sentieri a strapiombo sul mare, su “scenari mozzafiato” come si usa dire. Bisogna fare attenzione a non lasciarsi distrarre dalla bellezza della costa perché il sentiero può rivelarsi interrotto all’improvviso, inghiottito da una frana provocata dalle piogge o dalle mareggiate.

Ripreso il cammino, un cammino in punta di piedi per non disturbare, si può godere degli odori di stagione: una fioritura di tamerice o di mirto, un mentastro o una santoreggia sollecitati dal proprio calpestio.

E intorno voli, evoluzioni in volo di piccioni di mare, da un nido all’altro, nelle pareti dei faraglioni, cesellate.

Se poi c’è mareggiata, provocata dalla tramontana o dal grecale, il cammino si fa più coinvolgente. Da scalette che fendono la tenera roccia, si può scendere giù al livello del mare e camminare sugli scogli dove approdano le onde.. Estremo e fantastico il percorso, tra un mare mutevole a seconda del vento del giorno, e una roccia color oro che si fa modellare.

C’è il Bastimento, poi il Castello delle Microfate e l’ampia spianata di Acquaduce: qui le acque dolci sotterranee approdano al mare, formando vasche, gallerie, anfratti, dove si può avvertire il gocciolare del tempo e il respiro del mare. Il luogo ideale per la pesca con la canna, per nuotare, per prendere il sole, per meditare.

Se si vuol proseguire si arriva alla punta del Matarico e al costone a sud della baia di Torre dell’Orso con le Due Sorelle.

In direzione Sud da Torre Sant’Andrea, il cammino si fa più intimo, lungo sentieri polverosi d’estate, fangosi poi, dove si possono notare le ossa della terra che affiorano quali carrarecce spontanee e remote.

A lato, cespugli di macchia odorosi in ogni stagione, fioriti all’improvviso anche fuori stagione.

A Est l’orizzonte è solcato da vele e pescherecci, da vecchie petroliere, carghi che rimandano a Conrad e ad avventure letterarie.

Seguono approdi improvvisi,  solitari, per varia umanità, e piccole oasi di sabbia sottile. Aldilà del Canale d’Otranto, a volte, capita di vedere il profilo dei monti d’Albania, che sposta più in là l’orizzonte.

Passo dopo passo si arriva a San Giorgio dove ha inizio una catena di dune che porta a Frassanito e poi oltre, verso Alimini. Radici antiche di ginepro trattengono la sabbia di queste dune maestose sopravvissute al logorio ed alla smania dei nostri tempi e alla furia delle mareggiate.

Una vegetazione spontanea, mediterranea, le ricopre e le infiora e il mare si fa mansueto per non spaventare.

Paesaggio dell’anima

di Wilma Vedruccio

Mi piace pensare al paesaggio come a una mappa da percorrere a passo d’uomo, in bici, con una utilitaria al massimo, certo non con un suv.

Penso al paesaggio come al luogo dell’anima di ciascuno, dove ciascuno può ritrovare i segni, i punti di riferimento significativi della sua vita.

Un bosco ombroso, uno scoglio di mare da cui pescare o su cui pensare, un sentiero fra i campi, un albero solitario fra un campo e l’altro, un rudere scordato, possono scandire i giorni di una vita d’uomo, rappresentare lo scenario della sua esistenza, essere la landeschape di una generazione intera in un territorio circoscritto. Il paesaggio è scandito dalla toponomastica locale, Google è un’altra cosa, ma anche Google sa riconoscere e indicare questi luoghi, li sa rispettare nella loro unicità.

Un segmento di orizzonte fra le terrazze dei caseggiati, con la chioma di un albero, è il paesaggio a cui può accedere dalla sua finestra, un disabile, un anziano in difficoltà. Forse il solo possibile.

La piazza del quartiere, il mercato rionale, la villetta comunale sono il paesaggio di tante vecchine, la mappa per il loro passo incerto.

Anche il luogo dei morti, il cimitero, fa parte a pieno titolo della mappa.

Ne fanno parte gli spiazzi dove tengono le loro sfide i ragazzi del paese, un ponte, una scalinata, una fontana, una cappella solitaria con la sua campanella e la sua frescura che rigenera il passante, il turista o il contadino.

No, non nell’Ottocento, oggi, nell’Italia del centenario, nella bella Italia del secondo millennio, quella che ha saputo conservare i segni della civiltà.

Per questo il paesaggio non può essere sconvolto, violentemente e impunemente modificato con gli strumenti dell’oggi: pale, trivelle, escavatori… penetrano nell’animo oltre che nella roccia, creano fratture e instabilità più che nella roccia, cancellano per sempre più che la scordanza.

Modificare il paesaggio è azione impegnativa e accorta, comporta quella che il Papa che viene da oltralpe, qualche settimana fa ha definito una ragionevole mitezza, definizione semplice ed illuminante per guidare l’opera dell’uomo moderno che vuole agire o modificare il territorio facendo scelte non aggressive. Come un restauratore. La modernità dell’oggi assume altri ritmi, altre competenze, altri strumenti, altri sguardi, altre strade, altri orizzonti… Tutto ciò per salvare il paesaggio dell’anima di una popolazione.

 

Idrusa bambina

 

 

di Wilma Vedruccio

 

All’epoca Idrusa era nome di donna, non d’ostello.

Nome antico.

Era cresciuta fra le barche del porto

e i cespugli della macchia

appena fuori il paese.

Le altre bambine nei vicoli del borgo

si allenavano

al loro mestiere di donna

facevano esercizi

di sorda rassegnazione e di ipocrisie fra pari.

Lei no.

Non aveva appreso quel mestiere

non aveva imparato a mentire

a subire, a rinunciare…

E si può capire.

Le barche a riposo, con la pancia al sole,

stese su i banchi delle posidonie

era lo scenario dei suoi giochi

al pari dei maschi del paese

non delle bambine.

Annoiavano la piccola Idrusa

i giochi delle femminucce

nei cortili assolati

le loro chiacchiere, i loro dispetti

le loro storie.

 

Aveva seguito con occhi incantati per ore

il volo frenetico di volatili ubriachi

d’aria e di sole

Idrusa ritrovata

 

di Giuliana Coppola

 

“Guarda Idrusa

il filo a volte s’intreccia con armonia

leggero

succede a volte

raramente…”.

Leggero, con la leggerezza che le è propria, Wilma m’ha ridonato il volto di Idrusa; ridonato perché l’avevo persa Idrusa, anzi pensavo d’averla perduta ma lei è ritornata quando meno me l’aspettavo con la forza dei versi di un cantico che le appartiene per sempre ed ora è come se fosse stato ieri il tutto. Così il tempo, anche il tempo passato, diventa leggero

…“A volte il filo fa i nodi ed il groviglio

sembra inestricabile e confuso.

Come nella vita”.

Ecco, il groviglio della vita ha fatto incontrare me, Wilma, Maria Corti, Idrusa, Otranto, la sua storia, il suo mare, i suoi silenzi.

Ora tutto ritorna, grazie a questo Sulle orme di Idrusa che rivede la luce; ed è storia lieve come giglio “che dondola nell’aria” giglio bianco “con un lungo stelo grasso” a trattenerlo; questo ho pensato, sussurrando i versi scritti da Wilma; li ho sussurrati tra me e me, quasi una fiaba dolce che si ripete a se stessi, perché scivoli nell’animo, lasci il segno, ma non si sciupi. E d’un tratto anche questo ho pensato, anzi ho provato; ho provato e provo il timore che io possa turbare, sia pur solo leggendo e parlandone e scrivendone, l’armonia del suo andare; possa farle del male, sfiorandola. Sensazione strana, ma mi succede, a volte, con una storia che ho tra le mani e mi diventa così cara che a mia volta ne divento gelosa, gelosa della sua purezza.

Chissà se riesco a far comprendere il mio pensiero; ma è come se, leggendo i versi di Wilma, si segua davvero, orma su orma, il destino di Idrusa,

Libri/ Sulle orme di Idrusa

Protagonista del racconto di Wilma è Idrusa, personaggio di donna otrantina creata da Maria Corti e trasfigurata dalla storia nel mito.

Quella raccontata da Wilma è quasi un’epopea e Idrusa ha la potenza di un’eroina della classicità: è senza età, non è soggetta alle categorie del tempo e dello spazio, incarna l’archetipo di donna proviene dal passato e si proietta indomita nel futuro.

Idrusa ci riporta alla mente il ricordo di donne eccezionali, dotate di una straordinaria e inquietante personalità che si esterna nei rapporti interpersonali o che emerge a livello della coscienza individuale. Idrusa ha la stessa forza di Didone innamorata, che per amore mette in discussione il suo

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