Di due nipoti di Pietro Marti tra Lecce e Manduria: Bodini e Dimitri

di Ermanno Inguscio

 

La preziosa programmazione di un Convegno su Pietro Marti nell’aprile 2023, sapientemente suggerita dalla Presidenza della Società “Dante Alighieri” di Casarano, sotto la guida del prof. Fabio D’Astore, e dalla sezione leccese della Società di Storia Patria per la Puglia, presieduta dal prof. Mario Spedicato, proietta chi scrive in una dimensione di tipo numerologico, situazione facilmente aborrita, perché non di rado scagliata nel mondo della pura casualità. L’ anno di grazia 2023 si colloca a 170 anni dalla nascita di Pietro Luigi Marti (16 giugno 1863) e al 90° di sua morte in Lecce (18 aprile 1933). Ma più importante appare il centenario della sua nota rivista “Fede”, fondata nel 1923 nel capoluogo salentino, un’autentica perla tra la quarantina di pubblicazioni in volume prodotti dal docente-giornalista, notate anche dal grande Carducci su “Nuova Rassegna”[1].

La parabola dell’esperienza d’insegnante di Pietro Marti ebbe inizio nel 1880, nella sua città natale, Ruffano, all’età di 17 anni, come riferito in un  vecchio mio volume, edito da Congedo nel 1999[2]. Egli, conseguito il “patentino” per l’insegnamento nel biennio e poi “la patente” per il ruolo nel triennio finale della Scuola Elementare, venne nominato maestro “rurale”, dall’Amministrazione guidata da Pasquale Leuzzi[3].

Tutto ebbe avvio felice sia per la frequentazione culturale della famiglia Marti nella magione dei Leuzzi sia per la stima di quest’ultimo nei confronti  del vecchio funzionario della pretura ruffanese, Pietro senior, grande mazziniano della prima ora. L’esperienza si concluse nel luglio del 1883, quando il sindaco pro tempore Santaloja[4] sospese Marti dall’incarico e dallo stipendio “per essersi allontanato dalla residenza pria della chiusura delle scuole”.

La questione ebbe strascichi spiacevoli con comunicazioni perentorie da parte del Santaloja, che sostituiva il sindaco Leuzzi e ricorsi sino in Consiglio di Stato ad opera dell’interessato. In verità Marti si era recato a Lecce con alcuni suoi fratelli, alla ricerca di una abitazione, per poi fondare nel 1884 un rinomato Istituto Educativo, frequentato da giovani di ogni classe sociale.

Un riferimento netto venne dato a tale vicenda da Alfredo Calabrese, il 3 dicembre 1990, nel presentare sulla rivista “Lu Lampiune” la Cronologia della Penisola salentina in un manoscritto di Pietro Marti[5]. Testo che ho personalmente visionato nella biblioteca privata del nipote, nell’abitazione dello studioso Elio Dimitri, in Manduria, nella frequentazione di due anni e mezzo in quella città prima della sua scomparsa.

Lo stesso Calabrese annotò che dopo appena due anni di intensa attività didattica del Ginnasio leccese, i fratelli Marti furono costretti a chiudere l’istituzione, nel 1886, perché “caduta sotto dittatura faziosa e violenta”. Ma indiscussa dovette essere la fede dei numerosi fratelli Marti, tra cui Luigi, Antonio e Raffaele[6], tanto da far dichiarare al nostro insegnante Pietro, ma ormai proiettato verso il giornalismo speso in tutta la Puglia, che  La missione della Scuola dev’essere sacra e superiore a tutte le passioni personali e politiche… E’ triste per ogni Paese quell’ora in cui si tenta di propinare il veleno della disistima tra discepoli e maestri.

Parole scritte a Manduria, nel 1922, su un volantino a stampa, dal titolo “Per la verità…”[7] contro la sezione fascista di quel centro che aveva attaccato Marti sul funzionamento della Scuola Tecnica, da lui fondata e diretta in quella città per chiamata del locale sindaco.

Sempre negli anni Venti, più precisamente nel marzo del 1921, oltre all’esperienza dirigenziale in campo scolastico a Manduria, di cui si dirà più diffusamente altrove, abbiamo nota, in una conferenza pronunciata nell’Università popolare di San Severo, riportata nella raccolta di un volume a stampa dal titolo Il Dovere civile e Giuseppe Mazzini[8], di un incarico per Marti a direttore delle Scuole Tecniche “Zannotti”[9] di quella città. Ma non abbiamo rinvenuto altri riscontri in proposito.

Allo scoppio del Primo Conflitto mondiale, dopo l’eccidio di Sarajevo, Marti era nel pieno della sua maturità fisica e intellettuale. A Bari, intanto, il 6 gennaio 1914, gli era nato un nipotino, Vittorio Bodini, che poi finirà col coabitare col nonno sotto lo stesso tetto in Lecce, e che farà con lui utile apprendistato.

Vittorio era figlio di Anita Marti e del padre Benedetto, commissario di pubblica sicurezza nel capoluogo barese. Ma questi, minato da cagionevole salute, era scomparso dopo appena tre anni, lasciando alla giovane moglie l’ineluttabilità di convolare in seconde nozze. Al bambino Vittorio mancò sempre il rapporto con la madre e con i quattro fratelli nati dal patrigno; egli si sentì sempre “leccese” per famiglia e formazione, anzi “idruntino”, come osservato da Armando Audoli[10].  Bodini visse così con il nonno Pietro, come ricordato da Oreste Macrì, la “prima” delle sue sette vite, quella dell’infanzia e dell’adolescenza futurista[11].

Immenso fu l’affetto tra nonno Pietro e il nipote Vittorio; grandissimi i precetti etico-morali instillati nel tuttavia, ribelle nipote. Dodici anni dopo, l’8 luglio 1926, dall’altra figlia di Marti, Emma, era nato a Manduria un altro nipotino, Elio Dimitri, che ho avuto la fortuna di conoscere, due anni prima della sua morte (3 febbraio 2016)[12]. Vittorio Bodini ed Elio Dimitri, due nipoti del giornalista Marti. Il primo studiato nei corsi di Letteratura del Novecento, mai conosciuto di persona; il secondo, conosciuto e frequentato dopo che avevo appreso della sua esistenza a Manduria per il tramite di internet[13].

Studioso insigne di storia locale, che più d’una volta mi fece omaggio di qualche sua pubblicazione, come quel noto “Saggio” del 1962[14]. Spesso mi ricordava che anche il nonno Pietro, a lui bambino, regalava sempre qualche suo scritto, ogni volta che di domenica frequentava a Manduria l’abitazione della figlia Emma. Egli aveva un ricordo nettissimo del nonno e della sua notorietà in tutta la Puglia e nell’intera Penisola. Grande era l’amore del nonno per l’unicità di Terra d’Otranto, per gli studi storico-letterari, per le Belle Arti e per i siti archeologici sparsi per il territorio salentino. Tanto che Dimitri mi confidava come sarebbe calato nella tomba l’amato nonno nell’abitazione leccese di Porta San Biagio, in via G.A. Ferrari: tornato zuppo da una missione archeologica nel brindisino, a Egnazia, perché sorpreso da una pioggia torrenziale, fu colpito da una bronco-polmonite letale, che non gli lasciò scampo.  Grande fu l’amore di tutti i nipoti nei confronti di Marti. Lo stesso Bodini, ricordando il nonno sul Supplemento de “La Voce del Salento” del 18 maggio 1933, così scriveva:

 La sua vita di questi ultimi tempi avrei voluto ricostruirla amorosamente attraverso i miei ricordi densi e vivi attraverso le pagine care de “La Voce”, la sua “Voce del Salento”, ultimo suo giornale e mio primo, attraverso le sue ultime pubblicazioni, tante delle cui pagine mi dettava, con la facilità di chi legge. Se questi suoi anni costituiscono tanta parte della mia giovinezza ,io non posso, no, farne la cronaca, in poche comme…[15].

 Al nipote Bodini, Marti spesso rimarcava: Giornalista, Vittorio, non è solo l’autore dell’articolo, ma chi, trascendendolo, lo annulla per fondersi in una individualità più ampia: Il Giornale. Il grande Bodini aveva frequentato una grande scuola di scrittura e di impensabile capacità creativa.

Per il professore-giornalista Pietro Marti, sempre conscio del valore etico-sociale della cultura, scuola, istruzione e giornalismo costituivano dei grandi pilastri su cui si regge una società moderna, nella quale ciascuno può giocarsi formidabili opportunità di successo personale e di sicure ricadute positive sull’intera collettività. Due personaggi in definitiva, quei due nipoti di Pietro Marti, Vittorio Bodini ed Elio Dimitri, che hanno lasciato traccia, ciascuno nel proprio ambito, nel panorama culturale italiano e persino europeo.

 

Note

[1] Delle qualità scrittorie del giovane Pietro Marti ebbe a scrivere Giosué Carducci alla uscita della pubblicazione del salentino de Origine e Fortuna della Coltura salentina (Lecce, Tip. Coop., 1893), su  “Nuova Rassegna”, con gli elogi del grande Vate, di Ruggero Bonghi e di De Gubernatis.

[2] E. INGUSCIO, La Civica Amministrazione di Ruffano (1861-1999). Profilo Storico, 1999, Congedo Ed. pp. 174-75.

[3] La famiglia Marti a Ruffano frequentava il cenacolo politico-culturale della potente famiglia Leuzzi, come riferito dallo stesso Marti nelle sue “Memorie” a proposito del “Battesimo Tricolore” del piccolo Pietro. Cfr. di P. MARTI, Memorie biografiche, 1933, quaderno ms, archivio privato Dimitri, Manduria.

[4] La spiacevole vicenda tra Marti e il vicesindaco Santaloja s’innescò proprio in concomitanza dell’assenza temporanea da Ruffano del Leuzzi, in buone relazioni con i Marti. Santaloja scaricò il proprio livore contro Marti e il Leuzzi, al quale egli aveva portato via una donna della famiglia, fatto maldigerito dai “galantuomini” Leuzzi. Cfr. in Appendice– Sindaci a Ruffano dall’Unità d’Italia ai giorni nostri, in E. INGUSCIO, La Civica Amministrazione di Ruffano, cit. p. 211.

[5] A. CALABRESE, Cronologia della Penisola Salentina in un manoscritto di Pietro Marti, in “Lu Lampiune”, Lecce, 3 dicembre 1990.

[6] Sulla frenetica attività culturale dei fratelli Marti si vedano anche di E. INGUSCIO, A Ferrara sulle tracce dei Marti. L’attività culturale nel Polesine di Pietro e Raffaele Marti, in “Il Nostro Giornale”, Supersano, 25 dicembre 2019, a. XLIII , n. 91, pp. 42-43; ed anche in Idem, Di due salentini sul Lago Maggiore a fine Ottocento. Antonio e Luigi Marti, in “Il Nostro Giornale”, Supersano, 5 luglio 2020, a. XLIV, n. 92, pp. 54-55.

[7] P. MARTI, Per la Verità…, Volantino a stampa, archivio privato Dimitri, Manduria, 1922

[8] La fede nel mazzinianesimo era ben radicata in casa Marti, se il padre di Pietro, usciere presso l’allora pretura del mandamento di Ruffano, risultava iscritto a “La Giovine Italia” dai primi tempi della sua creazione. E la radice risorgimentale-ottocentesca del giornalista Marti, farà sempre capolino nei suoi scritti e nelle sue conferenze, tenute in Puglia e in tutta Italia. Nel 1921 Marti, invitato dalla Università popolare di San Severo, aveva parlato de Il Dovere Civile e Giuseppe Mazzini. Il testo della conferenza venne poi pubblicata in quella città, presso la tipografia G. Morrico. Di tanto do nota in “Cronotassi bio-bibliografica di Pietro Marti” (Appendice) nel volume, stampato nel 2013, Pietro Marti (1863-1933. Cultura e Giornalismo in Terra d’Otranto, 2013, Nardò, Tip. Biesse, pag. 243.

[9] V. BODINI, In memoria di Pietro Marti. La vita… e l’opera, in Supplemento al n. 11 de “la Voce del Salento”, Lecce, 18 maggio 1933. E’ lo stesso Bodini, che nel ricordare la molteplice attività del nonno Pietro in tutta la Puglia nel ruolo di apprezzato conferenziere, riferisce di un incontro culturale nel foggiano e accenna all’incarico a preside dello stesso nelle Scuole “Zannotti”. L’istituzione scolastica ancora oggi esistente con tale denominazione, risulta però essere un Istituto Comprensivo Statale.

[10] A. LEOGRANDE, Il canto della vita. Riflessioni su Vittorio Bodini, Dimensione Font, 29 novembre 2017.

[11] Cfr. E. INGUSCIO, Pietro Marti (1863-1933. Cultura e Giornalismo in Terra d’Otranto, 2013, op. cit., pag. 163.

[12] Al sottoscritto è toccato il triste compito di stendere una nota biografica sul grande Dimitri, studioso scomparso nell’inverno del 2016: E. INGUSCIO,  Elio Dimitri, in Archivio Storico Pugliese, Società Storia Patria per la Puglia-Bari, LXIX (2016), pp. 248-349.

[13] La madre dell’ing. Elio DIMITRI, aveva sposato Paolo, impiegato a Manduria nel ruolo del personale scolastico dell’allora Direzione didattica

[14] Conservo con grande amore una copia autografata, la prima tra i tanti omaggi, dI E. DIMITRI, “Saggio di bibliografia Salentina, Quaderni Bibliografici, n. 1, Manduria, Libreria Messapia Editrice, 1962, pp. 70.

[15] V. BODINI, In memoria di Pietro Marti. La vita… e l’opera, in “Supplemento” a “La Voce del Salento”, Lecce, 18 maggio 1933, n. 11, pag. 1

Tornando a Sud: viaggi in un Salento che diventa casa, attraverso gli occhi degli altri

di Cristina Manzo

Quando tornai al mio paese nel Sud,

dove ogni cosa, ogni attimo del passato

somiglia a quei terribili polsi di morti

che ogni volta rispuntano dalle zolle

e stancano le pale eternamente implacati,

compresi allora perché ti dovevo perdere:

qui s’era fatto il mio volto, lontano da te,

e il tuo, in altri paesi a cui non posso pensare.

Quando tornai al mio paese del Sud,

io mi sentivo morire.

(Vittorio Bodini) [1]

 

Santa Maria di Leuca, tramonto a Finibusterrae (foto Cristina Manzo)

 

L’idea di turismo, come filosofia di viaggio può essere ricondotta a una sorte di memoria inconscia della condizione nomade dell’umanità. Molte volte si comincia un viaggio per uscire momentaneamente da sé, fare un giro e ritornarvi; per orientarsi verso qualcosa che ci distragga momentaneamente dal peso dell’abitudine; perché si ha il ricordo e il richiamo di una terra che abbiamo già visitato o di cui abbiamo sentito parlare e per il sospetto che essa potrà essere determinante nella nostra vita. Ma, come quando Ulisse intraprese la sua odissea, è nel corso d’opera, in itinere, che accade l’inaspettato che cambia il corso dei giorni. Ad un certo punto della vita non siamo più noi a cercare i viaggi ma sono loro a cercare noi. La vita non è mai dove è ma dove si arriverà. Una ricerca di sé sempre in partenza, in attesa di un approdo per dipanare la matassa della vita, in cui siamo aggrovigliati e chiusi come in un bagaglio, prima di arrivare alla meta. Quanta ironia c’è nelle carte d’identità, nei passaporti e negli strumenti indispensabili del viaggio: ci sono tempi, luoghi, dimensioni e professioni nelle quali ci si conosce bene, eppure non ci si riconosce mai, perché ogni volta è tutto nuovo, è come ricominciare ogni volta daccapo. Ma che differenza c’è tra il trovare e l’essere trovati? Una diversità che affascina nel momento fondante della propria esistenza, quando l’io riconosce la sua dimensione e la dimensione riafferma l’io; quando l’anima chiama al viaggio sopra ogni cosa, superando anche la paura di smentirsi. Nel viaggio abita l’ironia profonda di non sapere mai a cosa si va incontro e in che modo esso cambierà il percorso della nostra vita. L’anima e la terra sono le note in sintonia a cui l’uomo, in corso di ricerca, dovrebbe evitare di contrapporre l’elemento razionale. E, tuttavia, anche l’Odisseo ad un certo punto del Nostos è combattuto tra l’irrequietezza originata nel bisogno di vagare e di conoscere e la razionalità del ritorno a casa e agli affetti. Tutto sta nell’ambiguità dello scambio, della novità di culture, tradizioni, cibo, persone, prospettive e, nel fine da raggiungere, per mediare la nostra esistenza con la felicità. Potremmo dire che ad un certo punto si è rapiti da un bisogno di avventura e di incognito come quello che rapì la mente del Don Chisciotte di Cervantes che, in groppa a Ronzinante, al fianco di Sancho Panza, si dedicò all’esplorazione delle terre della Mancha.

Il Salento, nel profondo sud, non è mai stato luogo di confine ma piuttosto quel “sud nel sud”, quell’idea di “luogo non luogo” dalla quale è difficile uscire e a cui è altrettanto difficile non tornare. Il Salento è sin dall’antichità quella terra-paese che bisognerebbe attraversare tutta, per poterla trasformare in un racconto itinerante di poesia proprio come nel pensiero di Bodini e di Carmelo Bene che, per consegnare voce e visione a quella poesia dell’amico Vittorio, avrebbe voluto compiere quel Don Chisciotte itinerante nel “Salento della Mancha”. Progetto purtroppo rimasto irrealizzato. ( Nel 1975, siamo stati vicini di casa, io e Carmelo, al secondo piano del palazzo Bozzicorso, in via degli Antoglietta n° 42, dove io abitavo con mia nonna. Ricordo che ero appena undicenne e una mattina ci incontrammo sul pianerottolo mentre lui apriva la porta, di ritorno da uno dei suoi impegnatissimi viaggi, (infatti restò solo pochi giorni) e quella era la casa in cui da Campi Salentina si era trasferito con la famiglia. Vedendo che io sbirciavo curiosa, all’interno, mi fece segno di entrare e io lo feci, mi fermai nell’ingresso e scambiammo qualche parola, era appena morto mio padre. Carmelo era molto gentile e carismatico, una personalità stravagante e immensa, con il senno di poi, (intendo per me che, ancora piccola, non conoscevo la sua importanza). Mi è sempre rimasto impresso quell’incontro. Per i condomini del palazzo non era chiaro se la presenza del “personaggio” fosse gradita o scomoda ma, di sicuro nelle mie memorie ricordo che lo definivano “uno strano”. Proprio la sua città è stata quella che meno lo ha capito e ha riconosciuto il suo talento. Quando mise in scena l’Amleto al teatro Ariston, i leccesi gli furono apertamente ostili e quindi, come dare torto a quell’animo straordinario che sosteneva di « essere nato al Sud del Sud dei santi e che del Salento era orfano»? E questo è forse, uno di quei pochi casi inversi, in cui per concedere libertà all’immenso genio, si ebbe bisogno di lasciare un luogo amato, pur portandolo nel cuore.

Il Salento che Carmelo sognava è una parte di quel sud che con grande fatica, eppure senza sforzo, si era impegnato a raggiungere il resto dell’Italia e dell’Europa dopo la sua unità ma che, pur tuttavia, aveva sempre conservato con onore e gelosia quella piccola distanza silenziosa nel fiume del dialogo con il resto dei luoghi. Ed è stata questa rispettosa distanza che ha permesso al Salento di restare “Il Salento” nei cuori di tutti coloro che l’hanno lasciato e poi ritrovato o semplicemente scoperto. Il Salento degli incontri e degli scontri, della terra e del mare, dell’accoglienza e dell’ascolto, dei tramonti e del dolce naufragare. Delle partenze, dei transiti e dei ritorni.

Forse quel giorno avrò sognato… ma di certo lungo la via, nei borghi e attraverso i campi infiniti della Mancha, ho ritrovato il piacere del viaggio povero e sconclusionato, e ho sentito mie le parole che un Sancho, reso più esperto da tutte le peripezie attraversate, confida alla moglie dopo il suo ritorno: “Non c’è al mondo cosa più piacevole per un uomo che l’esser l’onorato scudiero di un cavaliere errante che va in cerca di avventure … Che bella cosa che è aspettare gli eventi attraversando monti, frugando selve, scalando picchi, visitando castelli, alloggiando in locande a volontà…”[2].

Chi torna da un viaggio non è mai la stessa persona che è partita. A maggior ragione se, il “viaggio” è stato nel sud che, con la sua poesia, ti scava dentro, un solco nell’anima che nessun’altro luogo può riempire.

[…] Non era qui sorta, nella Magna Grecia, la prima splendida civiltà? Non erano qui nate, in Palermo e nella Puglia, al tempo di Federico II, la letteratura e l’arte nazionale? Non era sempre questo l’incantato paese «dove fiorisce l’arancio»? Tutti credevano che fosse la terra promessa, colma di tutti i doni celesti, a’quali il mezzogiorno «troppo favorito dalla natura», secondo il Bonghi, «eccezionalmente cospicuo» a detta del Sella, «singolarmente ricco», per bocca del Depretis, «il più bello, il più fertile paese d’Europa», a giudizio del Minghetti, il quale parlando alla camera nel giugno del ’61, metteva in prima linea, tra le inesauribili occulte miniere della nostra fortuna, la nuda steppa, che è tutta un bassofondo marino quaternario, del tavoliere di Puglia: già prima di loro, non lo aveva forse descritto Vincenzo Cuoco, esule a Milano nel 1804, come il «più ferace sotto più dolce clima», e Pietro Colletta presso a morte, in Firenze il 1831, quale «terra ubertuosa sotto cielo lascivo», e Petrucelli della Gattina, profugo a Torino nel 1849, «un paese per cui Iddio esaurì la sua opulenza di creazione»[3]? Il termine “viaggio” nel dizionario indica uno spostamento in cui è dato sempre, un luogo di partenza ed un luogo di arrivo. Ma se fosse un mero spostamento, un transito e basta, non riscuoterebbe tanto interesse da parte di chi lo compie. Attraverso il “Nostos”, in cui si origina la nostalgia, il dolore, la mancanza, la tensione, il desiderio del nuovo o del vecchio già conosciuto, avviene il “ritorno”. Gli occhi di ogni viaggiatore sono importanti per descrivere un luogo, come pure è importante la visione di chi ci vive da sempre e non lo ha mai lasciato, ma niente, e ripeto “niente” è così incisivo come la storia di chi lo ha scelto seguendo una sorte fatale e lo ha abitato per dare un percorso nuovo alla propria vita. Nel caso del Salento, per esempio, non sono né gli abitanti che lo vivono da sempre né i turisti che lo visitano per poi ripartire che ce lo possono raccontare; possono farlo, invece, tutti quei personaggi venuti da lontano a scoprirlo quando ancora esso non era una moda ma, un modo di vivere, fiero e ineguagliabile testimone di tradizioni, libertà e cultura in bilico tra afa e tramontana, scirocco e respiro del mare.

(1 – continua)

Note

[1] Vittorio Bodini, Tutte le poesie, (a cura di Oreste Macrì), Controluce, Nardò, 2015.

[2] https://www.scuoladelviaggio.it/alla-ricerca-di-don-chisciotte-it.php

[3] Francesco Melzi D’Eril, Civiltà italiana dell’Ottocento, Mursia, Milano, 1966-1968, p.238,239.

Libri| Parole sante. Versi per una metamorfosi

parole-sante1

Daniela Liviello

“ma ormai

senz’ombra

senza pietra come

come farò a sapere

dove sono, fino a che punto sono morto

o vivo…..”       Vittorio Bodini

 

Il fuoco è spento, il vento si è quietato, l’alba si stiracchia, si stropiccia gli occhi.

Saliamo sulla pietra più alta per guardare il nostro campo, cosa resta dopo l’ennesimo incendio doloso.

E’ tanto amato questo campo, questa terra che rinasce scostando le tende grigie di fumo. Riprende a scorrere la linfa, riprende l’affanno delle formiche, le mani tornano a ricomporre un’armonia di pietra.

Anche quest’anno 2016 i versi si raccolgono in antologia. “Versi per una metamorfosi”. Kurumuny edizioni.

Il ricavato della distribuzione dell’ antologia 2015 è diventato ulivo: nell’orto sono state messe a dimora ottanta piante della specie ogliarola.

Ventidue poeti di ogni regione hanno composto ispirandosi ad un verso tratto dal “Canzoniere della morte” di Salvatore Toma, il poeta di Maglie: A me Dio piace indovinarlo//in una pietra qualunque.

E a noi piace pensare che Salvatore Toma abbia sorriso da lassù ascoltando le voci dei poeti che a lui si sono richiamati.

Premio letterario “La luna dei Borboni”

luna

di Rocco Boccadamo

 

Si è appena tenuta la IX edizione del Premio “La luna dei Borboni”, dedicato al grande poeta, scrittore, traduttore e giornalista salentino Vittorio Bodini.

La manifestazione, sentita, quest’anno, con particolare intensità giacché concomitante con il centenario della nascita del preclaro personaggio, si è svolta, al solito, nella raccolta Piazza S. Nicola, un vero e proprio leggiadro bocciolo, di Cocumola (Lecce), la minuscola frazione che, in certo qual modo, si può considerare culla e luogo dell’anima di Bodini.

Alla presenza della figlia del poeta, Valentina, la serata è stata condotta con competenza e professionalità dalla giornalista e scrittrice Luisa Ruggio.

Nell’ambito del prestigioso premio, sono stati inseriti, per la prima volta, anche riconoscimenti a favore del giornalismo: assegnatari, in questa edizione, i due quotidiani regionali “La Gazzetta del Mezzogiorno” e “Nuovo quotidiano di Puglia”, rappresentati, rispettivamente, dalla giornalista Gloria Indennitate e dal giornalista e scrittore Antonio Errico.

Vittorio Bodini a cent’anni dalla nascita

Bodini

Le iniziative culturali, artistiche ed editoriali  

per il centenario della nascita di Vittorio Bodini

 

di Paolo Rausa

Quest’anno ricorre il centenario della nascita di Vittorio Bodini, nato il 6 gennaio 1914 a Bari da famiglia leccese e ritornato nel capoluogo salentino all’età di tre anni, alla morte del padre.

Il Centro Studi Vittorio Bodini, presieduto dalla figlia Valentina e sotto la supervisione letteraria di Antonio L. Giannone della Università del Salento, ha messo in programma una serie di iniziative culturali, artistiche ed editoriali al fine di promuovere la conoscenza dell’opera letteraria del grande poeta, traduttore e cantore del Sud. Una vita che si dilata dal Salento a Bari,  Roma e Firenze, dove studia all’Università e si laurea,  e soprattutto a Madrid, per la scoperta delle affinità fra la cultura spagnola e quella del Sud. Tutte tappe importanti che lasciano il segno tangibile sulla sua copiosa e multiforme produzione letteraria. La Spagna diventa la sua seconda patria, ne sono documento i reportage raccolti nel volume Corriere Spagnolo (1947-54). Di ritorno a Lecce, nel 1949, riscopre la propria terra nella storia, nell’arte, nel costume e nelle tradizioni. A questo periodo risalgono numerosi racconti, prose e le sue prime raccolte di poesie, La luna dei Borboni (1952), finalista al Premio Viareggio e Dopo la luna (1956), con cui vince il Premio Carducci. Pubblica con Einaudi la traduzione del Teatro di Federico Garcìa Lorca, e nel 1957 la traduzione del “Don Chisciotte”  di Cervantes. Nel 1963 è la volta, sempre con Einaudi, dei poeti surrealisti spagnoli. L’ultimo suo libro di versi è Metamor, nel 1967.

Pochi anni dopo, il 19 dicembre 1970, muore a Roma a cinquantasei anni.

Le Edizioni Besa creano una collana, la Bodiniana, curata da Antonio Lucio Giannone, in cui fanno confluire tutte le pubblicazioni degli scritti inediti, dei libri di poesia e dei carteggi. Il 6 gennaio scorso hanno puntualmente preso il via le iniziative culturali e le celebrazioni per il centenario della sua nascita da Castelnuovo di Porto (Roma), con il ricordo di amici e artisti. Con la conferenza  del 10 febbraio scorso presso la Presidenza Regionale di Bari ha preso avvio ufficialmente il progetto del centenario. Il programma è molto nutrito e prevede programmi radiofonici a Radio Queen di Lecce, la mostra multimediale sull’uomo e sul letterato “Vittorio Bodini. Un uomo condannato al coraggio” il 22 febbraio al Museo Must di Lecce, la mostra fotografica dal 22 febbraio al 31 marzo alla Libreria Liberrima di Lecce dal titolo “Bodini per immagini”. Le altre iniziative comprendono la pubblicazione del romanzo giovanile “Il fiore dell’amicizia”, per Besa Editrice, il film in b/n “Viviamo in un incantesimo.

Visioni poetiche su Vittorio Bodini” a fine aprile al Festival del Cinema Europeo di Lecce, il teatro a giugno  con “L’intervista impossibile”, sulla sua dimensione creativa alla ricerca di una via intermedia fra ermetismo e neorealismo, un progetto di Antonio Minelli. Ad agosto-settembre si svolgerà a Lecce il Premio internazionale Vittorio Bodini, che prevede il riconoscimento a una personalità importante del panorama letterario italiano; a novembre-dicembre, fra Lecce e Bari, il Convegno internazionale di Studi, a cui parteciperanno università italiane e straniere (Madrid, Salamanca, Barcellona) sui vari aspetti della sua opera (poesia, prosa, saggistica, critica, traduzione e carteggi).

A settembre-ottobre si svolgerà a Urbino un incontro su Bodini traduttore (Don Chisciotte, il Teatro di Garcìa Lorca e i poeti surrealisti) e a dicembre, alla Città del libro di Campi Salentina, dialogo con i giovani lettori. Infine l’ultimo appuntamento, il 4-8 dicembre alla Fiera del libro di Roma, sugli ultimi anni di vita nella capitale.

Lo spettacolo-concerto “La luna dei borboni” del gruppo musicale Ecovanavoce suggellerà con un cd  questo percorso culturale faticoso, ma degno di un grande poeta. Per info: www.vittoriobodini.it, segreteria.centenario.bodini@gmail.com.

BIOGRAFIA CENTENARIO BODINI1

La piccola Cocumula (Lecce) e il grande Bodini

bodini3

di Rocco Boccadamo

 

Sabato 31 agosto, nel corso di una bella serata avente per cornice la piccola e graziosa Piazza S. Nicola di Cocumola (Lecce),si è svolta l’ottava edizione del Premio “La luna dei Borboni”, dedicato alla figura e all’opera del poeta salentino Vittorio Bodini.

L’ambito riconoscimento è andato, quest’anno, a Guido Davico Bonino, critico letterario, storico e teatrale.

In aggiunta, targhe col simbolo “La luna dei Borboni” sono state consegnate a Luciano De Rosa, già redattore della rivista “L’esperienza poetica” fondata e diretta da Bodini dal 1954 al 1956, al poeta e critico Antonio Mangione e all’ex rettore dell’Università del Salento Donato Valli. Infine, un riconoscimento postumo anche per Oreste Macrì, fra i maggiori ispanisti italiani del Novecento.

La manifestazione, condotta dal giornalista Beppe Stallone, redattore del giornale telematico GO.Bari.it, è stata impreziosita attraverso la recita di alcune composizioni bodiniane per opera dell’attrice leccese Carla Guido, l’esecuzione, da parte del maestro pianista Andrea Padova, di una serie di brani originali da lui composti, traenti ispirazione sempre da poesie di Bodini e, da ultimo, due brevi rappresentazioni teatrali, su temi del medesimo autore letterario, proposte da gruppi d’attori salentini, con il coordinamento di Antonio Minelli, regista di eventi ed esperto di comunicazione.

E’ intervenuta la figlia dell’intestatario del Premio, nonché Presidente dell’omonima Fondazione, Valentina Bodini.

°   °   °

Così, lo scenario, la scaletta e il contenuto dell’evento.

E, però, mai come in questa circostanza, al centro dell’atmosfera tutt’intorno e di fronte al palco, nella stessa aria respirata gradevolmente grazie a leggeri refoli di tramontana, a cominciare dai preamboli dell’arrivo delle autorità, degli ospiti e degli spettatori e sino al saluto conclusivo del conduttore, si è costantemente avvertita, nel cuore di Cocumola, la presenza, idealmente viva e intensa di lui, Vittorio Bodini.

Nato casualmente a Bari nel 1914, da genitori salentini, rientrato in tenera età a Lecce e quindi cresciuto in stretta comunione  con queste terre e con la gente locale, laureatosi in filosofia nell’Ateneo del capoluogo regionale e nuovamente lì, dopo una parentesi di tre anni di studio, approfondimento, esperienze e frequentazioni culturali a Madrid, in qualità di professore ordinario di letteratura spagnola. Morto a Roma nel 1970.

E’ notevole la sua produzione letteraria e soprattutto poetica, dal primo manifesto futurista a diverse raccolte di versi succedutesi nel tempo.

Ma, a prescindere dalla mole, nell’opera dell’autore in discorso, colpisce e impressiona la peculiarità qualitativa che trasuda pressoché da ogni rigo o dettaglio, le parole non sono isolate, bensì hanno un anima, fatta di volti, ambienti, situazioni ed eventi.

E’, in particolare, il Salento, con la sua tipica espressività esistenziale e le consuetudini sociali, ad emergere da numerose poesie di Bodini.

Elementi e/o compagni di vita ormai da qualche tempo desueti, del genere, solo per citare, del tabacco (una campionatura di foglie in corso d’essiccazione è stata felicemente posta sul palco, sabato 31), oppure dei traini dalle alte ruote a raggiera e corredati di lanterna, in viaggio di notte, con pesanti carichi di tufi estratti dalle immense cave diffuse nella zona.

Cave, a guisa di paradisi a rovescio di sudore, trasferte con i traini, di sovente simboleggianti, oltre che disagi, incertezze e ansie. Altro lato della medaglia, d’impronta positiva, quanti edifici, quanti sposi accasati e quanti nuovi nidi ne sono nati o derivati!

Un paese che si chiama Cocumola / è / come avere le mani sporche di farina / e un portoncino verde color limone. / Uomini con camicie silenziose fanno un nodo al fazzoletto / per ricordarsi del cuore. / Il tabacco è a secare, / e la vita cocumola fra le pentole / dove donne pennute assaggiano il brodo».

Sarà, forse, azzardata e approssimativa la mia idea di accostamento, tuttavia la figura di Vittorio Bodini, col suo bel volto pacato da signore nell’animo, mi fa venire alla mente l’ape, il minuscolo insetto che, in genere, passa per noioso, fastidioso. A voler meglio riflettere, invece, tale creatura va attingendo nettare dai fiori e/o dalle piante, che qui profumano anche di salsedine per il mare non lontano, per poi rendere il frutto della sua attività sotto forma di miele e, al caso, con una successiva lavorazione, di pappa reale, nutrimento fra i più eccellenti per gli umani.

E, in fondo, si può definire in certo qual modo similare il processo di ideazione e di elaborazione delle sue composizioni poetiche, da parte del Bodini: egli assimila paesaggi, terre, abitudini, volti e genti, natura, fiori, frutti e piante e ne fa la base per liriche che fanno vibrare le menti e gli animi di chi si accosta, leggendole e meditandole.

 

Qui non vorrei morire dove vivere / mi tocca, mio paese, / così sgradito da doverti amare; / lento piano dove la luce pare / di carne cruda / e il nespolo va e viene fra noi e l’inverno.// Pigro / come una mezzaluna nel sole di maggio, / la tazza del caffè, le parole perdute, / vivo ormai nelle cose che i miei occhi guardano: / divento ulivo e ruota di un lento carro, / siepe di fichi d’India, terra amara/ dove cresce il tabacco. / Ma tu, mortale e torbida, così mia / così sola / dici che non è vero, che non è tutto. // Triste invidia di vivere, in tutta questa pianura / non c’è un ramo su cui tu voglia posarti».

Da non addetto ai lavori e soprattutto da non esperto, penso che l’opera dell’autore salentino non sia soltanto esempio di fine arte poetica, ma anche connubio sublime e straordinario fra il momento e i contorni dell’ispirazione e l’opera successiva di trasposizione del relativo contenuto in versi e strofe.

In fondo, senza ombra di partigianeria o spirito campanilistico, il patrimonio poetico lasciato dal Bodini sembra di livello assolutamente e indubbiamente eccelso; l’autore di cui parliamo non può definirsi semplicemente e riduttivamente di rango locale o regionale, ma può stare degnamente a fianco dei più grandi poeti italiani e finanche europei.

Verrà un giorno in cui, nelle raffigurazioni intorno alle maggiori eccellenze in campo poetico e letterario, insieme con l’ermo colle, i cipressi e la magia composta di Santa Croce, figurerà anche il Salento e in particolare la minuscola Cocumola (frazione con appena mille residenti),  grembo e patria di Bodini.

Un autore, a tutt’oggi scarsamente apprezzato rispetto alla sua grandissima opera, ma che, v’è da credere, troverà rapidamente ampia rivalutazione.

A tal fine, sarà un’importante pietra miliare l’ormai prossimo 2014, centenario dalla nascita del poeta.

°   °   °

Intanto, per giusto omaggio e per riservare a lui l’onore dell’intera scena, nella sera di sabato 31 agosto, la luna che sovente s’affaccia in alto, fra astri e pianeti, se n’è stata da parte, lasciando in prossimità del nostro sguardo una sua omonima, vale a dire “La luna dei Borboni”, intitolazione del premio dedicato a Bodini.

Inaugurazione del Centro Studi Vittorio Bodini a Minervino di Lecce

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di Paolo Rausa

 

 

Cocumola, frazione di Minervino di Lecce e resa famosa da una celebre lirica di Vittorio Bodini, contenuta nella raccolta ‘La luna dei Borboni’ del 1952: “Un paese che si chiama Cocumola / è / come avere le mani sporche di farina / e un portoncino verde color limone./ Uomini con camicie silenziose / fanno un nodo al fazzoletto / per ricordarsi del cuore. / II tabacco è a seccare, / e la vita Cocumola fra le pentole / dove donne pennute assaggiano il brodo”, ha dato spunto all’Amministrazione Comunale di istituire il Premio letterario ‘La luna dei Borboni’, giunto ormai all’VIII edizione. Il progetto del Sindaco e di tutta l’Amministrazione ha coronato l’8 di agosto il sogno di inaugurare il Centro Studi Vittorio Bodini, presieduto dalla figlia del poeta, Valentina, e che si avvale della consulenza scientifica del prof. Lucio Antonio Giannone, dell’Università di Lecce. Il Sindaco Ettore Caroppo può essere soddisfatto e orgoglioso di questa istituzione che ha lo scopo di far conoscere e valorizzare il talento poetico e letterario di uno dei più grandi poeti del novecento, che per un malcelato senso di meridionalismo è ancora privo del meritato riconoscimento. Il pensiero corre ad uno dei più strenui difensori degli autori contemporanei salentini, i vari Comi, i Bodini, i Verri, le Rina Durante, i Salvatore Toma, grandi poeti e scrittori di una provincia del Sud, il Salento, generosa ‘d’alme d’eroi’ nel campo letterario. Paladino di questa battaglia, che ora vede realizzarsi una tappa importante, è stato Donato Valli, che ha retto l’Università degli Studi di Lecce.

Valentina Bodini all'inaugurazione del Centro Studi
Valentina Bodini all’inaugurazione del Centro Studi

A inaugurare l’apertura del Centro Studi, che trova sede in un’ala del restaurato Convento seicentesco dei Padri Riformati, l’esposizione internazionale di  libri d’artista a cura del Presidio del libro di Sannicola (Le), Verba manent: Vittorio Bodini, parola poetica. Con l’occasione è partita l’adesione alla Associazione Culturale “Centro Studi Vittorio Bodini” che si occuperà di far conoscere l’opera significativa del grande poeta salentino, di cui il 6 gennaio prossimo ricorre il centenario della nascita, attraverso la pubblicazione di opere edite e inedite, letture, convegni e l’istituzione di un premio letterario internazionale, suddiviso nei settori in cui Bodini ha esercitato la sua arte letteraria: la poesia, la narrativa, la saggistica e la traduzione. A conclusione della serata il gruppo romano Ecovanavoce ha musicato e cantato alcune fra le più belle liriche del poeta (Qui dove nasce il tabacco, terra amara…, Hai fatto bene, dici, a non parlarmi più del sud, Sbattevano i lenzuoli sulle terrazze… arancio limone e mandarino…, ecc.). Infine in preparazione del Premio ‘La luna dei Borboni’ del prossimo 31 agosto, il Comune di Minervino e l’Associazione Centro Studi organizzano gratuitamente un corso di fotografia e uno di teatro, che culmineranno in una esposizione e in una rappresentazione durante la serata dedicata al grande poeta Vittorio Bodini, che ora finalmente ha trovato una buona base da cui rilanciare la sua produzione letteraria. Info: www.vittoriobodini.it, centrostudi@vittoriobodini.it.

 

Per una storia della cartapesta leccese. Come nasce la cartapesta

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di Cristina Manzo

 

Lecce, in su l’estrema punta d’Italia, è una piccola città molto interessante: belle chiese si ammirano di stile barocco, negozi eleganti risplendono come in una capitale e, quello che è più strano, vi suona una parlata che non è pugliese: pare toscana, ma senza aspirazioni. Che strano negozio è questo? Era la bottega di uno statuario. Per chi lo ignorasse, come io lo ignoravo, le statue delle immagini sacre sono una specialità di Lecce, che data da qualche secolo. Esse vanno per tutte le parti del mondo, Italia, Francia, Spagna, America. Così mi diceva con un certo orgoglio lo statuario. Altrove hanno provato a farle, e non sono riusciti. Sono quelle statue alla grandezza quasi naturale, ben drappeggiate, colorite splendidamente, ben fiorite. Sono quelle che noi vediamo sugli altari, specie delle chiese campestri. Questi santi e sante, immersi nella contemplazione del cielo, evidentemente ignorano i progressi dell’arte. Forse altri pensa, come io pensavo, che fossero di gesso. Macché! Sono di carta, e perciò molto commerciabili per la loro leggerezza, e nel tempo stesso resistentissime per anni ed anni. Nulla di più resistente della cartapesta, diceva lo statuario.”[…] Dunque santi di carta! E lo statuario mi indicava risme di carta grigiastra come quelle dei pacchi, che poi si mutano in statue dei santi. Con speciale processo questa carta diventa pastosa come creta; e si plasmano manti, chiome, come si vuole. Ho visto santi e sante in perfetto nudismo grigio, che poi vengono accuratamente vestiti e coloriti come in un istituto di bellezza.”[1]

 

Così si esprimeva Alfredo Panzini a proposito dell’arte della cartapesta leccese, un’arte le cui origini restano incerte e si perdono nella notte dei tempi.[2]

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Di fatto, come sostiene Panzini, non possiamo stabilire con estrema precisione quando, e chi,  iniziò a produrre la cartapesta nel Salento, anche se  parrebbe che alcune statue di cartapesta esistessero in Terra d’Otranto già attorno al quindicesimo secolo. Si potrebbe parlare quindi della prima metà del seicento. Infatti Sigismondo Castromediano, così ci tramanda:[3]

Se dovessi credere a certa tradizione caballinese, la quale asserisce che la madonna che ancora conservo in questo mio avito palazzo, venne ordinata da una mia avola, donna Beatrice Acquaviva, moglie del duca, Francesco de’ Castromediano Sanseverino Marchese di Caballino, direi che già esistesse fin dal secolo diciassettesimo, giacché la nobildonna morì nel 1647.”[4]

La giovane e gentile signora marchesa “donna Bice” aveva portato nel cuore da Napoli a Cavallino un particolare fervore devozionale per S. Domenico di Guzmàn, e facilmente convinse il marito a includere nei progetti edilizi anche la fondazione di un convento per ospitarvi i monaci Domenicani. Subito fu iniziata la costruzione del chiostro con licenza del padre rrovinciale dei Padri Predicatori, con consenso del Rev. Capitolo di Cavallino, con beneplacito di S. E. mons. Scipione Spina vescovo di Lecce. La chiesa del convento fu eretta sullo stesso sito della vecchia cappella di S. Nicolò; contiguo fu costruito il chiostro sul luogo di un vecchio palazzo e al posto di alcune casupole e nell’area di un cortile, di una stalla e di un pozzo. La facciata è piuttosto semplice, decorata da un gruppo scultoreo, ai lati del portale, raffigurante S. Omobono e S. Francesco di Paola, attribuibile all’artista salentino Mauro Manieri da Lecce. L’interno è a croce latina con una sola navata voltata a crociera. Accanto all’altare principale il marchese Francesco Castromediano, feudatario di Cavallino, nonché duca di Morciano e Cavaliere dell’Ordine di Calatrava, fece erigere nel 1637 una cappella di famiglia in origine dedicata a S. Benedetto. Al suo interno è ancora visibile il monumento sepolcrale del marchese e di sua moglie Beatrice Acquaviva d’Aragona. La leggenda narra che alla morte di Beatrice, Francesco decise di seppellirla nella cappella dei Castromediano all’interno della chiesa parrocchiale. In segreto, tuttavia, e d’accordo, con il parroco, ordinò che le fosse estratto il cuore per conservarlo in una grossa urna d’argento fino alla propria morte, quando i loro cuori sarebbero stati racchiusi in un’unica urna.[5] Ora, proprio questa piccola parentesi storica, legata al Salento, di cui siamo a conoscenza, parrebbe suffragare maggiormente, l’ipotesi secondo cui  Lecce acquisì la  preziosa e sublime tradizione  della cartapesta proprio da Napoli, tra il ‘600 e soprattutto il ‘700. Mentre a fondamento della veridicità del periodo, riscontriamo la stessa notizia che riguarda la statua posseduta da donna Bice, anche in uno scritto a cura di Franco Galli, “L’inizio della lavorazione della cartapesta leccese potrebbe risalire al secolo diciassettesimo, infatti, Castromediano riferisce che intorno al 1646, donna Bice Acquaviva possedeva una Madonna in cartapesta.”[6].

Una delle attrattive maggiori di questo nuovo materiale, era rappresentata dal fatto che la cartapesta riusciva ad apparire esteriormente alla stregua di materiali pregevoli, rari e costosi., ma al tempo stesso era facilmente maneggevole e plasmabile, cioè si modellava con estrema facilità, ed aveva un peso specifico a lavoro ultimato, molto inferiore agli altri materiali conosciuti ed usati sino ad allora, come la pietra, il marmo e il legno.

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A Napoli, dove era in uso già da tempo, veniva impiegata anche per le maschere, durante le recite teatrali, ed è  sempre qui che  nascono le numerose figure sacre di Santi, che ancora oggi si possono ammirare all’interno delle chiese o durante le processioni. Inoltre Napoli risulta essere stata la patria per eccellenza dei presepi in cartapesta. Il figuraro e il madonnaro nel diciassettesimo secolo erano diventati lavoratori specializzati incoraggiati dallo stesso re di Borbone, Carlo III, mentre la regina Amalia di Sassonia faceva lei stessa gli abiti per le statue.[7]

Ma sul rapporto con Napoli torneremo.

Tuttavia ci si potrebbe chiedere, per quale motivo i leccesi avvertirono l’esigenza di interessarsi a quest’arte? “La cartapesta – sosteneva Vittorio Bodini – è figlia della noia leccese. Basta solo vedere dove è nata, nelle botteghe dei barbieri…A Lecce il più glorioso capitolo scritto dai barbieri è la cartapesta.”[8]

Non possiamo negare che ciò corrisponda in parte a verità, perché furono davvero i barbieri a lavorarla tra i primi. I figari salentini ne fecero ben presto il passatempo preferito.

Ma è anche credibile quello che si domanda  il Ròiss, quando scrive “ Verso il 1841 la classe dei barbieri aveva preso a imitare e a copiare i lavori dei cartapestai, interessata ai guadagni  che essi procuravano?”[9]

In effetti uno dei motivi fu sicuramente questo; le richieste aumentavano, i guadagni non mancavano, i pagamenti erano in contanti e alla consegna, così molti furono i barbieri che diedero una svolta alla loro arte, cambiando attrezzi e mestiere. Era il periodo aureo della cartapesta, quello che il Ròiss chiama “dell’artigianato artistico, il più lungo, che va dalle origini sino al 1915.[10]

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Da alcune fonti storiche sembrerebbe che la cartapesta sia stata impiegata per la realizzazione degli archi eretti in onore della consorte di Ferrante Gonzaga, quando nel 1549 arrivò a Lecce, così come sembrerebbe essere stata impiegata ripetutamente per l’allestimento di addobbi e strutture apposite durante tutte le feste e le cerimonie  che popolavano anticamente la nostra Lecce Barocca.

Ma, anche in questi casi non si ha ancora una tecnica autonoma. Possiamo tuttavia affermare che a livello di domanda sociale c’erano invece tutte le condizioni affinché una tecnica del genere si sviluppasse: tra le fine del sedicesimo e per tutto il diciassettesimo secolo; infatti, la città diventa, dopo Napoli, il centro del Mezzogiorno più ricco di insediamenti religiosi.[11]

La definizione più esatta, di questa materia plastica, come la chiamano alcuni, continua ad essere quella più antica rinvenuta in un dizionario enciclopedico edito a Venezia nel 1830, “carta macerata in acqua e ridotta liquida o in pasta”[12].

In tutti i  dizionari linguistici: inglesi, francesi e tedeschi essa viene definita con un unico termine, uguale per ogni idioma: papier maché.

La cartapesta è nata come espressione di arte povera, essa infatti utilizzava solo materiali di scarto che non potevano influire in nessun modo sull’economia già povera degli umili artigiani che la lavoravano. I materiali erano la vecchia carta, il filo di ferro, la segatura, la paglia, stracci, colla fatta in casa e gesso.

La colla si otteneva mescolando in un pentolino acqua e farina, e cuocendo il miscuglio a fuoco lento fino ad ottenere un liquido trasparente. Una volta costruita l’anima del pupo e avergli dato forma con gli strati di carta pressata e la colla, si poteva decidere o di fiammeggiarne l’esterno, lasciando così l’opera al naturale, che assumeva una colorazione tra il verdastro e il marrone, oppure di colorarla con più colori.

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I coloranti erano ricavati da sostanze naturali, soprattutto di origine vegetale e animale che si trovavano e si trovano tutt’ora in natura, ma i costi erano molto elevati e la preparazione lunga e laboriosa, così come l’applicazione. Uno dei più costosi era  il colore blu. I pigmenti blu erano due: l’oltremare, che veniva ottenuto dai lapislazzuli, quindi molto prezioso, e l’azzurrite. Esso veniva usato maggiormente in quadri religiosi per rappresentare il cielo e la Madonna o le sante, e  la chiesa, a causa dei costi proibitivi era davvero l’unica a potersi permettere una tale spesa.

Le tonalità della  terra: ocre, marroni, giallini e un po’ di rossi, si  potevano creare con pochi elementi naturali facilmente reperibili e quindi erano nell’uso della tinteggiatura quelli più diffusi.

Per ottenere la brillantezza del colore si ricorreva a  piccoli frammenti di conchiglie, che venivano polverizzate e mischiate al pigmento colorato.

Con tali semplici e umili ingredienti artistici, quest’arte, oramai importantissima, è riuscita ad  acquisire un prestigio autorevole riconosciuto ormai in tutto il mondo. Abbiamo già detto che le chiese sono state per lungo tempo le maggiori istituzioni committenti delle opere di cartapesta. Uno dei motivi è sicuramente la leggerezza del composto, che diminuiva di molto il peso delle statue rispetto a quelle realizzate in legno, in ferro o in bronzo, e sicuramente anche la dolcezza delle espressioni dei volti e delle fattezze, che si potevano ottenere con un materiale così morbido da lavorare, così plasmabile. Gli artigiani, dunque, facendo di necessità virtù, cominciarono a specializzarsi, e ad affinarsi nella loro sottile maestria, per la realizzazione di statue di santi.

Negli animi dell’epoca, l’arte del sacro in cartapesta nasce come impegno religioso, come contributo personale al fiorire di un sentimento  che trova nelle nuove chiese cristiane il luogo privilegiato di espressione.

La realizzazione di numerosi lavori sacri in cartapesta ebbe la funzione di richiamo al culto dei fedeli attratti da vere e proprie opere nelle quali si riflettevano i tratti caratteristici della religiosità salentina.

Sin dai tempi più remoti l’uomo ha avvertito il bisogno di esternare il proprio credo  attraverso i riti e la realizzazione di simulacri con effigi di divinità alle quali veniva spesso attribuito un aspetto antropomorfo.

Con l’’iconoclastia  (dal greco εἰκόν – eikón, “immagine” e κλάζω – klázo, “distruggo”) che è stato un movimento di carattere politico-religioso sviluppatosi nell’impero bizantino intorno alla prima metà del secolo VIII, la cui base dottrinale era l’affermazione che la venerazione delle icone spesso sfociasse in una forma di idolatria, detta “iconolatria”[13], ci fu la convinzione di dover necessariamente distruggere tutto il  materiale iconografico. Solo in tempi più recenti, la chiesa cattolica ha fatto sì che arte e religione, bellezza e fede fossero  interdipendenti, e possiamo  ipotizzare che in occidente difficilmente avremmo avuto uno sviluppo dell’arte, una storia dell’ arte, una disciplina chiamata estetica, se il secondo concilio di Nicea[14] nel 787 non avesse approvato il culto delle immagini. Le immagini sacre non sono destinate, però, ad essere venerate come degli idoli, ma servono per richiamare alla memoria e per venerare il santo rappresentato. Bisogna pensare che una statua sacra, qualsiasi santo essa rappresenti, non possiede in sé la sacralità; è il rapporto tra essa e il credente che fa sì che l’oggetto, il simbolo, realizzato in un qualsiasi materiale acquisti contenuto spirituale. Non è, perciò, una questione di materia, o di struttura, ma di relazione tra il credente e la statua, tra l’uomo e l’oggetto che, senza la presenza del primo, non avrebbe alcun significato. Il simulacro in questo modo diventa l’oggetto che media, che si fa carico delle sofferenze e delle attese di quell’ umanità che ripone la speranza in esso, per un riscatto terreno e per una sopravvivenza eterna.

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La statua considerata così come confine di varco, come limes, diventa finestra tra visibile e invisibile, appartenendo a  due mondi: l’aldiquà e l’aldilà, è posta tra il tempo e l’ eternità.

Naturalmente, la maestria dell’artista sta nel far sì che l’immagine da lui plasmata riesca a rendere, espressivamente, il più possibile quei sentimenti idealizzati dal credente. Le effigi religiose perciò costituiscono oggetto di studio nel quale si intersecano aspetti e contenuti diversi.

Così la cartapesta, materia povera, si affermò come alternativa economica alle costose statue in legno o in pietra e, nelle mani degli artisti dell’Ottocento e del Novecento, assunse grandi possibilità plastiche e consentì la realizzazione di grandi opere ancora visibili in moltissime chiese della zona.

Molte furono le botteghe artigiane aperte nel capoluogo salentino a seguito del diffondersi della fama di quest’arte, e molte furono le zone dove gli artigiani del posto furono chiamati a fare dimostrazione della loro abilità.

All’inizio, parlando di territori al di fuori dell’Italia, fu l’Inghilterra il paese dove questo materiale riscosse maggiore successo, a partire dalla seconda metà del Settecento. Infatti, da quel momento, la cartapesta venne impiegata al posto dello stucco nelle decorazioni di soffitti e muri. Intorno al 1760, per i lavori di costruzione e rifinitura della chiesa di West Wycombe vennero chiamati operai italiani e questo evento fu una delle saldature fra la tradizione italiana più antica e le nuove diramazioni che l’attività sviluppò in Inghilterra successivamente[15].

Tornando  nel Salento, i primi tangibili riconoscimenti di quest’arte  si hanno alla fine del Seicento, quando in città viene realizzato in cartapesta il controsoffitto della chiesa di Santa Chiara, ad imitazione di quello in legno, più pesante e oneroso. Il soffitto di Santa Chiara fu realizzato in vari pezzi che vennero poi montati sul posto, nel 1738. Diverse fonti attribuiscono questo soffitto a Mauro Manieri che in quegli anni operava per conto del vescovo di Lecce in Piazza Duomo.

Abbiamo poi un’opera antica del  1782, firmata Pietro Surgente (1742-1827), detto mesciu Pietru te li Cristi, un nomignolo  che gli fu attribuito proprio per la sua attività: è un S. Lorenzo ubicato a Lizzanello nell’antica chiesa dedicata al Santo. Gli storici seriori, tra i quali Nicola Vacca (Appunti storici sulla cartapesta leccese, 1934), non riuscendo a collocare la cartapesta in contesti più generali, hanno cercato di nobilitare la materia rintracciandone gli incunaboli[16], ora in questa, ora in quest’altra opera seicentesca. Furono sforzi destinati al fallimento, minati alla base, non tanto da un inconcludenza metodica, quanto da errori valutativi veri e propri, perché, a scorrere gli inventari delle istituzioni ecclesiastiche o quelli post mortem dei salentini del diciassettesimo secolo, non si trova il minimo accenno a statue in cartapesta.[17]

Anche Pietro Marti avanzò l’ipotesi secondo la quale le origini della cartapesta leccese possono esser fatte risalire ai primordi del secolo diciassettesimo, quando il moltiplicarsi dei templi e delle fraterie e la universalità della Compagnia di Gesù, volendo dare sviluppo al culto esterno, domandarono alle arti una miriade di lavori, dovunque e comunque concepiti[18].

 


[1] Cit. da  Costumi, cartoline, cartapesta, a cura di A. Sabato, Lecce, 1993, pp177-18

[2] Mario De Marco, La cartapesta leccese, Edizioni del Grifo, 1997, pp.5,6

[3] Idem, p.9

[4] Cit. da Sigismondo Castromediano, L’arte della cartapesta in Lecce, in “Corriere Meridionale”, IV, n 17, Lecce, 1893, p.2 ( la Madonna in cartapesta di donna Bice Acquaviva, di delicatissima fattura, è tutt’ora conservata nel palazzo ducale di Cavallino).

[5]  Don Francesco (1598-1663), segnò l’epoca più splendida del casato de’ Castromediano del ramo cavallinese, progredito con lo sfruttamento delle vaste proprietà terriere e dei residenti vassalli d’ogni ceto. Egli sin da giovane si esercitò con passione nell’equitazione competitiva e nell’uso delle armi.,dimostrò la sua abilità e perizia dapprima nel corso del servizio militare prestato con il grado di Capitano nell’esercito di re Filippo IV di Spagna, e poi nei tornei e nelle giostre che si organizzavano a Lecce, a Nardò, a Gallipoli, a Conversano, a Bari; alcune volte si recò sino a Napoli per cimentarsi a singolar tenzone con altri cavalieri in spettacolari incruenti duelli; e alla presenza di nobiluomini boriosi, di dame vanitose, di donzelle ammirate, il prode baroncino cavallinese si esaltava e riusciva molto spesso vincente. Era un giovane aitante e altero don Francesco, orgoglioso delle prerogative feudatarie, geloso dei privilegi della casata, fiero delle benemerenze degli avi, superbo della propria discendenza paterna e ora pure di quella materna, tanto che volle prendere per sé i due cognomi Castromediano e Sanseverino, e anche nello stemma di sua famiglia volle inquartare gli emblemi delle due casate. L’anno 1627 i residenti cavallinesi assistettero impressionati e compiaciuti a un avvenimento memorabile. Le settimane precedenti, guidati dai fattori del marchese, avevano ripulito le strade e le piazzuole del casale e incalcinato le facciate delle case; diretti da un architetto, avevano appeso ghirlande di fiori per le vie e innalzato archi di trionfo. Tutti vestiti a festa poterono vedere arrivare tutta la nobiltà di Terra d’Otranto: principi, conti, duchi, marchesi, baroni, cavalieri, con le rispettive consorti, che venivano a Cavallino per partecipare alle feste organizzate in occasione delle nozze di don Francesco Castromediano Sanseverino con la nobile damigella Beatrice, figlia diciottenne di don Giovanni Acquaviva d’Aragona dei Conti di Conversano e Duchi di Nardò. Notizie storiche tratte dal sito “ www.antoniogarrisiopere.it/28_c22_I—-Castr—–.html”

[6] L’ultima cartapesta, divagazioni su Lecce settecentesca ed una poesia di Vittorio Bodini, “Quaderni della Banca del Salento”, n. 1, a cura di Franco Galli, 1975.

[7] Natale, storia, racconti, tradizioni, Ed. Paoline,  2005, p. 105.

[8] Cit. da R. Barletta, Appunti e immagini su cartapesta, terracotta, tessitura a telaio, Fasano, 1981, p. 4

[9] Ròiss (Franco Rossi) Cartapesta e cartapestai, Maestà di Urbisaglia, Macerata 1983, cit. p.117

[10] Idem, cit. p. 84

[11] Caterina Ragusa, Guida alla cartapesta leccese. La storia, i protagonisti, la tecnica, il restauro, A cura di Mario Cazzato, Congedo editore,1993, pp.6,7

[12] A. Bazzarini, Dizionario enciclopedico delle scienze, lettere ed arti, Francesco Andreola, Venezia 1830-1837.

[13] Da Wikipedia, l’enciclopedia libera.

[14] Il secondo concilio di Nicea fu convocato nel 787, su richiesta di papa Adriano I, dall’ imperatrice d Oriente Irene, per deliberare sul culto delle immagini, proibito nel 726 da un editto imperiale di Leone III l’Isaurico e dal concilio tenutosi a Costantinopoli nel 754, nonostante l’ opposizione di papa Gregorio III, che fu costretto a recarsi a Bisanzio e ritrattare. Il concilio negò l’ ecumenicità del concilio del 754 e dichiarò la liceità del culto delle immagini.

[15] L. VALGENTINA, Muse, De Agostini, Novara 1965, vol. III, p. 120.

[16] Con il termine incunabolo (o incunabulo) si definisce convenzionalmente un documento stampato con la tecnologia dei caratteri mobili e realizzato tra la metà del XV secolo e l’anno 1500 incluso. A volte è detto anche quattrocentina.

[17] Caterina Ragusa, Guida alla cartapesta…, cit., pp.5,6

[18] P. MARTI,  La modellatura in carta, Tip. Ed. Salentina, Lecce 1894. (opuscolo)

METAMOR

Rivisitando Vittorio Bodini

 METAMOR

Ultima raccolta di poesie del grande poeta salentino

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di Antonio Mangione

Metamor è l’ultimo libro poetico edito, vivente l’autore, da Vanni Scheiwiller, Milano 1967, pp. 45. E’ un titolo sintesi e simbolo di più significati. Si veda la presentazione ch’egli ne faceva alla stampa letterariamente specializzata: “Poesie surrealiste di V. B. – Vittorio Bodini ha consegnato a Vanni Scheiwiller, per uno dei suoi quadratini [della serie il quadrato], un libretto di poesie che vede accentuarsi anche in senso automatico il surrealismo riconoscibile nella sua poesia. E’ un’inchiesta sulla materia e sull’essere, maturata nella Roma dei Monti Parioli dei nights frequentati dalla Cafè-society di Piazza del Popolo e avrà il misterioso titolo di Metamor, a cui l’autore affida ben tre significati: metamorfosi, meta-amore e metà-morto”.

Si tratta di significati coincidenti in un altrove deumanizzato della condizione umana: corpo e mente in disfacimento, linguaggio prosaicamente abbassato, surrealistico a forte presa naturalistica (il surreale parte sempre dalle cose e dalle realtà negate). E con nuovo approfondimento, in una lettera a Oreste Macrì del 10 febbraio 1969: “Io […] considero Metamor e gli inediti un libro traumatico, sostanzialmente e disperatamente teso a denunziare il totale smarrimento del reale o la sua ricerca senza fede. In esso l’elemento ludico non è che un mezzo per tentare di stabilire l’equilibrio sconvolto. O per confortare mestamente il prelinguistico”. L’«elemento ludico» è una forma retorica del paradossale, del «discorsivo» libero e anomalo (cfr. la poesia Innestiamo il discorsivo), evidente dissimulazione di negatività profonda e irrisolvibile.

Metamor contiene 17 poesie con metro libero, tra versi brevi e più frequenti versi lunghi, a volte oltre il rigo della pagina, secondo prassi eversiva della Neoavanguardia. Furono scritte nel quinquennio 1962-1966, ultima epoca particolarmente innovativa della poesia italiana del Novecento. Sparito definitivamente il tema del Sud, primigenio, oltre che culturalmente attraversato, nei precedenti libri poetici (La luna dei Borboni, 1952; Dopo la luna, 1956; La luna dei Borboni e altre poesie, 1962), il poeta è alla ricerca, in Metamor, del proprio essere, dalla sterile e vana evocazione del passato al mortale stillicidio del presente, nel contesto di una estraniante società tecnologica e industrializzata.

Nella prima di esse, che s’intitola Conosco appena le mani, è ripreso il tradizionale tema dell’Ubi sunt? (villoniano soprattutto, della famosa Balade des dames du temps jadis), con un moderno parlarsi da sé a sé, in solitudine ultima e come già senza vita. Oltre se stessi residua un’estrema inconsistenza nominalistica, cui si riducono i “volti amati” (non più persone, ma puri nomi); conclusivamente, il compianto di passioni vissute e fatte vivere, di cui più non si scorge il “senso”.

Nelle spire del boom è una poesia ancorata allo storico boom economico-industriale e urbanistico-sociale del secondo dopoguerra, seguìto da sconvolgimento paesaggistico sostitutivo di una realtà smarrita. Superstiti, “una luce lontana e senza voce” di fronte “a un mare in tempesta, con la quale si misurano i “velieri” solitari e irosi dell’esistenza del poeta, e “una sera ignara”, o dell’inconoscibilità di quella esistenza, come accade di una lettera imbucata.

Innestiamo il discorsivo richiama il discorso corrente, della conversazione allusiva, analogica, anche automatica. Esemplare del caos di una società industrializzata, separata e a se stessa estranea. È descritta “la gazzarra” di giovani scorrazzanti in FIAT-500 ai romani monti Parioli, che irrompono nell’appartamentino del poeta, distruggendo l’armadietto dei medicinali, per sparire poi nella boscaglia di quei monti, di sera, quando si ha paura di sentirsi soli e di morire soli.

Il titolo di Testo a fronte è già l’emblema di una vita cercata e ripensata tal quale fu vissuta, come da originale a traduzione. Donne e animali, alberi, oggetti e cose, momenti felici e occasioni perdute, manie e dissipazioni… entrano nel gioco della ricerca in quanto quotidiane realtà vissute dal poeta nel tempo senza tempo della giovinezza. Ne deriva un testo metamorfico, illudente rifacimento di contenuti primari mai più ripetibili.

Lillemor continua l’assurdo dell’abolizione del tempo (vivere “vent’anni fa”) della poesia precedente, con episodi e figure come se esistessero per la prima volta, e non più si trattasse che di un illusorio escamotage della memoria. Di fulgida bellezza, Lillemor, “disoccupata d’amore”, insultata dalle laide e maldicenti “ciane”.

Nei viali ovali è poesia composta di due strofe antitetiche: una prima, sugli emigranti dal Sud al Nord d’Italia, tra nostalgia dei lontani luoghi nativi e futuro senza speranze; una seconda esprime un bellissimo volto femminile, dai “capelli spavaldi” che intagliano una “lagrima” stellare.

Il miele del dopoguerra declina un puro immaginario surreale. La neve che scende dal cielo come dai piani alti gli ascensori, “candida regina” discesa in tutta la sua bianca purezza (“senz’anello”, al dito), la sera tra i carri degli zingari, sovrastante le chiacchiere delle matercule che lavorano agli arcolai; infine le api che confrontano il loro miele, silenziose come i morti, che s’illudono di usare il telefono, dalle linee sempre occupate, innumerevoli essendo gli utenti morti.

Daccapo? pare un classico epigramma erotico in moderna chiave analogica. Ammirazione e passione del poeta per la nuda bellezza della sua donna, al mare; inondato di sole il suo corpo, dal “pube a filo d’acqua” ai “seni di mercurio”, in una sensuale epifania.

Perdendo quota ripropone, precariamente superstite, il topos dell’«Ubi sunt?» della prima poesia di Metamor; questa volta è il primordiale autobiografismo dell’«insonne adolescente / assetato di sogno e di brutalità».

Nella Canzone semplice dell’esser se stessi figurano esempi della “perdita del reale”, fisico e metafisico. Riguardano l’ontologica dissociazione di nomi e cose, di realtà e conoscenza. Uno scetticismo radicale sta dentro la prosa poetica di questa poesia.

Seguono tre poesie con uno stesso titolo in successione: Night, Night II, Night III; divagatorie invenzioni surreali in un locale notturno romano, dalla bella creola, rinviante a momenti e immagini di vita sudamericana, alla disperata associazione whisky-morte, al maledettismo esasperato, anche macabro, in tema di decadenza fisica e di totale dissoluzione.

Innesto 13 è un desolante quadro della realtà contemporanea italiana degli anni Sessanta: edonismo di massa, scandali, crisi politiche, emigrazioni… I sogni dei cavalli, ricorrenti, come surreale possibilità dell’assurdo. Necessità della conservazione del pianeta Terra e della sua naturale evoluzione.

La tempesta aveva 9 voci è poesia della ricerca del montaliano male di vivere già nelle viziate seduzioni patite dal poeta sin dall’adolescenza. Alle quali è riconducibile la stessa adulta deriva fisica e psicologica, tra alcool e caffè. Anche la bellezza femminile è vista in trasparenza maudite1. Più nessuna bellezza di lei, anzi un corpo scheletrico.

Pseudosonetto s’intitola la penultima poesia, perché a metro libero, senza i tradizionali metri fissi (generalmente endecasillabi). Corrispettivamente, il trend delle invenzioni poetiche è del più raro surrealismo. Si veda l’incredibile fuga del poeta, da un Messico remoto ed esotico ad un altrove dove finire in solitudine, impiccati e accecati.

A chiusura del libro, Tramonto a San Valentino è poesia sintesi intensa di simbolismo nichilistico, divenuto essenza e nitore di canto leopardiano, mai prima raggiunti. Se ne dà una versione totalitaria, assoluta, per via di correlazioni unitarie tra il “proprio deserto” e il morire dell’ingannevole rosso vivo, di fuoco, del tramonto. Poiché non c’è dualismo tra destino umano e destino della natura, entrambi realtà del “nulla”.

1 Maudite, termine francese che significa “maledetta”.

 

Pubblicato su Il Filo di Aracne.

 

Leuca luogo dell’anima e del ritorno. Leuca come le colonne d’Ercole

di Antonietta Fulvio

“E tornerà

 il bianco per un attimo a brillare

 della calce, regina arsa e concreta

in questi umili luoghi dove termini, Italia, in poca rissa

 d’acque ai piedi d’un faro.

 È qui che i salentini dopo morti

 fanno ritorno col cappello in

testa”

(Finibusterrae, V. Bodini)

Il luogo dell’anima e del ritorno. Così descriveva Leuca il poeta Vittorio Bodini nella sua “Finibusterrae”. Dal greco leucos, che è bianco ma anche fantasmagorica visione, riprendendo una nota leggenda, secondo la quale se non ci si reca a Leuca da vivi, bisognerà tornarci da morti, prima di salire in cielo. Passaggio verso l’infinito. Una sorta di porta per il Paradiso.

E non può definirsi che paradisiaca la visione dell’alba a Leuca con il sole che si leva dall’Adriatico, così al tramonto quando il disco solare si inabissa lentamente nelle acque dello Jonio.

Qui dove la terrà è sospesa tra il cielo e l’antico Mare nostrum, verso il quale si protende questo lembo d’Italia, il panorama toglie il respiro, azzera il pensiero ed entra per sempre negli occhi…

Leuca è luce, la luce abbagliante che sembra aver ispiratola Metafisica a Giorgio De Chirico, è terra, pietra che corre verso il mare frastagliandosi in mille insenature che da millenni si lasciano scalfire dalle acque facendosi porto per naufraghi e pellegrini.

Ci sono luoghi che entrano dentro. Nell’anima. Che fanno vibrare il cuore come le corde di uno Stradivari e la musica è l’incantevole preludio di un sogno. Un sogno bianco come le scogliere di Leuca, della sua Marina tempestata di grotte misteriose e di atavici approdi.

Qui trovò riparo Enea, scrisse il poeta Virgilio, nel terzo libro dell’Eneide: “Dalla marina d’Oriente un seno/ curvasi in arco, e contro ai massi opposti / delle rupi, le salse onde spumose/ s’infrangono. Celato ad ogni vista/ si spazia il porto interior; di cui/ dall’un fianco e dall’altro un doppio muro/ si protende di scogli, e dentro terra/

Libri/ Vittorio Bodini e Leonardo Sciascia

 

“SUD COME EUROPA. CARTEGGIO (1954-1960)”

PRESENTAZIONE IL 30 APRILE A PORTO CESAREO (LECCE)

 

 

Verrà presentato lunedì 30 aprile 2012 alle ore 18 all’Isola Lo Scoglio a Porto Cesareo (Lecce) il volume “Sud come Europa. Carteggio (1954-1960)” (Besa editrice, Nardò 2012), di Vittorio Bodini e Leonardo Sciascia e a cura Fabio Moliterni.

Assieme al curatore Fabio Moliterni, ricercatore di Letteratura italiana contemporanea all’Università del Salento, dialogheranno il professor Antonio Lucio Giannone dell’Università del Salento e Cosimo Durante, Presidente del Gal Terra d’Arneo. A coordinare gli interventi Enzo Pascal Pezzuto, regista del documentario Vino amaro. Tra gli ospiti Valentina Bodini, figlia del poeta.

> Il libro

I percorsi intellettuali di Vittorio Bodini e Leonardo Sciascia occupano un posto di primo piano nella storia della cultura (non solo meridionale) del Novecento. Quello che emerge dal loro carteggio è l’affascinante profilo di due

Le Mani del Sud e altre poesie di Vittorio Bodini e Daniele Durante

30 MINUTI CON L’AUTORE

CIBUS MAZZINI

Presenta

in collaborazione con Arcadia Lecce e Cultura e Oltre

“LE MANI DEL SUD E ALTRE POESIE”

DI VITTORIO BODINI E DANIELE DURANTE

(NEGROAMARO EDIZIONI E ANIMA MUNDI)

 

Introduce Stefano Donno

 

Lunedì 10 ottobre 2011 ore 19,30

presso Cibus Mazzini via Lamarmora 4 a Lecce

Cibus Mazzini presenta in collaborazione con Arcadia Lecce e Cultura e Oltre la rassegna “30 minuti con l’autore” che si terrà lunedì 10 ottobre 2011 ore 19,30 con la presentazione de “Le Mani del Sud e altre poesie” di Vittorio Bodini e Daniele Durante (Negroamaro edizioni e Anima Mundi). Introduce Stefano Donno

Il libro – Vittorio Bodini, Le mani del  Sud e altre poesie. La solarità mediterranea, la fantasia spagnola,il riflesso misterioso dei raggi di luna e le case imbiancate di calce nel Salento. Una voce poetica imprevedibile ci invita al di là degli stereotipi consumati dal folclore e dal clamore dei pregiudizi, a comprendere la realtà per trasfigurare la “rabbia di esistere”  In amore. Vengono qui rappresentate le dieci poesie musicate,corredate da illustrazioni fatta dallo stesso Bodini.

Il Cd – Vittorio Bodini/ Daniele Durante , Le mani del Sud.

10  poesie  di Vittorio Bodini musicate da Daniele Durante. Le mani del sud sono servite spesso a dilaniarsi e ad erigere paletti e barricate con cui inibire ed annientare tutto ciò che gli altri cercano di costruire; ma sono servite ance a produrre suoni che,stratificandosi, hanno dato origine a quel fermento musicale salentino invidiato da molti. Le mani del sud, con questo lavoro riconsegnano le parole di Bodini alla sua terra, nella speranza che la musica contribuisca a diffondere il magico suono.

I  musicisti – Daniele Durante: voce e chitarre | Francesca Della Moncaca: voce, percussioni Luigi Bubbico: piano| Stefano Rielli:contrabasso

Vittorio Bodini  (nato a Bari nel 1914, ma di famiglia e formazione leccese,morto a ROMA NEL 1970) è considerato  tra i  maggiori interpreti e traduttori italiani della letteratura spagnola(Lorca, Cervantes, Salinas, Rafael Alberti, Quesvedo). Fondamentali sono ancora oggi i suoi studi : I poeti surrealisti spagnoli(Torino 1963) e sul Barocco di Góngora (Roma 1964).

Bodini è stato soprattutto un poeta che ha attraversato con ironia quasi picaresca,tutte le avventure del Novecento europeo

Daniele Durante musicista e studioso di musica popolare. È tra i fondatori del Canzoniere Grecanico Salentino (1973) nel quale firma arrangiamenti ed elaborazioni e compone brani inediti. Ha inciso con Il Canzoniere Grecanico numerosi lavori e ha pubblicato da solista E allora tu si de lu sud(2008). Docente di ruolo di educazione musicale tiene il corso monografico Musiche e trance per l’insegnamento di Sociologia delle religioni presso L’Università Degli studi del Salento; insegna Musica d’insieme e Storia ed Estetica della musica  popolare nel corso triennale di Musica popolare presso il Conservatorio di Lecce.

Nicola Carducci e Francesco Lala, intellettuale leccese

FRANCESCO LALA E L’ESPERIENZA DE “IL CAMPO” NEL RICORDO DI NICOLA CARDUCCI

di Paolo Vincenti

 

Definito “Formicone” dal grande meridionalista Tommaso Fiore nella sua opera “Formiconi di Puglia” (Lacaita 1963) e “Il Formicone di Via Palmieri”  dal suo amico Luciano De Rosa in un articolo apparso su “La Gazzetta del Mezzogiorno” il 9 ottobre 1979, Francesco Lala è il protagonista dell’ultimo libro di Nicola Carducci, che ha mutuato la definizione di De Rosa per il titolo del suo volume: “Francesco Lala il Formicone di Via Palmieri”, con sottotitolo “Società e cultura nella Lecce del ‘900”, edito da Sigillo (2006).

Ma andiamo con ordine. L’autore del libro, Nicola Carducci, crediamo non abbia bisogno di presentazioni: lo conosciamo tutti,  studioso sensibile, preciso e attento, navigatore di lungo corso nel mare magnum della cultura letteraria salentina, che ha percorso in tutte le sue latitudini e longitudini, un “mostro sacro”, insomma, per tutti noi; fra le sue ultime pubblicazioni, basti ricordare “Vittorio Pagano, l’intellettuale e il poeta” (2004) e “Scrittori salentini tra coscienza del passato e letteratura” (2005).

Francesco Lala, intellettuale leccese a cui il Carducci ha voluto tributare questo  omaggio ,  è stato uno dei protagonisti più attivi della vita culturale della città-capoluogo nella seconda metà del Novecento.

Lala ha attraversato mezzo secolo di esperienza letteraria salentina, a partire già da “Letteratura italiana del Novecento”, un’opera del 1940 , in cui egli

Maglie e Federico Garcìa Lorca (1898-1936)

MAGLIE E FEDERICO GARCIA LORCA. DALLA “LUNA GITANA” ALLA  “LUNA DEI BORBONI”

di Paolo Vincenti

“Federico Garcìa Lorca fu una creatura straordinaria. Creatura questa volta significa più che uomo. Federico infatti ci metteva in contatto con la creazione, con questo tutto primordiale dove risiedono le fertili forze. Quell’uomo era prima di tutto sorgente, freschissimo zampillo di sorgente, trasparenza originaria alle radici dell’universo”: così ricorda Federico Garcìa Lorca il suo amico Jorge Guillèn, nel suo Prologo alle Obras completas di Lorca, riportato da Claudio Rendina in “ Libro de Poemas. Edizione intergrale” (Newton Compton 1995).

Al grande poeta spagnolo è stata dedicata, mercoledì 6 dicembre, una serata, “ Omaggio a Federico Garcìa Lorca (1898-1936)”,  dal Liceo “Francesca Capece” di Maglie. Aggiungere il qualificativo “bellissima” al termine “serata può sembrare una formula di rito, così come siamo abituati a sentir definire “glorioso” lo storico Liceo Capece di Maglie. Però, mai come in questo caso, gli usati aggettivi sono appropriati: perché una serata che ha regalato fortissime emozioni agli astanti dall’inizio alla fine ed è riuscita a mettere tutti d’accordo sulla sua ottima riuscita non è se non un piccolo miracolo ( abituati come siamo alla  superficialità e all’improvvisazione delle serate culturali a cui mediamente assistiamo,) e un Istituto Scolastico che riesce ad organizzare tutto ciò conferma che la ottima fama di cui gode è più che meritata.

Nel 70° Anniversario della morte di Lorca, si è tenuta, nell’Aula Magna del Liceo magliese, una Tavola Rotonda e un Recital di musica e poesia nel segno del grande poeta del Romancero gitano. Tutte queste arti infatti si intrecciano nella sua poesia, la cui vasta teatralità è stata messa in evidenza da tutti i critici,  secondo quanto lo stesso Lorca aveva affermato, cioè che “il teatro è la poesia che si eleva dal libro e si fa umana” (dall’intervista di Felipe Morales in Obras completas).

L’amore per il teatro da parte di Lorca trova ampie conferme nella sua carriera, a partire da El maleficio de la mariposa, la sua prima, fallimentare, rappresentazione teatrale con marionette disegnate dal pittore uruguaiano Rafael Barradas, fino a La Barraca, teatro popolare da lui progettato, nel 1931, gratuito e ambulante.

Dopo l’Introduzione del Prof. Vito Papa, Preside del  Liceo Capece, hanno preso la parola la Prof.ssa Valentina Sgueglia, vice presidente dell’Adi Sd, Le-Br-Ta, il Prof. Diego Simini, docente di Lingua e Letteratura Spagnola dell’Università di Lecce, e il Prof. Antonio Lucio Giannone, docente di Letteratura Italiana Contemporanea presso l’Università leccese. Gli interventi dei relatori sono stati intervallati dalle esibizioni di danza curate dalla Prof.ssa Maria Josè Cueto Martìnez e dalla lettura di poesie lorchiane, nella doppia versione spagnola e italiana, ad opera degli studenti delle V Classi internazionali di Spagnolo del Liceo Capece e da canti, ad opera degli stessi studenti, di alcuni famosi brani di Lorca, con la Direzione artistica e musicale a cura dei Professori Angelo Pulgarìn Linero, Soledad Negrelos Castro e Josè Manuel Alonso Feito. Gli studenti della sezione spagnola del Liceo Capece  sono coordinati dalla Prof.ssa Isabel  Alonso Devila, che è stata anche relatrice della serata.  La musica era stato il primo amore del poeta spagnolo, che aveva studiato piano e composizione con il maestro Antonio Segura, scrivendo numerose canzoni, ed aveva avuto una speciale amicizia col grande maestro spagnolo Manuel De Falla.

Il nome di Garcìa Lorca, poeta molto amato e conosciuto in Italia, è legato anche al  Salento, grazie alla magistrale traduzione che hanno fatto dei suoi versi due grandi intellettuali ed ispanisti della nostra terra, vale a dire il magliese- fiorentino Oreste  Macrì (soprattutto con Canti gitani e prime poesie, pubblicato con Guanda nel 1949, poi ampliato e pubblicato col nuovo titolo Canti gitani e andalusi e con nuova sua Introduzione nel 1951 e ancora nel 1961 ) e il leccese Vittorio Bodini ( in particolare, Tutto il teatro 1952).

Macrì e Bodini costituiscono, insieme a Carlo Bo (cui spetta forse il primato degli studi lorchiani in Italia, a partire da Poesie, pubblicato nel 1940 con Guanda, che ha avuto numerosissime riedizioni, passando per Poesie sparse, Guanda 1976), la triade dei maggiori studiosi del poeta spagnolo (cui aggiungeremmo, anche per quantità di contributi offerti, Claudio Rendina). Nel suo intervento alla serata del 6 dicembre, A.L.Giannone si è occupato del rapporto fra Garcìa Lorca e Vittorio Bodini, scrittore leccese a Giannone da sempre molto caro.

Il docente, che ha dedicato a questo argomento molti suoi studi , soprattutto Corriere Spagnolo (Manni 1987), che raccoglie reportage dalla Spagna e prose di Bodini,  ha tracciato un profilo delle influenze che direttamente o indirettamente il Bodini poeta ha tratto dal Bodini ispanista, o, per meglio dire, le influenze che Bodini ha ricevuto, nella sua produzione poetica,  dalla poesia di Lorca, di cui è stato fine traduttore.

Bodini ha avuto nella sua carriera una lunghissima frequentazione con la letteratura spagnola, avendo tradotto, oltre a Lorca, il Don Chisciotte di Cervantes (Einaudi 1957), Visione celeste di J.Larrea e le Poesie di Salinas (Lerici 1958), il Picasso di V. Aleixandre (Scheiwiller 1962), l’antologia I poeti surrealisti spagnoli ( Einaudi 1963;  ed è stato proprio Bodini, come ha sottolineato Giannone, a definire tale questa scuola poetica spagnola, mutuando la definizione dal surrealismo francese), I Sonetti amorosi e morali di Quevedo (Einaudi 1965), Degli Angeli di Rafael Alberti (Einaudi 1966) e Il poeta nella strada dello stesso autore (Mondatori 1969), infine il Lazarillo de Tormes (Einaudi 1972).

L’amore di Bodini per Lorca era iniziato già nel 1945 con la prima traduzione europea della farsa di Lorca,  Il Teatrino di don Cristobal, del 1931, come ricorda Ennio Bonea in “Comi Bodini Pagano. Proposte di lettura” (Manni 1998). Anche Giannone, così come Macrì, ricordato da Bonea nel saggio testé citato, ritiene che l’influenza del grande Lorca su Bodini  inizi già prima del suo viaggio in Spagna del 1946.

La permanenza nella penisola iberica , comunque, dal 1946 al 1949,  fu fondamentale per l’ispanismo di Bodini e rafforzò ancora di più la sua ricerca, perché, come scrive Giannone nella sua Introduzione a “Barocco del Sud. Racconti e prose” (Besa 2005), “gli permette di scoprire un altro Sud, che gli serve per capire meglio anche il suo. Nei reportage e nelle prose che egli continuò a pubblicare dopo essere tornato in Italia, è possibile notare il tentativo di penetrare nella realtà profonda della Spagna, alla scoperta della sua dimensione invisibile e sconosciuta, del suo ‘spirito nascosto’ per usare un’espressione di Lorca. Proprio Lorca, che diventa la guida ideale di Bodini in questo viaggio, gli insegna a scavare nell’inconscio collettivo del suo popolo partendo dalle manifestazioni più tipiche del folclore iberico: il flamenco, la corrida, i serenos, i combattimenti dei galli, i riti della Settimana Santa e così via. Lo scrittore leccese si va gradualmente accorgendo delle numerose affinità tra il popolo spagnolo e quello salentino, legati anche nell’intimo da un sentimento tragico della vita, e trova in quel paese il ‘suo’ Sud, come egli stesso scrive in una poesia di Dopo la luna, Omaggio a Gongora[…]”.

“L’interesse per Lorca”, ha spiegato Giannone durante il suo intervento, “è culminato con la pubblicazione, presso Einaudi, nel 1952,  del Teatro”, ed ha citato alcune parole di Bodini, tratte dalla sua Prefazione dell’opera, da cui si evince che Bodini, da acuto interprete e autentico poeta, aveva colto perfettamente il messaggio della poesia di Lorca: “ La sua [di Lorca] presenza aderiva alla vita in modo così pienamente meraviglioso che egli era la vita stessa nel suo infinito presente. Tutta la sua poesia era una dichiarazione obbiettiva dell’essere, che la mancanza di sforzo rendeva estremamente gioconda: bastava che dicesse luna e la luna esisteva, che dicesse coltello e un coltello brillava, che dicesse stella, cavallo, fiore …”.

Il 1952 è lo stesso anno in cui Bodini pubblica la sua prima opera poetica La luna dei Borboni (di cui, recentemente, è stata pubblicata una nuova versione, a cura di Antonio Mangione, da Besa, 2005) ) e Giannone ha rilevato quanto forte fu l’influenza che le traduzioni di Lorca ebbero su questa sua poesia. “Tipicamente lorchiana”, ha detto Giannone, “è, ad esempio, l’apparizione improvvisa, straniante, di figure e animali, che a prima vista risulta inspiegabile, come ‘il cavallo sorcino’ che ‘cammina a ritroso sulla pianura’, il ‘gatto’ che ‘trotta magro e sicuro nel Sud nero’, definizione, quest’ultima, ripresa proprio da Lorca che aveva definito la sua ‘Spagna nera’.

E a Lorca, da lui definito ‘il poeta più cromatico che il mondo conosca’, risale la ricchezza dei colori nella poesia bodiniana, come, ad  esempio, il ‘nero’ dei gatti e dei capelli delle donne, del catrame, delle monache, il ‘bianco’ della calce, il  ‘rosso’ del sangue, dei peperoni e dei pomodori, il ‘verde’ dei portoncini, il ‘giallo’ dei limoni e delle zucche, ecc.  Nella raccolta I poeti surrealisti spagnoli, poi, è presente la traduzione integrale della raccolta Poeta en Nueva York, composta da Lorca negli Stati Uniti e che è considerata da Bodini, come scrive nella sua Introduzione, ‘un grido di appassionata protesta contro l’americanismo e la civiltà meccanica raffigurate come un ossessionante trionfo della morte’.

Questo libro ebbe un innegabile influsso sulle raccolte bodiniane Metamor, Zeta e La civiltà industriale, dove il surrealismo che contraddistingue queste raccolte si carica di valenze polemiche nei confronti della società tecnologicamente avanzata”.

Gino Pisanò individua un ideale asse Salento-Spagna, similate “in un’unica spazialità categoriale il cui baricentro era costituito dall’ecumene mediterranea”, nel suo saggio “La leucadia salentina nell’archivio letterario del Novecento” (in “Andrano e Castiglione d’Otranto nella storia del Sud Salento”, Pubbligraf 2004). In quello che definisce “l’animismo folklorico-surreale di Vittorio Bodini”, i cui connotati indica nella triade “luna-gufo-gatto”, “segni persefonici di un universo infero e invisibile”, Pisanò traccia dei parallelismi fra la Spagna nera di Lorca e il Salento luttuoso e misterioso di Bodini, iconizzato dalla dominanza del buio dei suoi paesaggi e dal vocalismo chiuso e fonosimbolico di molte sue poesie.

Anche secondo Pisanò, la “pena vivente” dei gitani di Lorca è la medesima dei contadini del sud, degli ppoppiti bodiniani, e l’autore della Luna dei Borboni, fatalmente attratto dall’archetipo lorchiano, “trasfigura il Salento in emblema del Sud, di ogni Sud trascorso da presenze-assenze, introiettando e restituendo omologati il duende di Lorca, los angeles di Alberti, i lemuri salentini”.  Giannone, a conclusione del suo intervento, si è anche soffermato sulla morte del poeta di Canciones, i cui veri motivi, a distanza di tanti anni, rimangono ancora poco chiari. “Yo tengo el fuego en mis manos”, dice Lorca a Gerardo Diego, in “Poesia espanola contemporanea” (Madrid 1962) per  definire l’origine della sua poesia. Da Poema del cante jondo a Oda a Walt Whitman, da Romancero gitano a Divàn del Tamarit, la sua poesia continua a scorrerci dentro, bruciando come fuoco nelle vene.

Libri/ Barocco del Sud

 di Paolo Vincenti

E’ un bel libro questo  Barocco del Sud  – Racconti e prose (Besa editrice), una raccolta di scritti, fino ad ora poco conosciuti, della vastissima produzione di Vittorio Bodini. Il suo curatore, Antonio Lucio Giannone, da molti anni  è impegnato sul fronte della promozione culturale e della divulgazione dell’opera dei principali esponenti della cultura letteraria meridionale contemporanea.

Seguendo questi scritti bodiniani, si può conoscere più a fondo l’anima dei salentini del secolo scorso, quegli “ppoppiti”, che popolano molti di questi racconti e che possiamo considerare la controfaccia salentina dei “gitani” di Garzia Lorca, autore molto amato e magistralmente tradotto dall’ “ispanista” Bodini.

Se oggi si fa un gran parlare di Vittorio Bodini, Girolamo Comi e Vittorio Pagano, lo si deve a studiosi come Giannone che, insieme a Mario Marti, Ennio Bonea, Oreste Macrì, Donato Valli, ha profuso un impegno costante nella riscoperta e valorizzazione della letteratura “salentina”, e dei suoi rappresentanti di spicco,  per troppo tempo ingiustamente sottovalutati ed ignorati dalle antologie letterarie nazionali. Negli ultimi tempi, forse,la triade Comi-Bodini-Pagano, nelle preferenze delle nuove generazioni, è stata sostituita da un’altra, cioè quella composta da Antonio Verri- Claudia Ruggeri-Salvatore Toma.

L’ondata di recenti celebrazioni e ripubblicazioni ha interessato soprattutto Antonio Verri , il cui nome è richiamato, ormai  puntualmente, in ogni

Intervista al salentino Andrea Padova, interprete e compositore

 

Dialogo tra un musicista assai filosofo e un filosofo per nulla musicista

 

di Andrea Padova e Pier Paolo Tarsi  

 

Partiamo dalla fine, cioè dal suo ultimo lavoro. Altrove ha affermato che in esso vi è molto della sua terra, il Salento. Potrebbe rendere in parole il senso di tale presenza, indicare cioè brevemente la natura di questo legame che ha voluto esprimere nella composizione musicale?

“Arancio Limone Mandarino” è innanzitutto un disco che nasce dal Salento. Basta scorrere i titoli dei singoli brani per ritrovare il nome di alcuni luoghi (“Verso Leuca”, “Porto Selvaggio”) o di alcune persone (come Renata Fonte), di alcune suggestioni musicali (“Pizzica Tarantata”) o per riconoscere alcuni versi di Vittorio Bodini (“La pianura di rame”, “Il cielo è bianco”). Il titolo stesso dell’album è sia l’inizio di una filastrocca popolare che i bambini associano al gioco con la corda, sia un verso che Bodini usa come refrain in una delle sue poesie più belle. Posso aggiungere che per me, come per moltissimi altri, il Salento è il luogo dove sono nato e dove sono tornato, dopo aver vissuto anche altrove. Come appunto per Bodini e tanti altri, per me è proprio questo essere stato altrove che permette di vivere in maniera diversa questa terra. Direi quasi con un progressivo lento riavvicinamento che porta ad una maggiore non vorrei dire consapevolezza, ma senz’altro intensità.

Al di là di questo amore per il Salento che impregna anche il suo ultimo lavoro, bisogna tuttavia riconoscere che, finora, i più importanti riconoscimenti, sia come interprete che come compositore, le sono giunti soprattutto dall’estero, fuori dal Salento e dall’Italia in genere, sebbene anche in ambito nazionale goda di ampio favore della critica. Sullo scenario internazionale le viene rivolta grande attenzione, sin da quando, nel 1995, si è aggiudicato la vittoria al prestigioso “J.S. Bach Internationaler Klavierwettbewerb”. Ha un ampio e attento pubblico in diverse parti d’Europa ed è fortemente apprezzato anche al di là dell’Atlantico. Negli Stati Uniti è chiamato regolarmente ad esibirsi sui palchi più importanti, la critica le ha dedicato numerosi encomi su giornali come il New York Times e il Washington Post. È apprezzato e invitato insomma nei vari angoli del globo come uno dei migliori pianisti viventi, persino in Estremo Oriente, in Giappone per citare un caso. Qualcuno – forse in un momentaccio della sua vita – disse che nessuno è profeta in patria. Lei è più ottimista in proposito? O dubita della riconoscenza di questa terra che tuttavia lei onora ampiamente celebrandola nei templi sacri della musica mondiale?

Per carattere mi interessa molto più il fare che l’apparire: intendiamoci, non si tratta di un atteggiamento ascetico o particolarmente nobile, anzi è una forma piacevole e innocua di egoismo che finisce semmai per diventare altruismo: l’altruismo di non volerci essere sempre ed a tutti i costi. Più seriamente, il poter convertire in studio e tempo per la riflessione e la creazione le energie che oggi tanti, anche nel Salento, dedicano a un tentativo di onnipresenza, è un privilegio che è più facile coltivare a Lecce che a Milano o New York. Ho iniziato a tenere regolarmente recital nel Salento attorno ai sedici anni, e dai ventitre ho suonato con una certa frequenza come solista con l’Orchestra che oggi chiamiamo ICO. Non ho nulla di cui lamentarmi e forse non mi lamenterei comunque. Sicuramente non desidero riconoscenza. Oggi, con più di trent’anni di carriera alle spalle, sono io che non sento il bisogno di suonare a Lecce ogni anno o più volte l’anno. E dato che ogni regola comporta delle eccezioni, ovviamente suonare anche nel Salento i pezzi di questo nuovo album che sono nati nel e dal Salento è una cosa che mi interessa e sarò felice di fare. Anche se la presentazione del cd e il primo concerto saranno a Londra l’8 Febbraio…

Il suo repertorio come compositore è piuttosto variegato e ampio: spazia nel paesaggio sonoro dal classico, al Jazz, senza arroccamenti nella musica colta, non mancano infatti aperture alla spontaneità della musica popular. Vorrei sapere, che rapporto ha con la musica popolare salentina, in senso ampio? E cosa pensa in particolare del fenomeno “Notte della Taranta”?

Duplice: mi fa piacere che con la “Notte della Taranta” il Salento abbia raggiunto una notorietà internazionale e soprattutto trasversale ed interessi sia fasce d’età che appassionati di generi assai diversi tra loro. Mi rattrista un po’ vedere invece che il Salento venga identificato solo con la pizzica e soprattutto mi rattrista vedere che, tra coloro che si dedicano allo studio e all’esecuzione di testi e musiche legate al fenomeno del tarantismo, i pochi bravi e seri siano una esigua minoranza. È interessante e ha un aspetto quasi comico notare come lo spirito di trance e di stordimento siano passati dal senso e dalla pratica di quella musica alla capacità di percezione del grande pubblico, che sotto l’etichetta generica di Pizzica oggi si lascia servire davvero di tutto: in larghissima parte musica molto brutta e per di più molto mal suonata.

 

 

Musica di qualità e celebrità. Che relazione sussiste tra le due in Italia, ammesso che vi sia? E all’estero, cambia qualcosa in tal senso?

Posso rispondere per quelle che sono le mie impressioni e naturalmente, quindi, la mia risposta vale soprattutto per la musica classica e contemporanea, più che per jazz, pop e rock il cui mondo mi è meno noto. L’Italia come sappiamo è un paese di individualisti inguaribili (in quanto compositore e pianista, devo inserirmi automaticamente nella lista!) e le

Vittorio Bodini: un’edizione per il quarantennale della scomparsa

 

di Luciano Pagano – musicaos.it

Le spoglie di Vittorio Bodini saranno trasferite nella città di Lecce grazie a una delibera della giunta comunale risalente allo scorso novembre. Il 19 dicembre 2010 ricorrerà il quarantesimo anniversario della morte del poeta. Salentino di nascita e spagnolo d’adozione, Vittorio Bodini figura tra i maggiori poeti del secolo scorso. Conosciuto a livello nazionale per il suo lavoro sulla letteratura spagnola (insegnamento di cui nel 1950 ricoprì la cattedra presso l’Università di Bari), apprezzato soprattutto come poeta. La sua traduzione del Don Chisciotte di Cervantes edita nel 1957 dall’editore Einaudi nella prestigiosa collana dei Millenni (poi ripresa negli Struzzi e infine nella collana dei Tascabili) ebbe diciotto edizioni. È grazie a questa traduzione, che restituisce la limpidezza dell’originale spagnolo e a quelle del teatro di Lorca o delle poesie di Rafael Alberti che Vittorio Bodini si impose sul panorama editoriale nazionale. Fino agli anni ottanta, tuttavia, i suoi versi non ebbero lo stesso tipo di riconoscimento.

Da qualche anno il prof. Antonio Lucio Giannone, docente di Letteratura

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