Sul feudo copertinese di Specchia di Normandia o Cambrò e sulla masseria “la Torre”

di Marcello Gaballo

Uno dei più bei complessi masserizi dell’agro di Copertino è la masseria comunemente nota come “la Torre”, sulla strada Nardò-Copertino, a poche centinaia di metri da quest’ultima, raggiungibile mediante più tratturi. Posta al centro di un territorio coltivato ad uliveto di antico impianto, confina a nord con la masseria Li Tumi, a ovest con proprietà Licastro, a sud con la ferrovia, ad est con altra proprietà Licastro.

La singolarità e la peculiarità della sua forma, pur nella varietà delle tipologie masserizie della Puglia, è data nel nostro caso dall’imponenza del torrione, che rinvia al mastio e alle torri angolari del cinquecentesco castello copertinese e particolarmente allo stile delle torri costiere a pianta quadrata della “serie di Nardò”. Se queste ultime avevano prevalentemente funzione di avvistamento, la nostra masseria possiede più i connotati di una residenza signorile, fortificata per la difesa patrimoniale del bestiame, dei prodotti agricoli e delle suppellettili. Attorno ad essa si sono man mano aggiunti, e sino a pochi decenni addietro, locali di lavoro e di deposito, inevitabile segno delle dinamiche storico-produttive del complesso, che hanno alterato la struttura originaria, che tuttavia non ha risentito delle grandi trasformazioni agrarie tra Otto e Novecento.

Una prima testimonianza architettonica della masseria, anch’essa singolare ma più tarda, è a meno di 200 metri. Si tratta di una vera e propria dimora in tufi, aperta su tutti i quattro lati, con due archi laterali per parte ed uno, più alto, avanti e dietro. Al centro ospita il pozzo, il cui boccale è delimitato da blocchi di pietra piuttosto voluminosi.

Il prospetto della masseria è rivolto a mezzogiorno, verso Copertino, e su di esso spiccano l’unica caditoia, localizzata al centro della facciata, a sbalzo su mensoloni lobati, in corrispondenza dell’ingresso originario (ancora raggiungibile con scala in muratura), il cordolo marcapiano, la cornice a beccatelli, la base quadrata con leggera scarpa, che ricordano ancora i tempi in cui i pirati degli stati barbareschi rendevano insicure le nostre terre.

Evidente come essa sia stata concepita quale difesa passiva, vista la possente muratura, e come difesa piombante, basata sul lancio dalla terrazza di pietre o liquidi contro gli assalitori. Sulla restante cortina muraria, anche questa in blocchi squadrati di pietra locale a faccia vista e di buona fattura, nel corso dei secoli sono state arbitrariamente aperte diverse finestre, più grandi a pianterreno, ed un secondo ingresso, resosi necessario per essersi in essa stabilito un ulteriore proprietario. Tale divisione ha comportato anche all’interno della struttura molte variazioni architettoniche, certamente utili e funzionali per l’attività lavorativa, purtroppo deturpanti nella maggior parte dei casi, come è dato dal voluminoso corpo aggiunto adibito a forno.

Dell’impianto originario interno, anche questo caratterizzato da una architettura essenziale e priva di ogni ornamento, sopravvive il collegamento tra i locali superiori e gli inferiori, un tempo consentito dalla rimovibile scala in cordame. Il recinto, ottenuto con antichissime pietre pazientemente incastrate “a secco”, delimita l’ampio cortile col suo frantoio ipogeo, stalle e granai, cui si sono aggiunti nel corso dei secoli locali voltati usati ad abitazione e depositi, immaginando di aver potuto ospitare almeno trenta-quaranta persone. La distanza dalla strada carrozzabile, ma non dalla ferrovia che passa vicinissima, ha permesso all’ambiente circostante di conservarsi nella sua fisionomia e ancora oggi agli uliveti si alterna l’incolto, dove un tempo erano prevalenti la coltura granaria e l’allevamento del bestiame.

L’antichissimo feudo in cui il complesso è ubicato è quello denominato Cambrò o Specchia dei Normanni, compreso tra quelli di Castro, Puggiano, S. Barbara e Mollone, che nel 1316 possedeva Nicola de Buggiaco, per eredità del padre Roberto . Nel corso dei secoli la distinzione tra il feudo e la masseria fu sempre meno netta, tanto che nei documenti spesso veniva citato l’uno per l’altro, perché coincidevano i proprietari: nel 1550 i terreni e l’abitato sono del barone Carlo Balsamo e nel 1564 è detta la “masseria del defunto Antonio Bove” . Nel 1567 il nome è variato, ritrovandosi come “la massaria de li Troyali”, derivata dal nome del nuovo proprietario di Copertino, Giorgio Troyali alias Arenito , che nel 1570 l’ha ceduta, con l’annessa chiesa di S. Martino, al concittadino Organtino Verdesca, da cui ad Angelo Lombardo nello stesso anno.

Il feudo invece nel 1568 appartiene al nobile Lucantonio Sambiasi di Copertino che vende, per poi ricomprare nel 1583, diversi appezzamenti di terreno al barone neritino e suo congiunto Lupantonio Sambiasi per 1300 ducati . L’omonimia fu ancor più evidente negli ultimi anni del secolo XVI e nei primi del successivo quando del feudo non si fa più menzione negli atti notarili, né tantomeno nei secenteschi Cedolari di Terra d’Otranto, forse perchè integrato col confinante feudo di Castro, che detenevano i baroni Personè.

Intanto la masseria ha cambiato denominazione per la nuova proprietà passata ai nobili Lombardi e infatti nel 1577 è dei fratelli Cesare e Giacomo Lombardi, figli di Angelo. Gli stessi vendono, a beneficio dello spagnolo Giovanni de Sisegna, alla ragione del 10% per un capitale di 200 ducati, un vigneto di 10 orte ed un uliveto con casa lamiata, pila e palmento, in loco vulgariter dicto la massaria dè Lombardi, con atto del notaio Russo Antonio di Copertino del 6/5/1577. Successivamente i fratelli vendono gli stessi beni al neritino Alessio Sambiasi, il quale si impegna a versare i predetti 200 ducati al Sisegna . A distanza di una ventina d’anni la fortuna dei due fratelli dovette man mano scemare, visto che si registrano diversi loro atti di vendita dei beni ubicati nel feudo: nel 1581 vendono un uliveto di 300 alberi al monastero di S. Chiara di Copertino per 100 ducati ; diversi appezzamenti li vendono nel 1592 al barone Cesare Sambiasi di Nardò, figlio del predetto Lupantonio.

In altro atto del notaio neritino Fontò del 1588 il predetto Cesare figura signore del feudo “Specle de Normandia” e forse anche della nostra masseria, visto che da cinque anni continua ad acquisire altri appezzamenti circostanti per accorparli in una più efficiente unità poderale; alcuni dei terreni li acquista ancora da Giorgio e Domenico Troyalo , altri da Giovan Battista Imbeni e suo figlio Guglielmo . Notevoli dovettero essere i capitali investiti dal barone in questa proprietà, che nel 1598 continua ad acquisire gli ultimi appezzamenti rimasti in altrui possesso: nel 1598 Cesare Lombardi gli cede i terreni in loco la Carcara, confinanti coi beni di Cesare Imbeni e le terre dotali di Francesco Lubelli , e Giacomo Liuzzi un oliveto con 800 alberi. Questi sono gli anni in cui si affermava progressivamente il sistema di masserie in tutta la Terra d’Otranto e così cospicua proprietà, come per molte altre del territorio, da una lato assicurava la regolarità dei rifornimenti alimentari, dall’altro rappresentava una eloquente testimonianza del benessere e del comprovato status delle famiglie più ricche della provincia, tra cui anche i Sambiasi.

Numerosi atti notarili di questo decennio documentano il fitto scambio di derrate alimentari e, particolarmente, l’esportazione via mare del commerciabile e prezioso olio dall’opulenta terra salentina in ogni parte del Regno di Napoli.

Dopo un intricato sistema di vendite e ricompra dei terreni circostanti, finalmente nel 1613 la nostra masseria, chiusa di pariti di pietre, in loco Specchia Lombardia, feudo Castri, risulta di Giuseppe Sambiasi, figlio di Alessio, a sua volta erede del predetto Cesare. Tra gli altri beni essa comprende un curaturo lini, uno palmento et pilaccio dentro, puzzo seu cisterna e curtali, e numerosi appezzamenti con terre scapole, dei quali uno con arbori di olive 1000 incirca, et altri arbori communi venduto ai Sambiasi da Cesare Lombardi e dai suoi figli Angelo e Lucio per la considerevole somma di 1950 ducati.

La torre-masseria risulta finalmente realizzata nel 1625, quando, in altro rogito, il complesso viene descritto tra le proprietà del chierico Giuseppe Sambiasi, titolare anche del feudo Specle de Normandia, e consiste in terriis factitiis et machosis, olivetis, turri, capannis et ovilibus et aliis membris suis . Lo esplicita un altro atto dell’anno seguente, quando è comproprietario Bernardino, fratello del predetto chierico: vi è la torre, detta li Lombardi, ubicata nel feudo inhabitato vulg. nuncupato Specchia di Anormandia, vicina ad altri beni di Giuseppe .

L’ingente investimento da parte del facoltoso Alessio Sambiasi fu senz’altro dovuto alla disponibilità pecuniaria pervenutagli dalla dote della seconda moglie, la galatonese Vittoria de Ferraris, che gli aveva procurato ben 3200 ducati, che si aggiungevano ai beni di famiglia e a quelli ottenuti dalle prime nozze con Isabella, figlia del barone neritino De Pantaleonibus. Visto che la ratifica del secondo matrimonio avvenne nel 1618, è da pensare che la costruzione della torre possa essere iniziata dopo il 1618, per essere ultimata nel 1625. Certo è difficile sapere se si trattasse di un ampliamento ed innalzamento della domus lamiata del 1603, a sua volta magari costruita su un’antichissima sopraelevazione del suolo che dava il nome al feudo.

Si può anche ipotizzare che a metterla su furono gli Spalletta, mastro Angelo o più probabilmente suo figlio Vincenzo, che qualche anno prima aveva ultimato la costruzione della torre costiera del Fiume, oggi nota come Quattro Colonne, e che in più occasioni aveva lavorato per i Sambiasi di Nardò. Vincenzo, come il padre, era partitario Regie fabrice nuncupata de Fiume e nel 1609 riceve per quest’opera un ulteriore acconto o saldo definitivo dal cassiere dell’università neritina Donato Antonio Massa.

I proprietari della masseria però dovettero avere qualche problema finanziario e a causa di censi non pagati il complesso viene venduto all’asta e liberato da Melchiorre de Filippo di Racale, con atto del not. Palemonio del 9/10/1636. Da Melchiorre viene donata al fratello chierico Antonio, ma il pieno suo possesso risulta bloccato dalla Curia Vescovile di Nardò, in quanto la masseria era stata già venduta su istanza del monastero dell’Annunziata di Copertino che doveva esigere i predetti censi.

Rimessa all’asta la masseria viene acquistata da Bartolomeo de Magistris di Gallipoli, ma residente a Copertino, per 260 ducati, con atto not. Giacomo Panarello di Lecce del 1/8/1636. Il de Magistris la cede al citato monastero con istrumento del notaio copertinese Pietro Fulino del 3/12/1637.

Nel 1662 comunque conserva la dizione di massaria de’ Lombardi e si trova in Specchia di Normandia , di cui è feudatario il gallipolino Diego Sansonetti . Il figlio di Alessio Sambiasi, Giuseppe, nel frattempo ha saldato la quota restante dei 200 ducati dovuti a Giovanni Sisegna da suo padre nelle mani di Maddalena, per conto di sua sorella Isabella Isalas, a sua volta rappresentata dal procuratore Pietro Alvarez, hispano .

Per quasi un altro secolo la masseria passa da padre in figlio tra i Sambiasi, per ritrovarla proprietà del leccese Francesco Maremonti, come si evince dal Catasto Onciario di Copertino del 1746, cui è pervenuta per dote della moglie Maddalena Sambiasi, una degli ultimi rampolli del facoltoso ramo copertinese, figlia di Tommaso e Maria Sambiasi, eredi di Vitantonio. Il Maremonti dovette poi vendere il complesso ai baroni Personè, già titolari dei vicini feudi di Castro e Ogliastro, dei quali Giuseppe possiede la masseria “la Torre” nel 1774 .

Dai Personè probabilmente fu venduta per una parte ai Licastro di S. Cesario di Lecce, in persona di Francesco (deceduto a S. Cesario il 29/12/1937), possessore anche delle vicine masserie Cambrò e Marulli, che la cede al figlio Raffaele, da cui ai figli Roberto e Giovan Francesco Licastro-Scardino, residenti in Lecce. Questi, con atto per not. Astuto di Lecce del 3/4/1970 la vendono ai coniugi Giovanni Mele e Lucia Marinaci di Copertino, da cui al figlio Salvatore che la possiede tuttora. Tale quota è al foglio 51, part. 45, ha superficie abitativa di 350 mq. ed un terreno circostante di 55.000 mq. di cui 10.000 piantumati con ulivi e 45.000 di seminativo e alberi da frutto La restante parte, di ettari 38, are 19 e centiare 24, era di Luigi Vaglio, che la trasmise ai figli Teresa e Giuseppe. I figli di quest’ultimo, che avevano avuto anche la parte degli zii Teresa, Bartolo, Felicetta, Pasquale, Maria e Giuseppina, nel 1964 vendono la parte alla “Cassa per la Formazione della Piccola Proprietà” , che successivamente viene acquistata da Rolli, dei quali oggi Giuseppe possiede la restante parte.

Nonostante la bellezza e la vetustà del complesso, purtroppo si constata il lento dissolversi del modello originale e molti punti stanno miseramente franando per mancanza di manutenzione. Per svariati motivi il suo sistema produttivo non è più proponibile e spontaneamente nasce l’idea di una sua utilizzazione a fini turistici, sempre che le vertenze giudiziarie trovino presto risoluzione.

Sarebbe un altro esempio della civiltà contadina salentina che troverebbe giusto recupero, come timidamente si osserva in qualche altro sito della opulenta e bella provincia, che fatica a trovare il suo rilancio sul mercato internazionale del turismo, dimostrandosi incapace di valorizzare le sue risorse e, come in questo caso, il suo caratteristico paesaggio, che la benefica natura ha voluto favorire colmandola dei doni di Bacco, Cerere e Minerva.

Appunti sulla torre del Fiume di S. Maria al Bagno nota come Quattro Colonne

di Salvatore Muci

Sul finire del XVI secolo la città di Nardò è un cantiere aperto e si registra il rifiorire di ogni attività edile pubblica e privata, civile e religiosa.

I documenti già attestano la presenza di decine e decine di complessi masserizi, specie nelle vicinanze della foresta dell’Arneo, rinomato luogo di caccia per cervi e cinghiali per baroni e cortigiani al servizio della celebre famiglia dei duchi Acquaviva d’Aragona, che aveva scelto di dimorare a Nardò.

Ma la tranquillità dei luoghi viene turbata in questo secolo dalle continue scorrerie di orde di barbari e corsari, che dal mare possono sbarcare in un qualsiasi punto della estesissima costa della fertile Puglia.

In obbedienza a quanto promulgato da Napoli, ci si preoccupa di difendere il pingue territorio con la fortificazione della costa, ricorrendo a collaudati sistemi di avvistamento come le torri, alcune delle quali anche adatte a fronteggiare sparuti manipoli di pirati assetati e famelici e perciò bisognosi di far scorta di acqua e viveri.

Come già evidenziato nei precedenti contributi, in tutto il regno sorgono dovunque le torri, più rade nei tratti di scogliera alta ed impervia, più ravvicinate in tratti di costa bassa, come nel tratto neritino.

Volendo fare un elenco esse sono, nell’ ordine: Torre del Fiume, S. Caterina, dell’ Alto, Uluzzo, Inserraglio, S. Isidoro, Squillace, Cesarea, Chianca, Torre Lapillo, Castiglione (diruta) e Colimena. Tutte queste, fatta eccezione di quelle di Uluzzo e Castiglione, sono a pianta quadrata e dall’ architetto Faglia, massimo studioso del sistema torriero del Regno, classificate come “della serie di Nardò”.

L’incremento maggiore si ha sotto il governo dei vicerè don Pedro da Toledo e don Pedro Afan de Ribera (1559-1571).

ciò che resta di una delle torrette angolari di Torre del Fiume

L’ordine di realizzarle, promulgato dalla Regia Camera della Sommaria di Napoli, viene dato nel 1563, indirizzato ai regi ingegneri, che devono perciò erigerle su tutta la costa del regno, col contributo delle universitas che distano meno di 12 miglia dal mare.

Se alcuni mastri erano giunti dalla capitale partenopea nella nostra provincia per realizzare alcuni dei fortilizi, altri si formavano in loco, sino a diventare essi stessi i principali referenti della Regia Camera di Napoli che sovrintendeva alla realizzazione del sistema costiero.

ciò che resta di un’altra delle torrette angolari di Torre del Fiume, comunemente nota come “Quattro Colonne”

La fortuna dei documenti sopravvissuti ci permette oggi di attribuire con certezza gli artefici di alcune di esse, almeno per la zona di Nardò, che trovano i massimi esponenti nel clan degli Spalletta, neritini, tra cui Vincenzo e Angelo, rispettivamente padre e figlio, che certamente realizzarono le torri dell’Alto, de Castiglione, de Crustamo (Uluzzo) e del Fiume, oggi più nota come 4 Colonne, essendone sopravvissute le torrette angolari del fortilizio crollato nella sua parte centrale.

Le Quattro Colonne a S. Maria al Bagno-Nardò (ph Mariaurora Trentadue)

Vediamo dunque come si arriva a quest’ultima. La Regia Camera il 22 giugno 1595 invia una lettera a Pietro Castiglione, ingegnere della R. Corte che si trova in provincia di Terra d’Otranto per ispezionare diverse fortezze, con l’ordine di recarsi a Nardò e consegnare ai predetti Spalletta pianta e disegno; purtroppo la lettera arriva quando il Castiglione è già rientrato in Napoli.

Con altra lettera del 26 settembre si ordina all’ Audienza Hidruntina di provvedere essa a fornire l’utile, servendosi di un architetto del posto, che poi risulterà essere il leccese mastro Giovanni Perulli, il quale in data 11 ottobre effettua il sopralluogo e fornisce il relativo disegno ai neritini incaricati dell’esecuzione. Il 22 novembre mastro Angelo Spalletta dichiara al notaio leccese di ricevere il progetto e che la pianta della torre sarà di palmi 72 de quatro senza i 4 spontoni segnati al modello con la caduta ordinaria d’ogni 10 palmi uno; che sia piena di masso di palmi 34 con una cisterna di palmi 8 de quatro in mezzo alla sala della torre; l’altezza della torre sarà di palmi 85 con la barba; la fabbrica sarà tutta d’opera netta di taglio di fuora, e di dentro sarà d’opera netta di taglio solamente dove bisogna e ricerca… Alle cantonate delli spontoni li pezzi abbiano d’essere di lunghezza palmi 3, e di larghezza 1 palmo e mezzo per fortezza della torre sino alli palmi 20 solamente; che la torre si faccia distante dalla bocca del fiume dove i vascelli dei nemici spesso vennero a fare acqua, di palmi 200 circa.

Due anni dopo i lavori non sono ancora iniziati perché l’università riceve i primi 300 ducati dalla Regia Camera, cui se ne aggiungeranno altrettanti qualche mese dopo “in fabrica et constructione turris maritime dicta del Fiume”.

Finalmente Angelo e Vincenzo Spalletta si impegnano nel 1597 alla realizzazione della torre con Cornelio Carriero da Montescaglioso ed Ercole Mazzo da Tutino, a patto che essi mastri Angelo e figlio siano tenuti darli tutta la monizione, così di calcie, terra, petre, quatrielli et pezzi lavorati e l’ acqua dove si trova e mancando il fine siano obligati essi mastri Angelo e figlio di darcela a loro parere ali sotto di detta torre, quanto più si può accostar la carretta.

Dopo dieci anni, nel 1605, la torre risulta ultimata ed efficiente[1], visto che l’8 maggio il sindaco di Nardò Benedetto del Castello rilascia procura al cassiere Scipione De Vito di riscuotere presso la Percettoria in Lecce il denaro speso dall’università per pagare il salario ai militi in essa presenti[2].

In essa dovevano esserci almeno due caporali, che nel 1607 percepivano una paga di 71 ducati[3].

Nel 1609 troviamo tra i caporali Gian Francesco Scaglione[4] e l’anno dopo tra i militi risultano Pietro Vincenti e Donato D’Aprile, che percepiscono mensilmente circa 13 ducati[5].

Tra l’estate 1616 sino a tutto il 1617 il caporale risulta Giovan Leonardo Vecchio di Galatone e suoi compagni Francesco e Giorgio Ferraro[6], che ricevono in consegna dei barili di polvere mandati dai castelli di Lecce e Gallipoli.

Il periodo d’altronde fa registrare numerose incursioni ottomane o corsare di provenienza balcanica, ma anche mediorientali e nordafricane, per cui ogni torre doveva necessariamente essere pienamente efficiente e le spese erano a carico dell’università più vicina: nel biennio 1595-96 l’amministrazione comunale di Nardò deve sborsare ben 762 ducati.

Diminuite le incursioni dal mare il personale delle torri deve affrontare un altro fenomeno dilagante, quello del contrabbando, e soprattutto quello del sale, tanto che occorre incrementare il personale adibito alla sorveglianza del territorio, registrandosi dunque il raddoppio del numero dei cavallari. La nostra torre, come le altre del litorale neritino, resta sempre sotto la sovrintendenza della Comarca di Cesaria.

Nel 1695 il caporale è Tommaso De Ferraris[7] e due anni dopo l’università di Galatone, cui in parte erano accollate le spese di gestione dell’immobile, come da accordo preso con la regia Segreteria e con il Preside alle Armi di Terra d’Otranto, si impegna a realizzarvi la porta alla guardiola ed altre riparazioni, compresa la scala del ponte, oltre ad acquistare un moschetto, ad integrazione dell’armamentario; parte delle spese necessarie vengono accollate all’università di Nardò[8].

Nel gennaio 1730 il capo torriero è Angelo Longo e suo compagno ordinario Filippo Cordigliano; in servizio risultano anche Pietro Stasi e Antonio Francone[9], probabilmente di Galatone, come lo erano Giuseppe Francone e Nicola Marsalò, cavallari nel 1777.

Nel 1790 cavallari sono Pasquale Vonghia e Fortunato Giuri di Nardò[10].

Non si registrano vicende importanti dopo questa data se non un arresto nelle immediate vicinanze, su delazione del canonico Lombardi, del giovane esperto in lettere Nicola Ingusci e del farmacista Francesco Rocca, giunti dal bosco della Sila calabrese per la via di Copertino, portando con sé un sospetto e sovversivo foglio stampato a carattere liberale.

La torre, con quelle di Squillace e di S. Caterina, è soggetta a vincolo del ministero solo dal 1986, grazie alle segnalazioni del circolo culturale “Nardò Nostra”, che se ne occupò con una mostra itinerante e con una pubblicazione non più in commercio.

 

Le foto sono della Fondazione Terra d’Otranto


[1] G. Cosi, Torri Marittime di Terra d’Otranto, Galatina, Congedo Editore, pp. 98-101.

[2] Archivio di Stato di Lecce (ASL), not. F. Fontò di Nardò, (66/1), 1606, cc. 149r-149v.

[3] ASN, Percettori e Tesorieri – vol. 6234, (J. Bonvicino), c. 63r.

[4] ASN, Torri e Castelli – vol. 126, c. 145r.

[5] ASN, vol. 6234, c. 34v.

[6] ASN, vol. 135, c. 19r.

[7]ASN, vol. 128, c. 248r.

[8] G. Cosi, Torri… cit., p. 21; il documento citato è stato riportato dallo storico Mario Cazzato.

[9] ASN, vol. 131, cc. 19r-28v.

[10] ASL, atti not. B. Ravenna di Gallipoli (40/38) 1790, c.183v.

1598. Atto di convenzione per il completamento della chiesa dei frati Conventuali di Nardò

 

Atto di convenzione per il completamento della chiesa dei frati Conventuali da parte di Angelo e Vincenzo Spalletta, Sansone ed Ercole Pugliese[1]

 

di Marcello Gaballo

Die undecimo mensis februarii XI Indictionis 1598. In civitate Neritoni.

Su invito rivolto dalle parti sottoscritte ci si ritrova nel venerabile convento di S. Francesco dicte civitatis Neritoni, ubi resident fratres Minores Conventuales dicti Ordinis Sancti Francisci, situm et positum intus dictam Civitate Neritoni iuxta suos notorios confines, e sono congregati et coadunati in unum in dicto refectorio ad sonum campanelle, loco et more solitis, il reverendo frate Todesco de’ Todeschini, guardiano in quest’ anno, ed i frati Pietro Romano, Donato Tabba, Persio Muci, Francesco de Raho, Donato Massafra, Angelo Catalano di Nardò e Francesco Greco di Taranto. I predetti Persio Muci e Donato Tabba sono stati eletti procuratori deputati

Note storiche su torre Squillace, detta Scianuri, sul litorale di Nardò (Lecce)

 

di Marcello Gaballo

torre Squillace (ph M. Gaballo)

Sul finire del XVI secolo la città di Nardò è un cantiere aperto e si registra il rifiorire di ogni attività edile pubblica e privata, civile e religiosa. I documenti già attestano la presenza di decine e decine di complessi masserizi, specie nelle vicinanze della foresta dell’Arneo, rinomato luogo di caccia per cervi e cinghiali per ricchi proprietari e cortigiani al servizio della celebre famiglia dei duchi d’Acquaviva d’Aragona, che aveva scelto di dimorare in città.

Ma la tranquillità dei luoghi viene turbata in questo quarto di secolo dalle continue scorrerie di orde di barbari e corsari, che dal mare possono sbarcare in un qualsiasi punto della estesissima costa, in particolar modo nel nostro distretto, costellato da numerosissimi insediamenti produttivi fortificati e non.

In obbedienza a quanto promulgato a Napoli nel 1563 e 1567, ci si preoccupa di difendere il pingue territorio con la fortificazione della costa, ricorrendo a collaudati sistemi di avvistamento come le torri, alcune delle quali anche adatte a fronteggiare sparuti manipoli di pirati assetati e famelici e perciò bisognosi di far provvista di acqua e viveri.

In tutto il regno sorgono le torri, più rade nei tratti di scogliera alta ed impervia, più ravvicinate in tratti di costa bassa, come nel tratto ionico di nostro interesse.

torre Squillace nel corso dell’ultimo restauro del 2009 (ph M. Gaballo)

L’incremento maggiore si ha sotto il governo dei vicerè don Pedro da Toledo e don Pedro Afan de Ribera (1559-1571).  L’ordine di realizzarle, promulgato dalla Regia Camera di Napoli attraverso il suo presidente Alfonso de Salazar, avviene nel 1563, indirizzato ai regi ingegneri, che devono perciò erigerle su tutta la costa del regno, con il contributo delle universitas che distano meno di 12 miglia dal mare. Alcuni mastri giungono da Napoli nella nostra provincia, altri si formavano in loco, sino a diventare essi stessi i principali referenti della Regia Camera, come sono stati i neritini Vincenzo ed Angelo Spalletta, padre e figlio.

Furono essi i più abili costruttori, realizzando poderose torri a pianta quadrata, che dall’ architetto Faglia, massimo studioso del sistema torriero del Regno, sono classificate come torri “della serie di Nardò” (Fiume, S. Caterina, dell’Alto, Uluzzo, Inserraglio, S. Isidoro, Squillace, Cesarea, Chianca, Lapillo, Colimena).

La peculiarità di questa serie, oltre la pianta, è data dalla scala esterna, spesso aggiunta successivamente, la conformazione troncopiramidale, la presenza di caditoie (una o due per lato ed in corrispondenza delle aperture), la cornice toriforme marcapiano che divide la parete verticale da quella a scarpa, i beccatelli in leggero sbalzo, la cisterna nel piano inferiore e la zona abitabile in quello rialzato, la scala interna ricavata nel notevole spessore murario, la guardiola posta sulla terrazza.

Ad ogni torre era assegnato almeno un caporale e un cavallaro, entrambi stipendiati dall’università locale, ed ognuna di esse disponeva di un armamentario (un documento notarile elenca un  mascolo di ferro, uno scopettone, uno tiro di brunzo con le rote ferrate accavallato, con palle settanta di ferro).

La torre allora denominata Scianuri fu iniziata in località San Giorgio, in corrispondenza del porto omonimo, negli ultimi mesi del 1567, ma i lavori restarono fermi per oltre un anno a causa delle difficoltà finanziarie della competente università di Copertino. Risulta completata nel 1570, ad opera del mastro copertinese Pensino Tarantino, avendo richiesto circa ottomila ducati per la sua realizzazione. Sei anni dopo viene dotata di scale mobili e vengono completati gli infissi, registrandosi ulteriori spese sostenute ancora dai copertinesi, che nel frattempo avevano anche provveduto a retribuire i cavallari ad essa deputati.

Nel 1640 viene dotata della scala esterna in pietra, che ancora può vedersi, pur nel suo deplorevole stato.

Tralasciamo ogni altra notizia certa e documentata nel corso dei secoli, ricordando solo che la nostra torre nel 1707 ospita nelle sue prigioni sedici turchi, naufragati lungo la costa, per osservare la rigorosa quarantena prevista per scongiurare la peste.

Da un sopralluogo del 1746 viene attestato che non abbisogna di alcuna manutenzione, per essersi conservata molto bene.

lo stato di degrado di torre Squillace che ha sollecitato l’intervento di recupero (ph M. Gaballo)

Nel secolo successivo viene data in custodia alle guardie doganali (1820), quindi all’Amministrazione della  Guerra e della Marina  (1829). Nel 1940 i soldati dell’Esercito vi installano una postazione di artiglieria, rimasta attiva fino all’armistizio del 1949.

La torre, con quella di S. Caterina e del Fiume, è stata vincolata dal Ministero nel 1986, grazie alle pressanti segnalazioni del circolo culturale Nardò Nostra, che se occupò con una mostra itinerante e con una pubblicazione.

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