Le quattro stagioni del Salento: un invito a visitarci tutto l’anno

di Pier Paolo Tarsi

Le virtù della terra e della bellezza salentina si possono declinare in modo plurimo, inseguendo il naturale ciclo di stagioni sempre miti e dolci nel corso dell’anno; allo stesso modo si devono delineare possibilità, diverse e alternative, di apprezzare, come viaggiatori o semplici turisti, questo estremo lembo d’Europa. Questo vuole essere un invito a visitarci tutto l’anno, non solo in…

Estate

Verso Sud, assillati dalla calura estiva cittadina, accorrono masse di turisti alla ricerca di refrigerio su soleggiate coste bagnate da mari purissimi, sedotte e incoraggiate da una fresca accoglienza che ha il colore di rosse angurie e di gialli fichi d’india, il ritmo allegro e vitale di notti che pulsano ovunque all’eco dei tamburelli. Le selvagge vibrazioni dei suoni fuggono propagandosi nell’oscurità, al di là delle luci dei falò, presso anfratti di spiagge gialle come il grano e scogliere severe sorvegliate da malinconiche torri, confondendosi infine con i riflussi delle onde quasi placide, nella cui immensità mediterranea si esauriscono placando così l’orgiastico furore da cui sono generate.

Il caporale biondo della Manifattura Tabacchi

di Rocco Boccadamo

Al mio paese, poco più di duemila anime, sino alla metà del secolo scorso esistevano ben tre opifici per la lavorazione delle foglie di tabacco già fatte essiccare sotto i raggi del sole, in dialetto “magazzini”, dove, in determinati periodi stagionali, trovavano occupazione alcune centinaia di donne.

Ciò, giacché le piantagioni dalle strette e lunghe foglie di color verde costituivano, per antica tradizione, una delle principali colture e fonti di risorse della zona.

L’ingresso d’ogni magazzino era presidiato dal “caporale”, l’unica figura maschile presente, avente il compito di vigilare che le operaie, all’uscita, non si portassero appresso, per destinarli ai familiari fumatori, quantitativi ancorché piccoli di quelle foglie, da ritirarsi rigorosamente ed esclusivamente da parte dei Monopoli di Stato: non a caso, si parlava di contrabbando.

Fra i caporali in servizio intorno al 1950, c’era un giovane proveniente da un paese vicino, alto, capelli biondi, incarnato roseo; poverino, aveva solo un braccio, non so se mutilato di guerra o sul lavoro. La sua figura, forse anche per via della menomazione fisica, colpiva particolarmente l’attenzione dell’autore di queste righe, allora ragazzo delle elementari. Nei decenni successivi, le vicende della mia esistenza hanno assunto un po’ i connotati di un “magazzino” ambulante, in giro per l’Italia, fino al traguardo della pensione e al ritorno nel Salento. Di conseguenza, per un lunghissimo periodo, non ho più avuto modo di rivedere il caporale, né di avere sue notizie.

Qualche giorno addietro, però, è avvenuto il miracolo: uscendo da un bar nella piazza di un paese vicino alla mia Marittima e prima di risalire in macchina,

I cinquant’anni della spedizione etnografica di Ernesto de Martino in Salento

di Gino L. Di Mitri

 

Il cinquantenario della spedizione etnoantropologica di Ernesto de Martino a Galatina, avvenuto nel 1959, è annunciato dall’arrivo nelle librerie della quinta edizione italiana de La terra del rimorso. Si tratta della prima volta che la casa editrice il Saggiatore ricorre a una soluzione redazionale ex novo dopo le precedenti che furono, in realtà, delle ristampe anastatiche della princeps pubblicata nel 1961.

Il volume è sapientemente prefato da Clara Gallini, insigne antropologa già allieva di de Martino, la quale ricostruisce dal suo punto di vista il dibattito passato e recente sul tarantismo alla luce della letteratura specifica. Il volume è accompagnato da un cd che ripropone sia le raccolte musicali effettuate in Salento da Diego Carpitella al seguito della spedizione di de Martino, sia le immagini scattate nel 1960 dallo stesso etnomusicologo e facenti parte del documentario Meloterapia del tarantismo.

Questa decisione di una riedizione de La terra del rimorso si accompagna a una serie piuttosto lunga e articolata di seminari – organizzati dalla stessa Gallini all’Università La Sapienza – che nella fase del loro avvio hanno conosciuto anche una tappa leccese coordinata da alcuni docenti delle’ateneo salentino. In realtà, questa rievocazione di de Martino non nasce sotto il segno della tarantola, bensì in occasione del centenario della nascita dello studioso napoletano: essa era cominciata nel 2008, a un secolo dalla nascita di de Martino avvenuta nel 1908, ed è proseguita per tutto il corso dei colloqui organizzati dalla Gallini toccando, di volta in volta, temi fra loro molto diversi, quali la teoria delle apocalissi culturali, le basi teoretiche di un pensiero spesso ambivalente se non ambiguo e compreso fra crocianesimo e marxismo, il taglio delle indagini sulla magia nel Sud, il significato di storia religiosa relativo al Mezzogiorno d’Italia e molte altre cose. In ogni caso, a mio modo di vedere, l’iniziativa di riflettere su de Martino da parte dei demartiniani è stata talmente differita in tutti questi anni, da giungere verosimilmente in ritardo rispetto a più di un calendario di studi già fittamente costellati di riflessioni e riconsiderazioni critiche su de Martino a partire dal 1998.

Qualunque sia stata la ragione di questo incredibile ritardo che si aggiunge alla negligenza con cui l’opera preziosa di de Martino e la sua ricerca sul tarantismo è stata diffusa nel mondo anglosassone, va lodato invece l’impegno profuso da Dorothy Louise Zinn, un’americana che ha scelto di vivere a Matera e che dunque conosce bene i luoghi di de Martino, per la sua scientificamente accurata e letterariamente apprezzabile traduzione de La terra del rimorso per la Free Association Books di Londra. Giunge quindi finalmente in porto un’operazione editoriale attesa per decenni dal pubblico dei lettori anglofoni.

Si tratta di un caso librario in cui si coniugano le ragioni del cuore (l’amore di una cittadina straniera residente in Italia meridionale per l’opera di un autore italiano) con quelle della cultura (la volontà di donare alla scena culturale anglosassone un testo preziosissimo e finora noto solo a chi conosceva l’italiano o, attraverso un edizione del 1966, il francese). Purtroppo il volume è privo delle musiche originali, tornate invece a corredare il libro del Saggiatore.

Nell’estate del 1959, in un contesto civile e socioeconomico dai connotati così diversi da quello attuale, Ernesto de Martino compiva la sua spedizione etnografica in Salento alla scoperta del misterioso fenomeno del tarantismo. Da allora, mezzo secolo è volato in un soffio. A ricordarsi di questo particolare capitolo del suo magistero furono per primi, nel 1998 e dopo un lungo silenzio da parte del mondo accademico, gli “outsider” che organizzarono a Galatina il gremitissimo convegno internazionale “Quarant’anni dopo de Martino”. Ma, si sa, le riconsiderazioni intellettuali sovente viaggiano di ricorrenza in ricorrenza: se il decennio intercorrente tra quel primo e questo secondo colloquio ha talora risuonato dell’attrito fra due idee di de Martino e del tarantismo (quella dei fedeli seguaci demartiniani e quella degli “eretici” fautori di una nuova antropologia storica), l’anno appena iniziato si apre in un clima di maggiore rispetto teoretico dovuto a fattori quali l’attenuarsi del glamour mediatico attorno al fenomeno etnomusicale derivato dal tarantismo, il consolidarsi di una letteratura tematica meno improvvisata e più scientifica, l’instaurarsi di una solida codisciplinarità nella ricerca in cui nessuna scienza è ancillare all’altra. Proprio quest’ultimo elemento sembra essere il portato più genuino de La terra del rimorso, libro scaturito da una ricerca sul campo in cui diversi esperti operavano sotto la guida di uno storico delle religioni che aveva saputo reinventarsi etnologo. Concepita in assenza di una antropologia italiana, l’indagine demartiniana sul tarantismo dovette consumarsi in appena tre settimane di residential research. Essa, per quanto all’epoca ben preparata, alla luce delle acquisizioni successive si mostra oggi debole nella ricostruzione del contesto storico. De Martino, per esempio, ignorava il recente passato bizantino della spiritualità e della devozione popolari in quel territorio estremo della Puglia: se gli fosse stato noto, avrebbe avuto ben chiaro il perché della sopravvivenza di un tale rituale sincretico di possessione per così lungo tempo.

Inoltre, la formazione culturale personale di de Martino, da un lato ancorata a Benedetto Croce e dall’altro protesa verso la richiesta politica di una legittima emancipazione e modernizzazione di quelle genti e di quei luoghi, in parte non gli fece tener conto di elementi che la sua acerba scienza antropologica riteneva che fossero “indegni” di studio, in parte lo spinse a sottovalutare – molto più di quanto non farebbe un antropologo contemporaneo – aspetti e indizi attraverso cui operare una riuscita lettura del fenomeno. Ma al di là di questi e altri punti deboli della sua spiegazione del tarantismo, resta fondamentale in de Martino la brillante intuizione che il tarantismo fosse una voce – la più eclatante e fragorosa – della complessa storia religiosa del Mezzogiorno italiano e non un mero fatto di folklore. Se non avessimo un po’ tutti recepito da lui questo concetto, le stesse nozioni di transe e di possessione probabilmente sarebbero rimaste confinate alla letteratura etnologica francese di stampo coloniale: quella dei Marcel Griaule e dei Michel Leiris.

Grazie invece al sapiente apporto dell’etnomusicologo Diego Carpitella che vi scorse i caratteri di un “esorcismo coreutico-musicale”, l’universo caotico e inquietante del tarantismo acquisì nell’opera di de Martino i lineamenti di una creatura chimerica per metà figlia dell’irrazionale degli antichi greci e per metà evocatrice di primitivismi extraeuropei. Dal suocero e antichista Vittorio Macchioro a Ernesto de Martino pervenne l’interesse per il sistema magnogreco del sacro: una suggestione niente affatto peregrina se in precedenza aveva calamitato l’attenzione di Alfred Maury e di Aby Warburg. Ma de Martino non parlò mai esplicitamente di transe né di possessione. Fu piuttosto per tramite di Diego Carpitella che il raffinato etnomusicologo e africanista Gilbert Rouget inserì il tarantismo nello schema generale dei rituali di transe afromediterrai; benché sia stato Georges Lapassade il vero mediatore culturale tra le acquisizioni di de Martino, le scienze etnoantropologiche europee e il grande pubblico di studenti, studiosi, lettori puri e appassionati estemporanei che ha decretato l’inarrestabile fortuna editoriale de “La terra del rimorso”, il libro che da cinquant’anni spinge turbe di viaggiatori provenienti da ogni luogo d’Italia e d’Europa a compiere ogni estate il pellegrinaggio ai luoghi della tarantola sulle orme di Ernesto de Martino.

 

 pubblicato su Spicilegia Sallentina n°5

Nardò. L’antichissima abbazia di Santa Maria delle Tagliate

Dai “Sommessi racconti inediti”

 Il racconto del silenzio. L’abbazia di “Sancta Maria de le Talliate”

di Enrico Gaballo

Può sembrare un fantasioso ed antistorico controsenso che si possano raccontare vicende legate indissolubilmente ad un’antica abbazia benedettina attraverso alcuni segni rupestri. L’abbazia di S. Maria de le Talliate sorgeva a circa due chilometri dal centro abitato di Nardò e a quattro dal mare. Insisteva su di un’area di nove ettari a forma di valletta quadrilatera facilmente individuabile dalle rovine di una chiesa con campanile a vela. Della chiesetta settecentesca di origine bizantina, crollata tra il 1964 – 1966, rimane solo un cumulo di macerie.

Intorno e nelle immediate vicinanze si può godere della visione dell’omonimo insediamento rupestre (vedi sez. urbanistica Nardò, zona rilevante) con alcune abitazioni – grotte, con croci latine sugli stipiti degli ingressi, che hanno senz’altro subito scavi da parte dell’uomo nel periodo intorno all’anno Mille a.C. con scale di collegamento e con una cisterna vicino alla chiesa diroccata, che consisteva in un unico ambiente con volta a botte di circa metri tre per cinque.

Queste testimonianze si sprofondano nella roccia dissestata e sono cavità di piccola dimensione in parte allineate ed, in apparenza, intercomunicanti. Somigliano molto alle grotte otrantine. Il complesso rupestre si affacciava con molta probabilità su di un’importante via di comunicazione: la Sallentina che collegava non solo centri marittimi come Otranto e Taranto, ma anche due mari: l’Adriatico e lo Ionio. La strada un tempo tagliata dalle ruote dei carri, oggi è impietosamente sepolta da grigio asfalto.

Questi agglomerati scavati nella roccia erano occupati da popolazioni disperate per il continuo stato di guerra nell’Alto Medioevo.

Nei pressi del villaggio con molta probabilità vi era l’antichissima abbazia appunto di “Sancta Maria de le Talliate”,

Antonio Errico ha fatto bene: una guida ad uso dei viandanti della Ferrovia Sud-Est

di Pier Paolo Tarsi

Qualche giorno fa in questo stesso sito ho scritto sulle Ferrovie Sud-Est, proponendole tra le righe come il vettore unico con cui il viandante può vagare in questa terra estrema, possibilità per vagabondare oltre l’ordinario, nei sentieri di quell’altrove che è oltre il Salento per turisti ma anche oltre l’abbandono, oltre la lentezza scandita dal tempo che pur distilla, nel mezzo di quell’essere che giace pulsando nelle pietre, negli ulivi dell’entroterra, nelle cose cadute in disuso come questa via ferrata. A quanti sanno abitare questa dimensione molto più a Sud dell’esistenza ordinaria, locali o stranieri che rifiutano la sintassi del comune gergo turistico, voglio proporre questa volta una guida del proprio errare. Come infatti ogni buon turista si accompagna con la sua agile guida, così il viandante si può incamminare con un segnavia che lo sappia condurre nel suo viaggio senza mete in Terra d’Otranto. Questo segnavia non può che essere Secoli fra gli ulivi di Fernando Manno, un libro che quando uscì la prima volta, oltre cinquant’anni fa, era già e per sempre fuori dal tempo come scrive giustamente Antonio Errico nella sua perfetta introduzione alla ristampa del testo, riedito nel 2007 da Manni. Fuori dal tempo; non vi è modo migliore per alludere al senso complessivo delle pagine di un’opera “intrappolata in una condizione di memoria senza futuro[1]. Antonio Errico ha ben colto meglio di chiunque altro questa condizione, costui del resto non è stato un semplice curatore di questa opera nel corso della sua recente riedizione ma molto di più, divenendo a parer mio in qualche modo anche lui parte del libro, non solo perché lo ha amato profondamente, come si comprende dalla sua introduzione, ma anche perché a questo libro appartiene una parte della sua esistenza che ogni tanto si riaffaccia, magari a distanza di decenni misurati col tempo ordinario: “Per vent’anni non ho più ripreso in mano Secoli fra gli ulivi. Accade con i libri quello che a volte – spesso – accade con le persone, con gli amici, con le creature alle quali in qualche modo siamo appartenuti o che ci sono appartenute […] Ma quando ci si ritrova – se ci si ritrova – basta un istante soltanto per riconoscersi, per annullare tutto il tempo passato, per ritornare da dove si è partiti […]”[2].

Il libro a lui, ad Antonio Errico, un po’ appartiene dunque, è parte della vita di quel ragazzo che nella primavera del ‘79, ancora studente , folgorato da un incontro casuale con il testo acquistato in un mercatino e letto in quindici ore – lo immagino ogni tanto quel ragazzo, in quelle quindici ore di febbrile vagare, lo immagino e provo una profonda istintiva simpatia per lui – decise in quindici minuti di farne argomento della sua tesi, agendo in un modo che sembrava avventato e insensato agli occhi di quanti gli andavano ripetendo “che te ne fai di una tesi su un libro sconosciuto di un autore sconosciuto[3].

Ha fatto bene quel ragazzo, ha fatto bene il giovane Antonio Errico a non dare ascolto a quei consigli, pur comprensibili nei ricami delle logiche dell’ordinario, ha fatto bene a dedicare i suoi studi ad un libro che fu il primo e l’ultimo del suo autore.

Non vi parlerò del libro di Manno in sé, rinviando i lettori, in coerenza con quanto detto, alla felicissima penna di Errico e alla sua inarrivabile introduzione al testo. Sarebbe davvero pleonastico, credetemi, se non addirittura immorale proporre qui un surrogato di cosa già detta altrove molto meglio peraltro di quanto potrebbe fare il sottoscritto. Leggete l’introduzione di Errico e avrete tutto quanto vi occorre per comprendere il valore del libro e del suo immenso quanto sconosciuto autore. Mi dedicherò qui piuttosto, per quanto mi concerne, a suggerire questo lavoro come il segnavia per il viandante delle Sud-Est, come l’unica “guida” che sappia far volgere e indirizzare lo sguardo di coloro che intendono vagare per le vie ferrate e pietrose nell’altrove salentino, una dimensione che essendo fuori dal tempo non è mai mutata.

Scrive a tal proposito Errico alla fine della sua introduzione: “È cambiato molto in questi anni. Quasi tutto. Com’è normale che sia. È rimasto soltanto il Salento di questo libro, perché non esistendo, non essendo mai esistito, non poteva essere soggetto a nessuna trasformazione. Il Salento di Secoli fra gli ulivi è una pura invenzione. Un’ombra della memoria. Il souvenir di una fantasia. Il paese di una fiaba. La figurazione di una nostalgia. L’apparizione per un incantesimo. Il rammarico per una mancanza. Il rimpianto per un’assenza. Una regressione al fondo dell’infanzia. L’ipotesi di un’origine. La rappresentazione di una mitologia interiore. Una recherche du temps perdu[4].

Soltanto un ponte dunque, ad uso dei viandanti, mi limiterò qui a gettare oltre le condivisibili e meravigliose parole di Errico, soltanto questo vorrei suggerire d’ulteriore: le vie ferrate della Sud-Est offrono la possibilità di raggiungere quell’ombra di memoria, quella pura invenzione che è nelle pagine del libro di Manno, poiché queste vie sono costituite della stessa materia di quella fantasia, sono l’anello di congiunzione tra quel Salento dell’immaginario e quello del reale, segnando con i loro tracciati i confini tra un Salento ordinario, che muta, ed un Salento dell’altrove, immutabile. Due dimensioni che trovano in ogni piccola stazione deserta il loro critico anello di congiunzione, quasi si fosse di fronte all’incomprensibile e sfuggente legame tra la materia e lo spirito di questa terra, all’incontro tra la sua extra-ordinaria anima e le sue ordinarie membra. La Littorina che corre lungo le vie ferrate a Sud-Est è il mezzo per vagare nel medesimo Salento di Secoli fra gli ulivi e le pagine di Secoli fra gli ulivi sono il segnavia unico e perfetto per chi con quel treno intende e sa smarrirsi. Ogni pagina del libro, voltandola, lascia il medesimo agrodolce sapore che il vano passaggio della Littorina trascina dietro di sé tra i caselli abbandonati; ogni ostinata ripartenza del trenino, allo stesso modo, lascia una scia che invita a perdersi in quel sapore dell’altrove di secoli da sempre sospesi tra distese di ulivi e mai trascorsi, un invito ad abbandonarsi in quel “tempo dell’anima, sognante e indefinito” che il Manno voleva stringere con il suo libro, scritto “per dire l’incantesimo della fissità che pervade l’aria, per dire che il mutare dei tempi con cambia il sangue”. Buon viaggio viandanti!


[1] A. Errico, Introduzione a F. Manno, Secoli fra gli ulivi, Manni Editore, San Cesario di Lecce 2007, p 13

[2] Id. pp. 14-15

[3] Id. p. 6

[4] Id. p. 15

L’antica viabilità nel territorio neretino

di Maria Vittoria Mastrangelo

L’antico Salento presentava un aspetto assai diverso da quello odierno. Sicuramente gli antichi centri abitati, e soprattutto quelli di epoca medioevale, erano collegati tra loro da carrarecce o mulattiere. In questa terra si viveva di commercio oltre che di agricoltura. E dobbiamo anche immaginare la maggior parte del territorio salentino coperta da querceti e macchia mediterranea: un territorio boscoso, molto diverso dall’aspetto ordinato dei moderni oliveti che si estendono oggi a perdita d’occhio tra un abitato e l’altro; le antiche strade dovevano di fatto attraversare zone ombrose, e talvolta malsane; ovvio quindi che si mantenessero distanti dagli acquitrini e dalle zone malariche immediatamente sulla costa.

Di certo, restano tracce ancora alquanto evidenti di una situazione oggi difficile anche da immaginare: pesanti carri che a difficoltà procedevano tra i boschi di lecci o in mezzo a paludi malariche; rischi di assalti dei predoni saraceni che, sbarcando improvvisamente lungo le coste, saccheggiavano, distruggevano e sparivano con la stessa velocità con cui erano comparsi all’orizzonte; eppure qualche traccia di quest’antico vissuto resiste tuttora, celata nei muretti a secco o nella toponomastica, pronta a raccontare una storia romanzesca a chi sappia leggere le testimonianze dei luoghi e le tracce lasciate dallo scorrere delle ruote dei carri nel tufo salentino.

Prima che i  commerci mondiali si estendessero al di là degli oceani con la scoperta dell’America e delle rotte per l’Africa e l’Estremo Oriente, il Salento, penisola che si immerge nel centro del Mediterraneo tra il mar Ionio ed il mar Adriatico, era una terra ambita, fulcro del commercio di epoca antica e medioevale: la sua posizione naturale ed il suo aspetto morfologico, sostanzialmente pianeggiante, ne facevano una delle principali porte d’Europa, luogo di partenza e di arrivo di merci pregiate; da qui partivano anche spedizioni militari o pellegrini verso la Terrasanta, e qui più volte sbarcarono i musulmani, nell’intento di insinuarsi in Europa.

Ed ancora una storia molto più recente, fatta di sbarchi clandestini, sottolinea la funzione di ponte che la penisola naturalmente presenta tra l’Europa occidentale, i Balcani e l’Africa.

Nei tempi antichi, quando il Mediterraneo era solcato dalle navi delle colonie greche e fenicie, la penisola salentina era abitata dai messapi, un popolo fiero che difendeva la propria indipendenza anche dagli assalti della ricca e potente Taras greca (l’odierna Taranto). Le città messapiche – Manduria a parte che si trova poco più all’interno – erano situate tutte a circa cinque chilometri dalla costa ionica, tra Taranto e l’attuale Santa Maria di Leuca: Nardò, Alezio, Ugento e Vereto. Tra l’una e l’altra una distanza media di 11 miglia.

Le città messapiche erano collegate tra loro da una strada che correva lungo la costa ionica mantenendosi a circa 5 chilometri di distanza dal mare; Ognuna di esse era poi collegata ad un proprio porto-emporio sulla costa. Questo sistema di viabilità, creato in epoca messapica e poi ricalcato ed ampliato dai romani, ci è stato in parte riportato dalla famosa tavola peutingeriana, redatta in epoca imperiale. Sicuramente è stato poi utilizzato in epoca medievale e nella prima età moderna, non essendosi di fatto la viabilità interna modificatasi fino a tutto il sec. XVIII.

Nel Salento, dell’antica viabilità terrestre ci resta oggi ben poca traccia: il territorio è solcato da strade moderne che hanno quasi ovunque cancellato le tracce di quelle arcaiche; le antiche mappe per lo più riportano con accuratezza la morfologia della costa coste, essendo all’epoca preponderante l’utilizzo delle rotte marine, sicuramente più veloci rispetto alla percorrenza di carrarecce e mulattiere per via di terra.

D’altra parte, l’analisi del territorio e la ricerca sia storica che archeologica hanno dato discreti risultati ed è in parte possibile ricostruire gli antiche tracciati viari. Esiste in merito una buona bibliografia tra cui emergono gli studi di Giovanni Uggeri che – sebbene datati, essendo stati redatti venticinque anni fa – restano ad oggi l’analisi più dettagliata, almeno per quanto concerne l’area ionica a sud di Taranto.

La via Sallentina, riportata anche dalla tavola peutingeriana, era la strada che, correndo parallelamente alla costa ionica, collegava il porto di Leuca all’Appia all’altezza di Taranto; proveniendo dal Vicino Oriente, si poteva attraccare a Leuca, piuttosto che a Brindisi, e raggiungere l’Appia percorrendo la via Sallentina: la strada doveva pertanto essere assai frequentata e ben conservata se  talvolta veniva preferita alla rotta marina fino a Brindisi – da cui poi, in ogni caso, bisognava raggiungere Taranto percorrendo l’ultimo tratto della via Appia.

Uggeri ha rintracciato quasi completamente l’antico percorso che da Manduris (Mandria) arrivava fino a Veretum (Leuca), passando per Neretum (Nardò), Baletum (Alezio) ed Uzintum (Ugento). Relitti di questa viabilità sono spesso rintracciabili nella campagna ed Uggeri li ha dettagliatamente indicati sulle mappe topografiche da lui pubblicate dove il percorso della via Sallentina da Manduria a Nardò è molto ben individuato. Soprattutto la zona a  nord di Porto Cesareo è ricca di testimonianze del passaggio di un’antica ed importante strada: in particolare vale la pena ricordare il villaggio medioevale di Lucugnano – di cui oggi restano tracce di un’antica necropoli e resti di antichissime carrarecce, forse in parte coincidenti con un tratto della Sallentina stessa – e più a sud il relitto del paretone greco (antica fortificazione della guerra greco-gotica) che corre immediatamente a sud della masseria Console e prosegue nel territorio della masseria Giudice Giorgio – con i resti di un antico e larghissimo tratturo perfettamente individuato dalle mappe dell’Uggeri. Prima di arrivare a Nardò, si trova ancora il casale di Agnano, abitato fino al tardo medioevo.

Colpisce, invece, che la zona immediatamente a sud di Nardò – il tratto verso Alezio – risulti poco indagato e soltanto accennato. Qui sono state fatte solo delle ipotesi, non potendosi ad oggi, riscontrare alcun tratto di strada antica ascrivibile con sicurezza al percorso della Sallentina.

Mentre già in epoca romana, le città messapiche di Manduris, Baletum e Veretum venivano progressivamente abbandonate, Neretum ed Uzintum conservavano una certa importanza, divenendo in epoca cristiana anche sedi vescovili.

La presenza di una notevole densità demografica potrebbe quindi essere tra le cause di una costante ed incisiva modificazione del territorio circostante la città, che ha cancellato le tracce della sua storia più remota: e così il percorso della viabilità antica risulterebbe oggi molto poco leggibile, rispetto ad altre zone in cui lo stato dei luoghi si è conservato più simile a quello originario.

Nardò era collegata al suo porto – Naunia, probabilmente l’odierna Santa Maria al Bagno – da una strada diretta che incrociava, all’altezza dell’odierna località delle Cenate la strada che da Gallipoli intersecava la Sallentina – collegando così Gallipoli a Taranto – e proseguiva per Copertino, Novoli e Squinzano, congiungendosi qui con l’Augusta Traianea.

Tracce di questa strada, di importanza secondaria rispetto alla Sallentina stessa, sono rintracciabili nelle vicinanze della villa Taverna – il cui nucleo originario quattrocentesco era probabilmente un punto di ristoro della lungo la strada: si tratta di relitti stradali e di qualche pietra miliare.

Immediatamente a nord di Nardò, laddove la moderna strada per Avetrana ricalca abbastanza fedelmente l’antica Salentina, il tracciato antico è in alcuni punti ben evidente; mentre a sud dell’abitato, essendo la situazione dei luoghi molto più modificata, non si è potuto ben individuare l’antico percorso: la moderna statale 101 (Lecce-Gallipoli) che incrocia la strada antica poco a nord di Sannicola, ha in quel punto ulteriormente cancellato le tracce dell’antica viabilità, rendendo ancor più complessa l’individuazione del probabile percorso.

Uggeri sostiene che uscendo da porta Viridiana (all’altezza dell’attuale Castello di Nardò) la strada attraversasse la località Castellino, dov’è oggi la discarica, e toccando villa Frezza, l’abbazia medioevale di San Nicola in Pergoleto e contrada Coppola fino alla masseria Portolano (quest’ultima immediatamente a nord di Alezio, al di là dell’attuale statale 101).

In alternativa a questa, un’altra ipotesi sarebbe quella di far passare la strada leggermente più ad ovest, facendola coincidere con la strada che dal castello neretino conduce verso la  masseria Pantalei e da qui, rasentando la masseria Corillo e la chiesetta di santa Maria delle Tagliate – venendo ad attraversarne l’omonimo villaggio rupestre – prosegue verso sud, fino alla masseria Morige Grande. Questa strada, in parte ancora esistente, è sicuramente molto antica: la zona è però oramai densamente coltivata e costellata di moderne villette; lo stato dei luoghi appare completamente alterato, né sono rinvenibili resti di un eventuale  antico lastricato,  neanche nei muretti a secco che, spesso costruiti re-impiegando i massi del lastricato stradale, sono fonti preziose per documentare l’antico stato dei luoghi.

Questa area a sud di Nardò è peraltro ricca di rinvenimenti: nei pressi della località Torre Mozza (di poco più ad ovest rispetto alla strada Pantalei-Tagliate-Morige) furono rinvenuti negli anni ‘70  del secolo scorso, resti tombali di epoca bizantina, oggi conservati al museo di Gallipoli; ancora più a sud, nei pressi della masseria Mosca e a poca distanza dalla chiesa di San Mauro, si trova la chiesetta bizantina di San Salvatore, costruita in un punto pianeggiante, probabilmente al crocevia con un’altra strada che collegava i due i porti di Gallipoli ed Otranto, passando per Muro Leccese – dove si trova l’altra importantissima chiesa bizantina di Santa Marina.

I percorsi istmici tra lo Ionio e l’Adriatico avevano nell’antico Salento l’essenziale funzione di collegare i principali insediamenti portuali tra loro con strade carraie, evitando di dover doppiare via mare il capo di Leuca: di quello più a sud, tra Otranto e Gallipoli si è appena accennato; ve ne erano altri due: uno collegava il porto di Nardò, Naunia (Santa Maria al Bagno), a Roca Vecchia, passando da Galatina, Soleto e Calimera; un altro ancora più a nord collegava Senum (Porto Cesareo) a San Cataldo, passando da Leverano, Copertino e Lecce (Lupiae e Rudiae). Ancora più a nord c’era ovviamente la parte terminale della via Appia, il collegamento tra i porti di Taranto e Brindisi.

Le notizie riportate sono tratte per lo più da mappe e documenti antichi, ma il territorio merita di essere studiato più dettagliatamente, alla ricerca delle tangibili testimonianze del passato. Il Salento non è solo la terra de lu sule, lu mare e lu ientu: è una terra che conserva le labili tracce della sua storia plurimillenaria, del suo passato messapico, ma anche bizantino, dei suoi villaggi rupestri scavati nel tufo e mascherati tra gli olivi; aspetti meno noti, cui però la civiltà e la tradizione locale devono tanto della loro unicità.

pubblicato integralmente su Spicilegia Sallentina n°5.

La cripta di sant’Angelo in Uggiano la Chiesa

La cripta di sant’Angelo in Uggiano la Chiesa

Una fulgida testimonianza dell’influsso bizantino nella Valle dell’Idro

 

di Dania Nachira

Nella valle dell’Idro, nella zona meglio nota alla gente del luogo come “Le Padule”, in agro di Uggiano la Chiesa tra la frazione di Casamassella ed Otranto, sorge Monte Sant’Angelo.

Qui la natura sembra proseguire il suo corso indisturbata, da sempre, con una folta macchia mediterranea ben rappresentata da pini, lentischi, cespugli di edera che si inerpicano sul pendio del monte ricoprendolo quasi interamente, se non fosse per il costante e sapiente lavoro di generazioni di contadini del luogo che, negli ultimi secoli, hanno bonificato e terrazzato, strappando lembi di terra alla vegetazione spontanea per far spazio agli ulivi.

In realtà, sia la natura che l’uomo in epoca moderna hanno soltanto nascosto ed in parte contribuito con la loro opera a preservare e a distruggere quel che rimane di un luogo che conserva interessanti testimonianze medievali.

Si riconosce, infatti, una fortificazione sulla sommità del monte con torre a pianta quadrata di dieci metri di lato, con spigoli orientati ai quattro punti cardinali.

Sullo spigolo est si innesta la cortina muraria, di cui sono visibili venti metri circa ben conservati, probabilmente facente parte di un recinto fortificato.

In quel che resta della torre non c’è traccia del varco di ingresso, poiché non si trova il piano di calpestio originario sommerso da diversi centimetri di terra. La muratura, costituita da grossi e piccoli blocchi tenuti insieme da una malta tenacissima, e spessa fino a due metri sui lati esterni, lascia presagire che la torre fosse abbastanza alta e probabilmente aveva piani in tavolato ligneo comunicanti con scale a pioli o scale ricavate nello spessore della muratura stessa.

Toponomastica salentina

di Gianni Ferraris

Viaggiare in Salento è percorrere strade e paesaggi fatte anche di profumi e colori. Di questo ho già detto e probabilmente ancora dirò. Sarebbe importante per queste terre, avere un turismo qualificato e non il mordi e fuggi estivo, fatto di pochi giorni e via.

E’ terra da vivere in ogni mese dell’anno. Però ci sono aspetti che il viaggiatore assetato non solo di mare deve sapere. Chi, come me, ha un senso dell’orientamento carente, si troverà sperso fra ulivi e vigneti, fra mare e campagna se è sprovvisto di navigatore satellitare.

Viaggi Letterari in Puglia

VIAGGI  LETTERARI IN PUGLIA

 di Francesco Lenoci

Patriae Decus Città di Martina Franca, Docente Università Cattolica del Sacro Cuore – Milano, Vicepresidente Associazione Regionale Pugliesi – Milano

 A distanza di due anni circa torniamo ad incontrarci, in nome della Puglia, nella splendida sala Barozzi del meraviglioso palazzo che ospita l’Istituto dei Ciechi di Milano.  Che bello!

Per la precisione era sabato 29 marzo 2008 e il titolo del Convegno, anche allora organizzato da Edizioni del Rosone “Franco Marasca” con il patrocinio dell’Associazione Regionale Pugliesi di Milano, era: “La Puglia con la Capitanata a Milano: occasioni letterarie, enogastronomiche, economiche”.

Pochi giorni prima di quel convegno la professoressa Falina Marasca mi aveva cortesemente fatto avere tre libri del professor Francesco Giuliani pubblicati da Edizioni del Rosone: “Occasioni letterarie pugliesi”, “Saggi, scrittori e paesaggi” e “Alfredo Petrucci”.

A fine autunno 2009 Francesco Giuliani mi ha fatto avere un altro libro “Viaggi novecenteschi in terra di Puglia”. In buona sostanza, l’autore prosegue senza soluzione di continuità nell’acuta e meticolosa ricerca dedicata alle memorie letterarie della regione Puglia.

I quattro citati libri sono inseriti nella collana “Testimonianze”, diretta da Benito Mundi, sulle cui copertine campeggia una meravigliosa frase: “È bello dopo il morire. . . .vivere ancora”.

Edizioni del Rosone diffonde informazione, diffonde cultura da ben 32 anni! Grazie!

Un punto fermo: strappare il segreto e diffondere l’informazione – da sempre –  è l’unico strumento per la democratizzazione di ogni realtà giuridica di tipo collettivo.

Un altro punto fermo: la cultura va  intesa come intervento nella storia,  modellato dal sapere e fortificato dalla saggezza.

E non come mezzo di arroccamento nei propri territori. Guai a chi si rinchiude nel borgo! Guai a chi ha piedi e testa nel borgo!

Come ci ha insegnato un grande profeta (nato ad Alessano, parroco a Tricase, vescovo a Molfetta), don Tonino Bello:

  • la cultura è impegno, servizio agli altri, promozione umana come il riconoscimento della persona libera, dignitosa e responsabile;
  • la cultura è cemento della convivenza, orizzonte complessivo, strumento di orientamento, alimento di vita;
  • l’elaborazione culturale diventa una via obbligata per individuare stili di vita, modalità di presenza e di comunicazione, attenzione alle attese delle persone e della società, per esprimere le ragioni della speranza e accettare responsabilità in spirito di servizio.

Lo ribadisco: Edizioni del Rosone diffonde informazione, diffonde cultura da ben 32 anni! Grazie. . . . grazie di cuore, a nome dei pugliesi…ovunque essi vivano e dei tanti innamorati della Puglia.

Perché vi ho raccontato questo?

Perché tradizionalmente la Puglia è ritenuta povera di letteratura.  Ma si tratta di una visione che rispecchia solo una parte della realtà e che, spesso, viene riproposta in modo superficiale.

Grande merito di Francesco Giuliani è di aver contribuito a  smentire con i fatti il citato pregiudizio, evidenziando in che modo il territorio pugliese ha offerto l’occasione per la nascita di pagine di ispirata letteratura, per incontri e riflessioni di particolare rilievo.

Complimenti!

Non posso, peraltro, tacere che Francesco Giuliani ha commesso un errore grave, un errore imperdonabile, un errore blu, mercoledì 3 febbraio 2010, allorquando mi ha inviato, tramite e-mail delle 19,34, alcune recensioni di “Viaggi novecenteschi in terra di Puglia”.

Ovviamente mi sono guardato bene dal leggerle per il semplice, banale motivo che la lettura di un libro è un piacere. . . .ma se è guidata da qualcuno. . . .che piacere è?

Come scrive Kazimiera Alberti: “La felicità si può misurare in due modi: con gli occhi della folla e con il tremore del proprio cuore. Ma queste sono due misure del tutto differenti” (Cfr. pagg. 173-174).

Condivido pienamente: nessuno può privare il mio cuore, la mia mente e la mia anima del piacere di leggere un libro e delle emozioni che  scaturiscono dalla circostanza che all’occhio che legge si aggiunge la fantasia che varia, suggerisce e  abbellisce. Prenderò visione delle citate recensioni dopo San Valentino.

Ho letto una prima volta “Viaggi novecenteschi in terra di Puglia” negli ultimi giorni dell’anno 2009 a Martina Franca.

L’ho riletto questa settimana a Milano e durante un viaggio in treno a Roma.

Come diceva don Tonino Bello, mutuando un’espressione di Max Weber, “Un libro che non è degno di essere letto due volte, non è neppure degno che lo si legga una volta sola”.

Per promuovere il libro di Francesco Giuliani “Viaggi novecenteschi in terra di Puglia” Edizioni del Rosone, 2009, ho, inter alia, creato un gruppo su Facebook denominato “Viaggi….in terra di PUGLIA” (1.081 membri), che accoglie due Eventi: “I VIAGGI LETTERARI sostano A SAN SEVERO” e “I VIAGGI LETTERARI sostano A MILANO”, ai quali ho invitato 6.000 persone.

Perché ho fatto tutto questo?

Perché mi ha intrigato l’idea che è venuta a Francesco Giuliani di vedere la Puglia attraverso gli occhi di un altamurano residente a Roma, di una scrittrice polacca e di un grande senese. Faccio spiegare l’arcano da un avatar: il suo nome è Bairon.

Sussurra  Bairon a Kazimiera Alberti: “Oggi sono venuto a Bari per rivedere questa città nuova”. . . . e fa una richiesta sorprendente: “Vi prego di farmi da guida”.

“Io!? Ma io sono una straniera, non lo sapete?”

“Lo so benissimo! Appunto per questo vi prego. Lo straniero vede sempre le cose caratteristiche. Lo stesso quadro ammirato per la prima volta fa altra impressione che visto per anni, giorno per giorno. Gli occhi si abituano molto presto ed ogni cosa osservata, la più bella o la più strana, diventa normale, schematica, forse anche noiosa. Gli occhi dello straniero sono più freschi, vedono quei contorni che sfuggono all’attenzione dello stabile abitante, vedono i riflessi in quelle macchie che per tutti gli altri sono opache” (Cfr. pagg. 180-181).

Oggi, sabato 13 febbraio,  siamo a Milano e, come affermano  Totò e Peppino De Filippo in un celeberrimo film, allorquando arrivano a Milano vestiti con pellicce e colbacchi: “A Milano fa freddo”.  In Puglia no, per definizione!

Rileva Kazimiera Alberti: “Non aver molta fiducia nel calendario. Anche esso tradisce, falsifica, inganna. Ritarda, avanza, senza motivo. Oggi, per esempio, ti comanda di credere che è il 12 febbraio. Ma guarda invece il cielo, il mare, l’intero Golfo di Manfredonia tagliato in forma di falce ideale. Guarda la montagna garganica. La giornata primaverile ha cancellato l’iscrizione 12 febbraio e si fa beffe del calendario. Ha immerso tutto nel turchese” (Cfr. pag. 171).

Cesare Brandi non era stato altrettanto fortunato. Narra che, una volta, giungendo in Puglia nella stagione più fredda vi trovò la neve, per quanto dall’effimera esistenza. La sgradevolezza di tale presenza è descritta da par suo: “Lo scrivo senza paura, perché a me la neve fa schifo, ipocrita, menzognera e, quanto più è linda e immacolata, tanto più è ipocrita e menzognera. Che simbolo inetto, che metafora stantia, questa purezza che si scioglie al primo calore, questa immacolatezza che s’insudicia subito…. I paesi che Cesare Brandi ama sono quelli dove non nevica mai, dove non si chiede la purezza alla neve e la saggezza al freddo e tra questi rientra di norma anche la Puglia, dove il sole brucia quasi sempre e le precipitazioni nevose sono solo un’eccezione che conferma la regola” (Cfr. pag. 230).

Lo sappiamo tutti: anche in Puglia nevica non di rado. Quello che sanno in pochi (io l’ho appreso dal mio Amico Franco Presicci) è che i nostri Avi, grazie ad un diffuso spirito imprenditoriale, riuscivano a trasformare quella che è ancora adesso una calamità, ben nota a coloro che vivono a Milano, in un’opportunità.

A partire dal Settecento i pugliesi conservavano la neve nelle neviere. E quando non nevicava lasciano le neviere inutilizzate? Certo che no! I proprietari e gli appaltatori delle neviere facevano arrivare la neve dalla Basilicata, dalla Calabria e, persino, dalla Grecia.

Dalla neve, diventata ghiaccio nelle neviere, gli abitanti di Martina Franca in particolare, ricavavano e vendevano, in estate, i famosi e voluttuosi sorbetti al limone, al rosolio, alla menta, al vin cotto (Cfr. Angelo Marinò, Martina Franca Ieri, Edizioni AGA, 1993, pagg. 27-28).

Che cosa bella. . . . la capacità di creare valore!

Che cosa bella ….la spiritualità! Utilizzo le bellissime parole di Rocco De Rosa: “Le rocce del Gargano sono diverse da quelle solite che s’incontrano ai bordi delle strade: più incisive, più profonde, più eloquenti. Quasi umane nel loro aspetto. Dimostrazione di umiltà e di ubbidienza, quelle rocce non disegnano scenari fastosi, né mondi fondati sulla gloria, il lusso, la potenza. Tutt’altro. . . . Il Gargano è luogo di pace.  È una terra speciale, che ha ospitato il Frate giunto da Pietrelcina, che ha scelto quella terra come suo approdo, perché corrispondente al suo disegno interiore. Lui è testimonianza e storia, avvertono  le rocce” (Cfr. Rocco De Rosa,  L’universo di Padre Pio, Rubbettino  Editore 2006, pag. 13).

Che cosa bella. . . . la lealtà! Osserva Nicola Serena di Lapigio: “A una svolta, Monte Sant’Angelo appare sulla vetta, bello perché è sempre meraviglioso a vedere un paese antico sopra una grande altura: un paese che par viva di sogni e dove gli uomini pensosamente raccolti nel sublime isolamento della montagna, stretti fra loro dalla comune gioia di vivere in alto, discosti da deprimenti traffici e da ammorbanti miasmi, sembra che lassù debbano sentirsi veramente puri e finalmente fratelli, non avendo da lottare  che contro i venti e le nubi, nemici formidabili ma aperti” (Cfr. pag. 95).

Che cosa bella ….quando si associano estetica ed etica! Secondo Cesare Brandi l’amore per l’arte e la natura portano sempre con sé, come necessario risvolto della medaglia, il dovere di difendere questo patrimonio prezioso, indispensabile all’uomo per non perdere la sua umanità, il suo valore aggiunto” (Cfr. pagg. 208-209).

Ammonisce Brandi, con grande saggezza e lungimiranza: “L’opera d’arte non è l’eterno ritorno: è l’eterna presenza. Se fa tanto di partirsene una volta, non ritorna più . . . .La Puglia non deve tradire le proprie tradizioni e le proprie radici, nell’acritica accettazione dei tempi nuovi (Cfr. pag. 212).

Una delle  località  pugliesi predilette da Cesare Brandi è Martina Franca, cui nel 1968 dedica un intero libro.

Quel libro ….ve lo mostro ….fu pubblicato a Milano,  da Guido Le Noci, cugino di mio nonno. Il mondo è proprio piccolo! In quel libro l’arte della scrittura ingaggia una vera e propria gara di bravura con l’arte della fotografia.

Lascia sbalorditi l’entusiasmo che Cesare Brandi, un figlio della meravigliosa Siena,  che ha girato il mondo col berretto di critico d’arte, manifesta per la Valle d’Itria (gli spazi verdi, costellati di trulli, tra Martina Franca, Locorotondo e Cisternino) e Martina Franca.

Vi leggo due frammenti, riportati in “Viaggi novecenteschi in terra di Puglia” di quella che mi piace definire “Dichiarazione d’amore”.

“Nessuna campagna è più festosa di questa (della Valle d’Itria), che è come un girotondo di bimbi, l’illustrazione benevola di una fiaba, il pianeta d’un’età privilegiata e innocente. Ma è pure come uno scampanio silenzioso che fa echeggiare, nel più riposto del cuore, ricordi sopiti e subitanei, di mattini lieti e di scampagnate festive, d’un’età perduta che sembra di ritrovare come un vestito in fondo a un cassetto o un fiore dentro un libro” (Cfr. pagg. 226-227).

“Martina Franca, capitale del rococò, è unica nel suo genere, con le sue decorazioni, con i suoi fregi, che la rendono un piccolo miracolo appartato e tranquillo, il riflesso tutto di fantasia d’una cultura per sentito dire, come fosse polline venuto da lontano, portato dal vento e lì caduto. C’è un clima che rende tutto possibile, persino incontrare in piazza qualche celebre musicista, come Paisiello o Mozart” (Cfr. pag. 227).

Mi avvio alle conclusioni.

Per comprendere una realtà urbana della Puglia, nota la polacca Kazimiera Alberti, bisogna guardare all’aperto, al di fuori delle case, altrimenti si rischia di essere parziali o superficiali. “A Bisceglie, ad esempio, la  via è casa, magazzino, laboratorio, passeggiata, tribunale ove sarà definito ogni litigio, chiesa per la quale passa la processione, sala di conferenza per adunate e comizi, palestra nella quale i ragazzi provano le loro prime forze sportive e altana sulla quale giovani e vecchi si baciano” (Cfr. pag. 147).

Ritengo che a Bisceglie . . . .in Puglia la situazione sia significativamente mutata….ma quanta nostalgia.

Per descrivere tutto ciò, la prosa non basta….occorre la poesia. La poesia, meravigliosa, s’intitola “Sogno” ed è di Elena Casavola.

S O G N O

Giorni  d’estate:

vicoli  bianchi

inondati  dal  sole,

panni  stesi  ad  asciugare,

una  vecchia  sull’uscio

a  sbucciare  le  fave.

Giorni  d’estate:

vociare  di  bimbi

che  giocano  al  soldo,

un   ferro  da  stiro

ruotato  nel  vento,

donne  che  filano

il  fuso  lanciato

nel  mezzo  alla  strada.

Giorni  d’estate:

nell’aria  pura  profumo

di  rose  e  gelsomini,

insieme  ai  trilli  e  al  cicalio.

Da  lontano, scandito  dai  passi,

il  ticchettio  del  bastone

di  un  vecchio  signore

che  lento  rientra.

Gli  vado  incontro  leggera . . . .

Ora:

le vecchie

stanno rinchiuse nei piani

alti dei condomini,

i  loro  fusi  abbandonati

arrugginiscono  nelle  soffitte.

I bimbi, fermi, sono

incantati dai falsi giochi

sui  teleschermi.

Non splende il sole

sui loro visi, non  fanno  crocchio

nelle  stradine.

Nei vichi spenti s’aggirano lenti 

volti  sparuti di  clandestini.

Meglio sognare! 

Com’era una volta 

quel mondo semplice senza  tv,

senza  telefono,

senza  automobili,

senza merende di crema e cacao,

coi  denti  bianchi

che masticavano anche le pietre.

Non c’era  in casa l’acqua

corrente  e neanche bagni

lucenti di specchi.

Ci si lavava  in  una  tinozza

e la doccia era un secchio

che la mamma sul capo

ti rovesciava.  E si sognava!

Ora non più. 

Concludo. Sia lode e gloria a Francesco Giuliani e a Edizioni del Rosone che, attraverso il libro “Viaggi novecenteschi in terra di Puglia”, hanno lanciato un messaggio chiaro e forte che  giungerà a tante persone,  tra cui  tanti visitatori della BIT di Milano che si svolgerà la prossima settimana: “Gentili Signore e Signori, vi consigliamo di visitare questo giardino megalitico e vi assicuriamo che non vi annoierete. La Puglia è regione per turisti molto intelligenti; è vietato l’ingresso alle menti torpide” (Cfr. pag. 132).

È per tutto questo che, in nome dell’Associazione Regionale Pugliesi di Milano e per conto di tutti i pugliesi, mi permetto con grande gioia di dare un consiglio fraterno.

Andate in Puglia….rectius Venite da noi in Puglia:                           .

  • per vivere i colori delle terre di Puglia;
  • per vivere i sapori delle terre di Puglia;
  • per vivere la letteratura delle terre di Puglia;
  • per vivere la spiritualità delle terre di Puglia;
  • per vivere. . . .consapevoli di quanto sia bello dopo la morte . . . . vivere ancora.

La Fondazione Terra d'Otranto, senza fini di lucro, si è costituita il 4 aprile 2011, ottenendo il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia - con relativa iscrizione al Registro delle Persone Giuridiche, al n° 330 - in data 15 marzo 2012 ai sensi dell'art. 4 del DPR 10 febbraio 2000, n° 361.

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