Scene da un funerale

di Paolo Vincenti

I funerali, si sa, nei nostri piccoli centri, sono occasioni di socializzazione, si rivede gente che non si incontrava da tanto, si scambiano quattro chiacchiere, meglio ancora di come si farebbe in piazza dove il rumore assordante delle autovetture di passaggio non concilia. In quel luogo di lutto, invece, si è favoriti dalla pace  e dal religioso silenzio che vi regnano e si riesce anche ad entrare in un’intimità confidenziale che in altri contesti non si avrebbe. Si parla a fior di labbra, sussurrando le frasi, per non dare nell’occhio (o meglio, nell’orecchio) di chi è assorto nella veglia funebre, vale a dire i congiunti del de cuius ed i parenti più stretti. Ci si aggiorna sulle rispettive vite, si maligna di imbrogli e infedeltà coniugali, si calunniano gli assenti, specie nei paesini dove ci si conosce un po’ tutti e ciascuno è roso da livore e invidia nei confronti di chi la sa più lunga di lui.

Questo avviene  sia ai funerali dei poveri Cristi, pincopallini qualsiasi, sia a quelli di un personaggio di spicco, uno dei notabili del paese, come può essere un maresciallo dei carabinieri, un sacerdote o parroco, un grosso imprenditore, un aristocratico, un pubblico amministratore, o un arruffapopolo dei tanti che scalmanano da mattina a sera nelle piazze dei nostri sgarrupati paesotti.   Fra un “l’eterno riposo” e un “padre nostro”, si ripensa agli episodi della propria vita insieme con la persona scomparsa, si ripercorrono i momenti belli ma anche quelli brutti, difficili,  e si indirizza allo scomparso un saluto affettuoso, un augurio di buon viaggio. Si fanno anche dei resoconti personali e ci si accorge quasi sempre di aver fallito; i rimorsi o i rimpianti dal feretro si propagano e iniziano a lambire i nostri piedi salendo su fino alla giacca, e ci si deve allontanare per  sfuggire a quella pressione fastidiosa, a quel venticello mortifero. Se il defunto non è un congiunto, ci si limita  ad esprimere il cordoglio ad amici e parenti; se invece si tratta di un famigliare, si portano dei fiori oppure, quando i fiori non sono richiesti, del denaro che, contenuto in una bustina dove si è fatto ben attenzione a indicare il mittente,  viene lasciato nel cestello sistemato ai piedi della bara. Se poi il grado di famigliarità è ancora più stretto, allora si commissiona un cuscino o una  corona di fiori che l’impresario delle pompe funebri si premura di recapitare.

Quando si avvicina l’ora fatale delle esequie, solitamente le 15 o le 16 di pomeriggio,  il prete  che celebrerà la funzione viene a casa  a fare una ispezione preliminare e ad impartire l’estrema unzione al trapassato. A quel punto l’impresario  fa capire a tutti che occorre prepararsi per il drammatico momento e sigilla la bara per il trasporto. Allora si levano più strazianti i lamenti dei famigliari. Su tutti spiccano quelli della vedova inconsolabile e delle figlie femmine, mentre se a dipartire è lei, il vedovo resta contrito in un cupo silenzio e a volte leva gli occhi al cielo in un gesto di sfida e di ingiuria. Circola infatti, nel comune sentire dei nostri paesi,  la stramba teoria secondo cui in una famiglia, se è proprio necessario che uno dei coniugi perisca prima dell’altro ( e in effetti morti simultanee se ne vedono di rado), sia lui, il marito, a precedere, perché in questo modo la casa  rimane aperta e frequentata (in poche parole la vita continua a scorrere come sempre, fra beghe famigliari, pettegolezzo e vendette incrociate). Se invece  a decedere è lei, la moglie,  allora comari, compari, figli e amici non hanno più interesse a frequentare la casa e lasciano il vedovo  a spegnersi  nella solitudine.

Dopo la funzione religiosa e il rito più o meno lungo delle condoglianze in chiesa, la bara viene sistemata di nuovo nell’auto e ci si avvia al cimitero per la tumulazione. Qui il corteo di macchine che ha accompagnato la mercedes funebre si sfalda e ognuno va via in ordine sparso. Al camposanto, è facile per i famigliari, assistendo all’ingrato compito svolto dal necroforo, venire assaliti  di nuovo dal dispiacere, dallo sconforto, che si esprime in un pianto dirotto dovuto alla consapevolezza di non rivedere mai più il proprio congiunto. Quando si fa rientro  a casa, è ormai sera inoltrata. A quel punto, riunendosi la famiglia intorno al tavolo per la cena, può succedere che sia quella l’occasione per iniziare a discutere anche animatamente del futuro in termini di successione e divisione dei beni. Non sempre i famigliari sono d’accordo e capita che i figli e soprattutto le nuore litighino preventivamente, a babbo morto, come si suol dire,  prima di essere duramente richiamati dalla madre, la neo vedova, che rinfaccia  loro di non avere rispetto per il cadavere ancora caldo del genitore.

A volte, nel nostro sud sottosviluppato, si incontrano delle sopravvivenze folkloriche come quella delle chiangimorti. Non mi pareva vero ma, ad una veglia funebre cui partecipai qualche tempo fa, incontrai un drappello di pie donne, moderne “prefiche”, assoldate dai congiunti per  conferire ancora più pathos all’atmosfera di lutto.  Non riuscivo a credere a quello che vedevo e che io pensavo fosse ormai solo confinato nei libri di storia e in quei rari documentari in bianco e nero girati nel Salento qualche decennio fa.

Credevo si trattasse di una finta, cioè una ricostruzione inscenata a vantaggio di telecamera e mi aspettavo che da un momento all’altro sbucasse fuori la troupe di cameramen e antropologi interessati. Invece era tutto vero a ai lai delle chiangimorti si univano le urla disperate della moglie e dei figli del morto in una scena davvero straziante. All’uscita da casa poi, il lento corteo funebre fino alla chiesa venne accompagnato dal suono della banda e anche questa è una tradizione che va ormai a scomparire. Si rimane colpiti dall’attaccamento, dall’amore muliebre, dalla devozione filiale. Capita poi che, trovandomi al cimitero il giorno dei defunti, io veda che nell’urna di quello scomparso, a distanza di alcuni mesi, non sia ancora stata apposta alcuna lapide e vi campeggi ancora il piccolo ritratto formato fototessera appiccicato sbrigativamente alla calcina il giorno delle esequie. Strano.

Vengo poi a sapere da chi è sempre informato su tutto che, appena incassata la cospicua eredità del defunto, i figli hanno mollato il lavoro e si sono trasferiti ad Ibiza dove gestiscono una discoteca. La madre invece,  insieme al compaesano con il quale teneva una relazione extraconiugale da molti anni prima della dipartita del becco, si è trasferita in Olanda dove,  grazie alla legislazione vigente in materia di prostituzione,  fa la tenutaria di un bordello mentre il compagno trascorre da magnaccia le giornate, bevendo e mangiando a ufo e  fumando il narghilè. Tutto vero, mi dicono, vedendomi leggermente incredulo, e la tomba spoglia della lapide lo conferma. Sarà apposta solo a Natale, quando ritorneranno a casa per le feste.   Tutto vero, insistono, lo può confermare anche  il marmista che ha ricevuto l’incarico di realizzare il manufatto. Eh sì, meglio che a perire per primo sia il marito. Davvero, molto meglio.

Libri/ Usi e costumi a Parabita dal 1930 al 1950

GAETANO LEOPIZZI RICORDA LA VECCHIA SOCIETA’
 

di Paolo Vincenti

Già autore di Arte e artigianato a Parabita, Gaetano Leopizzi pubblica questo La vecchia società – Usi e costumi a Parabita dal 1930 al 1950, per la collana “Tracce” ,del Laboratorio di  Aldo D’Antico. L’editore spiega nella Prefazione del libro che “il pregio di questo libro è quello di far comprendere che la storia non è solo quella scritta nei libri scolastici, ma anche quella vissuta giorno dopo giorno, secondo una linea del tempo all’interno della quale la cronaca giornaliera di ciascuno diventa la vicenda di tutti” .

Gaetano Leopizzi, imprenditore settantenne in pensione, vuole ripercorrere, in questa sua seconda fatica, un periodo molto importante della sua vita e di quella di tutti i parabitani come lui che hanno conosciuto la fame, la sete e tutte quelle privazioni che sembrano impensabili al giorno d’oggi. Con quegli stenti e privazioni si arrivò a costruire la società come la conosciamo oggi.

Anni caratterizzati dall’ “arte di arrangiarsi”, come la chiama l’autore, quando si facevano grossissimi sacrifici per mettere famiglia e tirare su i figli, quando gli alimenti, come pane, zucchero, pasta, olio, erano razionati; anni di stenti, in cui anche un bene primario come l’acqua spesso era carente, come spiega l’autore nel secondo capitolo, “Fresche, dolci acque…”. In questo capitolo, ricorda un personaggio parabitano, Arturo Felline, che vendeva l’acqua in paese a 10 centesimi di lire al barile da dieci litri e a 25 centesimi quello da venti. E, alle volte, l’acqua veniva anche comprata a credito per mancanza di soldi.

All’epoca, c’erano tre cisterne comunali: quella dei “Gronghi”, nella parte alta del paese, quella più grande, che si trovava in Piazza Umberto I, e quella denominata “U puzzu te i cucuddhrichi”, nell’attuale Piazzetta degli Uffici.

La memoria narrata: invito all’opera di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

di Pier Paolo Tarsi

 

Vogliamo gettare un tassello facente parte di un ben più ampio progetto di ricerca e studio iniziato altrove da chi scrive[1]. Tale progetto, qui solo annunciato al lettore al fine di solleticarne l’interesse e il coinvolgimento, consiste nella riscoperta e nella rivalutazione dell’imponente opera letteraria, artistica ed etnologica di Giulietta Livraghi Verdesca Zain.

Donna dall’ingegno poliedrico, giornalista, studiosa, pregevole scrittrice, scultrice e artista varia e versatile, nota in vita per lo più come poetessa e antropologa, la Verdesca Zain nasce a Salice Salentino il 17 dicembre del 1931, discendente di una nobile casata di Copertino. In quest’ultimo paese, ove muore il 10 novembre 2007, la Nostra trascorre tutta la sua esistenza con l’eccezione di una parentesi di anni a cavallo tra il 1962 e il 1971, operosamente vissuti a Roma. Nella capitale, ove la Livraghi si lega presto al futuro compagno di una vita intera – il poeta calabrese Nino Pensabene, conosciuto negli ambienti colti -, grazie ad una vena poetica stimata da tutti i più attenti intellettuali dell’epoca, la sua grandiosa personalità emerge rapidamente e si impone come un punto di riferimento dei cenacoli letterari di rilievo. Oltre che per la sua prolifica attività di critica letteraria e critica d’arte, in quegli anni infatti la Livraghi si distingue anche – se non in primo luogo – per le pubblicazioni di alcune raccolte di sue poesie che le fanno guadagnare numerosi e importanti premi nazionali, a testimonianza del riconosciuto valore dei suoi versi. Non è tuttavia solo per la levatura delle numerose opere che suscitano l’ammirazione generale che la Nostra si mette in luce: nei medesimi anni, insieme al marito, i due danno corso parallelamente ad una intensa attività organizzativa che li vede in breve assurgere al ruolo di animatori di primo piano della vita culturale romana e nazionale. Nella città eterna, essi fondano e dirigono importanti riviste quali “La Prora. Periodico Internazionale d’Arte e Cultura” e “Il Nuovo Eon. Periodico Internazionale di Letteratura, Filosofia, Scienze, Arti”, organo quest’ultimo dell’Accademia Internazionale di Lettere, Scienze ed Arti “Pacem in terris”, ente presieduto dalla Livraghi stessa, destinato ad elevarsi rapidamente a cenacolo di riferimento dell’intellighenzia migliore. Assorbita dall’intreccio fitto di impegni a cui tali attività culturali la legano in quegli anni di animata vita romana, la Livraghi fa in seguito ritorno a Copertino per dedicarsi qui interamente – con il necessario distacco dagli oneri mondani e sociali – ad un vasto studio etnologico, finalizzato al «completamento di un quadro panoramico della civiltà contadina del Salento»[2]: una impresa immane quest’ultima, condotta in solitudine quasi eremitica, con slancio febbrile ed estrema lucidità sino al talamo della morte, sino agli ultimi aliti di una vita che, ormai demolita da una estenuante lotta combattuta con ardore contro una lunga e grave malattia, veniva trattenuta solo dalle amorevoli cure del compagno «con le unghie, come ultimo riverbero di un tramonto»[3].

Il risultato di questi anni di duro e poderoso lavoro antropologico, dedito con passione e amore intellettuale alla terra natia, consiste in un immenso lascito di scritti che va ben al di là di quanto emerso attraverso la pubblicazione di una magistrale opera etnologica della Nostra, “Tre Santi e una campagna. Culti magico-religiosi nel Salento fine Ottocento”, edita da Laterza nel 1994 e salutata dagli antropologi di professione come un capolavoro massimo[4], cui si accompagnano ulteriori piccoli stralci editi, comparsi sul quotidiano “La Gazzetta del Mezzogiorno” nel corso degli ultimi anni di vita della Verdesca Zain. Tali materiali, seppur di importanza fondamentale per la conoscenza del Salento e pertanto meritevoli di essere riportati oggi – e per sempre – all’attenzione del pubblico e degli studiosi, costituiscono tuttavia sparuti frammenti di un ben più ampio e “panoramico” progetto, condotto dalla Livraghi nell’arco di una vita di comunione e condivisione intellettuale e spirituale con il compagno, all’insegna di un’esistenza consacrata interamente alla conoscenza della civiltà tradizionale salentina. Una grande opera è dunque questa, da preservare e studiare come una delle più grandi eredità della nostra storia, come un bene sommo della nostra terra e della nostra tradizione.

Nel lavoro complessivamente preso della Livraghi vi è infatti non solo un monumento mai innalzato che è a nostro avviso tempo di edificare, ma vi è, per quanto ora qui nello specifico interessa evidenziare, una sorgente densissima di restituzione di un immenso patrimonio etnologico- linguistico da tutelare, al quale è doveroso – moralmente prima che intellettualmente – rifarsi nell’ambito di ogni sforzo di seria e continuata indagine storico-antropologica sul Salento.

Di tale florida e vivida sorgente, siamo ben lieti di donare un piccolo assaggio al lettore di Specilegia attraverso la mediazione di un brano inedito dell’autrice, da chi scrive scelto faticosamente tra i tanti di egual valore. Ciò al fine di offrire un saggio della forza evocativa della penna della Nostra, capace di punteggiare liricamente persino la descrizione saggistica e antropologica relativa a un mondo salentino descritto ad intreccio tanto nelle sue consuetudini originarie e nel suo antico immaginario simbolico, quanto nelle sue intricate dinamiche sociali tra poveri contadini e signori della terra: un mondo ormai estinto, il quale, fortunatamente, ci viene tramandato in molte sue dimensioni dalla memoria narrante di colei che non si dovrà più esitare a definire la più grande antropologa del Salento. Al nome della Livraghi Verdesca Zain, dimenticato da molti ed oggi in pratica estraneo ai più, spetta infatti, ne siamo certi, un posto d’altissimo rilievo nella storia della cultura italiana del Novecento – non solo salentina – e un posto d’onore, in particolare, nella storia dell’antropologia.

per gentile concess. di Nino Pensabene

A questo mancato tributo a una studiosa che a questa terra e alla memoria della sua civiltà contadina ha donato i frutti migliori del proprio genio versatile, ci auguriamo di contribuire a porre rimedio anche attraverso le pagine di questa bella rivista, oramai sempre più incarnazione di un punto di riferimento autorevole della vita culturale meridionale e non.

Le ragioni di tale tributo, teniamo a puntualizzare, non sono da rintracciare solo nei meriti in sé dell’autrice e della sua penna, quanto piuttosto nel valore complessivo che l’opera di conservazione di un patrimonio etnologico-linguistico assume nel contesto del processo contemporaneo di globalizzazione planetaria che ci coinvolge in prima persona. Nel mondo attuale, infatti, vediamo risorgere ovunque spinte localistiche compensative dei movimenti di omogeneizzazione insiti nella mondializzazione, pressioni che possono pericolosamente degenerare in consolatorie chiusure nei confronti delle altre culture e favorire arroccamenti in astratte mitizzazioni identitarie (quali, per esempio, il popolo padano, il popolo salentino ecc): tali effetti costituiscono delle difese della psiche collettiva che sorgono, paradossalmente, proprio laddove labile e frammentaria risulta la conoscenza del proprio passato, impedendo pertanto uno sviluppo sereno e creativo di un futuro storico consapevolmente interconnesso con la continuità del proprio mondo originario e, proprio per tale ragione, pacatamente aperto e disponibile all’incontro fecondo e costruttivo con l’altro, con il diverso.

In coerenza con quanto detto sopra, ci pare opportuno infine lasciare spazio alla voce diretta della Livraghi, senza frapporre ulteriori nostri interventi, ponendo così termine a queste nostre note, con l’augurio che le stesse risuonino per tutti come un invito alla rilettura e alla scoperta dei lavori che abbiamo indicato e, in generale, dei vari contributi dell’ingegno di questa coterranea.

Lu crucifissu ti lu asu (scritto inedito di Giulietta Livraghi Verdesca Zain)[*]

 Lu crucifissu ti lu asu (il crocefisso del bacio), per il suo stare fra le mani dei defunti durante le veglie funebri, non doveva essere usato come simbolo di culto, veniva ritenuto sconsacrato, motivo per cui, le poche famiglie ricche di un paese, potendosi permettere più crocifissi, ne tenevano uno apposito; e siccome apparenza voleva non fosse soltanto un simbolo religioso ma anche un elemento decorativo della salma, era un crocefisso importante, se non addirittura prezioso. Destinato a essere trasmesso di generazione in generazione, doveva poter rappresentare nel tempo il decoro delle casata, e non di rado  – ritenendolo soggetto a diritti dinastici – veniva citato nei capitoli testamentari, devoluto quasi sempre al primogenito.

Col passare degli anni e il sommarsi delle morti, il prestigio di quel crocefisso aumentava, tanto che si arrivava a fregiarlo di un nome particolare, affibbiandogli quello del trapassato più illustre: in qualche famiglia poteva essere “Il crocefisso di nonno Giovanni”, in qualche altra quello del bisnonno Giuseppe, in qualche altre ancora “Il crocefisso dello zio monsignore”. Un dato di fatto che aveva sempre irritato, e qualche volta mandato in bestia, le vecchie cameriere: per loro, figlie del popolo, alle cui usanze rimanevano vincolate per rapporto viscerale, quell’indicazione suonava bastarda, se non blasfema, giacché ritenevano inaccettabile l’idea di sovrapporre alla totalità di Cristo la riduzione di un possesso espresso attraverso il nome di un mortale, sia pure passato alla storia come illustre. Per loro, come per tutti i loro simili, quello era e doveva rimanere crucifissu ti lu asu, anche se, a rifletterci bene, avevano torto: i crocifissi mortuari delle famiglie nobili non potevano incarnare sino in fondo quella simbologia, giacché, data la differente sistemazione delle salme, nessun bacio poteva sfiorarli. La nobiltà veniva identificata, sia pure in modo allusivo, in un perenne rapporto di altezze, e se la vita aveva le sue lotte di gradino, anche la morte doveva sottostare alla regola dei rialzi. I catafalchi che si approntavano erano dei veri e propri monumenti, non facilmente raggiungibili nella loro sovrapposizione di piani: due per le donne, ma non meno di tre per i maschi, ai quali anche da morti spettava il riconoscimento di una supremazia adombrata nel mito del loro seme. E più il personaggio era stato importante, più la castellana (il catafalco) doveva essere alta.

i coniugi Pensabene e Livraghi Verdesca Zain

Posta al vertice e in posizione un po’ inclinata per consentirne la visibilità, la salma incuteva una  certa soggezione, rafforzata dai damaschi – rossi o giallo oro – che in ricchi drappeggi scendevano sino a terra: un’ulteriore barriera che fermava a timorosa distanza i visitatori più umili, che mai e poi mai si sarebbero permessi di accostare a quelle stoffe preziose i loro piedi sporchi di terra, anche se, per la circostanza, infilati nelle scarpe della festa.

Una circoscrizione capace di gelare il cuore dei semplici e apparire, pur nell’esuberante presenza della ricchezza, come l’estrema penitenza di un modo di essere, forse il volto più duro della morte, giacché anticipava il silenzio della pietra.

La morte dei poveri era una cosa ben diversa, e anche se urlava come una belva aveva volto e fiato umani. Le salme, adagiate basse sulla matthrabbanca (madia – tavolo), non erano isole irraggiungibili, ma lembi di carne mantenuta umida da lacrime e aliti. Nelle loro mani il crocefisso non era soltanto l’asta della misericordia che promette perdono, ma la radice sublimata di un credo trascendentale che, sovrapponendosi al momento temporale del trapasso, stabiliva una convivenza quasi sacrale fra il ricordo dei viventi e l’essenza purificata dei trapassati.

Le persone in visita di lutto vedevano in quel crocefisso il tramite insostituibile dei loro sentimenti, ossia il filo conduttore di un dialogo che intendevano stabilire con l’aldilà: baciandolo erano sicure di ottenere da Dio il permesso di affidare all’anima della salma in esposizione saluti e messaggi da portare alle anime dei loro cari. Un vero e proprio ufficio postale, anomalo nella sua equivalenza di fede, ma tragicamente reale nello sfogo delle pene individuali: appelli di aiuto, richieste di consiglio, sollecitazione di sogni rivelatori, comunicazioni di mutamenti drammatici, o notizie rassicurative per l’anima partita in travaglio.

un’opera grafica dell’artista

Una ridda di voci che trovava la sua espressione più colorita negli interventi delle donne, sempre prime ad accorrere sui luoghi del dolore: convinte che una rappresentazione visiva dei loro affanni servisse a rendere più efficaci le parole, e quindi a meglio esprimere i loro sentimenti, non esitavano a strapparsi i capelli, a graffiarsi il viso, o comunque ad agitare le mani in una mimica di disperazione che sembrava racchiudere l’essenza stessa del dolore.

Scansioni da tragedia che toccavano il vertice quando, con un incedere assorto da statua dell’Addolorata, si faceva largo una giovane vedova seguita dal grappolo dei suoi orfani. Sulla bocca dell’innocenza, morte e miseria trovavano commistione in un unico boccone amaro, e non a torto il coro delle donne si dava a chiedere: “Pane!… Pane!… Pane!…”. Un’invocazione che di proposito si faceva echeggiare forte, poiché, oltre a essere una preghiera rivolta al Cielo, intendeva imporsi come appello rivolto ai vivi: un grido che nasceva sì in nome della pietà, ma che, sfruttando l’impunibilità del momento, vibrava come rabbiosa pietrata sui portoni dei ricchi, rappresentando, sia pure in modo coatto, un fermento di ribellione sociale.

Più silenzioso, forse più struggente, il pellegrinaggio dei vecchi. Entravano nelle case in lutto in punta di piedi, rigirando fra le mani la coppola nera come fossero intenti a raggomitolare i fili di un’esistenza che l’età tarda confinava nell’amarezza dei consuntivi. Fasciati da una solitudine visibile come un’amputazione, si presentavano con timidezza, quasi che l’essere ancora vivi fosse un torto da farsi perdonare, ma il loro faticoso curvarsi sul crocefisso acquistava il significato di un’espiazione collettiva, una mortificazione antica che non era soltanto loro, ma stillava l’amaro di un’infinità di radici, forse nate nell‘alba del mondo.

Anche la loro voce aveva sapore di lontananza, mentre sussurravano parole spezzettate dalla commozione: si rivolgevano all’anima della moglie (non aveva importanza se morta un giorno o dieci anni prima) per farle sapere che la vita senza di lei non aveva senso, ch’erano stanchi e aspettavano la sua chiamata. Un monologo che invariabilmente finiva col franare in una vera e propria commemorazione, tirando in campo le virtù di quell’anima benedetta che tanto aveva lavorato e sofferto nel portare avanti una famiglia. Dilatazione della memoria che trasferiva nel mito una verità vissuta e che le donne presenti ricevevano come indiretto tributo alle loro funzioni di spose e di madri. Sentendosene investite, come protagoniste di un ruolo che misconosciuto in vita trovava giusto apprezzamento solo dopo la morte, non lasciavano passare inosservato quel momento di esaltazione e intervenivano a coro per rafforzare i termini della valutazione femminile.

Mentre il vecchio chiedeva angosciato: “Cce rrestu a ffare sobbra lla facce ti stu munnu ci m’à lassatu sulu… sulu comu fugghiazza allu jèntu?!…” (“Che resto a fare sulla faccia di questo mondo se mi hai lasciato solo… solo come foglia al vento?!…”), loro, rivolgendosi alla defunta in questione, che per essere già, presumibilmente, in Paradiso, chiamavano “Benett’ánima ti rázzia”(“Anima benedetta per grazia”), incalzavano: “Facennulu cattíu l’a fattu orfanu!…” (“Facendolo vedovo, lo hai fatto orfano!…”); e giostrando sul tono della pietà, furbamente inserivano, forse a monito di qualche marito presente, un proverbio scelto a loro emblema: “Casa senza fèmmina ete terra senza acqua”. Una definizione lapidaria della loro indispensabilità, e i cui termini di comparazione si agganciavano a due simboli (terra – acqua} ritenuti sacri da tutta la popolazione salentina.

Del resto erano sempre le donne a essere le vere protagoniste delle veglie funebri; e la loro presenza, così come la loro continua intromissione nella sottolineatura dei messaggi, sapeva di padronanza, come se presiedere agli uffici della morte fosse un loro naturale diritto, derivato dal fatto che erano loro, donne, a partorire la vita. Solo nel messaggio ti la perdunanza (di richiesta di perdono) non osavano intervenire, anzi se ne tiravano fuori in modo visibile, stringendosi contro le pareti della stanza e creando lo stacco di un vuoto fra loro, il postulante e il crocefisso.

La persona che, a cancellazione di un odio o rimorso, andava a chiedere perdono a un’anima offesa in vita e con la quale non era riuscita a rappacificarsi prima della morte, non doveva avvalersi di interventi estranei: il suo era un particolare caso di coscienza, e sebbene la confessione veniva fatta a voce alta, doveva pur sempre rimanere un atto di umiliazione personale, senza interferenze e patrocini terreni. Aspettavano perciò che il messaggio fosse concluso, prima di tornare ai loro posti e riprendere la cadenza mimata dei lamenti. Solo qualche vecchia, a chiusura della parentesi, quasi offrendosi a testimone di un patto di pace, si permetteva di dare un bacio supplementare al crocefisso, mormorando un “così sia” ch’era affermazione ma anche implorazione. Una libertà che si poteva prendere solo in nome dell’età avanzata, vista come scaturigine di particolari diritti e di altrettanti particolari doveri.

Uno dei doveri delle vecchie era proprio quello di procurare il crocefisso del bacio, ed era un compito che eseguivano con scrupolo, convinte di potere così suffragare tutte le anime sante del purgatorio. Non potendo i poveri permettersi un crocefisso da dedicare alla morte, erano loro ad andare a chiederlo in prestito alle famiglie ricche, e affinché l’atto di carità fosse più valevole, usavano rivolgersi alla famiglia meno amica, o per lo meno andare a bussare alla casa più lontana.

Avvolte nello scialle nero, che per l’occasione di lutto indossavano alla monacale, facendolo aderire basso sulla fronte e fermandolo attorno al viso come un soggolo, si presentavano ai portoni signorili con l’atteggiamento umile di chi si riconosce in bisogno, ma nello stesso tempo con lo sguardo fiero di chi sa che la sua richiesta non può, per cause maggiori, essere respinta.

Il crocefisso del bacio, infatti, non si negava mai, e non soltanto per il rispetto che si aveva verso la morte, ma per la paura di attirare, con quel diniego, la disgrazia nella propria casa.

A Cristu nicatu sècuta muèrtu chiantu” (“Alla negazione di un crocefisso segue il pianto per un morto in famiglia”), stabiliva un detto popolare; e giacché ai signori dispiaceva prestare il crocefisso dei propri morti, ne tenevano un altro esclusivamente dedicato alle richieste del popolo. Di legno, quasi sempre chiaro, era caratteristico per il Cristo di rame che, mantenuto lucido dal ripetuto strofinio di labbra, aveva barbagli strani, quasi sprazzi sanguigni. Avvolto in un quadrato di tela nera, lo si teneva a portata di mano, chiuso in qualche stipetto della sala d’ingresso dove c’erano anche un fascio di candele e una scorta di pezzuole di lino, oggetti anche questi di continue richieste.

Quello di famiglia, al contrario, essendo un oggetto che ci si augurava non dovesse servire mai, si conservava in uno dei nascondigli più segreti della casa, e sebbene venisse intenzionalmente dimenticato, al momento opportuno il più giovane della famiglia sapeva sempre dove trovarlo. Pur nella confusione o smarrimento che quelle tristi circostanze potevano generare, nessuno scordava i suoi compiti, anzi ognuno se ne faceva uno scrupolo nell’osservarli, ansioso di rispettare le tradizioni, ma forse più che altro rassicurato da una successione di regole che potevano avere valore scaramantico. A prelevare quel crocefisso doveva infatti essere il più giovane, e doveva farlo a tempo giusto, cioè quando la salma era già composta sobbr’a lla castellana e la fiamma dei quattro candelotti aveva già scavato la sua buca nella cera.

Sollecitato dai parenti, che gli tenevano dietro in processione, il ragazzo si avviava commosso a compiere la sua missione, anche se l’importanza e la responsabilità di quel gesto erano tanto grandi da non consentire spazio alle emozioni. Prima di prendere il crocefisso doveva segnarsi devotamente tre volte e attendere a che le donne gli appendessero al braccio, a mo’ di manipolo sacro, un asciugamano usato in occasione di un battesimo: uno di quegli asciugamani di lino che ogni famiglia ricca approntava per le nascite, contrassegnandoli con delle crocette ricamate a sfilato un angioletto eseguito a filè[†]. Esibiti con gioia al fonte battesimale, quei lini tornavano a galla nell’ora del dolore, e, sebbene in forma più dimessa, la loro presenza risultava altrettanto importante, giacché voleva significare che l’offerta di quel crocefisso veniva fatta in nome di un’innocenza non ancora in debito con la morte.

Il concetto di un’esistenza da scompitare col travaglio della fine scattava dopo, a veglia funebre conclusa, cioè quando, immediatamente prima dei funerali, il crocefisso doveva essere tolto dalle mani del morto. Un compito che spettava al più anziano della famiglia, il quale si sentiva in dovere di autoindicarsi come il più stanco della vita, facendo valere il rispetto per quella legge di naturali successioni che la morte non doveva assolutamente incrinare con mietiture fuori stagione.


[1] Ci sia concesso di rimandare il lettore al nostro “Per un’antropologia linguistica della memoria narrata. Invito alla riscoperta dell’opera etnologica di Giulietta Livraghi Verdesca Zain. ”, in corso di pubblicazione.
[2] LIVRAGHI VERDESCA ZAIN G., Tre Santi e una campagna. Culti magico-religiosi nel Salento fine Ottocento, Laterza, Bari 1994, p. XI

[3] L’immagine è tratta da una poesia inedita della Verdesca Zain, “Otranto: visita alla cappella dei Martiri”, ove leggiamo: «tu – Nino – poeta eremita / che moduli i giorni / in levigate consonanze d’amore / io / particella di un fiato / che trattieni con le unghie / come ultimo riverbero di un tramonto».

[4] In particolare si vedano le seguenti recensioni Cfr. BRONZINI G.B., Giulietta Livraghi Verdesca Zain, Tre santi e una campagna, in Bollettino storico della Basilicata, n. 10, 1994, pp. 337-342; IMBRIANI E., Giulietta Livraghi Verdesca Zain, Tre santi e una campagna, in Miscellanea storico salentina «Giovanni Cingolani», IV, 1995, pp.145-151; IMBRIANI E., Giulietta Livraghi Verdesca Zain, Tre santi e una campagna, in LARES Rivista trimestrale di studi demoetnoantropologici, Anno LXI, n. 4, ottobre-dicembre 1995, pp. 632-4.


[*] Per meglio comprendere la differenza di vedute nonché di usi che correva tra ricchi e poveri a proposito della morte, leggere della stessa autrice, Tre Santi e una campagna. Culti magico-religiosi nel Salento fine Ottocento, Laterza, Bari 1994, Cap. “Li manure ti Santu Itu”, pp. 119-129.
pubblicato su Spicilegia Sallentina n°6

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