Elegia dell’ulivo

ph Mauro Minutello

 

LA “PASSIONE” DEGLI ULIVI

di Paolo Vincenti

Ulivi ricurvi, intrecciati in un abbraccio spasmodico di vita, avvinghiati alla terra con le loro radici eppure anelanti al cielo, fermi immobili nel perenne scorrere delle cose eppure in continua mutazione, sempre uguali a se stessi pure rinnovandosi e trasformandosi nell’alternarsi delle stagioni.

Questo almeno erano gli ulivi, i patriarchi verdi della nostra Puglia, ideali sentinelle del tempo che passa, prima che un flagello dalle proporzioni bibliche intervenisse a falcidiarli, portandoli ad un lento ed inesorabile declino.

Questo morbo è la xylella fastidiosa (nomen omen, purtroppo), che isterilisce i giganti della nostra terra, li priva della loro linfa vitale e li condanna senza appello. Assistere desolati alla moria degli ulivi, quando nemmeno le condizioni di maggiore siccità di questa “Apulia sitibonda”, come la definì Orazio, ci sono riuscite, è una esperienza straziante.

Il paesaggio salentino sta velocemente mutando, e capita, percorrendo strade e stradine lambite dalla campagna (tutte, o quasi, nel Salento), di vedere con raccapriccio enormi zone brulle là dove verdeggiava vigoroso e intricato il fitto fogliame, ed ora regna invece un bircio marroncino per lo più sgottato dall’indifferenza dei passanti, che a questo scenario da day after stanno drammaticamente facendo l’abitudine.

ph Mauro Minutello

 

La perdita dei connotati larici del paesaggio nostrano, così fortemente iconizzato dagli alberi d’ulivo, come un buco nella tela del pittore, una malvoluta tabula rasa in uno scenario da paese sud asiatico spaventosamente attraversato da uno tsunami, conferisce a questa terra un aspetto alieno, quasi fosse sceso su di essa un nero sudario di morte. L’ulivo, cantato dai poeti, simbolo di pace e vittoria nell’araldica, “Hoc pinguem et placitam paci nutritor olivam“, “nutriti di questa oliva pingue e alla pace gradita”, scrive Virgilio (Georgiche, Libro II, vv. 420-425), è forse la pianta più famosa nella storia dell’umanità, da quel primo albero fatto spuntare dalla Dea Athena sul suolo greco, nella mitologica disputa con il dio Nettuno, al ramoscello di olivo portato in bocca dalla colomba partita dalla biblica Arca di Noè, dopo il diluvio universale, fino agli ulivi dell’orto del Getsemani, il luogo dell’agonia e dell’arresto di Gesù Cristo.

L’ulivo, noto già ai babilonesi, agli egizi, agli ebrei, ai fenici, agli etruschi, era conosciuto a Cnosso, nell’isola di Creta, quindi caro a quella civiltà minoica che molti studiosi hanno ritenuto antesignana della più tarda civiltà greca, e già presente negli ideogrammi della scrittura micenea nel 1400 a.C..

Questa pianta sempreverde viene cantata nella poesia classica a partire da Omero che, nell’Iliade scrive: “Qual d’olivo gentil pianta, nutrita in lieto d’acque solitario loco, bella sorte e frondosa: il molle fiato l’accarezza dell’aure, e, mentre tutta del suo candido fiore si riveste, un improvviso turbine la schianta dall’ime barbe e la distende a terra;” (Omero, Iliade, Libro XVII). Ne parlano Catone il vecchio nella sua opera De agricultura e l’erudito Varrone nel suo trattato Rerum rusticarum libri tres: “Le tue rare virtù non furo ignote/ alle mense d’Orazio e di Varrone/ che non sdegnàr cantarti in loro note”, scrive D’Annunzio (Gabriele D’Annunzio, L’olio, vv.9-11). Mentre si assiste impotenti ad una simile agonia, vien fatto di pensare con scoramento a tutto questo e alle tante raffigurazioni pittoriche e scultoree dell’ulivo nella storia dell’arte.

Quell’ulivo di cui Sofocle diceva: “una pianta che su terra d’Asia non so, né che di Pelope germini sulla vasta isola dorica”, alludendo al fatto che l’ulivo non fosse nato in Asia minore, men che meno nel Peloponneso, ma che esso, secondo la leggenda, fosse stato fatto spuntare dal suolo dalla dea Athena riconoscente alla nazione attica; e ancora: “indomita, spontanea, venerato terrore delle lance desolatrici, fiorente rigoglio di queste zolle: il glauco paterno ulivo. E mai né antica né giovane mano di nemico invasore lo stroncherà facendone sterminio, poiché lo veglia eterna la pupilla mai chiusa di Giove Morio, e, glauco, l’occhio di Atena”. (Sofocle, Edipo a Colono, vv. 690-704). Non fu verace profeta Sofocle, perché né Giove, invocato come protettore degli ulivi, dal greco morìai, né la Pallade Athena “occhiazzurrina”, hanno saputo purtroppo difendere i giganti verdi, e il terrore alle lance nemiche che essi dovevano incutere (in quanto intesi come alberi della pace) è quello dei Caterpillar che li abbattono.

ph Mauro Minutello

 

Ma poi che la terribile pestilenza delle piante, l’invisa xylella, tragica precorritrice di quella, ancor più temuta, degli umani, ovvero il covid 19, si è abbattuta sugli ulivi, condannandoli ad una fine senza gloria, ad accelerare il processo di disfacimento è intervenuto lo stato di bisogno dei contadini, misto alla miserabile ma pur sempre umana brama di lucro, dacché è stato predisposto prima, dal cosiddetto “Piano Silletti”, con i fondi della Comunità Europea, un contributo di circa 140 euro per ogni albero abbattuto, e poi, più recentemente, stanziata la concessione di contributi per un totale di svariati milioni, per il loro reimpianto nelle zone infette. I finanziamenti per l’abbattimento delle piante hanno suscitato appetiti e dato adito a stratagemmi per aumentare il premio ristorativo, solo in parte giustificati dalla situazione di emergenza che vivono gli operatori agricoli.

Cosicché gli ulivi, da archetipi di longevità, simboli di ininterrotta armonia fra uomo e natura, oggi diventano pretesto per strappare un po’ di denari illeciti.

La Puglia e specificamente il nostro Salento furono da sempre mèta di viaggiatori e turisti stranieri, ammirati dalle incomparabili bellezze paesaggistiche offerte dal territorio. Il fenomeno del Grand Tour, fra Settecento e Ottocento, ossia il viaggio di istruzione e di formazione, ma anche di divertimento e di svago, che le élites europee intraprendevano attraverso l’Europa, vedeva protagonisti non solo i giovani rampolli delle famiglie aristocratiche, ma anche diplomatici, filosofi, collezionisti, romanzieri, poeti, artisti, per i quali il “viaggio in Italia” rappresentava un’esperienza irrinunciabile. Ciò diede origine ad una sterminata produzione di epistolari, reportages, diari di viaggio, racconti, romanzi. Così i nostri ulivi sono stati ammirati, descritti e cantati da inglesi, tedeschi, francesi, olandesi, svedesi, svizzeri, polacchi. E se ancora ai nostri giorni gli “assolati uliveti”, per dirla con Pablo Neruda (Ode all’olio) hanno portato moltissimi oriundi da ogni parte d’Italia a trasferirsi qui nel Salento, eletto a buen ritiro, ciò è stato determinato da quell’affatturante nòstos, quasi una struggente nostalgia del non vissuto, con cui essi li hanno saputi avvincere.

ph Mauro Minutello

 

L’ulivo racconta la memoria di un popolo, è simbolo identitario, oggi più che mai, perché, in quanto pianta duale, celeste e terragna, connubio di umano e divino, allegorizza il presente destino di morte e di rinascita, diviene vessillo di speranza e di riscatto: la speranza che, con le nuove cure che riuscirà a portare la scienza, attraverso un lungo processo di metamorfosi, giunga la rinascita per purificazione che riscatti anche l’umanità. E quale immagine di intensa speranza, più che mai belli e vibranti sentiamo allora quei versi di Nazim Hikmet (Alla vita) che, parafrasati da Roberto Vecchioni (Sogna, ragazzo sogna) dicono di quel contadino che a settant’anni pianterà degli ulivi convinto ancora di vederli fiorire.

 

La “passione” degli ulivi, in Elegia dell’ulivo. Riflessioni. Emozioni. Ricordi, a cura di Associazione Autori Matinesi, Matino, maggio 2021

Radici in fiamme

di Pier Paolo Tarsi
Oggi mi sono concesso una lunga camminata con Tris ripercorrendo lo stesso tragitto che tempo fa, all’inizio dell’estate, mi permise di notare che un giovane uomo aveva preso a curare un uliveto non distante da casa mia e da tempo abbandonato a se stesso. Mi rallegrò molto constatare allora che qualcuno aveva ripreso a lottare, a sperare e resistere nel suo piccolo metro quadrato di civiltà ereditata. Un appezzamento con una trentina d’alberi non ancora fortemente intaccati dalla xylella.
Mi illudevo, evidentemente. Ripassando di là mi si è presentata oggi una scena orribile che non riesco a togliermi ancora dagli occhi e dalla mente. Quell’uomo stava caricando sul suo camioncino gli ultimi pezzi di legna, calmo, serafico, fischiettando al tramonto. La metà di quell’uliveto era stato ridotto a brandelli, pezzi buoni per il camino nell’inverno alle porte; quel che restava di ogni albero, un tronco mozzato qua e là e radici inabissate nella terra, era in fiamme. Anni fa, quando ancora la gente credeva che la xylella fosse un frutto esotico ed io ancora credevo nella mia gente, dalle pagine di un giornale locale scrivevo che perdendo gli ulivi questa terra avrebbe perso tutto. E fui profetico. Tentavo di spiegare che noi siamo un popolo di terra, non gente di mare, come molti, anche salentini, erroneamente pensano, confusi forse dai cataloghi per le vacanze altrui.
Non che si dovesse malinconicamente ed erroneamente tentar di perpetuare un dato passato, pretendere stupidamente di arrestare il flusso della nostra storia. Solo che avremmo dovuto ben guardarci dall’interromperla, tranciando legami e radici. Da allora quasi niente. Da una parte un fronte scientista che ad oggi non ha saputo proporre che far quanto prima il deserto; dall’altra qualche santone verboso. In mezzo tante chiacchiere da politicanti di tutti i colori, nessuno escluso. E tanta, tantissima ignoranza. Quella vera, quella che niente ha a che fare con l’analfabetismo o con ciò che si può imparare all’università.
A un uomo si può insegnare in modo relativamente facile a scrivere, a risolvere una complicata equazione o a programmare la più strepitosa delle app. Queste sono competenze che non ci fanno uomini o donne, sono cose che ci rendono semplicemente delle scimmie particolarmente abili in qualche ambito.
Quel che è difficile davvero da insegnare a delle scimmie per farle diventare uomini e donne è il sentire il valore delle cose ricevute e il valore di ciò che lega le nostre effimere vite agli altri e all’eterno fluire dei tempi. Difficile davvero non è far apprendere a delle scimmie il secondo principio della termodinamica ma portarle a chiedersi cosa implica per loro stesse il compiere una data azione, o ancora portarle a domandarsi del mistero della propria identità. Forse ha ragione Briatore. Bisognerebbe affidare questa terra ormai immemore e senza speranza a quelli come lui per farne finalmente un colorato non-luogo, insignificante forse ma pieno di traffici e soldi, di fregna con cui mirare i tramonti dai lidi attrezzatissimi ubicati tra un gasdotto e l’altro.
Beati, abbronzati e con in mano una frisa deluxe o un mojito, da sorseggiare prima di rientrare nei deserti edificati da faraonici villaggi turistici in cui far trenini fino all’alba. Pensateci: Belen tra noi tutto l’anno e non solo per una notte.
Caro il mio Tris, per noi nemmeno un sentiero di campagna da attraversare in santa pace. Le radici bruciano, il deserto avanza, fuori e dentro di noi. E non è colpa della xylella stavolta. Andremo a fare due passi da qualche altra parte, prima o poi bisognerà rassegnarsi e cambiare aria una volta per tutte.

Biodiversità nell’oliveto del Salento, agli inizi del XX secolo

di Gianpiero Colomba

In Terra d’Otranto, tra la fine del XVIII° e per tutto il XIX° secolo, come conseguenza dei continui dissodamenti dovuti alla nascita di nuovi impianti con piante che per la prima volta colonizzavano il territorio (olivo, gelso, fichi, tabacco, ecc.), c’era poca disponibilità di nuovi terreni coltivabili. Una chiave per l’equilibrio produttivo fu l’intensificazione del livello di coltivazione nei terreni in genere ma soprattutto negli oliveti, con cereali e legumi spesso in rotazione tra loro. La parcellizzazione del territorio salentino e la coesistenza di colture diverse nello stesso fondo è stata una caratteristica delle comunità tradizionali che ha garantito nel tempo l’autosussistenza delle famiglie.

L’olivo quasi sempre era all’interno di possedimenti nei quali condivideva lo spazio con coltivazioni come i cereali, la vite, gli ortaggi e altre colture arboree come il gelso, il mandorlo o il fico. La distanza tra le piante di olivo permetteva di intercalare colture che consentivano al contadino di avere un reddito diversificato e quindi pressoché costante nel tempo.

Alla fine del XVIII° secolo il medico e agronomo salentino Giovanni Presta, indicava una distanza conveniente tra le piante di olivo di circa 65 «palmi», il che corrispondeva a poco meno di 50 piante per ettaro, la stessa densità indicata un secolo dopo dal cavaliere Gennaro Pacces, il quale si riferiva al dato medio dell’intera provincia di Terra d’Otranto. Intorno agli anni trenta del XX secolo si stima con maggior precisione una densità media di 62 piante per ettaro. Per fare un confronto: in Andalusia, regione leader nel mondo in quanto a produzioni di olio, nello stesso periodo potevano esserci tra le 90 e le 100 piante per ettaro. Per inciso, attualmente nella provincia di Lecce si stimano 112 piante per ettaro e un minimo livello di consociazione.

Per avere un riscontro rispetto alla reale condizione delle colture intercalate nell’oliveto in epoca preindustriale, prendiamo come rappresentativo il classico lavoro del professore Attilio Biasco di inizio XX secolo:

Gli oliveti specializzati, se non mancano del tutto, sono sicuramente molto rari. La consociazione arborea è abitualmente con la vite, la mandorla e il fico. La consociazione è talmente rilevante che l’olivo si considera la coltivazione secondaria.

Esiste dovunque una rotazione in cui spesso figurano le cereali e scarseggiano le leguminose: le prime sono rappresentate dal frumento, dall’avena, dall’orzo; le seconde dal lupino, dalla fava e il trifoglio incarnato.

Ma quali colture erano intervallate nell’oliveto e in quale proporzione? I dati che permettono un’analisi più precisa sono quelli in calce al Catasto Agrario del 1929. Per la prima volta in Italia nel su indicato Catasto, si descrivevano le aree coltivate differenziandole tra superficie cosiddetta «integrante» ovvero specializzata e superficie «ripetuta» ovvero associata ad altre coltivazioni prevalenti. L’oliveto integrante, a sua volta, era definito «esclusivo» laddove non vi era alcuna promiscuità con altre coltivazioni, o «prevalente» laddove la coltivazione associata occupava non oltre il 50% della superficie dell’oliveto.

Secondo la definizione data nel Catasto Agrario quindi, all’interno della categoria integrante potevano ricadere oliveti con all’interno fino al 49% della superficie occupata da altre colture. Per semplificare, poteva esserci un ettaro di oliveto con intercalati 3 mila metri quadri di mandorlo. Quindi, non solo esisteva una quota parte di olivi associati in altre coltivazioni, ma, vi era anche un certo livello di promiscuità colturale all’interno dell’oliveto definito integrante.

L’analisi dei dati permette un’interessante ed inedita valutazione: poco più del 33% dell’oliveto specializzato (50.591 ettari su 149.947 ettari nel 1930) aveva al suo interno coltivazioni in rotazione (principalmente, grano duro, avena, orzo, fave e lupini). Questo significa che esisteva ben un terzo dell’oliveto specializzato al cui interno vi era un certo livello di promiscuità, ed era quello che si definiva come oliveto prevalente. Di queste colture, il 44% erano cereali, il 21% piante da foraggio (trifoglio, veccia, …), il 13% fave, il 7% lupini e il 13% altri legumi. Si avverte che questa è una fotografia sul territorio in un dato momento storico e che, secondo quanto enunciato nel catasto, queste rilevazioni erano dati medi riferiti al sessennio 1923/28. Data inoltre la ciclicità annuale delle coltivazioni, l’analisi che ne può derivare riveste un significato di sola tendenza.

A questo punto se consideriamo la totalità della superficie dell’oliveto, cioè sia la superficie di associato che di specializzato, osserviamo che in percentuale l’oliveto esclusivo «puro» senza alcuna associazione, rappresentava in Provincia una quota poco più alta della metà di tutto l’oliveto ossia il 54%. Per altro verso, era pari al 18% la superficie occupata dagli olivi in associazione ma, se includiamo la categoria prevalente, non indicata nelle statistiche ufficiali ma qui calcolata, vediamo che la percentuale sale al restante 46%. Quindi, in poco meno della metà della superficie totale dell’oliveto (associato + specializzato), esisteva una qualche forma di associazione colturale. Riassumiamo il tutto nella figura sotto.

Tipologia dell’oliveto in Terra d’Otranto nel 1930. (Ettari). Fonte: propria elaborazione.

 

Alcune riflessioni. In alcune zone d’Italia e in particolar modo nel Salento, c’era poca disponibilità di territorio supplementare per le nuove colture. Infatti, già nel 1929 la quota di terra forestale (pascoli permanenti e boschi) si era progressivamente ridotta a poco meno del 10% su tutto il territorio della provincia di Lecce. Inoltre, l’alta densità di abitanti obbligava a rendere altamente efficienti tutti i terreni disponibili. Una chiave per l’equilibrio produttivo per tutto il XIX secolo e anche nei primi decenni del XX, fu l’intensificazione del livello di coltivazione nella stessa area con cereali e legumi, a dimostrazione di una più compiuta razionalità ed efficienza contadina, e rappresentando quindi un esempio di land-saving strategy. Le consuete rotazioni tra fave o lupini da un lato e avena, grano duro o orzo dall’altro, consentivano il soddisfacimento dei bisogni familiari in condizioni di sostenibilità per l’oliveto. L’associazione tra colture è uno dei segnali che rafforza l’idea di una strategia agraria basata sull’autoconsumo.

Questa tendenza si sarebbe poi evoluta nel giro di alcuni decenni in direzione della monocoltura e della specializzazione. Nel 1980 l’Istat riportava circa 1 milione di ettari d’olivo in consociazione su tutto il territorio italiano, circa 1,4 milioni di ettari nel 1950 e a circa 1,7 milioni nel 1910. Secondo stime più recenti del progetto europeo di agro-selvicoltura Agforward (2014-17), in Italia circa 200.000 ha di olivo sono attualmente gestiti in consociazione. Il trend quindi è in calo. Assistiamo a una lenta evoluzione in direzione della specializzazione colturale.

Sebbene quindi intorno al 1930, abbiamo calcolato un consistente livello di diversità colturale negli oliveti, verosimilmente questa quota era in diminuzione e con esso diminuiva progressivamente la biodiversità al loro interno. Ed è altrettanto plausibile che per l’oliveto, il quale per chi scrive ha rappresentato il classico esempio di coltura promiscua in epoca contemporanea, l’uscita dalla crisi produttiva iniziata alla fine del XIX° secolo fu rappresentata proprio dal percorso di avvicinamento alla specializzazione. Tutto ciò coincise anche con la globalizzazione dei prodotti e il conseguente ingresso di cereali a basso costo provenienti da altre parti del mondo. Tutta questa complessa e simultanea concomitanza di eventi, condizionò l’abbandono delle tradizionali strategie contadine, le quali consideravano l’associazione tra le colture come sistemi agronomici efficienti e in ultima analisi, forzò il percorso di semplificazione degli agro-ecosistemi. Negli ultimi decenni, l’utilizzo massivo di agro-chimici negli oliveti si sta realizzando senza controllo, contaminando il suolo e le acque, e originando, da un lato una forte perdita di sostanza organica e dall’altro una minaccia alla biodiversità.

Bibliografia

Biasco A., L’olivicoltura nel basso leccese, Napoli 1907.

Casella O., L’Ulivo e l’olio: manuale pratico ad uso degli agricoltori e dei proprietari, Napoli 1883.

Cimato A., Il germoplasma olivicolo in provincia di Lecce: recupero, conservazione, selezione e caratterizzazione delle varietà autoctone, Matino (LE) 2001.

COLOMBA G., Transición socio-ecológica del olivar en el largo plazo. Un estudio comparado entre el sur de Italia y el sur de España (1750-2010), Tesi di dottorato, Siviglia 2017.

Pacces G., Inchiesta agraria sulle condizioni della classe agricola in Italia, Monografia circa lo stato di fatto dell’agricoltura e della classe agricola dei singoli circondari della provincia di Terra d’Otranto, Lecce 1880.

Presta G., Degli ulivi, delle ulive e della maniera di cavar l’olio, Napoli 1794.

Tombesi A. et al., Recommendations of the working group on olive farming production techniques and productivity, «Olivae», 63, Madrid 1996.

 

Colomba Gianpiero, indirizzo mail: gianpiero.colomba@gmail.com

Cultura tradizionale contadina e fertilizzazione dell’oliveto

ulivi del Salento

di Colomba Gianpiero

In passato, la gestione della fertilità da parte dei contadini era una variabile fondamentale per la produzione agraria, svolgendo quindi un ruolo chiave imprescindibile nell’agricoltura preindustriale. La dipendenza dal letame (risorsa non sempre disponibile) o da altre forme di fertilizzazione (p.es. interramento materia organica) potevano essere una reale limitazione, soprattutto in contesti di forte competizione per l’approvvigionamento della materia organica o di carenza di manodopera.

Paradigmatico il caso dell’oliveto del Salento pugliese, dove i livelli produttivi sono stati sorprendentemente alti fino alla fine del XIX secolo (media di 13,5 q/et di olive nel decennio 1875/85), proprio quando l’agricoltura era di tipo biologica, ossia senza l’ausilio di fertilizzanti chimici di sintesi, all’epoca sconosciuti. In parziale controtendenza rispetto a quanto avveniva nel resto dell’Italia e in Spagna, laddove il letame fu utilizzato negli oliveti in modo massiccio solo a partire dal XX secolo, nel Salento abbiamo diverse fonti che ci informano sull’utilizzo del letame già dalla prima metà del XVIII secolo (Presta 1794; Moschettini, 1794). Abbiamo testimonianza di ciò, anche su documenti di contabilità della prima metà del XIX° secolo presenti negli archivi privati delle famiglie nobili Guarini di Poggiardo (Lecce) e Gallone di Tricase (Lecce), in cui si indicava esplicitamente l’uso del letame negli oliveti.

Ci sono poi numerose fonti che riferiscono l’utilizzo di altri prodotti organici per fertilizzare efficacemente l’oliveto. Parliamo cioè del residuo industriale della sansa o delle alghe marine. Infatti, nelle zone costiere si usava, non di rado, l’alga Posidonia Oceanica e ciò avveniva spesso in aggiunta al letame. Altre fonti documentano invece l’utilizzo dei rifiuti urbani e tra questi ritroviamo spesso l’uso degli “stracci di lana”, che fornivano una quantità significativa di azoto, potevano essere facilmente trasportati e avevano un costo relativamente basso. Abitualmente, la gestione consisteva nel gettare in una fossa profonda circa 40 centimetri preparata attorno ad ogni olivo, alghe, letame e l’immondizia prodotta nei centri urbani. Questa usanza fu poi gradualmente abbandonata nel momento in cui la manodopera disponibile iniziò a spostarsi verso la coltivazione della vite, vale a dire intorno alla fine del XIX secolo.

Tradizionalmente, dunque, le tecniche appena illustrate ebbero una notevole importanza strategica, in quanto consentivano la restituzione dei nutrienti al terreno aumentando la produttività. Senza dubbio, però, la più importante diventò il sovescio, che prevedeva l’interramento nel terreno delle leguminose (principalmente fave e lupini) tra i filari di olivo o finanche sotto la proiezione della pianta.

Nel XX secolo, progressivamente, queste tecniche che prevedevano l’utilizzo di materie organiche, lasciarono spazio a un nuovo modo di fertilizzare e di gestire il suolo, attraverso l’uso massivo di fertilizzanti chimici da un lato e di diserbanti dall’altro, creando problemi di contaminazione e disequilibrio all’interno dell’agro-ecosistema oliveto.

Da anni sono allo studio le cause del «Complesso del disseccamento rapido dell’olivo», fitopatologia meglio conosciuta con il nome del batterio Xylella Fastidiosa, che attacca la linfa della pianta e che ha già distrutto nel Salento migliaia di ettari di oliveto. L’eccessivo uso di diserbanti, l’abbandono delle colture, l’impoverimento della componente organica e la compattazione del terreno, sono alcune delle criticità che hanno determinato un ambiente sempre più ostile alla coltivazione e che si possono relazionare come concausa della fitopatologia segnalata.

 

Fonte: Colomba Gianpiero, Transición socio-ecológica del olivar en el largo plazo. Un estudio comparado entre el sur de Italia y el sur de España. (1750-2010), tesi dottorale, UPO Siviglia, 2017.

Coltivazione di ulivi tra Andalusia e Terra d’Otranto in un importante studio accademico

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Transizione socio-ecologica dell’oliveto nel lungo periodo

in Italia e Spagna (1750-2010)[1]

 di Gianpiero Colomba

In questo articolo cerchiamo di spiegare brevemente il livello di multifunzionalità e di produzione dell’oliveto, ovvero la sua resa agronomica, e di ricostruire l’evoluzione di alcuni indicatori biofisici basati sulla proposta metodologica del metabolismo agrario, come per esempio l’indicatore di efficienza energetica “ERoEI” (Energy Returned on Energy Invested)). Lo scopo principale è quello di analizzare le dinamiche di sostenibilità storica della coltivazione dell’oliveto, con l’obiettivo finale di ottenere insegnamenti utili per individuare gestioni efficienti nel presente.

Il contesto storico della ricerca, parte dell’epoca in cui la base energetica era quasi esclusivamente solare e arriva ai giorni nostri, descrivendo la transizione socio-metabolica industriale quando, per la prima volta nell’agricoltura, ebbe luogo l’arrivo a grande scala dei combustibili fossili e dei fertilizzanti chimici.

La maggior parte degli indicatori agronomici e ambientali, si riferiscono alla provincia di Cordova in Andalusia, che oggi rappresenta la regione leader al mondo in quanto a superfici investite a oliveto e alla provincia storica di Terra d’Otranto che lo fu nel XVIII° secolo e gran parte del XIX°.

Abbiamo cercato di dare una risposta al come fu possibile che in Italia si riuscì a “sostenere” un’alta densità di popolazione in un contesto di agricoltura «organica avanzata» (Wrigley, 1988), e in condizioni agro-climatiche simili a quelle spagnole. Per pratiche agrarie migliori o più intensive? O attuando pratiche insostenibili per lungo tempo? Inoltre, quale fu la causa della forte caduta della produttività in Italia agli inizi del XX° secolo?

Analizzando la porzione di terra utile per abitante in Terra d’Otranto nel 1880, si calcola che vi era una disponibilità teorica di 1,3 ettari (superficie territoriale / abitanti), mentre in Cordova di 3,6 ettari per abitante. Mezzo secolo dopo, nel 1930, questa proporzione nella provincia del sud della Spagna era di 2,1 ettari, all’incirca uguale alla quota che si calcola in Terra d’Otranto nel 1809, più di un secolo prima. Analogo discorso se consideriamo la porzione di terra coltivabile per abitante, con 1,0 e 1,9 ettari rispettivamente nel 1880. Si ricorda che il limite per il sostentamento di una comunità in epoca pre-industriale era all’incirca fissato in 1,5 / 2,0 ettari per abitante (Malanima, 1995), per cui in Terra d’Otranto questo limite lo si era superato già a partire dagli inizi del secolo XIX. Completare il sostentamento in queste situazioni richiese evidentemente delle strategie di “risparmio del suolo” (Kander et al., 2014) e l’oliveto ne fu un esempio paradigmatico, soprattutto in Italia.

Per quel che concerne l’efficienza, abbiamo stimato gli input applicati all’oliveto, tanto a livello tradizionale (lavoro umano e animale, concimi, ecc.) come a livello attuale (fertilizzanti, trattamenti, macchinari, ecc.) e gli output (produzione di olive, legna, ecc.) considerando la materia secca e traducendo il tutto in unità di misura energetica (Joule).

Le stime che riguardano il territorio salentino, sono l’analisi di libri contabili privati di fine secolo XVIII e di gran parte del XIX, relativi alla conduzione di alcuni oliveti nel territorio di Poggiardo e Tricase (Le), mentre per l’attualità attraverso interviste a esperti e agronomi condotte nell’anno 2016 sul territorio leccese.

La grande espansione dell’oliveto nel mediterraneo è avvenuta in epoca contemporanea e Italia e Spagna sono stati i paesi di maggiore produzione di olio di oliva nel mondo. Valga un dato per descrivere l’importanza dei due paesi nel contesto mondiale: durante il quinquennio 1903/07, agli inizi quindi del XX° secolo, l’Italia produceva 226.000 tonnellate di olio che equivaleva al 40% della produzione mondiale e la Spagna, secondo produttore, con 189.000 ne produceva il 34%.

Oggigiorno, insieme, questi due paesi producono il 63% della produzione mondiale, con l’Italia che produce il 18% dell’olio mondiale, mentre la Spagna il 45%. Pur tuttavia, i principali risultati della ricerca mostrano che Italia e Spagna hanno avuto specifiche e distinte evoluzioni.

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Nel caso dell’oliveto italiano, si osserva un livello intensivo che possiamo definire impropriamente “industriale” già alla fine del secolo XVIII° e per gran parte del XIX° rispetto allo spagnolo, il quale si poteva considerare con una vocazione più “contadina”. L’oliveto italiano, infatti, dedicava una parte maggiore della sua produzione di olio per il mercato e l’esportazione. Alla fine del secolo XIX° poi, si ebbe un’inversione con l’Italia che risentì maggiormente della crisi di fine secolo rallentando la sua crescita e la sua produttività. In questo stesso periodo, la Spagna iniziò una vera e propria “età di oro” che le permise di superare l’Italia in quanto a superfici e produzioni, diventando paese produttore leader indiscusso. L’importante transizione tra Italia e Spagna, da un punto di vista commerciale e produttivo, si può riassumere in questi numeri: tra i quinquenni 1871/75 e 1901/05, quindi nell’ultimo quarto di XIX° secolo, in Italia le esportazioni di olio caddero da 70.400 tonnellate a 32.200, mentre in Spagna passarono da 23.500 a 43.400.

Il livello produttivo medio nel sud d’Italia a metà del secolo XVIII° (11,3 quintali/ettaro), era maggiore di quello del sud della Spagna (6,0 q./et.). Ipotizziamo quindi che in Italia, all’interno di una “economia organica” e in condizioni agro-climatiche simili, l’oliveto richiedeva un maggior livello di fertilizzazione o più in generale di input esterni, per soddisfare la sua vocazione “industriale”. Successivamente, agli albori dell’era pre-industriale tra il 1880 y 1930, registriamo una rilevante caduta della produttività in Terra d’Otranto pari al 25% (da 13,5 a 10,1 q./et.). La rivoluzione verde, infine, permise un esponenziale aumento delle rese agrarie le quali, in condizioni analoghe in quanto ad accesso a energie fossili tendono a convergere, raggiungendo una produzione pari a circa 34 q./et.. Nell’attualità, per ogni 10 olive prodotte nel mondo 1 arriva da una di queste due province del Mediterraneo.

 

Produzione di olive nell’oliveto specializzato. (Quintali / ettaro / anno).

colomba

L’aumento della quota di suolo dedicata alla coltivazione dell’olivo si comprende, da un lato per la grande domanda di olio che proveniva dall’estero dando luogo quindi a una spiegazione di tipo «monetarista» e dall’altro venne determinata dalla capacità di somministrare una molteplicità di beni fondamentali per le comunità e per il sostentamento familiare, spiegazione quest’ultima, legata alla “multifunzionalità” dell’oliveto.

La legna prodotta rappresentava la fonte più importante di approvvigionamento energetico. Le foglie dell’olivo erano un eccellente alimento per il bestiame; la sansa vergine si usava per fertilizzare, come combustibile, per alimentare il bestiame e, se trattata con solfuro, si usava per ricavarne una supplementare quota di olio; la sansa esausta mescolata con la melassa, era un ottimo alimento per cavalli e maiali; l’acqua di vegetazione si usava come fertilizzante e come disinfettante per le radici delle piante e per la produzione di alcol; e il residuo della “morchia” era utile per la fabbricazione del sapone.

Se consideriamo la legna prodotta con la potatura, secondo una recente stima (Colomba, 2013), intorno al 1870 in Terra d’Otranto, c’era una disponibilità teorica di 3,2 quintali di legna di olivo pro-capite/anno. Se si considera che in Italia la necessità di legna pro-capite/giorno era minore di 1 chilo (Malanima, 1995), stimiamo per il sud d’Italia, con temperature meno rigide, un fabbisogno pari a ca. 3 quintali pro-capite. Tutto ciò ci fa pensare che prima dell’arrivo dei combustibili fossili la legna d’olivo fosse indispensabile da un punto di vista energetico, giacché in Terra d’Otranto era molto scarsa la quota di terra forestale (appena il 16,5% dell’intero territorio provinciale al 1930).

Abbiamo analizzato le possibili cause della crisi produttiva di fine secolo XIX° da un punto di vista energetico e non solo commerciale, studiando le relazioni tra il maggiore livello produttivo verificatosi in Italia tradizionalmente e l’efficienza e quindi la sostenibilità dell’oliveto. Abbiamo stimato innanzitutto la quantità di energia applicata al suolo in epoche distinte. La variabile è stata contabilizzata in ore di lavoro (umano e animale) per ettaro. Per esempio, si è calcolato che intorno al 1750 in Terra d’Otranto si impiegavano, mediamente, 368 ore/ettaro/anno (equivalenti a 345 MJ) per lavorare la terra (questo lavoro spesso includeva anche il sovescio fatto a zappa) e occorrevano 27,6 ore per arare con una coppia di buoi. Inoltre, la raccolta manuale prevedeva un dispendio di 276,2 ore. Nell’attualità si dedicano, in media, appena 2,9 ore di lavoro umano per la gestione del suolo e 96 ore per la raccolta.

Abbiamo quindi calcolato l’indicatore di efficienza energetica, che rapporta output a input come descritto in metodologia.

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Evoluzione storica dell’efficienza dell’oliveto. (ERoEI; Otput/Input).

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La storia descrive una caduta continua di questo indicatore dal secolo XVIII° fino ai giorni nostri. Nel caso italiano è passato da 6,6 a 2,6 (efficienza più bassa) mentre nel caso spagnolo da 9,6 (efficienza più alta) a 3,1. Questo significa che la produzione, seppur in crescita, è aumentata a un ritmo inferiore rispetto agli input esterni, disegnando così un processo continuo di perdita di efficienza.

L’agro-ecosistema di Terra d’Otranto, necessitava tradizionalmente più energia di quello di Cordova, generando così uno svantaggio ecologico in ottica comparativa. Si entrò in una sorta di rendimento decrescente in prospettiva energetica, mentre nel caso di Cordova si aveva un oliveto al quale, aggiungendo poca energia addizionale si ottenevano maggiori ritorni. In Terra d’Otranto bisognava investire maggiori risorse per ottenere la stessa quantità di prodotto. Non fu solo, quindi, una mera questione di mercato e prezzi bassi del prodotto olio con conseguente abbandono di coltivazioni non più redditizie, ma un collasso socio-ecologico mediato da rendimenti decrescenti nel sistema produttivo energetico e di nutrienti.

Infine, la transizione descritta ha generato dei problemi all’agro-ecosistema oliveto che in estrema sintesi si possono descrivere così: caduta di efficienza energetica, recente incremento delle emissioni di CO2 e «sovra-fertilizzazione» di Azoto con la conseguente contaminazione da nitrato. Nell’attualità, infatti, nell’oliveto industrializzato si fertilizza con più N di quello che sarebbe necessario, creando un surplus stimato in circa 74 kg/et. di N nel caso di Terra d’Otranto mentre, al contrario, nel 1880 si stima un deficit di quasi 20 kg/et. Questa importante coltivazione che caratterizza così fortemente il paesaggio ha smesso di essere un serbatoio di carbonio, per diventare un problema per il cambiamento climatico.

 

ph Mauro Minutello
ph Mauro Minutello

 

Nota biografica

Colomba Gianpiero, vive attualmente nella città di Firenze e ha terminato un dottorato di ricerca presso l’Università “Pablo de Olavide” di Siviglia, il cui titolo è: “L’Europa, il mondo mediterraneo e la sua diffusione atlantica. Metodi e teorie per la ricerca storica”. Si è avvalso della direzione di tesi dei professori Manuel González de Molina e Juan Infante Amate.

Dall’inizio del 2011 fa parte del gruppo di lavoro del “Laboratorio di Storia degli Agroecosistemi” dell’Università UPO di Siviglia. Durante questi anni ha illustrato i principali risultati della sua ricerca in vari forum accademici (UGR, Granada 2012; UEX, Badajoz 2013; AHC, Madrid 2013; SISS, Firenze 2017), presentando lavori inerenti alla storia ambientale e al mondo rurale.Il 7 settembre 2017 ha raggiunto il punteggio massimo difendendo la Tesi dal titolo: “La transizione socio-ecologica dell’oliveto nel lungo periodo. Uno studio comparato tra il sud d’Italia e il sud della Spagna. (1750/2010)”. La ricerca descrive la storia della grande espansione dell’oliveto nel Mediterraneo negli ultimi due secoli e mezzo da una prospettiva socio-ecologica.Il contributo di questo lavoro è stato quello di stimare inediti dati riferiti alla storica provincia di Terra d’Otranto (Sud Italia), presentando i dati relativi all’utilizzo del suolo, alla produzione e alla sostenibilità agricola dell’uliveto, attraverso uno studio in cui sono presenti metodologie trans-disciplinari.

Indirizzo mail: gianpiero.colomba@gmail.com

 

[1] Il lavoro di ricerca che qui si riassume è una estrema sintesi di una tesi dottorale presentata presso l’Università “Pablo de Olavide” di Siviglia agli inizi di settembre del 2017 e descrive la storia della coltivazione dell’olivo nel mediterraneo nell’arco degli ultimi due secoli e mezzo, da una prospettiva socio-ecologica.

I dati statistici che si indicano, sono proprie stime le cui fonti primarie sono riportate nella bibliografia della tesi conservata presso gli archivi informatici dell’Università UPO di Siviglia e consultabile su http://www.upo.es/rio.

In un moderno oleificio

di Maria Grazia Presicce

disegno a matita di Maria Grazia Presicce
disegno a matita dell’autrice

 

Siamo in novembre, periodo di raccolta e molitura delle olive.  Da tempo, desideravo entrare in un oleificio moderno mentre era in funzione per tornare in una realtà che mi è appartenuta da bambina e poter gustare ancora quel mondo e perdermi negli effluvi del luogo, almeno…così immaginavo!

vecchio frantoio a Borgagne
vecchio frantoio a Borgagne (foto dell’autrice)

 

Quest’opportunità è avvenuta per caso e così un mattino, dopo aver comprato dell’olio nello spaccio dell’Oleificio trovando aperto il frantoio, non ho resistito alla voglia di entrare e lasciarmi inondare dalle essenze di quell’atmosfera a me cara. Dapprima ho spiato titubante poi, visto che intorno non c’era anima viva, mi sono addentrata…s’intuiva, comunque che c’era qualcuno: la luce nell’ufficio era accesa.

Nell’ampio e alto stanzone, su un lato del muro, enormi cassoni di olive erano impilati mentre, nei pressi la porta dell’ufficio, stazionavano due cassoni colmi di turgide e nere olive sicuramente scaricate da poco. Sulla superficie. Infatti, alcuni rametti di ulivo verdi rallegravano il nero del raccolto e ne denotavano la freschezza.

foto dell’autrice

 

Continuavo a guardarmi intorno. Sulla sinistra, da un’ampia porta, si stagliavano, in bella mostra, una fila di alti e lucenti serbatoi e tutt’intorno, numerosi bidoni di plastica con appeso un cartellino, parevano in attesa…

foto dell’autrice

Immobile osservavo e provavo a percepire profumi ed essenze quando, finalmente, un signore mi viene incontro – scusate l’intromissione, …volevo semplicemente cogliere le antiche fragranze…mi piaceva immergermi negli antichi profumi …sa, i miei nonni avevano un antico frantoio e lì dentro le sensazioni, il calore, le fragranze si percepivano e quasi le toccavi e t’inondavano silenti…

Mi lascia parlare, poi ci presentiamo. Potremmo avere la stessa età – Eh sì cara signora, quei luoghi, quegli odori non esistono più. Come vedi, qui ora non ci sono “essenze” … è tutto diverso. Una volta, il frantoio, aveva un’anima e calore e colore e cuore… adesso è tutto automatizzato e i profumi sono incapsulati nelle macchine addette alla produzione…è tutto veloce…si fa in fretta, non c’è tempo per penetrarne gli aromi.

Ci guardiamo. Nello sguardo c’è tutto. – Venga! Venga a vedere cos’è oggi il frantoio…

Ci spostiamo. M’introduce in un vasto e aperto ambiente occupato, su ambo i lati, da due marchingegni luccicanti, fissi alla base, che si dispiegano per quasi tutta la lunghezza del locale. Qui il rumore diffuso dei macchinari sovrasta la voce. E’ freddo l’ambiente, non c’è colore, né calore, né profumo…

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foto dell’autrice

Pur essendoci olive nelle casse e altre olive inghiottite e maciullate dai robot lucenti, non c’è quell’aroma di olio mosto…

Pochi uomini all’interno dell’oleificio; solo due o tre…e bastavano per azionare, revisionare e sorvegliare quegli androidi che, immobili, svolgevano e producevano…

Mi soffermo e ripenso alla fatica di un tempo e rivedo i fisculi pieni di poltiglia di olive e le presse mosse dalle braccia degli uomini che, a turno, s’affaccendavano a spingere e risento il ticchettio dei perni e avverto il colare dell’olio nel tino sotto il canaletto della pressa…

Quanta fatica! E non solo dell’uomo, anche delle bestie… il cavallo che, nel vecchio frantoio dei nonni, girava bendato la grossa macina di pietra…e poi le donne che, nel vento, nel sole, nella pioggia, nel freddo coglievano le olive una ad una. …Vero, altri tempi però…

immagine tratta da http://www.presepioelettronico.it/forum/topic.asp?TOPIC_ID=4508
immagine tratta da http://www.presepioelettronico.it/forum/topic.asp?TOPIC_ID=4508

 

-Di qua, di qua…- l’operatore solerte mi precede mentre continua a spiegare le moderne fasi di lavorazione – qui, in questa vasca sommersa, si versano le olive raccolte e sporche di foglie di terra, di pietruzze e quel nastro convettore poi, le incanala in quella macchina selezionandole, scartando pietre e foglie, convogliandole, rapidamente, in un’altra vasca che le lava.

E davvero non mi pare vero! Sotto i miei occhi, per magia, quelle olive che avevo visto sporche di tutto, si ripulivano e i rimasugli si raccoglievano in contenitore, mentre, più su, le olive sporche di terra si docciavano prima di essere centrifugate riducendosi in una poltiglia densa, lucida e nerastra.

foto dell’autrice

 

Non c’era sosta nel marchingegno. Il ciclo continuava su un rullo mobile che divideva l’olio dal residuo acquoso e finalmente, da un tubo d’acciaio, l’olio, giallo e lucente, fluiva in un bidone di plastica bianca, simile a quelli che sostavano vicino ai serbatoi del primo stanzone.

Guardavo l’olio colare copioso, ma…ancora quel tipico odore di olio mosto non lo coglievo e allora – posso assaggiare? – Allungo un dito e l’ho intingo e finalmente gusto, però… manca qualcosa…e il mio cuore a percepirlo.

foto dell’autrice

 

Manca l’armonioso afflato dell’uomo che quelle olive ha raccolto e portato a macinare…manca la trepida attesa e poi l’assaggio nel luogo del “parto” e della nascita di quel filo d’olio che, una volta, colava sul pane nell’istante che veniva alla luce per essere gustato e valutarne la preziosa bontà…

Proprio così…quel luogo risultava anonimo, mancava la dedizione, il cuore della gente. La molitura delle olive, un tempo era una cerimonia e ogni fase si viveva, penetrava nell’animo e quando, in un unico piatto di olio mosto, la gente che vi lavorava inzuppava il pezzetto di pane, la fragranza penetrava nel cuore e si spandeva sul viso …

E’ vero, ora è tutto semplificato, è vero oggigiorno il lavoro costa meno fatica e va bene così, ma secondo me, nel moderno vivere, c’è un po’ troppa superficialità…

Dobbiamo tutti imparare dai mistici

mauro minutello
ph Mauro Minutello

 

di Pier Paolo Tarsi

Oggi mi è capitato di ascoltare le confessioni e gli sfoghi tutti comprensibili e tutti ragionevoli di cinque persone diverse: un collega di lavoro, un imprenditore dedito al lavoro da una vita e come tanti della sua categoria stanco di lottare, un politico, un ragazzo, un conoscente; tutti i loro discorsi, che ho ascoltato con sincera partecipazione, si concludevano con un “ormai”.

Contesti e persone profondamente diverse, accomunate tuttavia dalla stessa stanchezza, dalla medesima idea di una disfatta imminente che ha già scavato nell’animo e ha già predisposto alla rassegnazione, ognuno schiacciato a modo suo dal peso di anni oggettivamente difficili. Ma cristo, lo vogliamo capire che noi, per il solo fatto di respirare, siamo obbligati a non darci mai per vinti?

Dobbiamo tutti imparare dai mistici il senso dell’abbandono totale a una fede, quella della certa, indubitabile e indiscussa idea che ce la faremo. E’ il compito di chi vive prendersi fino in fondo il diritto di essere ed essere nel migliore dei modi e dei mondi possibili.

I paesaggi dell’olivo pugliese e le minacce dei tempi moderni

           

ph Mauro Minutello
ph Mauro Minutello

 

              I paesaggi dell’olivo pugliese e le minacce dei tempi moderni

Mostra – fotografica
Campi Salentina 25-28 novembre 2016 Istituto Calasanzio
La diffusione dell’infezione di Xylella fastidiosa in Salento sta portando nel volgere di pochi anni, alla trasformazione del paesaggio, attraverso la perdita di una coltura caratterizzante per la storia del Salento, della Puglia e dell’intero Mediterraneo. Le minacce del paesaggio dell’olivo non provengono solo dalla diffusione del batterio Xylella fastidiosa, ma vi sono altre minacce non di minore importanza: la costruzione d’infrastrutture spesso troppo invasive, il consumo indiscriminato di suolo agricolo per nuove costruzioni, una tecnica agricola non sempre rispettosa del paesaggio e dell’ambiente.
 
Collettiva fotografica di: Fernando Bevilacqua, Carlo Bevilacqua, Pino Cavalera, Mauro Minutello, Giovanni Resta, Rosanna Merola, Antonio Ottavio Lezzi, Francesco Tarantino.
 
 
     
Incontro di presentazione della  mostra fotografica
 
Sabato 26 novembre 2016, ore 11.30-13,30 
Sala Consiliare Comune di Campi Salentina
 
Saluti Egidio Zacheo Sindaco di Campi Salentina
             Cosimo Durante Presidente Fondazione città del Libro
 
Interventi
 
La tutela e valorizzazione dei paesaggi dell’olivo Pugliese 
Anna Maria Curcuruto -Regione Puglia Assessore alla Pianificazione territoriale-
– Urbanistica, Assetto del Territorio, Paesaggio, Politiche abitative
 
Gianni Ippoliti  in video messaggio
 
Paesaggio dell’olivo ed agricoltura
Vittorio Marzi –Accademia dei Gerorgofili Firenze –Presidente Sezione Sud- Est 
Giovanni Mercarne  Olivicoltore Agronomo
 
Tutela del paesaggio ed infrastrutture
Lorenzo Ciccarese, in video messaggio, Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (Ispra).  
 
Coordinamento
Francesco Tarantino, Agronomo paesaggista

Quale focolaio di Xylella fa più paura?

Xylella time …

di Piero Sumerano

ph Marco Cavalera
ph Marco Cavalera

 

Il focolaio di xylella a Ostuni fa paura ? Fa più paura di quello di Oria? Di Torchiarolo, di San Donaci, di Trepuzzi, di Squinzano, di Veglie o di Gallipoli?
Fa più paura perché è più vicino alla terra di Bari?
L’olivicoltura della Puglia ha lo stesso valore da Santa M. Di Leuca fino a Serracapriola . Un valore sociale, economico, storico, paesaggistico, cultuale e naturalistico a prescindere se parla di terra del Salento, di Bari, delle Murge o della Daunia ! Qualcuno forse si aspettava, o peggio ancora, si aspetta che il batterio della Xylella f. si possa fermare da solo come se niente fosse? O che possa essere curato ?
O possa essere circoscritto solo al Salento ?
Che lasciare gli alberi infetti al loro posto per puro spirito patriottico non avrebbe avuto conseguenze ?
No! No! Niente di tutto questo !
La questione è ben più complessa di, come alcuni pseudo esperti o sedicenti tecnici ecologi e chi più ne ha più ne metta, vogliono farla apparire! Nessuno ha capito che siamo difronte alla più grande e catastrofica epidemia che si possa immaginare.
La malattia viaggia!! Il suo vettore fa l’autostoppista e nascondendosi nelle macchine, furgoni e camion provenienti dalle zone infette conquista nuovi territori.
Oggi la malattia la scopriamo a Ostuni; ma chissà dove sia potuta arrivare ! Forse già é al nord Italia con qualche sputacchina che innocentemente si è posata fra le fessura delle auto dei tantissimi turisti che hanno affollato l’estate salentina 2016. O magari è già scesa nelle regioni joniche.
Oggi c’è gente che parla e professa senza la più elementare competenza in materia e senza avere ben impresse negli occhi e nella mente le immagini apocalittiche degli olivi millenari della provincia di Lecce e di parte di quella di Brindisi ridotti a muti scheletri. Oggi c’è gente, purtroppo, che specula sulla vicenda Xylella solo per meri scopi di notorietà mediatica magari da spendere in qualche prossima tornata elettorale ( è già successo ) Oggi ancora c’è DISINFORMAZIONE !!! Una disinformazione quasi voluta e pilotata per creare scalpore, confusione e fare scoop mediatici! Giornalismo di basso profilo che tenta di distogliere l’attenzione dal vero problema: la morte degli olivi e la morte della nostra economia con tutto ciò che ne consegue!
In occasione del nuovo focolaio di Ostuni, leggere ancora una volta, su testate giornalistiche di portata nazionale che dietro tutto questo c’è l’ombra di qualche lobby speculatrice con chissà quali interessi di edilizia turistica sinceramente mi fa cadere le braccia ! Distogliere l’attenzione dal vero problema ( ripeto la morte certa degli olivi monumentali), per lanciare insinuazioni mentre si intervista il gestore della stazione di servizio dove é stata trovata la pianta infetta, mi sembra davvero inqualificabile. Sarebbe stato più giusto e più professionale descrivere il problema ed esortate tutti, ognuno per la propria parte, ad attivarsi per attuare tutte le pratiche per cercare di contrastare l’epidemia!
La colpa di tutto questo ?
Di tutti noi sicuramente . Di tutti quelli che a vario titolo hanno ostacolato una norma europea e la legge nazionale in materia di organismi da quarantena ( che forse andava migliorata per essere applicata ad una specie come l’olivo ) . Dei ricorsi accettati dal TAR e dei sequestri che hanno rallentato, intralciato e persino bloccato l’iter che il Servizio Fitosanitario era chiamato a svolgere! Ognuno di noi si faccia un esame di coscienza; semprechè ognuno di noi ne abbia una !!

Xylella nel Salento. Facciamo il punto della situazione con l’agronomo Giancarlo Leuzzi

A colloquio con Giancarlo Leuzzi*

1 – Facciamo il punto della situazione Xylella nel feudo di Monteroni. Qual è la fotografia di quello che sta accadendo e secondo lei cosa si dovrebbe fare quanto prima.

Nel feudo di Monteroni il batterio Xylella fastidiosa ha fatto il suo ingresso da sud, attraverso il territorio di Copertino (dove si è manifestato come secondo grosso focolaio salentino, dopo “Li Sauli” a Gallipoli, già fin dal 2013, in un agro compreso tra i territori di Copertino, Lequile e Galatina).

monitoraggio Xylella fastidiosa Dicembre 2013 – Aprile 2014 – Delimitazione delle aree demarcate in provincia di Lecce
monitoraggio Xylella fastidiosa Dicembre 2013 – Aprile 2014 – Delimitazione delle aree demarcate in provincia di Lecce

 

Attualmente, su Monteroni, un grosso focolaio è presente nella zona ricompresa tra i territori di Copertino e Monteroni, lungo l’asse stradale Monteroni – Copertino, tra la rotonda a sud (svincolo Copertino, San Donato, San Pietro in Lama) ed il campo sportivo di Monteroni a nord. In particolare, campioni positivi sono stati rintracciati ed evidenziati fino al gennaio 2015 sul sito www.emergenzaxylella.it ma, dalla sintomatologia da me riscontrata, oggi la quantità di piante attualmente colpite è enormemente più alta. Piante con chiari sintomi sono visibili verso la ferrovia, anche nel territorio di Arnesano e più a nord, verso Carmiano.

La situazione, sempre più drammatica intorno a noi, si può osservarla direttamente percorrendo la San Donato – Copertino, dalla superstrada Lecce – Gallipoli, fino ad entrare a Monteroni da Copertino.

focolaio Xylella su Monteroni
focolaio Xylella su Monteroni

 

Per la seconda parte della domanda non c’è una risposta in quanto non esiste rimedio fitosanitario per curare le piante dal batterio. Le soluzioni proposte dalle Decisioni di esecuzione della Ue dovevano essere adottate subito, per circostrivere l’area infetta nella zona del primo focolaio. Proprio pochi giorni fa, 4 agosto 2016, la Giunta Regionale ha approvato un disegno di legge sulla questione della Xylella fastidiosa. La norma, che martedì prossimo passerà all’esame del Consiglio, inquadra in un’unica cornice le iniziative per gestire l’infestazione da Xylella e per la salvaguardia degli ulivi pugliesi, attraverso tre cardini principali:

la prima stabilisce le misure fitosanitarie da adottare, la seconda è volta agli interventi di ripristino economico, ambientale e paesaggistico e la terza istituisce una agenzia unica (ARXIA) per l’attuazione del dispositivo normativo.

E’ evidente che Emiliano continua a non sapere cosa fare, passando dalla creazione di task-force di esperti alla creazione dell’ennesimo carrozzone politico-amministrativo.

Su tutto, pesa ormai anche l’avviso della seconda procedura di infrazione comminata dalla UE.

 

2 – Sono calzanti le motivazioni addotte dalla Procura della Repubblica di Lecce che ha così bloccato l’eradicazione o, quanto meno, è vero o non è vero che questo morbo dell’ulivo esisterebbe da 20 anni, alla luce dei rilevamenti tecnici e delle indagini condotte in ultima battuta dalla Procura?

Per rispondere a questa domanda bisogna fare un ripasso degli fatti che sono successi nel tempo, dal sequestro degli olivi ai giorni nostri. A mio modesto parere l’indagine della Procura di Lecce si basa sulle teorie stravaganti avanzate da associazioni ambientaliste estremiste. Nel dicembre 2015 la Procura di Lecce ha sequestrato gli ulivi e bloccato il piano di emergenza[1], sostenendo l’ipotesi di complotto internazionale: ricercatori, istituzioni e multinazionali avrebbero diffuso la malattia per distruggere il paesaggio e l’olivicoltura pugliese.

Nel tempo, l’impianto accusatorio della Procura ha rivelato la sua inconsistenza ed è stato smentito dalle principali indagini scientifiche sul batterio e il suo vettore.

Si veda ad esempio il fatto che, una ad una, sono state provate via via l’unicità del ceppo di Xylella, che ha sconfessato l’ipotesi della Procura che i ceppi fossero nove e presenti da venti anni, tanto che già a metà marzo si meditava il dissequestro. A fine marzo la Corte Europea ha rigettato il ricorso di 29 aziende bio della provincia di Lecce, condannandole al pagamento delle spese[2], mentre l’Efsa annuncia la prova della patogenicità di xylella su olivo. Inoltre, circa la validità e i dubbi sulla strategia di contenimento, su impulso della Commissione Europea, l’Efsa pubblica[3] un nuovo parere scientifico che riguarda Xylella fastidiosa in Salento. Nello specifico, viene richiesto di valutare la validità di 4 punti fondamentali legati alla strategia di contenimento che sono stati messi in discussione nel dibattito pubblico. Questi sono: 1) la correlazione tra il disseccamento rapido e vari fattori che si ritiene possano influenzare l’espressione dei sintomi e la diffusione di Xylella (salute dei suoli, agenti chimici ecc.); 2) il ruolo di Xylella fastidiosa come agente causale della malattia CoDiRO; 3) la validità e l’efficacia attesa della rimozione delle piante infette come strumento di contenimento della diffusione della malattia; 4) gli effetti secondari dei prodotti fitosanitari.

Sul secondo punto è stato così dimostrato il rapporto di causa-effetto tra la presenza del batterio e la morte delle piante ospiti (dimostrazione postulati di Koch).

A metà aprile scorso l’UE prende i primi provvedimenti contro l’inefficienza della regia politica pugliese e nazionale, allargando ulteriormente la zona infetta tra i territori di Avetrana e Ostuni, mentre l’Efsa pubblica uno studio secondo il quale i trattamenti in corso di sperimentazione sugli olivi in Puglia possono ridurre i sintomi della malattia causata dalla Xylella fastidiosa, ma non eliminano l’agente patogeno dalle piante infette[4].

Fuori dalla timeline si ricorda che su questo punto è nuovamente intervenuta la magistratura che, dopo il dissequestro, incredibilmente sostiene – va detto chiaramente – con ipotesi e consigli tecnico-scientifici non di sua competenza, ancora il contrario del suddetto studio.

Infine, a fine aprile anche i consulenti della Procura in una dichiarazione ammettono di non avere dati differenti da quelli pubblicati dai ricercatori indagati e che allo stato attuale delle conoscenze e di quello che si sa delle perizie, quindi, il ceppo di Xylella responsabile del CoDiRo è uno solo.

A maggio poi, in risposta al Tar del Lazio e in attesa del deposito della Sentenza, l’Avvocato generale della Corte di Giustizia Europea Yves Bot conclude che le misure UE per combattere la xylella sono valide. Nessuna violazione dei principi di precauzione, adeguatezza e proporzionalità delle misure di contenimento dimostrano la legittimità del Piano Silletti e, contemporaneamente, la Commissione UE vara la nuova Decisione di esecuzione (la 2016/764 che modifica la decisione di esecuzione (UE) 2015/789 relativa alle misure per impedire l’introduzione e la diffusione nell’Unione della Xylella fastidiosa) con l’aggiornamento cartografico di riferimento.

Delimitazione delle aree al 15 aprile 2016
Delimitazione delle aree al 15 aprile 2016

 

A giugno la Corte di Giustizia Europea rinforza il senso delle misure disposte dalla Decisione di esecuzione della Commissione UE e ribadisce che “può obbligare gli stati membri a rimuovere tutte le piante potenzialmente infettate” incluse quelle “non presentanti sintomi d’infezione, qualora esse si trovino in prossimità delle piante già infettate“. Questa misura, infatti, “è proporzionata all’obiettivo di protezione fitosanitaria” ed “è giustificata dal principio di precauzione“, in base alle prove scientifiche in possesso della Commissione. Subito dopo, un nuovo vertice in Procura conferma la volontà degli inquirenti valuta nuovamente il dissequestro.

Il 10 giugno entra il campo l’autorevolissima Accademia dei Lincei con un rapporto poi pubblicato il giorno 26. Nel rapporto i Lincei smontano l’inchiesta, sconfessando le ipotesi dei magistrati e sottolineandone le carenze scientifiche con una dura critica ai metodi della procura.

Abbiamo verificato che le certezze dei ricercatori hanno una solida base scientifica”. Al contrario “la costruzione logica descritta dalla procura non è sostenuta da dati sperimentali” e inoltre anche due dei periti scelti dai pm “sono fra gli autori di una pubblicazione che conferma la tesi dei ricercatori indagati”. I magistrati in pratica vengono smentiti dai loro stessi periti, ma mantengono il sequestro sugli olivi.

A parere dei Lincei, l’azione della Procura rischia di produrre danni enormi, facilitando indirettamente la diffusione del batterio in Italia e nel bacino mediterraneo, con il rischio che si ricombini geneticamente e attacchi oltre all’olivo altre piante come la vite. “E’ difficile comprendere le ragioni del permanere del sequestro conservativo che appare, piuttosto, distruttivo per la flora e l’agricoltura pugliesi. E’ poco plausibile che la procura sia all’oscuro degli sviluppi scientifici e agronomici sopravvenuti negli ultimi mesi.”

Infine, il 12 luglio, uno studio sperimentale pubblicato sull’importante rivista internazionale Journal of Pest Science[5] (Impact Factor 3.103), ha dimostrato il ruolo della sputacchina dei prati, Philaenus spumarius come principale vettore del ceppo Salentino di Xylella fastidiosa.

Lo studio comprova per la prima volta la trasmissione di X. fastidiosa da olivo ad olivo ad opera di Philaenus spumarius.

Qualche giorno dopo, il 18 luglio, da Bruxelles con una dichiarazione il ministro Martina anticipa verso la Regione Puglia “..chi ha le competenze, dobbiamo smetterla di fare i tuttologi e smettere di pensare anche noi in maniera superficiale di avere in tasca soluzioni che semplici non sono mai soprattutto in un caso molto complesso come questo”, il monito del commissario Ue alla salute Vytenis Andriukaitis, secondo il quale l’UE avanzerà una nuova procedura di infrazione se l’Italia non applicherà in pieno la decisione europea per fermare l’espansione della xylella.

Dieci giorni dopo, finalmente, la Procura di Lecce firma il dissequestro degli olivi, non tralasciando di riaffermare che, grazie al sequestro e alle buone pratiche gli alberi hanno ripreso a vegetare (vedi nota 11).

E’ dimostrato invece, sia empiricamente che scientificamente, che un albero di olivo malato, pur continuando a svolgere le proprie funzioni, resta sempre una pianta malata che tende a morire e soprattutto rappresenta una potenziale fonte di inoculo per altre piante, sane.

Ognuno può verificare, come col passare del tempo è ugualmente successo nelle campagne intorno a Monteroni, che a Trepuzzi erano circa 2000 le piante colpite prima del sequestro, mentre oggi manifestano quasi tutte i sintomi della malattia.

A cosa è servito tutto questo? Chi sono i veri responsabili dell’espansione dell’epidemia?

Foto confronto “li sauli” 2013 2016 (per gentile concessione redazione infoxylella.it)
Foto confronto “li sauli” 2013 2016 (per gentile concessione redazione infoxylella.it)

 

3 – Vi sono medicine indicate o trattamenti ad hoc per bloccare questo batterio killer? La metodologia è efficace? Sono stati fatti degli errori, a suo giudizio, anche da parte dei contadini che magari non hanno saputo ben salvaguardare e manutenere nella maniera più corretta possibile queste piante che sono un patrimonio per molte persone, nonché un vero e proprio “bene di famiglia”?

Purtroppo non vi sono fitofarmaci in grado di fermare il batterio e, come ho detto sopra, in uno studio dell’Efsa si sostiene principalmente che i trattamenti in corso di sperimentazione sugli olivi in Puglia possono ridurre i sintomi della malattia causata dalla Xylella fastidiosa, ma non eliminano l’agente patogeno dalle piante infette. I contadini non c’entrano nulla col patogeno e nessuna pratica ha predisposto alla malattia. Le piante, nel bene e nel male sono state conservate fino ad oggi finchè hanno prodotto reddito ma nemmeno l’abbandono ha a che fare con l’ingresso del patogeno.

 

4 – Secondo lei, da tecnico, quali sarebbero i metodi di coltivazione più idonei. Esiste un protocollo della corretta coltivazione? Oppure gli addetti ai lavori hanno intenzione di stilarne uno al più presto per evitare problemi in futuro.

Le buone pratiche agricole, oltre che un abusato ritornello, sono effettivamente il metodo di coltivazione più idoneo. Va detto però, che tali pratiche sono antieconomiche e non si prestano alla moderna olivicoltura. Da ciò, tutte le conseguenze che possiamo riscontrare nei campi, tra abbandoni, bizzarrie improduttive con drastiche potature che rimettono nel peso della legna i costi ordinari.

Fin dall’inizio dell’epidemia, per contrastarne l’avanzata, le buone pratiche sono state più volte consigliate, poi anche imposte e sono disponibili su internet, ma queste ultime ormai hanno poco a che fare con il miglioramento del prodotto.

Le classiche buone pratiche di coltivazione non sono in grado di proteggere gli olivi dall’infezione. Nessun lavoro  ha mai dimostrato che un buon livello di sostanza  organica nel suolo, potature annuali, concimazioni ed irrigazione evitano, in presenza di vettori infetti, l’infezione. Non resta che ridurre drasticamente in tutto il territorio, non solo negli oliveti, le popolazioni di vettori (lavorazioni tempestive con taglio delle malerbe e leggere erpicature e trattamenti per ridurre ulteriormente le popolazioni di vettori adulti) e le fonti di inoculo (eliminare le piante infette o isolare le piante prossime a quelle infette in modo da non consentire l’accesso dei vettori adulti e quindi bloccare la trasmissione del batterio). Attualmente, una valida sperimentazione per la convivenza col batterio è incentrata anche sull’utilizzo di cultivar tolleranti-resistenti, nella speranza che cada presto anche il divieto di reimpianto.

Altra questione è la sostenibilità economica delle “buone pratiche”. Sicuramente sono necessari contributi pubblici per sostenere una parte rilevante dei costi.

Giancarlo Leuzzi
Giancarlo Leuzzi

5 – Come mai questa malattia non esiste in altri Paesi produttori di olio come Spagna, Portogallo, Tunisia, Algeria, Africa Settentrionale, etc.  Queste nazioni usano metodologie corrette ed omologanti di controllo o c’è dell’altro… Perché proprio in Italia?

Il ritrovamento in Costa Rica, di un ceppo batterico identico al ceppo CoDiRO (ST53), nonché le numerose intercettazioni di piante ornalmentali di caffè importate dall’America Centrale (Costa Rica e Honduras in particolare), fa ritenere altamente probabile che il ceppo CoDiRO abbia origini da quell’area geografica.

Sino ad oggi, a seguito di caratterizzazione molecolare MLST (MultiLocus Sequence Typing) effettuata da diversi gruppi di ricercatori su siti diversi e da specie vegetali diverse della penisola salentina, si sono costituiti numerosi isolati di Xylella che risultano avere tutti la stessa sequenza ST53. Tali risultati fanno ipotizzare che l’epidemia sia originata da un unico evento di introduzione. Si pensa che la mancanza di controlli e misure di quarantena che non sono rispettate in tutta Europa e in particolare nel porto di Rotterdam, oltre alla forte attività vivaistica intorno al primo focolaio, abbia favorito l’ingresso del patogeno nel Salento.

 

Note

1 http://agronotizie.imagelinenetwork.com/agricoltura-economia-politica/2015/12/21/xylella-la-procura-di-lecce-blocca-il-pianosilletti/46949; http://www.quotidianodipuglia.it/lecce/xylella_ulivi_sequestro_preventivo_indagati-1436071.html;

http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/12/19/xylella-procura-di-lecce-ue-tratta-in-errore-batterio-presente-in-salento-da-20-anniindagheremo-sui-finanziamenti/2319591/; http://www.ilfoglio.it/articoli/2015/12/25/xylella-italia___1-v-136416-rubriche_c284.htm

2 www.lescienze.it/news/2016/01/15/news/xylella_olivi_salento_cattaneo_mautino-2930681/

3 http://www.ilfoglio.it/cronache/2015/12/25/xylella-italia___1-v-136416-rubriche_c145.htm;

http://www.ilfoglio.it/scienza/2016/01/21/sulla-xylella-un-invito-al-procuratore-motta-escile-le-perizie___1-v-137304-rubriche_c930.htm

4 Il 2 marzo sulla rivista “European Journal of Plant Pathology” conferma che all’origine dell’epidemia di disseccamento degli olivi salentini c’è un unico ceppo di Xylella: è indicato con la sigla ST53 ed è sbarcato in Puglia con una pianta proveniente dal Costa Rica. Il risultato rafforza i dubbi sulla decisione della Procura di Lecce di bloccare l’abbattimento degli olivi malati in base a un’inesistente presenza di più ceppi di Xylella.

5 http://www.trnews.it/2016/03/17/xylella-la-procura-medita-il-dissequestro-degli-ulivi-e-chiede-i-pareri/123141338/

6 http://curia.europa.eu/juris/document/document.jsf?text=Xylella&docid=175109&pageIndex=0&doclang=it&mode=req&dir&occ=first&part=1&cid=615631#ctx1

7 http://www.efsa.europa.eu/en/press/news/160329; http://www.infoxylella.it/2016/03/29/efsa-provata-la-patogenicita-xylella/

8 http://www.infoxylella.it/2016/03/31/parere-efsa-dubbi-commissione-europea/

9 https://www.efsa.europa.eu/it/press/news/160329

10 http://www.efsa.europa.eu/it/press/news/160420

11 http://tv.ilfattoquotidiano.it/2016/07/28/xylella-procuratore-capo-di-lecce-annuncia-dissequestro-ulivi-ma-ora-la-regione-puglia-sidia-una-mossa-per-salvare-gli-alberi/547830/

12 http://www.lescienze.it/news/2016/04/27/news/xylella_worshop_dettagli_perizia-3064864/ e

http://www.lescienze.it/news/2016/04/27/news/xylella_consulenti_procura_domande_risposte-3066936/

 

* Giancarlo Leuzzi, Agronomo, consulente di aziende olivicole, consulenze agronomico-ambientali. Vive e lavora a Monteroni. Dal 2013 al 2016 è stato consigliere regionale e poi responsabile settore agricoltura per Legambiente Puglia. Nella redazione del sito infoxylella.it.

Pubblicato su http://www.tgmonteroni.it/index.php/attualita-monteroni-di-lecce/item/552-xylella-l-agronomo-leuzzi-situazione-drammatica-serve-competenza

Libri| Nostro ulivo quotidiano

scattidautore

 

E’ stato pubblicato pochi giorni fa il volume di Elio Ria, Nostro ulivo quotidiano, a cura di Marcello Gaballo, per le edizioni della Fondazione Terra d’Otranto, inserito nella collana Scatti d’Autore, n°2. in quarto| 112 pagine| colore, cartonato. Impaginazione di Mino Presicce, fotocomposizione Biesse – Nardò, stampa Pressup. Foto di Fabrizio Arati, Mauro Bellucci, Maurizio Biasco, Lucio Causo, Coordinamento Forum Salute, Stefano Crety, Marcello Gaballo, Roberto Gennaio, Linda Iazzi, Walter Macorano, Lucio Meleleo, Tommy Mezzina, Francesco Politano, Mino Presicce, Pier Paolo Tarsi. Foto di copertina di Maurizio Biasco.

ISBN: 97888 906976 8 5

Edizione non commerciale, riservata alle biblioteche e ai soci della Fondazione.

 

Prefazione di Marcello Gaballo – Fondazione Terra d’Otranto

Scatti d’Autore è la nuova collana edita da Fondazione di Terra d’Otranto, che persegue l’obiettivo – attraverso le parole e le immagini – di valorizzare e promuovere la cultura salentina con i suoi autori più rappresentativi in ambito letterario, filosofico e artistico.

La grandezza della parola dipende dallo splendore delle immagini e dalla capacità cognitiva di raccogliere argomenti misuratori del Salento, che è luogo blindato di generosità e splendidezza, ma è anche sostanza d’ispirazione per poeti e artisti. Il mare, i porti, le chiese, i campanili, le piazze, i vicoli, i paesi, sono le cartoline di un mondo fiabesco che incarnano la pazienza del tempo e non hanno necessità di urgenza di fare a pezzi le tradizioni e i costumi di una comunità sempre devota a Dio.

Il secondo volume “Nostro ulivo quotidiano” dedicato all’albero di ulivo è scritto da Elio Ria. Le immagini sono di vari fotografi salentini che hanno voluto donare i loro scatti a corredo del presente lavoro.

Ria si distingue per la sua prosa erudita, pregna di allusioni e ironica nelle allegorie, corredata da una poesia metafisica che sembri lo affascini e lo nutri di piacere del sapere. Attento osservatore della propria terra sa incastonare le quotidianità della vita con le tradizioni che tuttora resistono e s’impongono nel Salento. Riservato e incline al silenzio, rifugge da ogni moda stravagante di letteratura, indagatore e archeologo delle parole crede nella modernità con moderazione, ha un naso eccezionale per le cose interessanti, ha la capacità di condensare minuziosamente i concetti e di sintetizzare le complessità esistenziali libero da ogni condizionamento politico e/o religioso. Ama narrare ciò che è invisibile per attualizzarlo e declamarlo in forma poetica. Offre ai suoi lettori un intrattenimento di lettura piacevole poiché ogni sua cosa è realizzata da un intimo godimento, il giubilo di chi fa ciò che gli piace fare.

Nelle sue omissioni volute si può cogliere la riflessione come fonte di emozione poetica e l’erudizione come retorica cortese – ma mai come pedanteria. Guarda sempre con passione tutto ciò che è minore in confronto a ciò che è maggiore, giacché dalle cose minime risultanti insignificanti sa estrapolare significativi e sostanziali frammenti di allegorie e di memorie.

Il libro è un mondo racchiuso in sé stesso, con le immagini dell’albero di ulivo e di una campagna in sofferenza; dove però prevale innanzitutto il senso civico di responsabilità del poeta per la sua terra, il quale avverte l’impegno di un agire per il meglio, nonché il monito ad una scelta di vita più consona alle regole della natura. Xilella fastidiosa è il killer che decreta la morte degli alberi, mettendo in serio pericolo l’ecosistema. Nelle parole del libro si addensano le atmosfere recondite e quelle sonore dell’uomo che riflette sulla realtà e tenta di interpretarle, poiché incombe un futuro senza futuro e il Salento rischierebbe una menomazione ambientale incommensurabile.

L’ulivo è l’albero simbolo del Salento, il gigante, che nei secoli ha germogliato ricchezza, orgoglio di natura, bellezze figurative, idea di poesia. L’omaggio editoriale è tutto per esso, significando in tal modo l’attenzione e l’interesse di questa Fondazione ai beni naturali della propria terra.

Sputacchina e piano di contrasto alla Xylella

di Valentino Traversa*

 

Pochi giorni fa mi è capitato di vedere, vicino ad un oliveto regolarmente arato, anche una larga fascia di erba gialla su parte di un pendio acclive, effetto di un diserbante ad ampio spettro.

Chiaramente un’applicazione del piano di contrasto alla Xylella, salvo il fatto che tale pedissequa applicazione non teneva conto di altri fattori presenti sull’area: la zona diserbata era infatti un ciglio di scarpata naturale che digradava verso una vora, il punto in cui le acque superficiali entrano nel sottosuolo, tipico di tante zona del Salento.

Infatti, buona parte del Salento ha un regime idrologico del tutto particolare, trattandosi di bacini endoreici, ovvero di aree in cui le acque piovane non sono convogliate verso il mare, bensì, a causa dello sbarramento dovuto alle creste delle Serre salentine, che corrono parallele alla linea di costa [le colline locali], vengono assorbite in fratture carsiche ed inghiottitoi, localmente chiamate “vore”.

Dunque, come prima peculiarità, è chiaro che qualsiasi pesticida applicato in vicinanza delle vore abbia un’altissima probabilità, alle prime piogge, di finire direttamente nel sottosuolo, il ché è equivalente a finire direttamente in falda; nel sottosuolo anche i processi di degradazione di tali composti chimici sono assai rallentati, in assenza di fotolisi e degradazione batterica, per cui è facile presumente un accumulo progressivo degli stessi composti.

Il secondo effetto riguarda invece la biodiversità: queste aree residuali che non possono essere arate, per via della morfologia del terreno, per la sua eccessiva pietrosità o perché aree umide allagate per parte dell’anno, sono uno dei principali punti della biodiversità animale e vegetale nella zona: applicarvi pesticidi di varia natura implica la perdita di un’infinità di specie vegetali ed animali, la cui perdita, oltre ad essere un insulto alla creazione [cit. “Laudato sii”], implica effetti a catena difficilmente prevedibili in anticipo.

Mentre così rimurginavo, pensando a richieste di ordinanze sindacali che, quanto meno, vietassero l’uso di pesticidi in prossimità delle vore, d’un tratto il mio sguardo si è posato su qualcosa che non mi aspettavo, gli essudati del Philaenus spumarius, la “sputacchina”.

La sputacchina, il "nemico" da debellare, in quanto potenziale vettore della Xylella
La sputacchina, il “nemico” da debellare, in quanto potenziale vettore della Xylella

 

La ragione della mia sorpresa era il fatto che, mentre sulla parte rimasta integra della vegetazione intorno alla vora, di sputacchina praticamente non ce n’era [uno sputo ogni tre-quattro metri quadri], nell’oliveto arato una decina di giorni fa, con le terofite, ossia le piante annuali, in ricrescita dopo le piogge primaverili, la sputacchina era particolarmente abbondante, nell’ordine di una trentina di “sputate” per metro quadro, nonostante la vegetazione, dopo l’aratura, fosse assolutamente rada e sporadica, pochi fili d’erba, in pratica.

Come già osservano anche i bambini, in Puglia la sputacchina ha una forte preferenza per il Sonchus – il comune “zangone” o “sivone” a seconda della zona della Puglia, erba molto ricercata per via del suo sapore dolce. A seguire, come preferenza, l’umile Avena selvatica ed alcune basse leguminose, probabilmente vicine al meliloto, come specie.

Al ché subito mi è sovvenuto un ricordo, quello del dott. Carlo Scoccianti, uno dei maggiori esperti nella progettazione di aree umide, che raccontava di come le larve di zanzara, negli stagni naturali, fossero assolutamente assenti, essendo una delle prede favorite di gran parte delle altre specie.

Questa – trasposta al caso della sputacchina – potrebbe essere una spiegazione, ossia che le misure prese per ridurre la presenza della sputacchina possano incidere in modo ancor più pesante sui predatori della sputacchina stessa, portando ad un suo involontario aumento numerico.

La seconda spiegazione potrebbe essere che la sputacchina presenti una preferenza per le piante annue e non troppo lignificate, per cui le frequenti arature potrebbero portare ad una più elevata presenza proprio di questo tipo di piante.

Bisogna dire che non ricordo il nome alcun entomologo, nella “Task Force” coinvolta per definire il piano di contrasto alla Xylella [anzi, a dire il vero non ricordo nessun elenco pubblico di studiosi , coinvolti nella redazione del piano], questo potrebbe essere conseguenza del fatto che ci si concentri sullo studio del batterio e delle reazioni delle piante ospiti, più che cercare di capire l’ecologia del suo vettore, la sputacchina, per l’appunto.

Fatto sta che, per cercare conferme, ho iniziato ad osservare altre aree incolte; la scarsità della sputacchina nelle aree di macchia e bosco mi era già ben nota, ma ho potuto osservare che anche lungo il ciglio delle strade, in presenza di compagini vegetali diversificate, la sputacchina sia effettivamente molto poco diffusa – il numero di specie vegetali è in correlazione il disturbo antropico, più ci sono stati interventi umani, minore è il numero delle specie vegetali e viceversa.

Dal ché ho iniziato a studiare un po’ di letteratura sulla sputacchina: bisogna dire che in ambito internazionale il Philaenus spumarius è stato molto studiato, sia per alcune sue peculiarità genetiche, sia perché, nonostante la scarsa dannosità nei nostri ambienti, in altri ambiti, come in Nord-America e nell’Asia del sud, il suo controllo appare molto difficile – per capire l’ordine di grandezza di infestazione, nei campi di erba medica in nord America si arriva a contare 1280 ninfe/mq, ossia 1280 “sputate” al mq (YURTSEVER 1999).

Tale differenza di densità e dannosità è stata essa stessa oggetto di studio, in particolare nel lavoro di J. B. WHITTAKER – “DENSITY REGULATION IN A POPULATION OF PHILAENUS SPUMARIUS (L.),” del 1973, in cui lo studioso arriva a chiarire che la causa di questa differente densità sia da attribuire alla mancanza, in nord America, di uno specifico parassitoide, il dittero Verrallia aucta (Fallen), che il Whittaker invece asserisce di aver costantemente trovato, come larva, all’interno degli adulti di Philaenus in tutta Europa.

Allo stesso modo, sempre il Whittaker, indica anche l’esistenza di una specie di fungo, Entomophthora aphrophorae, che attacca specificatamente solo il Philaenus spumarius, mentre nel database sulle specie invasive curate dal CABI (Centre for Agriculture and Biosciences International), sono elencati anche altri predatori, tra cui i coleotteri Carabidi.

Ma i parassitoidi come la Verrallia aucta o i predatori come i carabidi, necessitano di una buona biodiversità per esprimere popolamenti vitali [dato che, in assenza del Philaneus, necessitano di altre prede] e sono più sensibili all’effetto dei pesticidi, rispetto alla sputacchina, che presenta un ciclo vitale più rapido.

 

Tutto ciò per dire che al 90% di probabilità, il trattamento, sia con diserbanti che con pesticidi delle aree incolte e delle aree naturali, oltre a porre gravi problemi per la salute umana in prossimità delle vore, ha sicuramente un effetto negativo sul contenimento della sputacchina, diversamente da quanto viene asserito nel piano di controllo della Xylella.

Inoltre, è del tutto discutibile quale possa essere il vantaggio dell’aratura negli oliveti rispetto alla trinciatura delle erbe spontanee, in quanto la prima viene ad incidere più pesantemente sullo spettro floristico degli oliveti, favorendo le piante annue che sono quelle preferite dalle ninfe di sputacchina, nonché provocando la morte di predatori, come i carabidi, che vivono a livello del suolo.

Infine, vista l’esistenza di patogeni fungini specifici, non sarebbe il caso di studiare, in breve tempo, la possibilità di coltura degli stessi, per arrivare ad una lotta biologica della sputacchina, specie-specifica e priva di controindicazioni per l’ambiente e per la salute umana?

Invito tutti, dai tecnici ai ricercatori, alle associazioni per la tutela dell’ambiente, ai semplici cittadini ad osservare la diversa presenza delle ninfe di sputacchina, facilmente identificabili proprio grazie alle secrezioni che le avvolgono, negli oliveti arati ed in quelli non arati, nonché nei bordi delle strade e negli ambienti più o meno naturali – la cosa che ci serve più di ogni altra è avere gli occhi aperti, senza dare nulla per scontato, per renderci conto dell’utilità e dell’impatto delle azioni proposte.

 

* Dottore forestale, Consulente dell’Osservatorio Europeo del Paesaggio, Membro della Commissione Locale per il Paesaggio nei Comuni di Acquarica di Lecce, Copertino, Leverano, Porto Cesareo, Presicce, Taurisano, Ugento, Veglie.

 

Bibliografia:

http://www.cabi.org/isc/datasheet/40235

Selçuk Yurtsever, ” On the Polymorphic Meadow Spittlebug, Philaenus spumarius (L.)”, 1999 http://journals.tubitak.gov.tr/zoology/issues/zoo-00-24-4/zoo-24-4-13-9904-6.pdf

Roland Achtziger, “Conservation of Grassland Leafhoppers: A Brief Review”, 2005, https://www.academia.edu/20676491/Conservation_of_Grassland_Leafhoppers_A_Brief_Review

B. WHITTAKER, “”DENSITY REGULATION IN A POPULATION OF PHILAENUS SPUMARIUS (L.),”, 1973 https://docs.google.com/viewerng/viewer?url=ftxt.eurekamag.com/000/000057024.pdf

Non c’è nulla di umano che non sia stato già creato da Madre Natura

di Armando Polito

(Foto di Andrea Gravante scattata il 15 aprile 2015 a Ruffano, tratta da  http://leccesette.it/dettaglio.asp?id_dett=26500&id_rub=248

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E, volendo esagerare, siccome l’arte, secondo una dette tante nostre definizioni, è interpretazione o deformazione della realtà, la Natura anche in questo si mostra a noi superiore, obbligandoci a ruotare a destra di 90° la sua immagine (la prima) per capire meglio la povertà delle nostre …

Gli Ulivi e la Pietra

ulivo, muri a secco

GLI ULIVI E LA PIETRA. SALENTO E BAROCCO  LECCESE NELLA PROSPETTIVA UNESCO

A LECCE  E TARANTO UN CONVEGNO DI STUDIOSI E  DI LIONS DI PUGLIA

di Ermanno Inguscio

Grande fermento in tutto il Salento in una due giorni, il 25 e 26 novembre 2015, dedicata allo studio della pietra leccese e alla tutela dei secolari ulivi salentini, promossa dai Soci Lions di Puglia, su iniziativa di Raffaele Cazzetta, presidente dell’Associazione Olivi secolari e del lions Club di Maglie. Il tema: Gli Ulivi e la Pietra. Salento e Barocco leccese nella prospettiva UNESCO”, è stato annunciato sui maggiori organi di stampa e sui TG di Rai3 Regione.

L’evento s’è svolto tra Lecce (presso le Officine Cantelmo) e Taranto, in un albergo cittadino. Il sindaco di Lecce, Paolo Perrone, in una sua intervista, ha sottolineato la necessità del coinvolgimento dell’intero Salento sul tema della iscrizione all’ UNESCO del Bene culturale “pietra leccese e ulivi secolari”, pena l’inefficacia di uno sforzo di natura sinergica fatto sul territorio. Proprio vero, infatti. Un analogo tentativo fu compiuto in tal senso nel 2006 dal sindaco dell’epoca, on. Adriana Poli Bortone, concluso con un nulla di fatto. Tutto si dissolse tra i meandri della burocrazia.

Da canto loro i Lions di Puglia, con la presenza del Governatore del Distretto, dr. Alessandro Mastrorilli ed un Vicegovernatore, prof. Francesco Antico, hanno coinvolto  alle giornate di studio centinaia di imprenditori e professionisti provenienti dalle zone di Brindisi, di Fasano, di Lecce, di Maglie, di Casarano, di Gallipoli, di Castellaneta, di Grottaglie e di Manduria. A relazionare nel Salone leccese delle Officine Cantelmo il prof, Mino Ianne dell’Università di Bari, l’avv. Giorgia Marrocco (Centro Studi Tecné) e la prof.ssa Tatiana Kirova (Università di Torino), membro permanente del CIVVIH-ICOMOS dell’UNESCO.

Grande attenzione è stata prestata dall’uditorio proveniente dalle tre province di Lecce, Brindisi e Taranto alla prima relazione di Mino Ianne, che ha parlato sul tema :”Ambiente e paesaggio storico-antropologico del Salento”, alla seconda tenuta da Giorgia Marrocco  sul tema “La pietra leccese fra tradizione e innovazione”, e soprattutto alla terza,la relazione  di Tatiana Kirova, tema “Il Salento tra i siti UNESCO: le possibilità concrete”. Se, infatti, grande affidamento, a detta dell’organizzatore Raffaele Cazzetta, si fa nella esperta guida della prof.ssa Tatiana Kirova per il lavoro preparatorio per l’iscrizione del sito salentino ai Beni UNESCO entro il 2017, l’aspetto cruciale consisterà nell’approntare un Piano sinergico di autofinanziamento, una volta raggiunta l’iscrizione, per ogni attività che si intenderà programmare in maniera continuativa sul territorio con possibilità concrete di occupazione giovanile  in questo lembo di terra  tra lo Jonio e l’Adriatico. Una sfida ardua, ma non impossibile.

Tanto vale riprovarci, questa volta con feroce determinazione. Ed è ciò che è stato con chiarezza ricordato agli astanti nelle puntuali conclusioni dell’avv. Raffaele Coppola.

Identikit di un’oliva


di Mimmo Ciccarese

 

Indovinello salentino: “Autu, autu e lu miu palazzu, erde suntu e niura me fazzu, casciu anterra e nnu me scrafazzu, au alla chesa e luce fazzu”.

Asciula, cafareddhra, mureddrha, saracina, cilina nchiastra, licitima, fimmina e masculara, cillina te Lecce, te Nardò o te Scurranu sono solo alcuni dei sinonimi utilizzati per indicare o meglio identificare la tipica oliva coltivata nel Salento.

Di essa non si sa con esattezza per opera di quale popolo sia iniziata la sua diffusione; sarà sicuramente un affascinante racconto dissolto tra secoli di memoria e segrete leggende. Di certo c’è invece, che il valore attribuito alla coltivazione di questa varietà che oggi classifichiamo come Cellina di Nardò, è equivalente all’empatico desiderio di proteggerla. Si accendono i riflettori su questo albero.

In un modo o nell’altro il principio dell’estrazione del suo olio (uegghiu) pare sia quasi simile a quella di un tempo ma le caratteristiche fisiologiche del suo frutto non sono affatto cambiate.

Le sue drupe (ulie) riunite fitte sui rami vigorosi e assurgenti (inchi e calaturi) sono piccole ellissi, come visi bruni, in pietosa attesa di ruzzolare per essere poi raccolte e frantumate (rispicu e macinatura). L’operosità della sua raccolta scandisce due stagioni di tradizionale raccolta su quasi 60.000 ettari di meridione pugliese dove si aggira. Ogni visitatore che abbia varcato la soglia messapica ha ammirato la sua imponente meraviglia e qualcuno poi, ha chiesto addirittura di promuoverlo come patrimonio dell’umanità.

Da sempre, questa varietà, è presente nella storia dei salentini, nei loro riti, nella vita di ogni giorno e a volte ci si può meravigliare come dai suoi tronchi curvi e corrucciati (rape sturtigghiate) riescano a ricavarne un essenza così morbida e armonica al palato. L’intensità di retrogusti piacevoli di amaro e un po’piccante (pizzica alli cannaliri) con evidenti percezioni di mandorla, di pomodoro o di erba fresca sarebbero i suoi migliori requisiti.

Qualità inaspettate dall’olivo trasmesse da millenni, incantano le nostre abitudini, specialmente quando si parla di chimica che non troviamo solo nel suo olio, non di quella sintetica per intenderci, ma di quella che riguarda le sostanze naturalmente contenute nelle sue cellule.

Cellule ricche di oleuropeina, droga amara, contenuta nelle sue cellule, e di un cospicuo elenco di acidi, chinoni, flavoni, glucosidi, enzimi, tannini, zuccheri, oli essenziali e antiossidanti di natura non identificata.

Ma come ogni alimento, senza fare discriminazioni farmacologiche, il suo olio extravergine di oliva è conosciuto da sempre per le sue proprietà, per la sua composizione in acidi grassi come l’acido oleico, linoleico, linolenico e di quella benamate antiossidante e protettive vitamina.

Chi l’avrebbe mai detto che da una piccola drupa dall’insolito nome orientale potessero scaturire tante ricerche? Se ne parla da anni! Pare che l’olio estratto (10-17%) contenuto nel suo frutto aiutasse quindi a vivere meglio.

Ma come identificare la vera qualità di un olio d’oliva? Non è il caso di quantificare un valore nutrizionale di un olio mal conservato o immoralmente prodotto.

L’albero d’olivo è sacro come il suo olio, il suo produttore e la sua terra. Allora perché questa pianta così decantata diventa spesso un indistinto oggetto alla mercé di un agricoltura intensiva?

Alberi come schiavi, forzati a vegetare e produrre in fretta, drupe avvelenate da insetticidi, radici bruciate da diserbanti per semplificare la raccolta. Dovremmo chiederci spesso che fine fanno le volpi e gli uccelli che si rintanano tra i sui vetusti tronchi “benedetti”.

Può questo atteggiamento essere un incivile trasgressione per sciagurati o insani principi? Soprattutto, può questo alimento pregiato diventare mezzo di sostanze sicuramente dannose per la nostra salute? L’agricoltura salentina non sa più che olio vendere; su di essa si riabbassa la scure dei prezzi, il lavoro non si ripaga e l’albero s’abbandona. Allora, solo favorendo il consumo dell’olio da Cellina di Nardò con un scelta sana e consapevole che il Salento può ritrovare la ruralità del suo volto e a maggior ragione, prima di ogni sciagurata decisione, il diritto di ammirarne la sua bellezza.

 

Appello accorato per gli ulivi del Salento

Riceviamo e pubblichiamo:

a cura di Forum Ambiente Salute

 

ulivo6

I cittadini delle provincie di Lecce, Brindisi e Taranto

in coordinamento permanente per la difesa degli ulivi rivolgono un

Appello accorato a tutti i Consiglieri regionali per una forte levata di scudi a difesa degli ulivi del Salento.
Si sospenda immediatamente la mattanza inutile degli espianti, si azzerino le sanzioni vessatorie e ingiuste a danno dei cittadini del Salento
e si prenda le responsabilità a non indurre migliaia di cittadini e famiglie sul baratro del fallimento economico creando il peggior dissesto sociale della storia e di tutti i tempi.
Urge un radicale cambio di rotta nel verso della cura del disseccamento e l’impegno per istituire sin da subito una commissione d’inchiesta interna alla Regione che affianchi la Magistratura per far luce sulle reali e gravissime inadempienze e omissioni e ristabilire il vero e pieno lume Scientifico e della Ragione ad oggi del tutto perso.
ph Mauro Minutello
ph Mauro Minutello

 

 

A tutti i Consiglieri della Regione Puglia

All’indomani della pubblicazione del nuovo assurdo piano d’intervento, e alla luce delle eradicazioni in queste ore in atto, tramite il quale si vorrebbe portare all’eradicazione di migliaia di ulivi si rivolge un accorato appello a tutti i consiglieri regionali per una immediata e decisa levata di scudi istituzionale: il consiglio regionale della Puglia discuta e prenda una ferma decisione nel verso della urgente e salvifica sospensione sine die degli espianti e delle immorali sanzioni entrambi previsti dal Piano Silletti bis e assuma responsabilmente la funzione, di difesa dei cittadini e dei loro lesi interessi economici e dei territori, del patrimonio arboreo, biologico e naturale in essi contenuti fermando la folle mattanza di ulivi del Salento.

Si invitano tutti i consiglieri regionali, ed in particolare i consiglieri salentini,a farsi promotori per l’urgente inserimento, nell’ordine del giorno del Consiglio regionale in calendario per martedì 13 ottobre, del punto di discussione sul Piano Silletti bis chiedendone l’immediata sospensiva, con lo stop agli inutili e drammatici espianti e al rischio di sanzioni che pendono rovinosamente sulla testa degli agricoltori che coscientemente si rifiutano di essere autori della mostruosa distruzione del Salento e di contro vogliono proseguire ad accudire i propri ulivi, nel rispetto dell’ambiente e della salute, con interventi e sperimentazioni che presentano quantomeno una riduzione dei sintomi. I contadini, l’olivicoltura il Salento tutto stanno subendo un incalcolabile danno d’immagine tradotto in ingentissimo danno economico situazione che si rischia ulteriormente di aggravare, a danno di decine di migliaia di cittadini e famiglie che stanno subendo da mesi e in queste ore il più macroscopico danno economico rappresentato dalla folle richiesta di espianto di piante vive e cariche di frutti, piante che rappresentano oltre a un immenso patrimonio affettivo e paesaggistico anche, talvolta, l’unica fonte di reddito e di sostentamento economico per decine e decine di famiglie e per le stesse comunità, un danno economico che senza dubbio affosserà le loro condizioni economiche, già messe a dura prova, creando uno scompenso sociale le cui ricadute sono indescrivibili; e di fronte al quale gli indennizzi sono una misera e ricattatrice offerta che offende e indigna.

Si rivolge un appello a tutti i consiglieri regionali perché sia istituita in Regione una commissione d’inchiesta non solo sugli aspetti scientifici, ma anche su tutti quegli aspetti burocratico-amministrativi che hanno permesso di giungere fino a questo punto con danni incommensurabili d’immagine a danno della regione Puglia tutta e i cui risultati siano posti a servizio delle indagini in corso da parte della Magistratura. I piani antixylella (ma non antidisseccamento) sono fondati sul riscontro di una esigua percentuale di piante sulle quali sarebbe stata riscontrato il batterio; ciò implica un riapprofondimento di tutta la vicenda al fine di individuare le carenze e gli interessi che sono alla base dello scandalo “Xylellagate” e che minaccia non solo il paesaggio ma l’economia dell’intero Salento.

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Sia lanciata anche una forte richiesta da parte dei consiglieri all’Unione Europea affinché oltre alle indagini scientifiche effettuate da EFSA, l’Agenzia Europea per la Sicurezza Alimentare, sia anche dato pieno mandato a Europol l’Agenzia di Polizia Europea perché sviluppi indagini parallele a quelle della magistratura italiana sulla discutibile gestione dell’intera vicenda.

Chiediamo un’inversione di rotta da parte della Regione Puglia che si articoli nei seguenti interventi, assunti dai sigg. consiglieri regionali:

impugnazione del Piano Silletti, soprattutto per quanto concerne l’eradicazione degli ulivi e l’uso di agrochimica di veleni e biocidi rivolti contro la flora e la fauna selvatica e rurale;

immediata moratoria degli espianti, soprattutto in assenza di debita e circostanziata certificazione; i proprietari sono stati vittima di un aut-aut senza scampo; inoltre essi hanno il diritto di raccogliere i frutti particolarmente abbondanti.

– La drastica potatura, suggerita da diversi studiosi, con ulteriori interventi profilattici, sostituisca l’espianto, già rilevatosi inutile.

– Si presenti ricorso presso la Corte di Giustizia dell’Unione Europea avverso la Decisione che ignora totalmente le indicazioni normative della FAO: “L’opzione di non dar seguito, o di prendere un approccio di gestione dei parassiti, dovrebbe essere considerata così come le opzioni di eradicazione.” (The option to take no action, or to take a pest management approach, should be considered as well as eradication options.) – (International standards for phytosanitary measures ISPM No. 9 Guidelines for pest eradication programmes – 1998 –  FAO 2006 –

ftp://ftp.fao.org/docrep/fao/009/a0450e/a0450e00.pdf );

 

– la calendarizzazione a brevissimo di un Consiglio regionale monotematico da svolgersi nel Salento, preceduto da un incontro pubblico;

– la realizzazione di una cabina di regia che coordini, metta in relazione e promuova le sperimentazioni e le ricerche scientifiche sul territorio, dalla quale siano esclusi tutti gli organi accademici, scientifici, professionali e istituzionali regionali e nazionali come anche le università italiane e americane che hanno gestito fino a oggi in un regime di vero monopolio la vicenda xylella che ha interessato la nostra regione con le nefaste conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti di quello che è divenuto uno scandalo internazionale sotto la lente della magistratura italiana ed europea;

– l’apertura vera della ricerca a 360° con il coinvolgimento immediato di altri enti di ricerca nazionali e internazionali;

– la realizzazione di un convegno internazionale con la partecipazione di figure scientifiche multisettoriali e di esperti impegnati in strategie fitoterapeutiche contro il disseccamento degli ulivi al fine di appurare le vere cause della sintomatologia tenendo conto anche i precedenti storici che hanno manifestato disseccamenti analoghi nel ‘700, ‘800, ‘900 che come ogni epidemia raggiunta una fase massima intensità, il fenomeno è regredito con un ritorno vegetativo e produttivo degli alberi e questo in quelle epoche in cui la scienza agronomica non era avanzata come ai nostri giorni e quindi con la semplice utilizzazione di efficaci metodi agricoli tradizionali rivolti alla cura della pianta e dell’habitat ecologico;

– la tutela del territorio attraverso la revisione della legge a tutela massima degli ulivi, Legge Regionale 4 giugno 2007, n. 14, contro gli interventi più recenti di suo emendamento che riducevano l’azione di tutela e salvaguardia del patrimonio arboreo e svuotando nei fatti l’importanza protezionistica della medesima;

– la richiesta di cancellazione dalla lista dei patogeni da quarantena del batterio “xylella”, sia sulla attuale assenza di prove certe e scientifiche sulla sua funzione sintomatologica e patogenica verso le piante e, a detta degli studiosi, della sua ineradicabilità quando insediata da tempo e in vasti territori (dal 2008 nel Salento); da qui la necessità di conviverci ; ad oggi la diagnosi è per la maggior parte “indiretta” trattandosi di esami sierologici al PCR nei quali vengono rilevati soltanto piccoli frammenti di DNA, che quindi necessitano di plurimi riscontri, anche per l’incidenza probabile di falsi positivi .

Invitiamo tutti i consiglieri regionali a porsi, come loro dovere, al fianco dei cittadini che resistono contro questo inaudito attacco al territorio e al suo patrimonio più intimo e prezioso, gli alberi d’ulivo e il patrimonio biologico tutto, e attivarsi a ogni livello istituzionale assumendosi la piena e doverosissima responsabilità per la salvezza del Salento e del patrimonio in esso contenuto poiché di questa folle strategia a danno della Puglia a giudicare non saranno solo i cittadini ma la Storia tutta!

(foto archivio Fondazione TdO)

 

 

Olivicoltori salentini pronti a ricorrere alla Corte di Giustizia europea

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La Voce dell’Ulivo vuole che venga eliminato il divieto di reimpianto di olivi nel Salento. Secondo l’associazione: “nessuna efficacia nei confronti del contenimento del batterio e soprattutto unica al mondo per ciò che riguarda gli organismi da quarantena”

 

Per eliminare il divieto di reimpianto siamo pronti a ricorrere alla Corte di Giustizia Europea, perché è una misura iniqua nei confronti del Salento, con nessuna efficacia nei confronti del contenimento del batterio e soprattutto unica al mondo per ciò che riguarda gli organismi da quarantena.

In questo modo, per l’inerzia delle istituzioni e per colpa dell’Ue il Salento è destinato alla desertificazione…

 

Leggi qui l’articolo:

http://www.teatronaturale.it/pensieri-e-parole/associazioni-di-idee/21755-olivicoltori-salentini-pronti-a-ricorrere-alla-corte-di-giustizia-europea.htm

 

“Voci tra Cielo e Terra” l’appassionante personale di ulivi pirografati

Silvana Bissoli la viandante messaggera giunge a Galatina con

“Voci tra Cielo e Terra”  l’appassionante  personale di ulivi pirografati

 

 

Silvana Bissoli la viandante messaggera, come ama definirsi, giunge nel cuore del Salento, nella storica e colta Galatina situata a pochi chilometri da Lecce,  con l’appassionante  personale di ulivi pirografati “Voci tra Cielo e Terra”.

Così, dal 20 giugno all’8 luglio 2015, sarà allestita nel prezioso spazio della cinquecentesca Chiesa dei Battenti, nel cuore di Galatina, la personale  “Voci tra Cielo e Terra”.

Al  vernissage di sabato 20 giugno alle ore 18:30 il critico d’arte Pompea Vergaro, curatrice dell’allestimento, farà insieme agli ospiti un viaggio sentimentale tra le opere dell’artista. Compagne di viaggio, le letture di Paolo Rausa e la voce di Lucia Minutello.

Interverranno:

Daniela Vantaggiato, Assessora alla Cultura del Comune di Galatina

Marcello Gaballo, Presidente Fondazione Terra d’Otranto.

 

La personale è organizzata dal Laboratorio d’arte l’Ulivo e la Luna di Imola, in collaborazione con L’Officina delle parole di Lecce, la Curia Vescovile di Otranto che ha concesso la Chiesa dei Battenti  e il patrocino del Comune di Galatina.

 

Sono circa 30 le magnifiche opere pirografate che varcheranno l’elegante portale  riccamente decorato e scolpito nella pietra leccese della Chiesa, già  sede di una delle più antiche confraternite del Salento delle quali ne conserva ancora le tracce di antichi splendori,per offrirsi allo spettatore in un percorso, unico e articolato  nel suo genere, sia dal punto di vista artistico, del messaggio e dell’allestimento che si snoderà lungo la prestigiosa Navata e l’adiacente Sagrestia.

Durante i giorni della Rassegna, ospiti dell’Arte di Silvana Bissoli saranno la poesia, il canto e la musica.

 

Venerdì 26 giugno alle ore 20:00

Donna Lucia interpreta Voci tra Cielo e Terra… tra gli Ulivi di Silvana.

Così, la  voce di Lucia Minutello  accompagnata dalla chitarra e dalle incursioni autoriali di Pasquale P40, condurrà i visitatori all’interno di un percorso musicale tra gli ulivi di Silvana Bissoli.

 

Venerdì 3 luglio alle ore 18:30

presentazione della Raccolta poetica:

LA POLVERE E L’ACQUA parole lungo la via della croce di Nico Mauro-

 L’Officina delle parole edizione.

Conversa con l’autore lo scrittore salentino Paolo Vincenti, performance poetica di Annamaria Colomba attrice. Interverrà l’editrice Pompea Vergaro

 

Invito Galatina  ok 10 giugno 20151

Voci tra Cielo e Terra. Personale di pirografia di Silvana Bissoli

Silvana Bissoli

Perché la strada la scopri quando sei in cammino

(Miguel Unumano)

 

di Pompea Vergaro*

 

Eccoci, anche quest’anno, per ritrovarci ad un appuntamento atteso e consolidato nel tempo con  l’artista Silvana Bissoli, che per tanti, per molti è divenuto punto di riferimento. Ella giunge da Imola, in provincia di Bologna, nel cuore del Salento,  con il suo stesso cuore e i suoi Ulivi: pregevoli pirografie, tra quadri, sculture, installazioni per narrarci nuove storie e condurci verso ricche e profonde esperienze  emozionali.

La sua operosità artistica, che ha lungamente superato i dieci anni, è allacciata fortemente al quella culturale, sociale e agli accadimenti che riguardano l’Ulivo.

E in questi  giorni che si aprono all’estate, ancora, gli ulivi della nostra terra continuano a vivere fortemente momenti tragici che l’artista segue con fervore e profondo dolore insieme a noi tutti. E, ancora una volta, con la sua nobile arte, siamo certi che Silvana Bissoli farà bene la sua parte.

Silvana Bissoli ha votato la sua vita artistica e personale  all’Ulivo, eletto a soggetto privilegiato;  nasce a Sanguinetto, un piccolo paese dell’entroterra  Veronese, dove ha vissuto fino alla prima giovinezza per poi trasferirsi definitivamente a Imola.

Il suo incontro con l’Arte è apparentemente casuale. Dopo la Laurea in Scienze Politiche, durante uno dei suoi viaggi, l’incontro con l’artista pugliese Giorgio Fersini, che ne  diviene suo maestro di pirografia, cambia la sua esistenza che da quel momento si vota e si avvia completamente  verso la via dell’arte, incoraggiata dallo stesso maestro. Per mai più abbandonarla!

Lungo gli anni, continuano i suoi viaggi  e prendono vita le sue passeggiate, le sue camminate tra distese di ulivi secolari di cui la terra del Salento e la Puglia intera ne sono vanto.

L’Arte di Silvana Bissoli  è legata all’antica  filosofia del camminare, dei passi sulla terra che la conducono a cercare e incontrare ulivi che le narrano di vicende umane, di legami terreni e spirituali per “coglierne e indagare  l’essenza di quella terra” come ella stessa ci suggerisce. Successivamente, con semplicità e amorevolezza, li fotografa, li appunta  nei loro luoghi, e li trasforma in Arte con il mezzo più appropriato: la pirografia, l’incisione col fuoco, antichissima  tecnica di origine mediterranea.

Così, la mano dell’artista, abile guida del pirografo, uno strumento che traduce il legno in opere d’arte simili ad acquerelli, offre originali doni al mondo.

 

Con la personale  VOCI TRA CIELO E TERRA  ha superato appieno quella maturità che già possedeva, invitandoci a un percorso che riguarda noi tutti che è quello della Via Crucis,  l’epopea del dolore per eccellenza, in un cammino che riporta la condizione umana alla sua originaria dimensione spirituale.

Silvana Bissoli, con questa operazione, di chiara bellezza, VOCI TRA CIELO E TERRA, immersa totalmente nella contemporaneità, come lo è sempre stata, confida di poter trovare un equilibrio e un  legame tra l’abbraccio terreno e quello cosmico, perché la Natura, spazio reale come tra le quinte di un teatro, possa narrare una umanità vera portando in una spazio ben calibrato, il rumore della vita che ci riconduca a quella doppia dimensione della Madonna-Madre legata sia alla terra sia al cielo.

Durante questo originario dialogo tra cielo e terra che si snoda  in un  cammino, inevitabilmente doloroso, l’artista imolese, dalla spiccata indole estetica, prova a trovare quel  bandolo indispensabile a srotolare  l’esistenza umana  in ritmi cadenzati che continuamente si aggrovigliano  e si intrecciano, tra mille  difficoltà e incertezze, senza mai fermarsi, dove suprema mediatrice è la figura materna.

Per donarci un’arte che possiede Voce, compiutamente equilibrata in maniera incisiva e appassionante, scovando la luce dalle tenebre.

In realtà  con questa imponente OPERA ella continua la sua inarrestabile  ricerca fatta di circostanze che spesso le sfuggono di mano, ma fatta anche di inaspettati e preziosi incontri,  con i quali,  grazie a quella forza e naturale abilità artistica che le sono proprie, è capace di  scorgere, con una visione della realtà del tutto personale e  con un incommensurabile atto d’amore verso la vita, l’UOMO attraverso DIO e DIO attraverso l’UOMO.

L’opera incisa su legno “Voci tra cielo e terra”  che apre la personale, carica di forza espressiva, nasce da un incontro e da uno scatto fotografico che è stato consegnato all’artista da chi condivide i suoi stessi sentimenti di purezza e autenticità.

Un amorevole scatto alla montagna, la Civita o testa del gigante, situata a ridosso di Duronia, un grazioso Comune  Molisano di origine romana. Immersa in una folta vegetazione, radicata e adagiata  sulla terra che rivolge il suo imponente sguardo al cielo,  oggi, la Civita è anche un’opera d’arte che si mostra al mondo avviluppata in nuove vibrazioni e inattese energie, in tratteggi e segni divenuti  paesaggio di fogliame, rami e tronchi, immersa in  fiduciosi orizzonti terreni e spirituali.

L’opera è anima e corpo, testimone di passi umani che hanno solcato i suoi profili che  hanno narrato di cadute e di rialzate in una religiosità del cammino che appartiene all’uomo.  E il saggio ulivo, proteso in un abbracciofisico protettivo e ombreggiato e spirituale, accogliendo nel fogliame la colomba e  l’angelo, simbolo di pacificazione di Dio con l’uomo, il primo, e messaggero del cielo, il secondo, sembra tendere un invito, anzi un grido: “gli uomini girano in tondo in quella gabbia che è il pianeta, perché hanno dimenticato che si può guardare il cielo” (su un pensiero  del drammaturgo e saggista francese Eugène Ionesco).

Come è nostra consuetudine, durante la serata del vernissage faremo insieme agli spettatori un viaggio sentimentale lungo il percorso espositivo, una sorta di passeggiata intima per viver due momenti unici che si intrecciano tra loro.

 

Si comincia dalla Navata della Chiesa

Saranno ospitate  16 Tavole-Stazioni  pirografate  per “narrare” il percorso biblico e poetico della Via Crucis che conterranno un titolo e un sottotitolo, -un momento di riflessione dell’artista, traendo ispirazione dalle poetiche dell’autore Nico Mauro-, per continuare con quello  della Maternità quando si  giungerà nello spazio della Sagrestia.

Le opere dedicate alla Via Crucis, si possono anche apprezzare in un volume dove sono state impaginate tra le pieghe della fortunata e prestigiosa  raccolta poetica:

LA POLVERE E L’ACQUA di Nico Mauro pubblicata nella scorsa primavera, per le edizioni L’Officina delle Parole.

Darà il benvenuto allo spettatore l’opera che dà il titolo alla personale: Voci tra cielo e terra.  Seguirà Getsemani vegliate su di me,  opera superba e straordinariamente commovente. La radura pirografata si trova realmente nella campagna salentina e ancora una volta, l’artista, ha saputo sapientemente cogliere le peculiarità dell’orto degli ulivi dove Gesù prima di essere catturato, vi sostò per pregare e accomiatarsi dai discepoli.

Si continua  con Gesù dinanzi a Pilato è condannato a morte per poi seguire il maestro lungo la Via quando È caricato sulla Croce, durante le 3 cadute , nell’incontro con Maria, con la Veronica che gli asciuga il volto, con Simone Da Cirene che prese la Croce, con l’incontro con le donne e nelle ultime fasi con la Crocifissione, Morte e Sepoltura, quando scompare la morte…che fa buia la luceper concludersi con la Resurrezione. 

Le opere pirografate rivelano testi organizzati e pensati, nulla è casuale, perché il significato è già scritto sugli ulivi: gli orizzonti svaniscono, i tronchi contorti, aggrovigliati e ripiegati in uno sforzo immane, a volte, apparentemente secchi, nonostante la loro robustezza, sembrano che stiano per spaccarsi e cedere di fronte a tanto dolore, ma sempre intravediamo la speranza, sia quando il Cristo rivolge le braccia al cielo, quasi a volerlo toccare, sia quando incontra la dolente Maria e i seguaci che non lo hanno mai abbandonato.

La Via Crucis, nel corso dei secoli, vanta un’ampia produzione artistica, come risultante di un ricco proliferare di opere differenti tra produzioni compositive stilistiche e iconografiche, affreschi, incisioni in rame, acqueforti, litografie, calcografie, formelle con diversi materiali, sculture e pitture ad opera di grandi artisti come lo stesso Raffaello, Botticelli, Dϋrer o Antonello da Messina o il Beato Angelico, solo per fare delle citazioni.

Ma se volgiamo uno sguardo all’arte moderna e contemporanea, pochi artisti hanno la capacità di rappresentare questi “millenari” nella loro interezza, pochi sanno catturare le architetture reali o immaginate per esprimere quei valori culturali, sociali e spirituali del nostro tempo come sa fare questa maestra del pirografo, suggerendo opere vive e pulsanti che possiedono una esaltante forza creativa, segno per segno, con quella capacità di condurci, ogni volta, per quellastrada colma di pathos e di bellezza.

 

Intanto il nostro viaggio continua nella Sagrestia

Incontreremo, nel composito allestimento, 14  pirografie  dedicate alla Maternità, per segnare quel rapporto  unico e irripetibile che esiste tra una  Madre e il proprio figlio, allacciandosi e  riannodandosi in un  dialogo continuo con il  percorso della via lungo la croce iniziatonella Navata e dalla quale ne trae la profonda essenza.

Qui ci darà  il benvenuto la scultura Il mio mondo, opera unica e irripetibile.  L’artista  Silvana Bissoli sembra abbia toccato la perfezione:è una scultura sferica in movimento, levigata, che ci suggerisce morbidezza con un esplicito  invito ad abbracciarla, nonostante palesi siano le incertezze, con i suoi solchi e crepe che traducono  gli errori, la fatica del pirografo sul duro legno, come, d’altronde,  lo è la nostra stessa esistenza!

Da qui comincia il viaggio di quel legame unico tra madre e figlio dove si narrano sentimenti antichi  e attualiche riguardano la nostra esistenza terrena che dovrebbero sostenerci e arricchirci per permetterci di giungere a quella compiutezza spirituale cui l’uomo anela.

Incontreremo la Grande Madre, un ulivo dalla folta e protettiva  chioma, proponendosi  come in un rassicurante abbraccio  e una panchina sulla quale poter sostare. Maternità e Amore Materno: questa madre che tutto dona ripiegata su se stessa pronta a proteggere il figlio dal mondo! E quell’amore incommensurabile verso il figlio che non cambia lungo gli anni. Nello stesso tempo la chioma morbida e fluttuante ci indica la fiducia che dobbiamo riporre negli affetti che il mondo può regalarci!

Haec Ornamenta Mea” Ecco i miei gioielli: l’opera fa riferimento a Cornelia, la Madre dei Gracchi  che osava mostrare i figli come gioielli, termine di paragone con i monili che  ostentavano le matrone romane. Un messaggio che ha attraversato secoli, per giungere nella contemporaneità ancora immutato.

Discendenza: quanto si fa, quanto si dà a un figlio perché possa avere forza e coraggio per affrontare il mondo e quanto, a volte, è difficile incoraggiarlo ad andare  per il mondo facendogli comprendere che le radici sono dentro di lui!

Passo dopo passo: quanto è periglioso e faticoso il cammino di questa madre che dovrà aiutare il figlio ad abbandonare la casa e consegnarlo al mondo!

Un abbraccio universale tra terra cielo lo ritroviamo in  Dalle radici al sole… passando dalla luna: i tronchi sembrano danzare la danza del sole e della luna legati, ma ben distinti. Un germoglio affiora, un orizzonte delicato appena tratteggiato, ma ben visibile come a voler dare delle indicazioni. Ella ci dice che è nella radice che risiede il bene e il male e, come tutti noi, da sola dovrà varcare  il cielo tra realtà e simboli insieme a quegli elementi di cui siamo figli e che abbiamo il dovere di custodire. Quanta vita, quante ore vissute insieme e quante speranze pone una madre nei propri virgulti che le crescono accanto.

Forza della natura: sempre fino agli ultimi respiri resta retto ad affrontare le vicissitudini della vita confidando proprio nella natura e quanto rispetto occorre portarle senza prevaricarla!

 Preghiera dell’ulivo amico: quando non riusciamo più a trovare salvezza nell’umanità allora la nostra invocazione e sostegno si rivolge alla forza divina,  affinché l’uomo possa ritrovarela propria umanità.

 

Incontriamo sentimenti e momenti gioiosi e la speranza che la vita ci dona in Per raggiungerti: è consolante sostare accanto a questi ulivi. Perchè? Semplicemente perché è evidente che qui la mano amica dell’uomo ha lasciato il suo segno!

 “Quello che gli ulivi ci dicono”  è una istallazione,un’opera che acquista nuove spazialità, proponendosi in movimento. È un trittico, un parallelepipedo in verticale  pirografato su legno composto da 3 tavole poggiate su un basamento di pietra leccese.  È un unico Ulivo, visto da prospettive diverse che narra dell’amicizia attorno alla quale lo spettatore può girare intorno incontrando l’Abbraccio e il Calore, “perchè è necessario avere qualcuno su cui contare a piene mani”, come afferma la stessa artista.

Alla fine del percorso le opere infondono e sottolineano  aneliti spirituali di Bellezza: il fine e il principio dell’Arte. Così quando l’Arte, nell’intricato mondo incrocia quello della nostra vita, diventa necessariamente Voce pronta a narrarci, attraverso il pirografo condotto abilmente dalla mano dell’artista, di nuove e speranzose alleanze. Confidando che sia di buon auspicio essere consapevoli di  quanto l’arte e la vita si avvolgano in un continuo e inesauribile  srotolare e avviluppare, senza mai lasciarsi. Tenendo sempre fede a quel consapevole pudore che l’Arte come la Stella Cometa indica il cammino ma non stabilisce la meta!”

Oggi l’artista Silvana Bissoli vanta tante personali e collettive organizzate da Enti e istituzioni allestite in prestigiosi  luoghi storici, partecipa a concorsi e manifestazioni pubbliche, organizza laboratori nelle Scuole. Tanti i riconoscimenti e i successi di pubblico e di critica. Opera attivamente nel suo laboratorio “l’ulivo la luna”, a Imola, dove ha le proprie opere in permanenza.

 

*critico d’arte

 

 

GALATINA Chiesa dei Battenti

Orari mostra: tutti i giorni 10:00-13:00/18:00-22:00

Info: 339.7612304 bissosil@tin.it-Fb

 

Gli ulivi nelle pirografie di Silvana Bissoli

Silvana Bissoli

Gli ulivi nelle pirografie di Silvana Bissoli, Chiesa dei Battenti, Galatina 20 giugno-8 luglio

di Paolo Rausa

 

Le pirografie di Silvana Bissoli, una tecnica artistica che imprime con il fuoco,  ritraggono gli ulivi della terra sallentina, la Messapia, ‘tanti mari, porti, e il suo grembo aperto da ogni lato al commercio dei popoli e lei stessa che, come per aiutare gli uomini, si slancia ardentemente verso i mari’. Così scriveva Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia.

Che cosa resta di quella idea e di questa terra nell’immaginario collettivo dei suoi abitanti e dei tanti amanti che da ogni parte del mondo e dell’Italia hanno stabilito un legame che va oltre le apparenze e si nutre di visioni? Quelle stesse che impressionarono i primi uomini che la frequentarono nelle Grotte dei Cervi di Porto Badisco, sulla litoranea a sud di Otranto, accanto alla torre di S. Emiliano, un baluardo che si erge sul promontorio di rocce che guardano a Oriente come per rispondere a ventilate minacce. Quali? Quelle dei turchi o quelle che giungono dal nostro seno?

Dai piani sillettiani di abbattimento degli ulivi che ne hanno viste tante in questa terra, una vera e propria ‘Via Crucis’, ritratta in queste straordinarie pirografie dalla veronese di origine e imolese di adozione e cittadina del mondo e onoraria del Salento,  la viandante messaggera come ama definirsi. I suoi messaggi sono racchiusi nei tronchi contorti, espressione delle storie ambientali che si sono succedute qui, nel corso dei secoli, intrecciando quelle degli uomini, miti testimoni di travagli e di aspirazioni, ‘Voci tra Cielo e Terra’, ben piantati al suolo con radici millenarie che non ci pensano ad assoggettarsi alle macchine distruttrici che li minacciano di eradicazione, un termine astruso che vuol dire annientamento per rispondere colpo su colpo al batterio xilelliano.

Come Cristo gli ulivi hanno la loro verità da raccontare a noi che li ascoltiamo riverenti, anche quando i loro sogni sono trasfusi su tavole di legno incise con il fuoco sacro della passione, che ribadisce il diritto alla vita contro le logiche di morte, dei deserti che vengono chiamati pace.

Una chiesa, la cinquecentesca confraternita dei Battenti a Galatina,   riaperta per l’occasione della mostra, ospiterà dal 20 giugno all’8 luglio la personale di Silvana Bissoli,  30 pirografie che ritraggono la nostra anima circonfusa con quella degli ulivi e la loro con la nostra. Un viaggio sentimentale tra le opere dell’artista, curato dalla critica d’arte Pompea Vergaro.

Durante la serata di inaugurazione e nei giorni successivi si alterneranno letture di poesie e canzoni della nostra tradizione culturale, a seguire la voce di Lucia Minutello e la musica del menestrello P40 il 26 giugno, la presentazione dell’opera poetica di Nico Mauro  ‘La polvere e l’acqua, parole lungo la via della croce’ il 3 luglio. ‘Egli vedeva il Calvario/… morbida stola ai piedi di sua madre divina’.

Con Alda Merini, Poema della Croce, può iniziare questo viaggio all’interno dell’arte di Silvana Bissoli, che racconta storie che sanno di noi.

 

Galatina (Le), Chiesa dei Battenti, Orari mostra: tutti i giorni 10:00-13:00/18:00-22:00, Info: 339.7612304, bissosil@tin.it-Fb.

Invito Galatina  ok 10 giugno 20151

La mutilazione dell’ulivo

ULIVO A MATITA

di Maria Grazia Presicce

 

Urlavano i rami le foglie, urlava la terra, urlava tutto il creato ma chi mozzava non sentiva. Troncava troncava con fare frenetico e il fragore assordante della sega, che affondava bramosa i suoi denti nei tronchi, copriva urla e lamenti.

E le zanne taglienti s’accanivano irruenti e incoscienti squarciavano.

Accaniti e solerti i potatori affondavano le lame tra fronde e rami che, inermi ed inerti, come colombe colpite da un botto cadevano giù.

Dissanguati, i tralci frondosi giacevano l’uno sull’altro: ultimo abbraccio dopo una vita insieme vissuta.

E amputava la sega tra la danza dei potatori sui rami, incuranti del fruscio dei caduti, della preghiera che da ogni ramo trafitto si levava!

Ad ogni squarcio la ferita si dilatava, fino a mostrarsi candida e tonda a quel cielo che la sfiorava e capiva lo strazio.

Nudo dolorante e silente piangeva il moncone mostrando lo stremo l’affanno lo scempio.

Trasudava la linfa sulla ferita e gemeva l’ulivo raccolto nella sua pena.

Dov’era quell’uomo che tanto aveva amato i suoi pregi e lo aveva rispettato onorato difeso nel tempo? Dov’era quell’umano che ne aveva curato ogni squarcio, adorato ogni fuscello ogni foglia fino a farne segno di pace e d’amore? No, non era più degno l’uomo dei suoi favori, dei suoi valori, dei suoi doni preziosi.

Monchi e spogli i rami gridavano al cielo tutto lo spasimo il livore e condannavano chi li aveva troncati in quel barbaro modo. Stille lucenti, tacite colavano sulla rossa terra straziata e l’intera natura avvertiva e accoglieva lo stremo. Era svenata stremata vinta la sua dolce portentosa creatura e nemmeno madre natura riusciva a colmarne il tormento.

Seguitavano, i monconi recisi, a supplicare il cielo le nuvole il sole il vento, li pregavano di trattenere la corsa e asciugare e le ferite lenire. All’imbrunire, sgomento, il tronco spogliato, chiese  perdono agli uccelli che, senza rifugio, scappavano mesti cercando altrove riparo. Allorquando la notte scurì col suo manto il creato e la luna e le stelle le ombre schiarirono, pietà chiese l’ulivo per la sua indegna nudità, per la mancanza del sontuoso vestito. Si sentiva Sansone senza capelli, nudo, senza forza e voleva coprirsi o forse divenire fantasma pur di non rivelarsi mostro moderno fatto di artigli.

Purtroppo, l’uomo evoluto ha dimenticato che, come Sansone, l’ulivo ha nella sua chioma argentea la forza e ne amputa d’impeto gli arti, stremandolo deturpandolo. Così agendo lo avvilisce, lo evira senza coscienza, per solo tornaconto economico, scordando che l’ulivo è essere attivo e vitale e vive e dà vita fino a quando viene rispettato ed amato.

Non c’è amore nel mutilare. Un affetto non si monca, si coltiva, si nutre e non si svena. Semplicemente si ama.

Secoli tra gli ulivi

Da “Secoli tra gli ulivi”, il capolavoro di Fernando Manno:

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L’orizzonte
Da secoli, da millenni forse, i salentini ordinano pietre in città, ordinano pietre in campagna. E ne hanno fatto i due volti della loro terra, quello splendido e fulvo della città e quello faticato e paziente delle campagne. Sotto l’inganno fastoso della natura e della luce mediterranea, cova la pena e la fatica delle terre dure ed amare, quelle a cui ci si lega con acerbo amore e furore caparbio.
I globi opalini dei peschi già in fiore in inverno, la mareggiata degli uliveti fra l’Adriatico e lo Jonio, i vigneti che anche in autunno, quando arrugginiscono e si mummificano, danno un sentore di lietezza residua, sono la gran fiaba paesistica, l’illusione ottica d’una terra aspra e nodosa. È un’asprezza di vene, di nocche, di grumi di sassi da ossario geologico. L’aratro li deve aggirare, la zappa, se vi piomba su, si sdenta in uno sciame di scintille.

particolare del muro sul lato sud
Da generazioni e generazioni, i contadini con antica pazienza e antica stizza rastrellano questa maledizione di sassi, uno ad uno, ordinandoli in quelle muricce campestri che chiudono poderi, giardini, campi come in una rete di cortili per alberi. Fantasia e necessità. È una tristezza di geometrie. E le hanno utilizzate, anche, le pietre, per farsi queste capanne nuragiche, sepolte sotto gli uliveti per ricovero, nelle notti, a guardia contro ladruncoli e caprai, i nemici della terra, questi, gli oppositori secolari dell’istinto di possesso dei contadini. Ora, in tempi di latte industriale e di occaso delle greggi caprine, sono nuraghi che vanno diroccandosi, resti di vita e di costumi spenti per consumazione.
E fra muricce sono costrette e impedite le strade campestri, scavate nei boli rossi come ferite sanguigne. E le strade maestre anche hanno una confidenza agreste. Erano una volta bianche di polvere e foruncolose di brecciame, oggi sono nere di asfalto e nel cavo della pianura corrono verso l’infinito, anche se non per incontrare le Muse come quelle di Ercole d’Este, ma diano un senso di malinconia, di non so che perdentesi e indefinito.
Ma le città, le borgate, i casolari sono biondi, il colore del tempo nel Salento, il colore del suo letto di calcare che è grasso e madido appena scoperchiato da un’epidermide terrosa e si fa caldo e placido sotto i secoli. Le cave di pietra non tagliano monti. Il Salento è un piano fiordo sotto il sole. Il suo fondo sa ancora di mare recente, chiude una salsedine morta, un sepolcro di fossili marini e conchiglie che lo scolaro che ha marinato la scuola facilmente cava col temperino. Infatti il temperino fece parte dell’attrezzatura più seriosa e indaffarata della nostra infanzia.

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Il nostro dialetto non ha parole per esprimere concetti eccessivi, estremi. È il dialetto d’una gente di fatica paziente e d’esperienza concreta e bonaria. E nemmeno per il durissimo lavoro d’estrarre la pietra dalle cave usa parole grosse: le chiama tagghiate. Non so se sia discrezione o rassegnazione alla fatica, senza drammatizzazione. Dice tagliare la pietra che tagliare, docilmente, si fa.
Appena fuori Lecce, già qualche strada rabbrividisce fra voragini immense, accecanti di giallore bianchiccio: le tagghiate. Da Brindisi a Leuca, da Gallipoli a Otranto o a Taranto, spesso t’imbatti in queste miniere della povertà geologica che dà ai salentini da sempre solo pietre per costruire. Possono alla fantasia servire da surrogati di voragini lunari, di giogaje di vuoto che ci diano un po’ l’illusione e la vanità di avere nel nostro paesaggio emozioni intense.
È una storia di pietre fissata da quando comincia. Fra Ennio e Capitano Black non ricca è la nostra anagrafe poetica. Le pietre vanno più oltre. Cominciano coi dolmen, coi menhir, con le specchie, monumenti d’un passato opinabile e corrusco, che segnano la terra e il paesaggio come i segnalibri alle pagine di illustrazioni favolose. La sterpaglia malarica del litorale adriatico che ora cede la sua angoscia antica e aspra alla povera tristezza di pinete impossibili e rachitiche, invase e rose ab antiquo i segni megalitici dei Messapi e li ridusse a tracce di ruderi cancrenosi. Muore, su quelle plaghe marine di pesce gustoso, dove l’impennata scogliosa dell’ultimo Salento adriatico si sgonfia in un livido arenile, il paesaggio d’Italia.

Dolmen Caroppo I e II
Dolmen Caroppo I e II (ph Oreste Caroppo)

C’era ancora posto per un romanticismo da butteri. Ma la cancellazione della malaria e dei pascoli e l’offerta dei proprietari di quelle terre infeconde per suolo edificatorio fanno dilagare le borgate marine, una specie d’urbanesimo vernacolo rivierasco, fortunatamente in gaio disordine paesano, che conservi un senso agrario e piscatorio.
Poi vengono le grandi epoche certe e il Romanico, il Rinascimentale, il Barocco, il Rococò nostri, inconfondibili, per tanti lati indivisibili. Il nostro barocco è la bibbia del nostro sentire, la indigena visione del mondo. È parte del paesaggio, come l’Orlando Furioso può esserlo del paesaggio fisico e umano del Rinascimento.
Il Salento è di senso orizzontale. Il paesaggio, la architettura arborea come la spirituale si dispiegano per spazi, per superfici. O per nembi, come gli uliveti. Non ci sono alberi di senso acuto: un platano, un pioppo, un cipresso, un’araucaria sono ospiti vegetali, capricci esotici. Eppoi, sentono di acqua, d’umido di proda fluviale, sconosciuto da noi. Il cipresso i salentini lo evitano come albero mesto, perché in noi anche la malinconia è volume grosso, viluppo di lunghi, perduti itinerari, sino al lievito della paura.

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Il campanile di Lecce, quello di Soleto bucano l’aria, come se appendano il Salento al cielo. Ma la pianura resta orizzontale, schiacciata, con le terrazze mozze e quadrate delle case, le borgate che irradiano satelliti di casolari, giardini, masserie. Borgate linde, bagnate di pioggia o di luce, con le icone ai cantoni sempre onorate d’un mazzo di fiori campestri o di gerani, con le vie rarefatte nelle ore di lavoro. La guardia municipale gira per le strade paziente ai quesiti, alle rimostranze e spesso alla fraseologia d’oltraggio degli amministrati. Consiglia, tollera, rimprovera, ammicca. Una polizia da parentado generale. Un unico campanile tenta d’alzarsi al cielo, e sono, per lo più, campanili falliti che aspettano da decenni o da secoli confraternite e fondi per il coronamento cuspidale. In generale si son rassegnati allo scorno di quella specie d’eterno provvisorio. Ma non importa. I mediterranei, i rivieraschi tutti del Mediterraneo, non sentono l’ascensionale. Persino i saluti, da noi, non salgono mai dal basso in alto o scendono dall’alto in basso. Ci si scambia un saluto augurale e festoso, poco interrogativo, affettuosamente esclamativo: salute! oppure uèhhh!. È bonario e familiare anche quando è pieno di «distanza».

campagna salentina (ph Fondazione TdO)
campagna salentina (ph Fondazione TdO)

La lindura campagnola delle borgate, la forza civile di questa cordialità panica, la concretezza poetica del linguaggio che prende dalla natura bellezza ed efficacia d’espressioni, è un tutto nell’intima compostezza ed eleganza del paesaggio salentino – fatti panoramici e fatti spirituali – che l’ospite stranio deve scoprire anche quando esso esplode in vegetazioni dionisiache o si strema in lunghi sfibramenti di soste.
Ed anche il paesaggio, come gli uomini la domenica, se mmuta, mette il vestito festivo, addobba la sua flora utilitaria e fruttifera, di monili inutili, lussuosi: le ville.
Chi pensa più oggi a farsi una villa? Ma molte ne fecero i nostri nonni, specie fra gli ultimi Borboni e l’epoca umbertina. Le incastonarono fra vigneti e uliveti come sigilli gentilizi. Le più belle nel Capo. Esprimevano un gusto di uomini d’antica cultura, educati al vecchio liceo classico, censo raffinato, senatoriale. Spesso dal fondo della dotta provincia teneva scambi e contatti con Napoli, la Corte. Ne riportava novità e certo stile. Poi, con l’unità, trasferì cultura e censo al Regno d’Italia.
Molte di queste ville sono ormai in disarmo, blasoni paesistici d’un’anagrafe terriera costretta da guerre e crisi e pestaggio del fisco a più oculati concetti amministrativi.

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La villa è un sentimento dei salentini. Esprime il desiderio d’una natura più ordinata e pacata dentro la vivacità della spontanea. Dai grandi esemplari, la villa discende infatti ai piccoli e modesti e ha dato alla terra quella coloritura piccolo-borghese, di stampo antico, di possesso e chiusura che le resta indelebile. Il «cittadino» dal bilancio familiare di piccolo cabotaggio, riuscito a covare con decenni di cocciuto risparmio un gruzzoletto, l’impiegato benestante in pensione, il massaro danaroso coi figli alle scuole medie e le figlie grandicelle che hanno amici «civili», comprato un poderuccio, un casolare, vi inventavano «la villa»: due oleandri, due gaggie, la scanzonata audacia di due cipressi magari, due alberi che facessero purchessia decorativo ce li piantavano, ai lati d’un ingresso volenterosamente allungato in «viale», ed era «la villa». E con essa il week end avant la lettre, o il riposo per la vecchiaia o il segno ostentato che la famiglia rompeva l’embrione sociale iniziale per cominciare la scalata al più alto, verso la borghesia.
Spesso «la villa» era questo grado della crescenza sociale. E con la villa c’era – c’è ancora, dove gli inizi sono socialmente ab imo e economicamente robusti, – il figlio prete, la cravatta la domenica, l’inutile scrivania in casa fra gli attrezzi di lavoro, il gatto di porcellana di Lucca accanto alle forbici da potatura e una sfumatura di maggior confidenza nel tratto coi «signori». Ora questi risparmi, questi sintomi, questi gradi trovano altri alvei: la macchina, la televisione, il buon sarto, il turismo. La villa minima era la stasi, il segno della fissazione radicata al paese natale, da consegnare con la piccola fortuna agli eredi.
Macchina, televisione, turismo, sono il segno nuovo degli avventi sociali: il moto, l’indistinto e l’ansioso. E il rumore, uno dei segni perentori e appassionati della ricchezza moderna. Radio a tutto volume, scappamento aperto, senso di potere al rimbombo ritmato delle rotaie sulle traversine! Sarà l’acquisto del gusto del silenzio che segnerà la completa maturazione di queste leve moderne della borghesia.
Fama e gloria nordica, di terre dionisiache godono le nostre. E certo la menzogna climatica la favorisce.

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Mite per freddo e geli è l’inverno, ma madido, d’una umidità spugnosa, imperlato di cupi scirocchi e di ponenti malvagi. L’estate muore in un autunno lucente, allibito, sotto un sole che di rame s’è fatto d’argento. I boli assetati e pulvurulenti dall’arsura estiva s’addolciscono e si tumefano sotto le prime piogge settembrine e il soffio del simun che ha galleggiato dall’Africa sin quassù. Per campi e tratturi gli asfodeli, gli asfodeli dell’Ade, mummificano gli steli in una plumbea secchezza. Proserpina ritorna a Plutone. Il mito riconferma eternamente la sua concretezza d’intuizione. La luce sfibrata gestisce, coi primi presentimenti autunnali, le solitudini invernali. Poi precoce, gratamente anacroniscita, già a febbraio la primavera, l’esplodere fiorito dei primi alberi. E in aprile l’odore del trifoglio, il tremolare dei grani adolescenti, il trillo di miriadi di papaveri. Le gemme tenere sugli alberi hanno un’acerbità carnale. Paesi, borghi asciugati dal sole, brillano d’un luccichio minerale, brunito, lo stesso delle ariste nelle messi estive.
A un tiro di voce, di qua e di là, il mare, che non ha niente di immaginoso e romantico, un mare casalingo e mangereccio, un mare da gite e da scorpacciate di pesce. Non un grande porto che dia l’ansito delle genti, del traffico, lo spiraglio oceanico. È un mare intimo, senza echi affaristici ed esotici. Un azzurro cortile del Tallone per divertircisi, fare i bagni, buono al massimo per fantasticarvi mirando un po’ lontano. Non è un mare da Colombo o da Butterfly.

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Da Taranto a Brindisi se ne va pigro a giocare con gli arenili dello Jonio, a mordicchiare le scogliere dell’otrantino, a ristagnare in spiagge meschine. Le vecchie torri di scolta sveve, angioine, aragonesi lo guardano decrepite. Gli danno un orlo di pathos, di storia consumata. Si freme ancora della pagina eroica e tragica dei Turchi a Otranto. Ma non più flotte turche e navi pirate saracene può scorgere la sentinella di scolta. Vigili sono solo ora i finanzieri a caccia di pescatori di frodo. Il resto è antico, lontano.
Un sepolcro di memorie è quella pianura azzurra ove s’affacciano le strade asfittiche di Otranto, di contro al cammeo bruno degli Acrocerauni oltre il canale. Il mare salentino orla di tristezza serica quella rude della terra che stringe.”

 

 

 

Il popolo degli ulivi in festa a Veglie, musiche danze confronti buon cibo e vino

Festa al presidio di Veglie

di Paolo Rausa

 

I miei riferimenti spazio-temporali, storico-artistici, ora hanno lasciato il tempo ad un altro elemento di orientamento: le mappe dove gli untori hanno lasciato il segno della sfida. Una croce rossa, una x, il simbolo della xylella, come la discesa di Carlo VIII in Italia. Solo che qui rischiano sul serio gli ulivi patriarcali. Ovviamente non sono tanto vecchi come quelli dell’Orto di Getsemani, luogo in cui si manifestò il tradimento di Giuda  – tutto ritorna negli avvenimenti umani e divini! – ma questi ricordano l’alleanza dei messapi contro gli spartani di Taras, quando riuscirono a respingere l’invasore e a riconquistare la propria terra.

Motivi storici e nostalgici, che ben si possono riferire alla situazione attuale in cui versa il Salento. Incontro volti noti al presidio, dove ormai ci arrivo ad occhi chiusi. Qui è il mio cuore. La cronaca scorre via come se fosse dettata da dentro. Alessandro va in giro a farsi rilasciare interviste, punti di vista sulle prospettive e sulle speranze di questa lotta che da qui non si muove. E’ in questa contrada nelle campagne di Veglie, Sferracavalli, che il popolo degli ulivi ha posto il suo quartiere generale, il suo avamposto, luogo da cui il nemico-avversario teme possa essere ‘scatenato l’inferno’. Solo che qui di armi non se ne vedono!

E’ strana questa guerra che ti accoglie con i ritmi scatenati di Sergio, filosofo e chitarrista di fama, il pensiero che trova modo di esprimersi sulle corde di uno strumento musicale: folle e geniale insieme. Tania recita una sua poesia sull’oliva, tenta così di strappare l’attenzione alla melodia. Tende, gazebi, un teepe indiano  come a ricongiungersi a quella vicenda dei pellerossa, alla lettera che Capriolo Zoppo nel 1854 scrisse al presidente degli Stati Uniti, Roosevelt Pierce, per rispondere alla richiesta di comprare la loro terra: ‘Tu, Grande Padre che stai a Washington, vuoi compare la terra, il cielo e l’aria ma questi non appartengono a noi ma tutti gli esseri viventi…’. Chissà se la capiranno questa lezione il Commissario Silletti, che a nome del governo conduce le giubbe blu, e tutti gli altri, politici e scienziati.

E poi  tavole improvvisate imbandite di ogni ben di Dio, frutto della terra salentina e preparato dalle mani d’oro delle nostre donne. Oronzo, il più anziano, è pronto con un bicchiere di rosato, poi intravedo Giovanna, che è scesa finalmente dall’albero ma il suo ruolo non è meno importante perché si sincera affannosamente se tutto scorre bene. E poi tanti giovani, bambini che si fanno coinvolgere e poi travolgere dal ritmo della pizzica, che un gruppo intona sotto un albero di ulivo segnato da morte certa ma che per oggi vive.

Una festa, il modo migliore per rispondere ai piani di eradicazione. ‘Non siamo un popolo da colonizzare. Risponderemo colpo su colpo! – enfatizza Mimmo. Di fronte ai balli e ai canti si comprende come dalle lotte stia nascendo un nuovo Salento, consapevole della propria coscienza e deciso a difendere la propria terra e gli ulivi che ne sono espressione, la più antica, la più sacra.

 

Se gli ulivi del Salento saranno capaci di sopravvivere è colpa loro

ph Donato Santoro
ph Donato Santoro

di Pino de Luca

Non li conoscono in tanti, ma se gli ulivi del Salento saranno capaci di sopravvivere è colpa loro. Li segnalo a tutti quelli che immaginano il Salento come una terra priva di alberi, una sorta di savana desolata sulla quale far passare tubi, installare pannelli, centrali a biomasse, cave di rifiuti e edificare parchi Disneyland fasulli con le comparse che ballano la pizzica e i vecchi rimbambiti che raccontano le storie di un tempo e quando c’erano gli ulivi ….
Se volete questo dovete abbattere questo nucleo di resistenti altrimenti non ce la farete mai. Questi combattono fino alla fine e si divertono pure!!!! (E noi con loro)

 

Xylella in Francia…

Ulivi vita millenaria da salvare - ''l'Ulivo urlatore'' - Salento, entroterra otrantino, ARCHIVIO FORUM AMBIENTE E SALUTE
Ulivi vita millenaria da salvare – ”l’Ulivo urlatore” – Salento, entroterra otrantino, ARCHIVIO FORUM AMBIENTE E SALUTE

di Pino de Luca

 

E dunque la Xylella è in Francia (e questo mi rende ancora meno felice). E’ lecito pensare che le “fasce di rispetto” sono pura idiozia? E’ lecito pensare che se non basta l’Oeano Atlantico ad isolare figuriamoci se possono farlo le eradicazioni selvagge? Su questa vicenda possiamo usare un po’ di buon senso? Almeno su questa … Anche se so bene che in molti stanno ridendo, come avvenne per il terremoto de l’Aquila …

Mentre a Lecce si discute sulla Xylella a Sagunto (Oria) si eradica


Il convegno di Lecce, Hotel Tizianodi Paolo Rausa

Un convegno organizzato domenica pomeriggio all’Hotel Tiziano di Lecce per rispondere al dilemma: ‘Xylella: sradicare o curare?’. Il focus, come lo chiama l’organizzatrice Federica de Benedetto di Forza Italia Puglia, ha lo scopo di far incontrare ricerca e politica per la difesa del territorio salentino. Perché come riassume lei nell’introduzione: ‘La buona politica non sa solo litigare, ma si pone come obiettivo il bene comune della propria terra’. Le intenzioni sono nobili e ne è prova il fatto che sono stati invitati ad esprimere pensiero e linee di azione gli scienziati che in questi due anni hanno seguito l’evolversi del disseccamento dell’ulivo e politici di entrambi gli schieramenti.

Si tratta di Donato Boscia dell’Istituto per la Protezione Sostenibile delle Piante, CNR di Bari, che illustra lo sviluppo della malattia che si è dilatata da un zona limitata fra Alezio e  Gallipoli – a macchia d’olio o di leopardo è una querelle, non l’unica, fra gli ambientalisti convenuti in massa e un altro professore della Università di Bari, Dipartimento di Scienze del suolo, della pianta e degli alimenti, Francesco Porcelli. Boscia viene chiamato in causa dopo il suo intervento per chiarire che non ha mai parlato di abbattimento di un milione di ulivi, ma di poche migliaia. Sono gli ambientalisti a contestare questa politica di terrorismo ambientale e vegetale nelle parole di Sergio Starace quando enfaticamente e solennemente dichiara: ‘Gli ulivi sono la nostra anima. Noi non permetteremo che sia toccata una sola foglia!’. Due mondi che diffidano, che non si comprendono, quello degli scienziati e degli ambientalisti, ed è un peccato perché è necessaria ‘una strategia unica e condivisa’, come implora Fabio Ingrosso della Copagri di Lecce.

Mentre i politici se la svignano. Lara Comi, vice presidente del PPE e membro della Commissione mercato interno, per prendere l’areo direzione Milano, preoccupata del fatto che il batterio potrebbe espandersi a nord, in Liguria o lungo il lago di Garda. Nel suo intervento pone l’accento sulla innovazione, la ricerca e l’educazione all’acquisto. E’ d’accordo sulla proposta di Gianni Cantele, Coldiretti Puglia, che snocciola i dati economici delle aziende pugliesi coinvolte, il danno presunto, e le richieste allo Stato di sostegno economico ed esenzione delle imposte, dopo la dichiarazione dello stato di calamità fitosanitaria.

Questo è il primo passo ma poi occorre muoversi: questo del fare è il monito che Paolo De Castro, ex ministro e membro della Commissione Agricoltura della Comunità Europea, continua a ripetere. Consapevole dei rischi sul territorio ma ancor più dei provvedimenti che si appresta a prendere la Commissione Europea nella prossima riunione del 27 aprile di messa in quarantena con tutto quello che ne può seguire.

Ovviamente depreca la decisione della Francia, inutile e dannosa per l’immagine della Puglia e del Salento nel mondo, e si augura che tutti concorrano con mezzi e azioni ad affrontare e risolvere questa situazione di sofferenza letale per gli ulivi.  Sostiene apertamente le ragioni degli scienziati e il peso diverso che hanno le loro parole rispetto ad un qualsiasi empirico sperimentatore. Accende la miccia e poi scappa anche lui. Non ascolta le decise contestazioni degli ambientalisti, contrapposti anche fisicamente, in una parte della sala, alle misure proposte da parte di Giuseppe Ciccarella dell’Università del Salento che introduce il concetto che la guerra – perché di guerra si tratta dice – si combatte con  nuove armi ed espone lo stato delle sue ricerche nel ricorso alle nanotecnologie.

Vito Savino del Dipartimento di Scienze del Suolo, delle Piante e degli Alimenti di Bari invoca tempestività nell’azione e  propone una serie di misure di prevenzione e di contenimento della diffusione del batterio, non si spiega come mai sull’esempio di altri paesi l’Europa non si sia ancora dotata di un centro di quarantena. Il dibattito che si scatena dopo le relazioni scientifiche rimarca ancora una volta la incomprensione fra questi due mondi, mentre l’ulivo muore e il commissario Siletti dà mano alle ruspe. Intanto Legambiente Puglia, Comitato spontaneo Voce dell’Ulivo, D.O.P. Terra d’Otranto (Consorzio di tutela dell’olio extra vergine di oliva) e Aprol Lecce indicono il 16 aprile in ogni comune il ‘Buone Pratiche Day’ per contenere il Co.Di.Ro. (Complesso del Disseccamento Rapido dell’Olivo).

Il vecchio Cavaliere della nostra terra

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La Puglia è piena di maestosi e meravigliosi alberi di ulivo, alcuni più che centenari, a volte hanno sembianze umane, animalesche, mostruose, sono distorti, contorti, uno diverso dall’altro ma tutti magicamente belli

Il vecchio Cavaliere della nostra terra

 

di Carmelo Colelli

Contorto, martoriato dal tempo, piegato e scavato dalle intemperie, rimani sempre un cantastorie della natura, professore di varie discipline.

Hai visto ai tuoi piedi donne e uomini, sei stato testimone dei loro amori e dei loro dolori, hai ascoltato le loro storie e le hai conservate nel tempo.

Come un vecchio, sei lì pronto a raccontare, pronto a trasmettere, a chi ti ascolta, la forza di guardare avanti.

Forte è la tua voglia di essere, sembra che ci dici:“mi sono piegato, mi sono contorto, ho perso parte della mia bellezza giovanile, ma voglio essere qui, voglio essere radicato a questa terra, qui ho visto l’amore che gli uomini mi hanno dato nel tempo.

Voi che siete i figli di quegli uomini, figli di questa terra, continuate ad amarmi.”

Come un guerriero hai dovuto lottare contro le forze della natura, ma come un Vecchio Cavaliere ci insegni ad amare la pace.

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In dialetto mesagnese.

Lu cavalieri ti la terra nostra

Sturtigghiatu, marturiatu ti lu tiempu, piegatu e scavatu ti li ntimperie, rumani sempri nu cantastorie ti la natura, profissori ti tanti materie.

A vistu alli pieti tua femmini e masculi, a statu testimogna di l’amori loru e ti li tuluri loru, a sintutu li storie loru e la stipati pi tantu tiempu.

Comu nu vecchiu, stai prontu cu cuenti, prontu cu dici a ci ti senti, uardamu sempri annanti!

Tieni tanta voglia cu stai dani e sembra ca ndi sta dici: “m’aggiù piegatu, e m’aggiù stuertu tuttu, agghiu persu parti ti la billezza mia ti quandu eru ggiovini, ma vogghiu stau qquani, vogghiu stau raticatu a sta terra, qquani addo agghiu vistu l’amori ca li cristiani mannu datu pi tantu tiempu.

E vui ca siti li fili ti quiddi cristiani, fili ti sta terra, vulitimi puru vui bbeni.

Comu a nnu guerrieru a luttato contru la forza ti la natura, ma comu nu Vecchiu Cavalieri ndi nsiegni ca ama amari la paci.

 

Quando le olive si raccoglievano con le mani

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di Carmelo Colelli

Al mattino, alle prime luci dell’alba, per le strade di Mesagne si vedevano già i carretti e le sciaraballe con sopra le donne che dovevano andare in campagna per la raccolta delle olive. Il carrettiere era seduto davanti, con in mano le redini, vestito con stivali, pantaloni di flanella pesante, un vecchio cappotto, il fazzoletto legato alla gola ed il cappello in testa, dietro di lui erano sedute le donne ed i bambini.

Le donne, anche loro avvolte in grandi mantelli di lana pesante o in scialli, fatti a mano, portavano il fazzoletto in testa annodato sotto il mento.

Quando arrivavano in campagna, una volta scese dal carretto, si toglievano il mantello o lo scialle ma il fazzoletto in testa lo tenevano per tutto il giorno, poggiavano le loro cose da una parte sotto un albero e si mettevano al lavoro.

Per raccogliere le olive, a quel tempo, bisognava che le donne si inginocchiassero per terra, dovevano muoversi come pecorelle, dalla parte più esterna dell’albero verso il tronco dell’ulivo, si disponevano a semicerchio una vicino all’altra e il paniere, in canna intrecciata, accanto ad ognuna di loro.

Le olive si raccoglievano da terra, con le mani, si faceva prima un bel mucchietto, poi prendendole con i palmi delle mani si mettevano nel paniere.

C’erano donne giovani, donne sposate e donne un po’ più anziane.

Sotto l’albero dell’olivo si raccontavano le loro storie, si consigliavano l’un l’altra, sempre con la testa china e le mani che raccoglievano le olive una ad una.

“Beh! Svuotiamo i panieri!” gridava la “fattora (la donna che comandava il gruppo), “questi panieri li dobbiamo riempire!, non li dovete portare vuoti e non li dovete portare semi pieni!. Dovete riempirli fino all’orlo, belli pieni pieni!”.

Così diceva la “fattora” quando vedeva che i panieri non erano pieni fino all’orlo o che non erano colmi oltre l’orlo.

Verso mezzogiorno, la “fattora” richiamava le donne e diceva: “Beh fermiamoci un po’ e mangiamo qualcosa”.

Le donne si avvicinavano al posto dove avevano lasciato i loro fagotti e le loro borse al mattino e prendevano quanto avevano portato da casa.

Di solito le cose da mangiare le tenevano in un tovagliolo di cotone, solitamente a quadri colorati, chiuso a mo di fagottino.

Portavano più o meno tutte un pezzo di pane fatto in casa. La mattina, presto tagliavano il pezzo del pane a coppetta, toglievano la mollica lo riempivano con ciò che era rimasto della cena della sera prima o ci mettevano un po’ di “gialletta” (semplice pietanza fatta con olio, pomodori gialli e peperoncini.) preparata calda- calda la mattina stessa, poi prendevano la mollica e richiudevano tutto.

Ci voleva più tempo a preparare quel pezzo di pane che a mangiarlo.

La voce della “fattora” si faceva sentire di nuovo: “Beh! andiamo che tra un po’ comincia ad imbrunire!”. Ed eccole si rimettevano ancora a testa bassa, inginocchiate per terra e raccoglievano olive fino a quando non cominciava a calare il buio.

“Beh! Svuotiamo i panieri.”

La “fattora” chiamava l’ultima volta, per sgomberare i panieri nel sacco, si chiudeva l’ultimo sacco della giornata, le donne si rivestivano con lo scialle o con il mantello e risalivano sul carretto.

Il carrettiere seduto al suo posto: un colpo di frustino ed il cavallo partiva. Quando arrivavano in paese ormai era buio.

 

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Quandu l’aulii si ccugghiunu cu lli mani

  La matina, ‘nppena ccuminzava a lucesciri, si vitiunu già pi li strati ti Misciagni li traenuri e li sciarabbai, carichi ti femmini ca erunu a sciiri fori a ccogghiri l’aulii.

Lu trainiere, ssittatu ‘nnanzi, cu li retini mmanu, vistutu cu li stuvali, li quazi ti flanella pisanti, ‘nu cappottu vecchiu, lu fazzuletto grandi ttaccato ‘ncanna e lu cappieddu ‘ncapu, cretu a iddu staunu ssittati li femmini e li vagnuni.

Li femmini, puru loro staunu mmucciati ‘ntra li fazzulittuni ti lana pisanti o ‘ntra li scialli, fatti a manu, purtaunu puru lu fazzuletto ‘ncapu ttaccato sotta a lu vangaliri.

Quandu rrivaunu fori, ca scindiunu ti sobbra a lu trainu, si llivaunu lu fazzulittoni o lu sciallu ma lu fazzulettu ti ‘ncapu si lu tiniunu pi tutto lu ggiurnu, ppuggiaunu tutti li rrobbi a ‘nna vanda sotta a n’arvulu e si mintiunu a fatiari.

Pi ccogghiri l’aulii, a cuddu tiempu, bisugnava cu si ‘nginucchiaunu ‘nterra, serana a moviri a picuredda, ti lu largo ‘nfinu alla rapa ti l’aulia, faciunu ‘nnu mienzu ciercu atturnu all’alvuru, una ti costi all’atra e lu panaru ti costi a ognuna ti loru.

L’aulii si ccugghiunu ti ‘nterra, cu li mani, si facia prima ‘nnu munticchiu, poi si pigghiaunu cu li to parmi ti li mani e si mintiunu tra lu panaro.

Staunu femmini giuvini, femmini maritati e femmini ‘nnu picca chiù vecchiareddi.

Sotta all’alvuri ti la’aulii si cuntaunu li fatti loru, si taunu cunsigli unu l’atra, sempri cu la capu sotta e li mani ca ccugghiunu aulii a una a una.

“Meh! Sgumbramu sti panari!”: critava la fattora. “Sti panari la ma anchiiri! No lli nnuciti vacanti! E no lli nnuciti sminzati! Facitili belli curmi curmi meh!”

Ccussì ticia la fattora quandu vitia ca li panari non erunu belli chini chini e curmi curmi.

Versu menzatia, la fattora tava voci e ticia: “Meh! lassamu ‘nu picca e mangiammindi ‘na cosa!”

Li femmini si ‘nvicinaunu addo erunu lassati li rrobbi la matina e pigghiaunu quddu ca s’erunu nnuttu ti casa.

Ti solito li cosi ca s’erana a magiari li tiniunu tra ‘nu sarviettu ti cuttone, ti solito li sarvietti erunu a quadri culurati. Purtaunu chiù o menu tutti ‘nu stuezzu ti pane fattu a casa.

La matina prestu, taghiaunu lu stuezzu ti lu pani a cuppitieddu, llivaunu la muddica e anchiunu lu stuezzu di pani cu cuddu ca era rimastu la sera prima o ‘nci mintiunu nu picca ti gialletta fatta cauta cauta la matina stessa, poi pigghiaunu la muddica e chiutiunu tuttu. Nci vulia chiussai tiempu cu lu priparunu cuddu stuezzu di pane ca cu ssì lu mangiunu.

La voci ti la fattora si facia sintiri n’atra vota : “Meh sciamu ca ‘ntra n’atru picca scuresce!” E loro si mintiunu n’atra vota cu la capo sotta, ‘nginucchiati ‘nterra e ccugghiunu aulii finu a quando no ccuminzava a calari lu scuro.

“Meh! Sgumbramu sti panari!!”

La fattora chiamava l’urtama vota, pi sgunbrare li panari ‘ntra lu saccu, si chiudia l’urtumo saccu ti la sciurnata, li femmini si sa vistiunu, cu lu sciallo o cu lu fazzulittone e ‘nchianaunu sobbra allu traino. Lu trainiere s’era già ssittato allu postu sua, nu cuerpu di scurriato e lu cavaddu partia. Quandu ‘rrivauno ‘ntra lu paesi oramai era scurutu.

 

30 di marzo 2015

Piazza S. Oronzo, Lecce

di Pino de Luca
Tre cortei negli ultimi giorni, uno a Roma, uno a Tunisi e uno a Lecce.
Un vecchio modo di testimoniare la propria presenza secondo alcuni dei “bravi giornalisti” che commentano ogni cosa smentendosi il giorno successivo.
Io credo che quando gli umani si mettono insieme per qualche ragione un barlume di luce si accende sempre. Perché noi umani, presi uno per volta, siamo meschini, vili, e inducono al ribrezzo. Ma l’umanità è una cosa immensa, in essa c’è l’essenza stessa di questi piccolo pianeta.
E allora il dovere di ciascuno è unire, connettere, usare il noi invece che l’io nella persuasione che “ciascuno di noi, da solo, non vale nulla” ma ciascuno di noi, migliorandosi, è importante per l’umano destino.
Comincia la settimana santa, metafora piena della nostra esistenza: si inneggia al Salvatore, poi lo si espone al pubblico ludibrio, si tradisce ed infine il popolo vota, sceglie la libertà di Barabba e manda a morte il Cristo. Crucifige. Ed anche il preferito tra i seguaci rinnega il maestro per ben tre volte. Miserrimo vigliacco.
Ma poi c’è la Resurrezione e tutti coloro che avevano contribuito, con l’azione o con l’inazione, con le parole o la viltà, alla fine di Gesù, ci fanno una magra figura.
Dedicato ai trombettieri del villaggio: insultate gloriose bandiere, svillaneggiate sentimenti nobili, per compiacere i potenti del momento. Ne ho visti di rabbiosi cani randagi diventare miserabili cani da lecco.
Ecco la differenza tra chi scrive cronaca e chi scrive storia: da una parte c’è chi combatte per raggiungere uno scopo e dall’altra chi combatte per dare un senso alla vita. Chi è stato a Roma, a Lecce, a Tunisi scriverà un piccolo capitolo di storia, e sarà degno di Resurrezione. Chi ha dileggiato Roma, Lecce e Tunisi farà, prima o poi, una magra figura.
Buon principio di settimana a chi è disposto al sacrificio per una idea, a chi non lo è il suggerimento di riflettere se sia scarsa l’idea o sia scarsa la persona.

P.S. Andreas Lubitz nascondeva i certificati medici per andare a lavorare. Un italiano non lo avrebbe fatto mai!!!!! A volte l’assenteismo è una scelta saggia.

In piazza a Lecce per difendere gli ulivi

Piazza S. Oronzo, Lecce

di Paolo Rausa


Come una processione compiuta da Cristo-Ulivo, l’Unto, simbolo quanto mai opportuno per rappresentare la via crucis degli ulivi salentini minacciati da lunedì prossimo di ‘eradicazione’, questa grande manifestazione di popolo per scongiurare la diffusione del contagio. La peste manzoniana fa un balzo di secoli per scendere dal ducato di Milano in questa terra estrema, la Messapia, fiorente quanto mai, granaio d’Italia. Intorno alle 15 la piazza comincia a riempirsi di gente, che risponde all’appello lanciato da intellettuali, artisti, musicisti, agronomi, contadini e ambientalisti. E’ una marea che la invade: migliaia di persone sono qui, giunti da ogni dove, dai luoghi dolenti, dove si combattono battaglie per l’ambiente come a Taranto, che ha saputo respingere il ricatto ambiente-lavoro. Non si è mai vista tanta gente in piazza S. Oronzo a Lecce per rivendicare la tutela del paesaggio salentino che ha nell’ulivo il suo simbolo di eccellenza e soprattutto di identificazione. Questi sono i due elementi che hanno contraddistinto gli interventi degli oratori che si sono succeduti per tutto il pomeriggio. Don Raffaele Bruno delle Diocesi di Lecce alterna parole italiane ed espressioni salentine, giura che gli ulivi non hanno bisogno di essere benedetti, che la loro condizione chiama in causa tutti – definiti popolo degli ulivi – perché si torni a pratiche agricole naturali, quelle che ci hanno tramandato i nostri nonni e che solo interessi estranei a questa terra hanno compromesso. Il riferimento è alle multinazionali del cibo, da molti interventi chiamate in causa per ribadire che ci sarà una decisa resistenza contro gli ogm, contro i pesticidi che si vogliono spargere a piene mani, anzi a pieni contenitori spruzzati dagli aerei sul territorio salentino avvelenando ogni forma di vita, anche quella umana. Antonia Battaglia di PeaceLink riporta il dibattito lacunoso in Comunità Europea trascinata dal piano regionale ad assumere posizioni di messa in quarantena e di annientamento degli ulivi che hanno rami disseccati. Ivano Gioffeda è il santone che in questi anni si è battuto generosamente contro le logiche di una ricerca limitata alla Università di Bari, finora incapace di definire le cause scientifiche di questo strano disseccamento. E’ pronto a ritornare con la sua azienda agricola a costituire dei laboratori in cui riprendere i saperi antichi e le vecchie pratiche che hanno definito questo paesaggio magnifico, ora esposto al rischio delle ruspe. Nandu Popu dei Sud Sound System canta il motivo delle ‘radici ca tieni’ e tutta la piazza lo segue, il suo è un lungo excursus nella storia della civiltà salentina che affonda al tempo della Magna Grecia e molto ha ancora da dire alla generazioni future. La musica tradizionale inneggia dal canto di Enza Pagliara e del suo coro, Mimo Cavallo segue le piazze e segna con il ritmo la contrarietà a progetti lesivi del territorio. Giuseppe Serravezza, medico della Litl, richiama la necessità di guardare nel piatto in cui si mangia, e sollecita tutti ad essere consapevoli, a ritornare finalmente sobri per evitare che ci si ritrovi del tutto privi di un territorio che è esposto ai colpi della sorte, intesa come interessi delle multinazionali che non hanno certo a cuore la salute dei cittadini. Il pensiero di Pino Aprile, scrittore meridionalista, riecheggia nella voce di Rosanna Quarta sulla necessità di costituire una rete che respinga questo attacco concentrico contro il meridione d’Italia, dalla Campania terra di fuochi, alla Basilicata terra di perforazioni, al Salento, terra di eradicazioni. Giovanni Carbotti di ‘Respira Taranto’ e Paolo Pisanelli, regista del film ‘Buongiorno Taranto’, invitano a proseguire nell’impegno di lotta all’appuntamento del 1° maggio nella città dell’ILVA. Un popolo, è nato un popolo quest’oggi in piazza S. Oronzo a Lecce che non lascerà eradicare nessun ulivo, perché un malato si cura e non si condanna a morte! E’ questo l’impegno assunto da tutti, dal fiume di interventi che si susseguono sul palco improvvisato, fra il Sedile e la statua del Santo, come per dare concretezza al lavoro agricolo e al turismo e sacralità alle parole e ai propositi assunti.

Poggiardo, 29/03/2015

Orazio e la moria degli ulivi

ph Mauro Minutello
ph Mauro Minutello

di Armando Polito

Est modus in rebus, sunt certi denique fines/ultra quos citraque nequit consistere rectum.

Sono due esametri di Orazio, il celebre poeta latino di più di duemila anni fa, come non sa chi, invece, leggendo e pronunciando Ora zio, crede di avere a che fare con il titolo di qualche commedia all’italiana, a compensazione, per la par condicio di Grazie, zia!, il film con Lisa Gastoni, che fece scandalo e furore nella mia verde età …

La traduzione in italiano dei versi orazioni è la seguente: C’è un limite nelle cose, ci sono, insomma, confini precisi al di là ed al di qua dei quali non può esistere il retto.

Dopo aver precisato, sempre per chi aveva letto Ora zio, che retto non sta per la parte finale dell’intestino, mi permetto di violentare il testo oraziano sostituendo rectum con vita e risparmiando, questa volta, la traduzione per l’esemplare di lettore (?) precedentemente indicato, anche se c’è sempre il rischio che egli, confondendo vita con Vita, si metta a terrorizzare pure con la citazione qualche ragazza con questo nome che lo ha respinto …

In realtà la violenza fatta ad Orazio è un pretesto per rendere ancora più attuali, se fosse possibile, le parole del poeta latino, alla luce dell’eclatante e per nulla esaltante (ma non per tutti …) fenomeno della moria dei nostri ulivi.

Senza girare attorno all’argomento, senza se e senza ma, senza bizantini distinguo, senza sofistici espedienti formali e concettuali, pronuncio il nome del colpevole corredandolo del suo bravo attributo, come si conviene nei resoconti di cronaca nera: non imprevedibile calamità o casuale incidente ma, più semplicemente, bieco profitto.

Profitto di per sé è una bella parola, perché ogni nostra azione, da quando siamo comparsi sul pianeta, è stata strumentale all’acquisizione di un vantaggio. Se l’uomo, provando e riprovando, non avesse scoperto che una scheggia di selce gli consentiva di squartare più facilmente gli animali catturati o … di eliminare un rivale, noi oggi troveremmo, se non tenessimo conto delle ere geologiche e dei loro sommovimenti, tutte le rocce del mondo inutilizzate ed esattamente com’erano milioni di anni fa.

Quel provare e riprovare ha consentito lo sviluppo della civiltà e del progresso nelle forme che conosciamo. Il nostro imperdonabile e, secondo me, esiziale errore è stato quello di pensare che tutto ciò fosse inarrestabile, tanto meno rallentabile e, comunque, controllabile, e che il metodo sostanzialmente di rapina delle risorse naturali fosse corretto e senza conseguenze immediate per la nostra vita  e, paradossalmente, per lo stesso progresso.

La stessa ricerca scientifica, che sul prova e riprova si basa, per volere del mercato e, dunque del profitto, ha subordinato il suo aspetto puro (la cosiddetta ricerca di base) al principio imperante del tutto e subito (la cosiddetta ricerca applicata) e, siccome bisogna recuperare con gli interessi quanto più presto è possibile le somme investite, sarebbe inimmaginabile per la legge del bieco profitto che qualsiasi prodotto (quello che volete: un conservante, un colorante, un diserbante …) venisse testato per un numero ragionevole di anni al fine di verificarne indesiderabili effetti collaterali.

Da quando poi la chimica ha preso piede i rischi che la natura reagisse al corpo estraneo sono aumentati in maniera esponenziale e, è risaputo, certe sostanze possono manifestare i loro effetti a distanza di decenni (non parliamo di quelle radioattive …). Una multinazionale creatrice di una nuova molecola può attendere tanto tempo prima di immetterla nel circuito commerciale? E se per un farmaco anticancro la trafila è abbastanza rigorosa prima del suo impiego clinico generalizzato, pretendete che lo stesso rispetto venga riservato, per esempio, a tutte le forme di vita presenti in un campo infestato dalla gramigna?

Siamo sicuri che tutto il nostro olio e tutto il nostro vino (parlo di quelli non sofisticati …), grazie ai quali faticosamente negli anni abbiamo acquisito il ruolo di protagonisti sul mercato mondiale del cibo, non presentino tracce di sostanze nocive per la salute passate dal terreno alla pianta, dalla pianta al frutto e da questo al prodotto finale?

E la pratica continuata per anni di usare i diserbanti per tenere pulito  lo spazio sottostante gli ulivi e per velocizzare, di conseguenza, la raccolta del frutto non ha finito, fra l’altro, per trasformare la parte superficiale del terreno in una sorta di pellicola impermeabile avvelenata e velenosa?

Vorrei sbagliarmi ma vedo nella gran parte dei ricercatori di oggi dei geni (?) che giocano al piccolo chimico da una parte e, per quanto riguarda la biologia, dei geni (?) che giocano con i geni (stavolta senza punto interrogativo, perché mi riferisco a quelli delle cellule), per cui dobbiamo sorbirci, tra le altre amenità, l’impudica, sfacciata, ipocrita e criminale  promessa che l’agricoltura transgenica risolverà il problema della fame nel mondo. E intanto si è già innescato, complice anche una legislazione in modo certamente non disinteressato compiacente, un processo sulla cui funesta irreversibilità non c’è stato un controllo serio, cioè scientificamente fondato (mica si può perdere tempo …).

Naturalmente, per chi ha fatto del bieco (come non definire così quello informato al metodo prima indicato?) profitto lo scopo della sua vita, l’allarme lanciato, e da tempo, dai naturalisti e da ricercatori indipendenti (razza in estinzione per fame, visto che anche quelli dipendenti non navigano certo nell’oro dei componenti del consiglio di amministrazione delle multinazionali al cui servizio hanno prostituito la loro intelligenza) è solo un assordante ed osceno stridere di gufi, come se la lenta morte del pianeta non riguardasse anche i loro figli (a meno che non abbiano già pronto il loro bunker di sopravvivenza …).

Mi sembra ingeneroso, poi, vista la commistione tra scienza, profitto e potere di cui ho parlato prima, mettere sotto accusa il comportamento degli agricoltori (il loro cervello è fino, ma quello degli scienziati, dicono, è un’altra cosa …) imputando loro l’abbandono di antiche tecniche certamente più rispettose dell’ambiente. Non si può pretendere che si mantenga eroe chi è stato inesorabilmente costretto a diventare vile per poter sopravvivere. E, per passare dai diserbanti ai pannelli solari, cosa si può rimproverare al contadino che per diecimila euro ha venduto il suo ettaro di terreno, dal quale non avrebbe potuto guadagnare tale somma nemmeno dopo venti anni di duro lavoro, all’affarista che tra qualche anno fruirà (lui sì …) del contributo statale per lo smaltimento del silicio, sempre che non gli convenga smantellare il tutto dopo che quel terreno è diventato, per opera e virtù di qualche spirito non (Mon)santo, suolo edificabile?

Per tornare ai nostri ulivi. Al di là delle conseguenze apocalittiche che gli interventi decisi provocherebbero sull’intero ecosistema (paradossalmente il rimedio proposto potrebbe essere stato, se non la causa principale, almeno una concausa del male), siamo veramente sicuri di poter impedire in questo modo la diffusione della malattia? E i cervelloni della comunità europea sono veramente sicuri che non si tratti di un’epidemia (pandemia mi pare esagerato) che, al pari di quella umana, dopo un periodo di picco si estingue naturalmente, anche perché nel frattempo alcuni soggetti son diventati immuni? E nel frattempo (senza gettare il bambino insieme con l’acqua sporca, cioè senza fare terra bruciata) non sarebbe il caso di intensificare gli studi in tal senso?

Sì, ma dovremmo farlo noi salentini. E chi potrebbe finanziare una ricerca indipendente (si spera che almeno quella statale in qualche misura lo sia) al fine di recuperare, per giunta in tempi lunghi, un profitto già da tempo precipitato e oggi annullato dalle sciagurate politiche di questi ultimi anni?

E, sebbene sia uno stupido sentimentale e anacronistico lodatore del tempo che fu, mi sono limitato a considerare solo l’aspetto economico dell’ulivo. Per il resto mi auguro che la nostra umanità recuperi in generale il senso dell’aldi là,dell’al di qua e del retto oraziani, e che non confidi, per quanto riguarda quest’ultimo, in quella sua trasposizione metonimica che si chiama culo, solo perché destinato al su…ccesso.     

Lettera aperta al Commissario speciale sulla “Xylella” in Salento

STOP FRODE ''XYLELLA'' - Ulivo simbolico in piazza Sant'Oronzo a Lecce

3 marzo 2015

Lettera aperta al Commissario speciale sulla “presunta” e nebulosissima emergenza “Xylella” in Salento!

Converta l’attuale folle piano anti-xylella, da “Piano BOIA” quale è oggi, a “Piano di SALVEZZA” per il Salento!

E operi per scoprire tutta la Vera Verità sottesa dietro un piano tanto assurdo, impopolare, astorico e illogico!

Si stanno manifestando, intanto, le prime virtuose e responsabili obiezioni di coscienza all’attuazione del piano biocida anti-xylella. In un convegno nei giorni scorsi in un comune del Parco naturale dei Paduli nel cuore del basso Salento, un forestale di alto grado ha dichiarato pubblicamente: «io mi rifiuterò di spandere pesticidi sulla macchia mediterranea

 

E intanto sui social network si condivide tantissimo in queste ore un video toccantissimo estratto dal film intitolato “Il Segreto del Bosco Vecchio” del regista Ermanno Olmi, cui la voce popolare ha aggiunto il seguente commento eloquentissimo: Il Governo ha chiesto ai Forestali di distruggere il Salento, ma la Forestale lavora per la Natura! Dal film “Il segreto del bosco vecchio”, saggezza e speranza nel dramma della maxi Frode della “Xylella”, link video: https://www.youtube.com/watch?v=bqR7h5ej89k

Uno scandalo ormai dilagante a livello internazionale con inchieste giornalistiche, non più solo locali, ma da parte di testate estere ed internazionali, alla ricerca dei retroscena che possono spiegare tanta operazione illogica e astorica a innumerevoli fondi pubblici!

Si indaga su possibili interessi e forzature che possono avere indotto il sistema Italia e Puglia, per il fomentato caso “xylella”, a portare il Salento sull’ orlo di un tale apocalittico baratro, economico, sanitario ed ecologico assolutamente da scongiurare! Si considerino in merito gli spunti provenienti dalla eloquentissima e dettagliata denuncia da parte di senatori salentini attraverso interrogazioni parlamentari (vedi: http://parlamento17.openpolis.it/atto/documento/id/65873, dove leggiamo: «nel Salento il caso “Xylella” potrebbe celare interessi speculatori»), e anche il recente rapporto Eurispes intitolato “Agromafie. III Rapporto sui Crimini Agroalimentari”, coordinato dal giudice Giancarlo Caselli e in cui si trova un paragrafo proprio dedicato a “Lo Strano Caso della Xylella” in Salento (vedi: http://eurispes.eu/content/agromafie-eurispes; qui capitolo dedicato al Salento: http://www.csvsalento.it/upload/doc/notizie/libro-agromafie2015.pdf).

Un’ operazione, quella dell’ odierno piano anti-xyella, tanto palesemente illogica, con contraddizioni continue, ben visibili anche ad un bambino di scuola elementare, da sfociare nel RIDICOLO, se non fosse per la tragicità delle conseguenze del folle piano Biocida, Genocida e Geocida per i suoi effetti e per le sue previsioni operative sproporzionate rispetto ad ogni punto di vista.

Ad esempio questi aneddoti, ahinoi legati alle parole pronunciate in pubblico da protagonisti di questo scandalo Xylella:

-) il grosso della legna di alberi tagliati detti “infetti”, che in un primo momento si diceva di fare seccare in loco per abbattere l’eventuale presenza batterica, prima di asportarli, oggi si dice che possono essere subito asportati via e usati quindi come biomassa, come già in alcune denunciate occasioni è scandalosamente avvenuto, sotto gli occhi delle telecamere e di giornalisti, in questi mesi nella farsa della “xylella”;

-) i polloni verdi e forti dalle radici vivissime degli ulivi oggi in ripresa, e che avevano avuto sintomi di rami secchi, definiti come la barba che continuerebbe a crescere per un po’, si dice, sui cadaveri! Spacciati così per sintomo di morte, quando son invece sintomo massimo di Vita e rigenerazione! E’ la costruzione e diffusione della mistificatoria “mitologia della Xylella”, funzionale alla maxi-frode della “Xylella”, che usa il fantomatico microorganismo in tutte le salse come cavallo di Troia;

-) il divieto-consiglio di tenere chiusi in estate i finestrini delle auto quando si dovesse transitare nella provincia di Lecce, a sud della città di Lecce, area tutta bollata oggi dall’ ente Regione come “rossa”, infetta, quando così assolutamente non è! Questo perché degli insetti graziosissimi innocui e minuti, i cicadellidi, potrebbero entrare in auto ed essere trasportati nel resto d’Italia. Aggiungendo che già un cicadellide avrebbe fatto così il viaggio clandestino dal Salento a Roma in un’auto dove poi a Roma sarebbe stato ritrovato … e di certo poi lì schiacciato!

E a tali insetti autoctoni si vorrebbe fare ora la guerra irrorando ovunque tonnellate di pesticidi delle multinazionali; multinazionali presso i convegni delle quali, organizzati nel mondo ora per il montato, anche senza solidi fondamenti scientifici, caso xylella-olivi, scandalosamente partecipano protagonisti regionali di questo brutto affare, come si è scoperto da link di questi convegni, con foto che li ritraggono, diffusi in rete, e che stanno destando enorme indignazione popolare!

Finestrini chiusi poiché potrebbero entrare in auto i cicadellidi ed esser così trasportati altrove. I Cicadellidi, si dice, potrebbero veicolare da un albero all’altro la Xylella, che ben si legge negli studi scientifici odierni non essere la causa prima, ma al più potrebbe al limite essere un cofattore, non dimostrato, della sintomatologia osservata sugli ulivi con alcuni rami e fusti disseccatisi nel Salento; rami in realtà seccati dall’opera di funghi ed insetti fondamentalmente, si dice nei medesimi studi!

Ma la Xylella fa comodo mettercela dentro perché per le leggi attuali europee permette di fare scattare “quarantene” dei pieni poteri e dei molti denari, per distruggere e non per curare, anche se si dimostra presente la Xylella in maniera asintomatica per le piante, e questo è ancor più assurdo, e fa riflettere sulla follia dell’attuale scandalo pugliese!

Chissà, forse qualcuno, con rimorsi di coscienza, spera così di minimizzare l’aspirazione nei polmoni dei bambini in auto dei pesticidi nocivissimi che con queste scuse folli si vorrebbero irrorare senza alcun senso per il bene delle multinazionali dell’agro-chimica. E già dicendo che potrebbe persino essere tale chimicizzazione forsennata un intervento agronomicamente inutile!

???

Pesticidi che si vorrebbe irrorare anche sulla macchia mediterranea e sui muretti a secco, e siamo dal punto di vista naturalistico così in una delle massime vette di crimini progettati contro la natura!

La LILT lega Italiana per la Lotta ai Tumori con il famoso oncologo Giuseppe Serravezza ha fortemente denunciato la pericolosità per la salute umana e per l’ ecosistema di tale piano anti-xylella.

Grandi lacune naturalistiche per scadere in tali insane e ridicole prescrizioni che non fanno altro che alimentare la psicosi che con innumerevoli osceni “convegni del terrore” si continua a spandere da mesi e ancora in questi giorni nella Provincia di Lecce, portando in un Salento verde e vivissimo i contadini ad un altissimo livello di esasperazione, e sull’orlo di crisi di nervi e di speranza, che possono portarli a diventare essi stesi esecutori di tagli scriteriati di olivi vivi sanissimi, o in ripresa! Trasformati così in esecutori materiali, in suicidi boia, di un piano boia!

ph Marco Cavalera
ph Marco Cavalera

Contadini e operatori di attività agricole e biologiche, apicoltori, imprenditori agro-turistici e turistici portati all’esasperazione da questa condotta fraudolenta immorale, che potrebbe condurre persino a insani pensieri autolesionistici persone più emotivamente fragili! Possibile che non si abbia un minimo di senso di pubblica responsabilità!?  

Convegni che indignano e da stigmatizzare con piena forza!

La stragrande maggioranza degli ulivi nella zona che oggi “loro” dicono infetta, rossa, son verdissimi e sanissimi; quella frazione di ulivi colpita da sintomi di disseccamento, son in gran parte non certo disseccatisi completamente ma in ripresa vegetativa, almeno dalla radice con polloni forti e rinnestabili, quando non anche dai fusti, che si erano spogliati, con l’emissione di nuovi getti, (aspetti che il “regime xylella” cerca di negare e minimizzare in tutti i modi!).

Come ogni patologia, anche quella del neo-battezzato CODIRO degli ulivi in questione, acronimo di “Complesso” del disseccamento solitamente parziale dei rami degli alberi, (complesso perché vi si osservano vari patogeni come funghi e insetti), fa la sua parabola: compare, si diffonde, e poi scompare nella ripresa della maggior parte degli alberi, come ogni raffreddore o influenza per l’uomo. Da qui la fretta di “eradicare”, togliere le radici e dunque non solo tagliare, con la scusa della quarantena da xylella eventualmente presente sebbene potenzialmente innocua, altrimenti si scoprirebbe che gli olivi sopravvivono e ritornano in produzione!

 

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Gli stupendi uliveti acquitrinosi del cuore del bassoSalento, beni paesaggistici da-tutelare, foto di Giovanni Enriquez
Gli stupendi uliveti acquitrinosi del cuore del bassoSalento, beni paesaggistici da-tutelare, foto di Giovanni Enriquez

IL COMMISSARIO PRESO ATTO ORA DELLA “VERA” SITUAZIONE

(e dello tsnunami popolare di manifestazioni e denunce contro il piano anti-xylella a base di nociva agro-chimica ed eradicazioni, piano definito senza mezzi termini “CRIMINALE” sui media da stessi esponenti politici della maggioranza in Regione Puglia) “FERMI” CON LA SUA AUTORITA’ :

  -) ogni uso di erbicidi e pesticidi in tutto il Salento ;

-) la realizzazione di inutilissimi cordoni desertificati artificialmente con la scusa di limitare la diffusione di Xylella più a nord, quando già si dice che “Xylella” sarebbe già persino ben oltre quel limite!)!

-) fermi ogni eradicazione di Olivi come di ogni altra essenza (Oleandri inclusi, meritevoli di massima tutela, come ogni altra specie animale e vegetale che sia, insetti naturalmente inclusi!), fermi questo ovunque in tutto Salento!

-) sblocchi le attività vivaistiche ingiustamente bloccate dal vendere in provincia di Lecce diverse piante persino autoctone!

-) tolga i divieti sacrileghi immorali e assurdi di impianto di piante della nostra tradizione agricola e della nostra storia naturale! 

E soprattutto

-) dalla sua posizione privilegiata, operi per scoprire tutta la Vera Verità sottesa dietro un piano tanto assurdo e astorico, illogico come agli occhi di ogni persona saggia coscienziosa e soprattutto ad ogni naturalista subito appare; un piano in cui si nega nella comunicazione la presenza di innumerevoli alberi d’olivo, la stragrande maggioranza, del tutto sani, e si cela la ripresa di innumerevoli alberi di olivo che hanno presentato sintomi di disseccamento, (ripresa spontaneamente come anche dopo cure agro-ecologiche), dando così l’ idea distorta di un Salento con piante affette e moribonde che è lontanissimo dalla verità verde e ubertosa di questa terra in questi mesi!

Il Commissario diventi da responsabile potenziale avallatore di distruzione ed avvelenamenti dannosi per ecosistema, economia e cittadini,  il  “salvatore del Salento” invece, nel buon nome di chi ha scelto come professione quella di difendere la Natura sopra ogni cosa!

Si all’ Agroecologia – cura e non tortura per olivi ed ecosistema del Salento !

Espliciti e affermi con forza la necessità di fermare il piano attuale a base di chimica (ergo speculazione a favore delle multinazionali dei pesticidi), e a base di eradicazioni forsennate e biocide (ergo a favore delle centrali elettriche delle biomasse del sud Italia, e della liberazione di suoli per varie speculazioni cementificatorie o per manovre agro-speculative),

nel verso invece della attuazione di un sostitutivo piano virtuoso fondato sull’AGROECOLOGIA per la cura delle piante e dell’ ecosistema salentino, dove la biodiversità è elemento prioritario da tutelare, contro chi pensa di inseguire soluzioni distruggendo anelli (insetti, piante, ecc,) dell’intricata catena alimentare dell’equilibrio della Natura e dell’agro-natura.

Salento in cui vietare per sempre e del tutto l’ uso dei pesticidi contro erbe ed insetti!

Per gli uliveti Salentini e Pugliesi tutti abbiamo bisogno dell’impegno di ognuno di noi per il loro riconoscimento come agro-foresta e patrimonio UNESCO dell’ Umanità, e in tal senso siamo certi si impegnerà anche il Commissario, fermato ora e subito con tutta la sua autorità e autorevolezza questo piano infernale ridicolo e tragico al contempo!

 

Il Forum Ambiente e Salute

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Info:

 

Forum Ambiente e Salute del Grande Salento

rete apartitica coordinativa di movimenti, comitati ed associazioni a difesa del territorio e della salute delle persone

Lecce, c.a.p. 73100 , Via Vico dei Fieschi – Corte Ventura, n. 2

e-mail: forumambientesalute@gmail.com  forum.salento@yahoo.it, forum.salento@libero.it ,

gruppo facebook: http://www.facebook.com/groups/123107425150/Sito web:  http://forumambiente.altervista.org/

 

A proposito di olio e ulivi! Si parla troppo e si agisce poco?

Olio

di Mimmo Ciccarese

 

I tanti dibattiti previsti sulla tutela degli ulivi e dell’olio d’oliva sono davvero così utili? Quale sarà la prossima questione? Si parlerà ancora del rinnovo del settore, dell’atteso arrivo della nuova politica agricola comunitaria (Pac), del miglioramento della qualità o degli aiuti previsti per le organizzazioni professionali? Sempre la stessa tiritera, dirà qualcuno, ma questi dibattiti, servono proprio a mantener vive le relazioni tra i produttori, i trasformatori, le associazioni agricole, i consorzi.

Quando ci si vuol barcamenare tra questi quesiti e quando i simposi non sono per pochi eletti, probabilmente conviene partecipare, ascoltare con passione per poi trarne delle dovute e adeguate valutazioni.

I dibattiti non sono solo passeggiate mediatiche, si comprende da subito cosa essi ti serbano, ti fanno comprendere e giustificare gli eventi e le persone con un minimo di riflessione o puoi addirittura capire se un dibattito è sincero o maschera ad esempio possibili atti speculativi. Con essi associ e intendi il motivo che ci spinge all’unione all’espressione e al commento libero.

Nel frattempo abbiamo facoltà di arguirci un po’ sopra e chiederci magari se i suggerimenti proposti per la difesa degli ulivi e del Made in Italy non siano poi così efficaci come ci si dovrebbe aspettare. Dopo un lungo dibattito ci si può tornare appagati, delusi o del tutto indifferenti; si può carpire facilmente lo stato del pubblico dalla sua manifestazione.

ph Mimmo Ciccarese
ph Mimmo Ciccarese

Qualche solito ignoto partirà in quarta magari con la sua impostata polemica o critica banale da luogo comune e qualcun altro, invece, con la sua valida proposta con la speranza che questa volta sia meglio ascoltata.

I relatori tornerebbero più paghi dopo il loro “quarto d’ora di popolarità”, sguainando le loro tesi, criticabili o meno, non importa; sono sempre lesti ad abbozzarne di nuove specialmente se sono sostenute dai loro tutor preferiti.

Ormai si sa, in questo settore, non sempre otteniamo certezze e verità, lo dice anche un proverbio salentino: “l’ulia è niura e te face niuru” (l’oliva è nera e ti fa nero) così come per dire che di certo possiamo confidare nella percezione e nell’intuito ma con le dovute cautele perché i cambiamenti possono sempre essere repentini.

Con la nostra fatale intuizione potremmo perfino supporre che fra la civiltà rurale Salentina si avranno dei mutamenti. Quali fossero, come avvenissero e se fossero buoni o negativi non è dato saperlo. Di certo non saremo degli indovini ma neanche cattivi osservatori.

Chissà, forse un giorno, ci accorgeremmo che molti impegni per la salvaguardia di un comparto così importante sia stato tempo, lavoro e denaro sprecato. Gli eventi e i dibattiti pubblici servono a questo, a generare movimenti, formare gruppi e condividere le idee, cambiare eventualmente rotta se sbagliata.

Ben vengano gli eventi quindi per valorizzare il settore agricolo e le misure da adottare per difenderlo e che giungano con serenità senza creare tante esitazioni sul suo futuro.

Se i risultati per l’olio d’oliva non soddisfano, se ci sono state o ci saranno decisioni, irrazionali, affrettate o sofferte per qualcuno, avremo tutto il tempo necessario e la possibilità di riparare, recuperare e ripartire.

Continuiamo pure ad aver fiducia nel buon operato degli addetti ai lavori. Valutiamo il grado della loro esperienza, valutiamo i termini con cui essi si proferiscono senza però trascurare la voce dei produttori che sono i primi a incassare i colpi.

Se in questi dibattiti registrate troppi dubbi, allora si può chiedere e proporre in modo costruttivo. E anche se vi guarderanno con altri occhi, continuate ad approfondire l’argomento senza tante preoccupazioni con il coraggio e l’umiltà che avete ereditato.

I produttori avranno pure la facoltà e il diritto di ascoltare altre voci. La ricerca scientifica ed economica è davvero disciplina quando diventa certezza. Di certo quello che gli ulivi e i produttori ci dicono e ci insegnano vale molto di più.

Nell’olivicoltura il ritornello si ripete metodicamente sempre prima dell’arrivo di contributi comunitari che giustamente supportano i produttori. Senza quegli aiuti come si farebbe a sostenere i costi di produzione?

Tra una Pac e l’altra si parlerà d’olio d’oliva, quasi una sequenza di eventi. Uno dei più interessanti è l’Expo 2015, senza dubbio una bella vetrina per le eccellenze italiane. Si tratta di grandi spazi per ogni prodotto, ma per il nostro olio d’oliva? È possibile che sia finito tra i padiglioni dei condimenti come l’aceto? Il grande e piccolo Salento con i suoi milioni di ulivi monumentali terra produttrice d’intingoli, quindi?

Gli eventi sono dibattiti ma anche spazi di slogan da acquistare. Gli ulivi secolari sono il nostro biglietto da visita. C’è un mondo che ci guarda e ci compra attraverso il social network, c’è un mondo preoccupato per le sorti di un patrimonio arboreo e si chiede come mai i salentini non si siano ancora accorti di navigare su un fiume dorato.

Il Salento potrebbe cambiare davvero direzione se solo fosse interessato. I suoi residenti potrebbero rivendicare saperi e sapori con la dovuta energia sull’intero territorio nazionale, non vogliono svendere la loro produzione a marchi esteri e ne passare in secondo piano.

ulivi borgagne santoro

Le istituzioni e le associazioni di copertina devono capire che la griffe Salento con i suoi olivi non può passare inosservata perché rappresenta un lato importante di quella dieta mediterranea che lo Stato volle indicare nel 2010 come patrimonio dell’Unesco.

Chi avrebbe quella grande forza di render voce e certezze alla nostra olivicoltura? Si propongano pure gli eventi e i dibattiti all’uopo ma per cortesia che non siano sempre gli stessi barbosi modi di argomentare.

Sta devastando migliaia di ulivi sparsi su oltre 25mila ettari del Leccese

ph Marco Cavalera
ph Marco Cavalera

di Francesco Greco

 

“La poltiglia bordolese? Una panacea, una suggestione, un modo di illudersi di contrastare la xylella fastidiosa e i suoi vettori…” (per il prof. Francesco Porcelli “pannaturismo cosmico”). E dunque, citando il Sommo Poeta: lasciate ogni speranza voi ch’entrate. La scienza gela il rimedio antico, naturale, proposto in un convegno ben riuscito ad agosto a Castiglione d’Otranto (ma non sottoposto a test), contro il micidiale batterio sconosciuto in Europa (in Brasile attacca agrumi e caffè) che occlude i vasi xilematici provocando (in 4-5 anni) la morte della pianta, che da un anno (15 ottobre 2013, ma l’incubazione, asintomatica, data almeno a 5-6 anni prima) sta devastando migliaia di ulivi sparsi su oltre 25mila ha del Leccese, concentrati nella zona di Gallipoli, Alezio, Taviano, Alliste, Parabita, Nardò e che avanza: è allarme pure nel Capo di Leuca.

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Pare però che la qualità “leccino” sia più resistente di “cellina” e “ogliarola” (gli impianti giovani). A rischio anche mandorli, ciliegi, oleandri, acacie, ginestre, ecc. Incluse molte piante da giardino. Primo sintomo: foglie rosso mattone. Il virus avanza di 20 cm. al mese. Se si mette mano con la motosega, si consiglia di tagliare mezzo metro oltre il ramo malato.

D’altronde, non si possono fare le nozze coi fichi secchi: se gli Usa (il microclima della California e Gallipoli sono assimilabili), che da 130 anni sono alle prese con lo stesso virus che attacca la vite, per contrastarlo finanzia la ricerca con 4-5 milioni di $ annui (e ci sono voluti 6 anni per testare la malattia di Pierce), qui siamo nell’ordine di 8mila €: la spending review che tollera l’evasione fiscale e i fatturati dei poteri criminale poi lesina i denari per le emergenze ambientali. Bella Italia, amate sponde…

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Sott’accusa anche l’Europa: non controlla efficacemente le frontiere. Così forse è penetrata da piante sospette e ci si espone alle epidemie. Per la xylella, indice puntato sulle piante ornamentali (42 milioni, giunte pare nel 2012, via Rotterdam) dal Costarica (lì attacca mango e noce, ulivi non ce ne sono), entrate clandestinamente.

Sullo sfondo è appena nato il Comitato Scientifico allargato a una componente internazionale, mentre a Gallipoli è previsto un convegno di esperti. Lo si è appreso a un convegno sul “complesso disseccamento rapido dell’ulivo” a Morciano di Leuca, indetto dalla Pro-Loco, moderato dall’avv. Antonio Coppola, con una folla di coltivatori preoccupati, che hanno incalzato gli studiosi con domande pertinenti. Dopo i saluti del presidente Antonio Cacciatore, del presidente dell’Unione delle Pro Loco del Capo di Leuca Antonio Renzo e l’assessore Maria Rosaria Ottobre, le relazioni di Antonio Pizzileo, agronomo e i ricercatori Donato Boscia (Istituto Virologia Vegetale Cnr di Bari: “E’ una malattia nuova, non c’è memoria…”) e Porcelli. Amaro un vecchio contadino: “Dopo secoli siamo riusciti a uccidere pure gli ulivi…”. E un altro: “Abbiamo dimostrato quello di cui siamo capaci e adesso la natura impazzisce e si vendica…”. Un terzo: “Provo a pensare come sarà la nostra terra senza ulivi e mi vien da piangere…”.

La bontà della poltiglia bordolese, rimedio antichissimo (rame e calce viva) a Castiglione era stata però dimostrata, slide alla mano, da Ivano Gioffreda, portavoce dell’Associazione “Spazi Popolari Agricoltura Organica Rigenerativa” (sue le foto), a cui rivolgiamo alcune domande.

 

ph Marco Cavalera
ph Marco Cavalera

Domanda: Poltiglia bordolese, suggestione o via percorribile?

Risposta. Noi non interveniamo sul batterio, rafforziamo le autodifese della pianta con rimedi naturali.Non è affatto una suggestione, io curo ancora molte patologie dell’apparato respiratorio con i rimedi della nonna a base di erbe. Abbiamo solo utilizzato vecchie pratiche agronomiche, il solfato di rame è un antibatterico e un antifungino, l’idrossido di calcio (calce) è un disinfettante naturale usato da secoli. La vecchia poltiglia bordolese autoprodotta non porta ricchezza alle casse delle multinazionali dell’agrochimica. Successivamente siamo intervenuti alla radice, con un prodotto naturale a base di aglio, che alcuni ricercatori spagnoli venuti fin qui ci hanno gratuitamente consegnato per la nostra sperimentazione empirica. Ci siamo accertati che fosse un prodotto naturale e registrato e lo abbiamo usato alla base della pianta, intervenendo sulle radici.

 

D. Quali i sintomi della malattia?

La sintomatologia si nota dall’alto della chioma per poi diffondersi su tutta la branca, sino al basso della pianta. Proprio come una verticillosi.

 

D. Che fare appena si sospetta che l’uliveto potrebbe essere stato contaminato?

R. Noi non ci sostituiamo agli organi preposti, di certo non ci atterremo a quelle norme scellerate previste dalla quarantena che prevedono l’uso massiccio di diserbanti e insetticidi per uccidere i fantomatici insetti “vettori”.

 

D. E in termini di prevenzione?

Curare la terra e gli olivi. Una buona potatura aiuta la pianta a rivegetare, ossigenare il terreno con un leggero coltivo, ritornare alle buone pratiche dell’innerbimento e del “sovescio”: così facendo si restituisce alla pianta sostanza organica a costo zero. Disinfettare la pianta con la solita poltiglia bordolese autoprodotta (grassello di calce e solfato di rame). All’occorrenza, disinfettare e nutrire i tronchi con solfato di ferro e calce alle dosi consigliate.

 

D. Come si trasmette il batterio?

R. Non capisco il perché alcuni soggetti si accaniscono sul batterio e non sulla moltitudine di funghi tracheomicosi  presenti sulla pianta e sulla radice. Credo che si stia facendo cattiva informazione: abbiamo perso il contatto con la realtà, e quindi dobbiamo tornare a essere più umili, prima con noi stessi e poi con madre Terra. Con la rivoluzione “verde” dettata dall’agrochimica sponsorizzata da alcune Università, abbiamo contribuito a distruggere la biodiversità e rotto quell’equilibrio biologico perfetto, frutto del creato. Io non uccido nessun essere vivente!

 

D. La falda inquinata, magari da rifiuti tossici, da percolato, può essere una spiegazione alla xylella?

R.  Una cosa è certa: la nostra Terra è martoriata.

 

D. L’uso scriteriato della chimica e la smania di far produrre ogni anno le piante può aver influito sulla diffusione del batterio?

R. L’altro giorno leggevo la retro etichetta di una nota multinazionale dei diserbanti, recita così: “Buona Pratica Agricola nel controllo delle malerbe, l’applicazione degli agrofarmaci non è corretta se viene realizzata con attrezzature inadeguate”. Come possiamo ben notare, le stesse  multinazionali dell’agrochimica, che prima ci avvelenano e poi ci “curano”, stravolgono il senso delle parole.

Domenica 5 Ottobre a Trani abbiamo concluso la 3 giorni del 2°meeting “Terra e Salute”, tra i relatori spiccavano alcuni nomi noti del mondo accademico, il prof. Cristos Xiloyannis e il prof. Pietro Perrino, ed erano entrambi a conoscenza della drammatica situazione in cui versano i nostri olivi, ne abbiamo parlato a lungo, sono concordi con le nostre analisi e con i nostri metodi naturali di intervento. La flora batterica è completamente assente, le sostanze nutritive di origine organica sono granelli di sabbia, la chimica non aiuta certo la pianta, anzi, contribuisce ad abbassare le autodifese.

 

D. L’eradicazione di cui si parla può fermare il batterio?

R. Che facciamo, applichiamo l’eutanasia agli olivi viventi ? Di olivi completamente morti non ce ne sono e l’eradicazione non è una via percorribile e non risolve il problema batterio. Con i batteri e altri patogeni dobbiamo convivere, Dio non ha creato animali per essere uccisi, dobbiamo cercare il giusto equilibrio. Gli olivi sono la bellezza del nostro paesaggio agro-culturale. I nostri olivi non si toccano!

 

D. Posto che si eradichi, il pollione che nascerà crescerà sano?

R. Nelle zone più interessate all’essiccamento, Li Sauli, Castellana, ecc., possiamo notare che l’arbusto olivo reagisce, ma non ha la forza per mantenere tutto il peso della chioma, perché mancano le sostanze nutrienti naturali. Quindi, è la pianta che lascia morire parte di se stessa. Quando viene potata e quindi alleggerita dal suo carico, l’olivo reagisce, perché concentra le proprie energie nutritive sui pochi rami rimasti.

 

D. Cosa pensa dell’ipotesi che la xylella sia stata portata per boicottare l’olio di Terra d’Otranto?

R.  Se sia stata importata o no, non sta a noi verificarlo, avevamo dei dubbi e per questo presentammo un esposto in Procura.  Una cosa è certa: questa nostra martoriata Terra è sotto attacco, e gli avvoltoi sono troppi, la nostra Terra fa gola a molti speculatori, fa gola pure alle mafie del cemento.

 

D. Che interessi si giocano sul nostro olio?

La nostra Regione era la terra più vitata d’Italia, poi ci convinsero a estirpare circa il 30-40% dei nostri vitigni, con punte del 50% nel Salento  in cambio di 10-12 milioni delle vecchie lire per ha, quote cedute alle Regioni del Nord.  Non vorrei che si praticasse lo stesso parassitismo per i nostri olivi: il Sud ha già dato troppo al Nord.

 

D. La raccolta 2014 è iniziata, la produzione calerà. Dall’estero arrivano disdette di ordini: può rassicurare il consumatore che nonostante il batterio l’olio prodotto è di ottima qualità?

R. L’attuale annata è scarsa in tutto il Bacino del Mediterraneo, e non a causa del batterio. La nostra preoccupazione è per le prossime annate, fin quando i nostri olivi non si riprenderanno. Quest’anno la produzione non sarà sufficiente a soddisfare tutte le richieste, e l’essiccamento non incide minimamente sulla qualità del prodotto. Siamo preoccupati dell’invasione di olio proveniente dagli impianti ultra-intensivi dell’Australia.

Giovanni Presta, ovvero quando eravamo noi a chiedere all’Europa …

di Armando Polito

Anonimo. Ritratto di Giovanni Presta custodito nel Museo Civico Emanuele Barba a Gallipoli; immagine tratta da  http://www.culturaitalia.it/ms/viewer.php?id=oai%253Aculturaitalia.it%253Amuseiditalia-work_4495
Anonimo. Ritratto di Giovanni Presta custodito nel Museo Civico Emanuele Barba a Gallipoli; immagine tratta da http://www.culturaitalia.it/ms/viewer.php?id=oai%253Aculturaitalia.it%253Amuseiditalia-work_4495
Incisione tratta daLprimo volume della Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli, Gervasi, Napoli, 1814
Incisione tratta daLprimo volume della Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli, Gervasi, Napoli, 1814

Ad integrazione del bel post recente di Mimmo Ciccarese sul grande scienziato di Gallipoli (https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/09/26/un-grande-medico-al-servizio-degli-ulivi-secolari/ ) mi preme anzitutto segnalare a chi ne ha interesse le edizioni delle sue opere reperibili in rete e integralmente scaricabili:

Degli ulivi, delle ulive e della maniera di cavar l’olio, Tipografia editrice salentina, Lecce, 1871 (http://books.google.it/books?id=Ixc8sRR-F9sC&pg=PA561&dq=giovanni+presta&hl=it&sa=X&ei=YOYjVOqeCcOf7gaDtYDoCg&ved=0CCUQ6AEwAQ#v=onepage&q=giovanni%20presta&f=false).

Memoria su i saggi diversi di olio, e su della ragia di ulivo della penisola salentina, Romano, Lecce, 1855 (http://books.google.it/books?id=KHVEU4x7Z0EC&pg=PA5&dq=giovanni+presta&hl=it&sa=X&ei=YOYjVOqeCcOf7gaDtYDoCg&ved=0CCAQ6AEwAA#v=onepage&q=giovanni%20presta&f=false).

Per quanto riguarda la biografia, poi, segnalo che  Bartolomeo Ravenna in Memorie storiche della città di Gallipoli, Miranda, Napoli, 1855, p. 555 a proposito di Giuseppe Presta scrive: Di questo letterato, che illustrò il secolo scorso, e che fu mio stretto amico, ne abbiamo una memoria lasciataci dal Prevosto di questa Cattedrale D. Leonardo Franza1, che mi è servita di guida in queste memorie, scrivendo del Presta.

In nota 1 si legge: Serie di fatti relativi alla vita di D. Giovanni Presta scritta da D. Lionardo Franza Prevosto della cattedrale di Gallipoli, in segno di grata e sincera amicizia. In Lecce nella publica stamperia di Vincenzo Marino e fratelli in 8. Da questa memoria istessa si è tratto l’elogio del Presta stampato nella Biografia Napoletana. Il Franza fu un nostro benemerito concittadino. Era in nota tra i soggetti destinati Vescovi del Regno, ma le vicende dei tempi, e la morte che lo prevenne, resero vane queste speranze.

La Serie di fatti …, pubblicata (aggiungo io) nel 1797 è introvabile ma la biografia napoletana nominata è la Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli, dal cui tomo V uscito per i tipi di Gervasi a Napoli nel 1818 riproduco (visto che la memoria originale è introvabile) la scheda a firma di Lionardo Franza:

Mi piace ora riportare la dedica a Caterina II di Russia che il Presta premise alla Memoria su i saggi diversi di olio, e su della ragia di ulivo della penisola salentina:

 

Prima di commentare lapidariamente quanto appena letto, debbo confessare che lì per lì non sono riuscito a capire che cosa fosse esattamente la Ragia odorosa, timiamo eletto, che qui l’olivo suole produrre, ed altrove no. Ora ragia designa un tipo di resina di alcune conifere e metaforicamente assume il significato di raggiro, imbroglio, stratagemma. Per comprendere entrambe le sfere semantiche basta pensare al rapporto di somiglianza tra chi rimane invischiato nella pece e chi è vittima di un raggiro. Non credo che il Presta abbia usato ragia in quest’ultimo senso …

Timiamo è voce dotta, adattamento all’italiano del latino medioevale thymìama che è trascrizione del greco θυμίαμα (leggi thiumìama)=incenso, aroma in genere, da θυμίαω (leggi thiumiào)=bruciare. La forma italiana più antica fedele alla greca (timìama) che io conosca compare in una Bibbia istoriata padovana della fine del XIV secolo : … de domane un turibolo in man cum el fogo e cum la  timiama (… questa timiama  è la cossa odorifera più cha incenso) e debiè stare denanço dal tabernacolo de mesier Domenedio…

Quanto riportato fino ad ora induce a pensare che sia una sostanza resinosa emessa dall’albero e non ricavata dal frutto.

Senonché, nonostante io non l’abbia mai vista nell’ulivo, ci viene in soccorso lo stesso autore che all’argomento dedica un passo della sua opera:

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Di lì a qualche anno tornerà sull’argomento (il che ribadisce, ove ce ne fosse stato bisogno, la mia ignoranza) Domenico  Moricchini in Sopra la gomma di ulivo, Mainardi, Verona, 1815 (http://books.google.it/books?id=BMQaAAAAYAAJ&pg=PA6&lpg=PA6&dq=ragia+di+ulivo&source=bl&ots=s_H71-jyzV&sig=8O9IltztSNYqNzlxehWPMp_0uF8&hl=it&sa=X&ei=iVslVKnHK6vnygOruYJg&ved=0CEwQ6AEwCA#v=onepage&q=ragia%20di%20ulivo&f=false).

Inutile dire che a maggio dell’anno prossimo, se Dio vorrà, andrò ad ispezionare, non certo per mancanza di fiducia, uno per uno i miei ulivi e se l’esito sarà positivo farò anch’io un dono a Caterina, mia figlia …

Ora è tempo di passare al commento promesso: un salentino, pur col dovuto rispetto, si rivolge da pari a pari ad uno dei personaggi più potenti, forse il più potente, dell’epoca e contemporaneamente la manda a dire anche al re Ferdinando IV, non solo per quel dilettante pur anco in materia di Olj eccellenti … ! E, per capire meglio, riporto quanto scrive il Ravenna nell’opera citata:

Che il nostro conterraneo, poi, fosse di fama internazionale (nesso oggi abusato pure per le mezze calzette a stento conosciute dagli stessi familiari …) lo dimostra, a parte la citazione dei suoi scritti in autori stranieri contemporanei e nelle pubblicazioni specializzate dell’epoca (per brevità non riporto né gli uni né le altre), quanto si legge (la traduzione è mia) in Voyage de Henry Swinburne dans leus deux Siciles, en 1777, 1789 e 1780 traduit de l’Anglois par un voyageur français, Didot, Parigi, 1785, tomo I, pp. 368-370:

Mi ha colpito dell’osservatore straniero più che la contrapposizione tra corona e baroni (e non voglio a questo punto aggravare la situazione mettendo in campo la querelle dell’unificazione del nostro paese …) quel ma mi dispiace di essere obbligato a dire che tutti i suoi sforzi si sono limitati finora a semplici esperimenti, per non essere stato assecondato da coloro che sono nella condizione di dare qualche sviluppo al bene pubblico.

Vecchio vizietto della politica intesa non come servizio ma come attività clientelare, che oggi rivive nell’inefficace azione di difesa dei nostri prodotti nei confronti della globalizzazione europea e mondiale, nella mortificazione della ricerca e del merito col risultato suicida di regalare quest’ultimo al resto del mondo, mentre, nella fattispecie, la pur deprecabile inerzia di allora è stata criminalmente sostituita (al peggio non c’è limite …) dalla cementificazione del territorio in nome di un’idea perversa, e a lungo andare perfino autolesionista, di sviluppo in cui l’occupazione (non si sa nemmeno per quanto tempo) di pochi e lo sfacelo del paesaggio vengono spudoratamente sbandierati come bene pubblico.

 

Un grande medico al servizio degli ulivi secolari

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di Mimmo Ciccarese

 

Il 24 giugno del 1720 nacque a Gallipoli, Giovanni Presta, uno degli studiosi più noti che il Salento possa annoverare tra i suoi annali. Già a sedici anni si recò a Napoli per frequentare medicina e in altri momenti per approfondire gli studi di matematica e astronomia. Le sue doti di letterato e raffinato poeta lo aggiunsero con merito tra le accademie e le società più colte del suo tempo.

Appena laureato in medicina ritornò nella sua città natale, per esercitare la professione ma nel mondo divenne più noto per i suoi studi agronomici e in particolare sulla tabacchicoltura e sull’olivicoltura.

Furono saggi così notevoli che la provincia di Lecce non esitò ad onorarlo con la scuola agraria a ridosso dell’antica città messapica di Rudiae. Per questo l’istituto per periti agrari, forte del suo retaggio e per le sue egregie attività formative e sperimentali, acquisì fascino e valore in tutta la Puglia.

Presta si concentrò molto sulla specie dell’ulivo, aveva ben compreso la sua importanza sul territorio, era per lui una certezza da offrire con la Memoria su i saggi diversi di olio e su della ragia di ulivo della penisola salentina messe come in offerta a Sua Maestà Imperiale Caterina II, la Pallade delle Russie (1786), con Memoria intorno ai sessantadue saggi diversi di olio presentati alla Maestà di Ferdinando IV, Re delle due Sicilie, ed esame critico dell’antico frantoio trovato a Stabia (1788); Degli ulivi, delle ulive e della maniera di cavar l’olio (1794).

 

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Presta analizzò con scrupolo la produzione agricola nel Salento, le condizioni del suo territorio, indagando sulle cause storiche che le avevano determinate, a risolvere i problemi di un meridione orientato al degrado e alla povertà. Per qualcuno quell’impegno sarebbe stato visto come un vero e proprio mandato morale da eseguire ad ogni costo.

Nella prima parte dell’opera Degli ulivi, delle ulive e della maniera di cavar l’olio (1794) Presta avvia il trattato con un’esposizione di questa pianta accreditandone utilità e bellezza: “Di quanti mai vi son’alberi finor noti sopra la terra, se si ha riguardo all’utilità, che ciascun arreca, si può dire senza fallo, che l’Ulivo è il migliore tra tutti, l’Ulivo è il primo tra tutti, l’Ulivo è il Re”. In questo primo ritaglio si riscontra il riferimento ai tempi dell’antica Grecia, del modo con cui questi popoli divinizzavano questa essenza.

Nel Regno delle due Sicilie, il mercato dell’olio era fiorente. In quel tempo proprio nella città portuale di Gallipoli, Presta osservava la partenza dei bastimenti fiamminghi carichi d’olio lampante e già pensava di descrivere con la dovuta professionalità la fonte di quella produzione per ricavarne altra utilità.

A distanza di secoli da tali studi Presta, purtroppo, l’ulivo monumentale è oggi rapportato da qualcuno come “una pianta come tante”, una coltura da far produrre in regime intensivo, come strumento economico o perfino solo come un mezzo per accedere ai finanziamenti comunitari.

Allora ecco gli aiuti alla produzione che ravvivano l’olivicoltura pugliese che creano associazioni di categoria, cooperative, centri di assistenza agricola per far diventare l’olio il Re degli alimenti, un buon condimento ideale per nutrire la politica e la società.

Dai tempi dell’olio lampante a quello del miglioramento qualitativo, l’olio di oliva guadagna sempre più potere, diviene un andirivieni economico sempre più intenso, una materia preziosa da stoccare gelosamente, un’energia in grado di alimentare centinaia di migliaia di famiglie.

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Il dottor G. Presta ha compiuto una grande opera, con i suoi trattati è riconosciuto dal mondo accademico come il primo grande tecnico dell’olivicoltura e non solo. Chi mette in dubbio il suo impegno e l’efficacia della sua molteplice conoscenza e sensibilità?

Le abili capacità del luminare G.Presta di comunicare la vita e la forma delle piante d’ulivo risiedeva anche in quegli studi astronomici e matematici, della biologia e forse anche della filosofia tra l’ammirazione e lo stupore dei suoi colleghi.

Il tecnico agrario dovrebbe animare talento e passione con il coraggio e la lealtà così come fece il grande ricercatore salentino. In ogni caso un tecnico non rimane indifferente alle problematiche agricole, anzi, sostiene, propone e condivide le sue conoscenze al servizio della gente che reclama risposte.

L’esperto serve i cicli della natura, rende voce alla biodiversità e la difende, acquisisce così giudizio oltre che dignità per essere ben voluto dai suoi residenti. Chi allontana o disapprova questa valutazione tradisce i suoi apprendimenti e non può dire d’amare e dimorare la sua terra.

Chi pensa, invece, che il tecnico agrario non sia altro che uno scrivano sciupato tra i fogli e i corridoi di un ufficio si sbaglia in pieno perché il suo mondo è molto più variegato e per niente standardizzato.

Il competente, però, non deve esaudire i comandi di una sola voce, deve anche arricciarsi un po’, tra le riflessioni e gli studi che gli altri suggeriscono, proponendosi a sua volta con razionalità e rispetto, deve rendere operativa l’efficienza del suo sapere o almeno stimolare la sua curiosità e quella del suo prossimo.

Un tecnico dovrebbe dimostrare la volontà di respirare umilmente i valori che insegnano le molteplici civiltà rurali affinché esso non smarrisca la sua identità, senza mai nascondersi dietro misere bautte di qualsiasi tipo ed essere in grado di ascoltare con umiltà senza mai umiliarsi.

Per questi motivi i delegati al settore dovrebbero essere ispirati dal gran valore di Giovanni Presta, dalla sua umanità che ha reso tantissimo alla nostra agricoltura; lo studioso è stato un modello di benessere morale, un’intelligenza con cui poter conversare apertamente di tesi e dottrine.

Un uomo che ha dedicato un’esistenza a classificare ed esporre la produzione dei suoi tempi per rendere conoscenza ai suoi posteri non può che ispirare unità, comprensione e gratitudine.

Seguire la generosità di questi uomini, sarebbe il piccolo gesto che potrebbe fare un tecnico agrario come quello di supportare proprio quegli ulivi che il famoso studioso gallipolino ci aveva descritto qualche secolo prima.

Gli stessi ulivi secolari descritti, oggi, forse ci/si stanno abbandonando all’incuria, nei viluppi del disinteresse o in chissà quale altro tipo di speranza. Ecco un altro valido motivo per difenderli con risolutezza.

La vite e l’olivo salentini nelle memorie degli autori latini e greci

di Armando Polito

CATONE (III-II secolo a. C.), De agricultura, 6, 1: In agro crasso et calido oleam conditivam, radium maiorem, Sallentinam, orcitem, poseam, Sergianam, Colminianam, albicerem;  quam earum in iis locis optimam dicent esse, eam maxime serito (Nel terreno grasso e caldo (pianta) l’olivo nelle varietà  da condimento, allungata maggiore,  salentina, orcite, posea, sergiana, colminiana, albicere; di esse pianta soprattutto quella che in quei luoghi dicono essere la migliore).

DIONIGI DI ALICARNASSO (I secolo a. C.), Antiquitates Romanae, I, 37, 2: Ποίας δ᾽ ἐλαιοφόρου τὰ Μεσσαπίων καὶ Δαυνίων καὶ Σαβίνων καὶ πολλῶν ἄλλων γεώργια; (Di quelle di quale regione olivicola [sono meno pregiate] le coltivazioni dei Messapi, dei Dauni, dei Sabini e di molti altri?

VARRONE (I secolo a. C.), De re rustica, I, 8: Iugorum genera fere quattuor: pertica, arundo, restes, vites. Pertica, ut in Falerno; arundo ut in Arpino; restes, ut in Brundisino; vites, ut in Mediolanensi (I tipi di spalliera sono press’a poco quattro:  con pertica, canna, corda, viticci. Pertica, come nel Falerno; canna, come nel territorio di Arpi; corde, come nel Brindisino; viticci come nel Milanese).

PLINIO  (I secolo d. C.), Naturalis historia, XIV, 3,  passim: Metaponti templum Junonis vitigineis columnis stetit (A Metaponto il tempio di Giunone si resse su colonne di vite); Nec non Tarentinum genus aliqui fecere, praedulci uva (Inoltre alcuni considerarono di origine tarantina una specie di vite dall’uva dolcissima); Verum et longinquiora Italiae ab Ausonio mari non carent gloria Tarentina(Veramente, [viti] d’Italia piuttosto lontane dalla parte del mare Ausonio, non mancano di fama la tarantina …).

La storia del tempio di Metaponto [naturalmente non si tratta dell’ultimo, del quale ci restano le rovine, visibili nella foto in basso tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/Era_(mitologia)#mediaviewer/File:Metapontum_2013.JPG)] retto da colonne di vite (comunque, mi chiedo inizialmente: vite vera e propria o colonna di legno di vite o colonna in pietra rivestita da vite?), anche se non coinvolge il territorio di Terra d’Otranto ma uno confinante, è troppo intrigante perché io passi agli altri brani dello stesso autore sulla vite e sull’olivo salentini senza spendere su di essa più di una parola (si salvi chi può! …).

Che la vite non abbia nel nostro territorio un fusto di grosse dimensioni è cosa risaputa e confermata anche dalla testimonianza di Plinio che nello stesso capitolo dello stesso libro ricorda impieghi tutto sommato eccezionali del suo legno: Jovis simulacrum in urbe Populonio ex una conspicimus, tot aevis incorruptum; item Massiliae pateram. Etiam nunc scalis tectum Ephesiae Dianae scanditur una vite Cypria, ut ferunt, quoniam ibi ad praecipuam amplitudinem exeunt (Ho visto nella città di Populonia una statua di Giove ricavata da una sola vite, intatta dopo tanto tempo; allo stesso modo una tazza a Marsiglia. Anche ora si sale sul tetto del tempio Diana ad Efeso mediante una scala fatta di una sola vite di Cipro, come dicono, poiché lì giungono ad una grossezza eccezionale).

Resti del tempio di Artemide ad Efeso; immagine tratta da http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/b/b2/Ac_artemisephesus.jpg
Resti del tempio di Artemide ad Efeso; immagine tratta da http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/b/b2/Ac_artemisephesus.jpg

E di seguito Plinio dà la sua spiegazione: Nec est ligno ulli aeternior natura. Verum ista ex silvestribus facta crediderim (Né altro legno ha una durata maggiore. Veramente sarei propenso a credere che questi manufatti siano stati ricavati da viti selvatiche).

Non mi è chiaro se al carattere selvatico Plinio attribuisca la grossezza o la durata nel tempo oppure entrambe.

Nel capitolo 98 del libro XVI vi è un’integrazione riguardante il  tempio di Diana ad Efeso: Maxime aeternam putant hebenum et cupressum cedrumque, claro de omnibus materiis iudicio in templo Ephesiae Dianae, utpote cum tota Asia extruente quadringentis annis peractum sit. Convenit tectum eius esse e cedrinis trabibus. De simulacro ipso deae ambigitur. Ceteri ex hebeno esse tradunt, Mucianus III consul. ex iis, qui proxime viso eo scripsere, vitigineum et numquam mutatum septies restituto templo, hanc materiam elegisse Pandemion, etiam nomen artificis nuncupans, quod equidem miror, cum antiquiorem Minerva quoque, non modo Libero patre, vetustatem ei tribuat. Adicit multis foraminibus nardo rigari, ut medicatus umor alat teneatque iuncturas, quas et ipsas esse modico admodum miror (Ritengono estremamente durevoli l’ebano, il cipresso e il cedro essendo chiaro su di loro tutti l’esempio nel tempio di Diana ad Efeso poiché col concorso di tutta l’Asia fu edificato in quattrocento anni. Si conviene che il suo tetto è di travi di cedro. Sulla statua stessa della Dea ci sono dubbi. Alcuni tramandano che fosse di ebano, Muciano console per la terza volta, uno di quelli che da poco avendola vista ne hanno scritto, (dice che è) di vite e mai cambiata pur essendo stato il tempio restaurato sette volte e che tale essenza la scelse Pandemione, indicando anche il nome dell’artefice, cosa di cui certamente mi meraviglio poiché le attribuisce un’antichità maggiore di Minerva2 e del padre Libero. Aggiunge che si bagna col nardo attraverso parecchi fori affinché l’umore medicamentoso nutra e mantenga salde le unioni della cui esistenza non mi meraviglio molto).

Indipendentemente dalle dimensioni della statua di Diana, il dettaglio delle unioni ci potrebbe spingere ad ipotizzare che nemmeno la statua di Giove a Populonia e, quel che ci interessa più da vicino, le colonne del tempio di Metaponto fossero in un unico pezzo.

Eppure l’ipotesi è messa in dubbio dalla testimonianza di Strabone (I secolo a. C.-I secolo d. C.), Geographia, II, 1, 14: Ἐν δὲ τῇ Μαργιανῇ τὸν πυθμένα φασὶν εὑρίσκεσθαι τῆς ἀμπέλου πολλάκις δυεῖν ἀνδρῶν ὀργυιαῖς περιληπτόν, τὸν δὲ βότρυν δίπηχυν [Nella Margiana (regione asiatica identificata con la valle di Fergana) dicono che spesso si trova il ceppo della vite così grosso che solo due uomini possono abbracciarlo e il grappolo di due cubiti].

Può darsi che Strabone abbia riportato una diceria esagerata e perciò suscettibile di tara, come non è da escludersi, nonostante lo spesso, che sia esistito qualche esemplare di quelle dimensioni, certamente non paragonabili a quelle di qualche vite centenaria nella quale è possibile imbattersi, per esempio, sulla costiera amalfitana, cui si riferisce la foto che segue, il corrispondente dei nostri ulivi patriarchi.

immagine tratta da http://www.lucianopignataro.it/a/tenuta-san-francesco-le-viti-giganti-e-piede-franco-della-costiera-amalfitana/25504/
immagine tratta da http://www.lucianopignataro.it/a/tenuta-san-francesco-le-viti-giganti-e-piede-franco-della-costiera-amalfitana/25504/

Per quanto fin qui detto appare verosimile che le colonne del tempio di Metaponto fossero costituite veramente da ceppi di vite gigante. Non sono un ingegnere ma credo che sarebbero state, comunque, in grado di reggere il peso del tetto. C’è stato, però, in un passato non molto remoto, chi ipotizzò, sia pure indirettamente, che la fabbrica  fosse una capanna piuttosto che un tempio vero e proprio.

Si tratta di Vincenzo Cuoco (1770-1823) che nel 1806 pubblicò il Platone in Italia, romanzo in forma epistolare, il cui inizio sembra anticipare il dilavato e graffiato autografo2manzoniano:  Il manoscritto greco che ora ti do tradotto, o lettore, fu ritrovato da mio avo, nell’anno 1774, facendo scavare le fondamenta di una casa di campagna che ei volea costruire nel suolo istesso ove già fu Eraclea3. Ogni angolo dell’Italia meridionale chiude tesori immensi di antichità; e non ve ne sarebbe tanta penuria se i possessori non fossero tanto indolenti quanto lo è il ricco possessor del terreno, ove era una volta Pesto, e dove oggi non vi si trova né anche un albergo per ricovrar coloro che una lodevole curiosità move dalle parti più lontane dell’Europa a visitar le ruine venerabili della più antica città dell’Italia.

L’ultimo periodo è di una sconcertante attualità; solo che, probabilmente, il Cuoco si sarebbe ben guardato dallo scriverlo se avesse presagito che il suo invito sarebbe stato accolto con la costruzione di case, alberghi, villaggi turistici e simili sopra i siti archeologici o nelle loro immediate adiacenze, con l’unica magra alternativa di spostare alcuni manufatti dal luogo in cui sono custoditi (vedi la polemica sui Bronzi di Riace da esibire o meno alla ormai famigerata Expo 2015).

Meglio non divagare, ma solo per rispetto del lettore e dell’economia del post, non certo di quella legata unicamente all’ignoranza e alla speculazione; nel capitolo XXXV così si legge: Peccato, che in questo bel tempio, tu ricerchi in vano una bella Dea! Non vedi né il sublime Giove, né la Minerva bella del nostro Fidia. Quando sei nel sacrario, ti si mostra una colonna rozza, sconcia, quasi simile a quelle sciagurate colonne di viti che sostengono quella capanna che in Metaponto chiamasi anch’essa tempio di Giunone.

E il Cuoco, quasi a commento alle immaginarie parole messe in bocca a Platone, in nota a Giunone aggiunge con nonchalance, quasi a conferma filologica della sua invenzione: Lo stesso Plinio ci dice che in Metaponto eravi un tempio di Giunone le di cui colonne eran di legno di vite. O la vite di Metaponto dovea esser marmo, o il tempio dovea esser una capanna.

Capanna o non capanna che sia stato questo tempio, non mancano testimonianze moderne di manufatti in legno di vite.

Girolamo Fabri, Le sagre memorie di Ravenna antica, Francesco Valuasense, Venezia, 1664, p. 3: A questa Santa Basilica (il Duomo di Ravenna) fa nobile, e maestoso ingresso una gran piazza apertavi dall’Arcivescovo Cristoforo Boncompagno con trè porte in faccia, la maggior delle quali è di vari marmi, e colonne egregiamente ornata, e massime di un grandissimo architrave con diversi intagli, figure, & è tradizione antica, che la porta di legno, che la chiude sia di vite.

Scipione Maffei, Osservazioni letterarie, Stamperia del Seminario, Verona, 1739, tomo IV, p. 371: Meritano menzione ancora le antiche porte del Duomo, che sono di legno di vite. Le tavole sono lunghe piedi 10, larghe più d’un piede, e grosse un’oncia e mezza.  

Giovanni Poleni, Sopra al tempio di Diana d’Efeso, in Saggi di dissertazioni accademiche pubblicamente lette nella nobile Accademia etrusca dell’antichissima città di Cortona,  tomo I, parte II, Pagliarini, Roma, 1742, pp. 48-49: Le porte della vecchia Chiesa Cattedrale di Ravenna, che fu abbattuta pochi anni sono, ed ora si rifabbrica magnificamente erano di legno di vite. Menzionate esse furono nella relazione d’un giro fatto dal celebratissimo Autore delle Osservazioni letterarie; e di esse pure me ne ha data una piena contezza il Reverendissimo P. P. Pomponio Suardi Abate in S. Vitale di Ravenna. Questo misurar fece da un architetto quelle porte, ed io qui trascrivo la nota delle misure da lui mandatami. La lunghezza delle Tavole è di palmi Romani 21. In circa: la larghezza di mezza porta è di palmi 8 e mezzo; la larghezza delle Tavole più strette è d’once 14 e delle più larghe d’once 21. In circa: la grossezza delle dette Tavole è di once 4 circa. Anche al dì d’oggi nelle pignete vicine a Ravenna vi si veggono delle viti d’una straordinaria grossezza. Quelle porte, benché antichissime siano, non ostante sono così ben conservate, che li direttori di quella grandissima fabbrica della Cattedrale pensano di servirsi delle Tavole di esse per formare alla cattedrale medesima le nuove porte.

Francesco Ginanni (1716-1766), Istoria civile e naturale delle pinete ravennati, Salomoni, Roma, 1774 p. 204: Di questa spezie di vite (labrusca, di cui ha parlato prima) forse potrebbero essere le tavole, che formavano le antiche Porte del Duomo nostro, e ora foderano le moderne. Esse erano lunghe piedi 10, larghe più di un piede, e mezzo.

Al di là delle divergenze dimensionali ravvisabili nei brani del Maffei e del Poleni, sembrerebbe che il pensiero dei direttori nominati nel passo del Poleni divenne, in qualche modo, realtà, ma credo che il foderano del passo precedente vada inteso tenendo conto di quanto si legge  in Francesco Nanni, Il forestiere in Ravenna, Roveri & figli, Ravenna, 1821, p. 5:  Meritano qui di essere ricordati sedici riquadri di tavole di vite, tenue avanzo delle antiche porte di questa Cattedrale, impostati nel di dietro della moderna porta, i quali fanno prova di quanto scrissero gli antichi intorno al crescere a dismisura di questa pianta.

La notizia è confermata da Gaspare Ribuffi in Guida di Ravenna, Roveri & figli, Ravenna, 1835, p. 16: Parete interna della Porta d’ingresso in Prospetto. Sopra la porta di mezzo: Grandioso Quadro rappresentante il Convitto del re Assuero di Carlo Bonomi ferrarese scolaro  di Paolo Veronese.   Nella serranda: Sedici riquadri di tavole di Vite, avanzo delle antiche Porte di questa cattedrale.  Sarebbe interessante, a questo punto, sapere come sono e stanno le porte attuali e chissà se qualche lettore, magari  ravennate perché per lui sarebbe più agevole, non soddisferà questa mia curiosità.

Il duomo di Ravenna; immagine tratta da http://www.duomoravenna.it/?page_id=236#duomo
Il duomo di Ravenna; immagine tratta da http://www.duomoravenna.it/?page_id=236#duomo

Chissà, chissà, chissà … che fine ha fatto il tronco di cui scrive Gaetano Savi nel Trattato degli alberi della Toscana, Piatti, Firenze, 1811, tomo II, p. 192: … nell’atrio dell’orto botanico di Pisa se ne (di vite) conserva un tronco alto braccia 5 (m. 2,918), e di braccia 2 (m. 1,67) di circonferenza, proveniente dalla maremma Sanese, e nominatamente da un terreno situato Tra Soreno e Castellottieri. 

Dopo questa lunga parentesi torno all’assunto iniziale e alla carrellata principale delle altre testimonianze pliniane.

XV, 1, 8: Principatum in hoc quoque bono obtinuit Italia toto orbe, maxime agro Venafrano eiusque parte quae Licinianum fundit oleum: unde et Liciniae gloria praecipua olivae. Unguenta hanc palmam dedere, accomodato ipsis odore. Dedit et palatum, delicatiore sententia. De cetero baccas Liciniae nulla avis appetit (Anche in questo bene [l’olio, prima ha parlato del vino] l’Italia ha il primato in tutto il mondo, soprattutto nel territorio di Venafro e nella parte di esso che produce l’olio liciniano, per cui altissima è la considerazione riservata all’oliva licinia. Questa fama la diedero i profumi adattandosi loro il suo odore; la diede anche il gusto per il sapore alquanto delicato. Per il resto nessun uccello è ghiotto delle bacche di [oliva] licinia).

Rinvio il lettore che si starà chiedendo dov’è citato il Salento (però ho sottolineato Licinianum e Liciniae) in questo brano all’ipotesi formulata in https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/10/24/olive-celline-perche-questo-nome/.

MACROBIO (IV-V secolo d. C.), Saturnalia,  III, 20, 6: Olearum genera haec enumerantur: Africana, albigerus, Aquilia, Alexandrina, Aegyptia, culminia, conditiva, Liciniana, orceas, oleaster,  pausia, paulia, radius, Sallentina, Sergiana, Termutia (Si contano queste varietà di olivi: l’africana, l’albigera, l’aquilia, l’alessandrina, l’egizia, la culminia, quella da condimento, la liciniana, l’orcea, la pausia, la paulia, la allungata, la salentina, la sergiana, la Termuzia).

Chiedo scusa al lettore per averlo intrattenuto, ancora una volta, con un argomento nella trattazione del quale di mio c’è ben poco, a parte l’augurio finale, in due versi (!), endecasillabi in rima baciata, per chiudere in allegria, augurio per oggi limitato a queste due essenze e dovuto alle ben note contingenze non solo economiche:

Lunga vita alla vite e all’ulivo

per noi vino ed olio senza additivo!

___________

1 Minerva era considerata l’inventrice di tutte le arti.

2 Come sapeva qualsiasi studente del passato (quando la lettura de I promessi sposi era obbligatoria), il Manzoni finge di aver ritrovato un antico manoscritto e, dopo aver rinunziato alla sua semplice trascrizione, decide di prender la serie de’ fatti da questo manoscritto, e rifarne la dicitura.

3 Nei pressi di Policoro, in provincia di Matera.

Ulisse e l’ulivo

di Armando Polito

Esordisco con miei complimenti all’autore del recente post (https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/08/29/olio-e-imbonitori/) per lo splendido scritto che, seppur datato, non avevo avuto ancora occasione di leggere, nonostante mi ritenga un topo di rete … non fognaria.

Mi permetto, però, di muovere un solo rilievo all’affermazione “sempre dall’ulivo viene l’arco con cui il re d’Itaca compie la Nemesi verso i Proci”.

Conosco molto bene il legno d’ulivo per averlo lavorato, anche al tornio, prima che la passione per l’informatica prendesse definitivamente il posto di quell’hobby (perciò, non fatevi illusioni: non si accettano ordinazioni …). Si tratta di un legno durissimo ed assolutamente non flessibile, quasi come l’acciaio: si spezza ma non si piega. Tra tutti i tipi di legno credo che sia il più vivo, nel senso che è sensibile all’ambiente e non è raro veder comparire nei manufatti, di qualsiasi dimensione, delle crepature (segno che la stagionatura, in un certo senso la morte, non giunge mai a compimento) anche a distanza di parecchi decenni.

La serie di foto che segue vuole essere la dimostrazione che non racconto balle e la rozzezza degli oggetti lo dimostra. Non accampo giustificazioni per quest’ultima ma faccio presente che si tratta di lavori realizzati con un tornio da cavernicolo: su un panchetto di legno abbastanza pesante era fissato un binario sul quale era stato saldata ad un’estremità quella che aveva la pretesa di essere la testa (un pezzo di ferro dentellato); sul binario poi scorreva la contropunta e perpendicolarmente era stato saldato un altro binario su cui scorreva un supporto regolabile sul quale tener fermo lo scalpello nel corso del lavoro. La testa era collegata con una cinghia ad un motore sottratto al ventre di una lavatrice in attesa di rottamazione. A ripensarci mi chiedo come per tanti anni sia riuscito non solo a sopravvivere ma anche a non procurarmi alcun danno con quell’aggeggio infernale.

Comincio con una foto d’insieme di alcuni oggetti collocati (poteva essere diversamente?) su un tavolo il cui piano è costituito da un unico pezzo di olivo (per poterlo ridurre nelle condizioni in cui è ho distrutto tre trapani e due levigatrici e consumato un numero imprecisabile di mascherine …).

Presento ora in dettaglio qualche oggetto più significativo. Comincio con due contenitori.

Proseguo con gli immancabili mortai. Questo avrebbe fatto comodo a Polifemo …

… questi altri sono più a misura d’uomo …

… una cornice, certamente indegna della bellezza della donna in foto …

… una specie di scultura (?) morta …

… un uovo, come quello usato dalle nostre nonne per rammendare i calzini (se continua la situazione economica attuale, quasi quasi mi rimetto a fabbricarli, questa volta in serie) …

… uno dei tanti modelli di pipa; parecchie le ho usate prima di passare ai sigari.

Per quanto osservato posso affermare senza rischio di essere smentito che anche oggi un arco ricavato dall’ulivo (anche con una struttura multistrato) potrebbe essere solo un bell’oggetto di arredamento. Per quello che può interessare: quando esercitavo quell’hobby (sto parlando di più di trent’anni fa …) mi costruii pure (questa volta solo usando sega, seghetto, trapano e levigatrice) una racchetta da pingpong, grazie alla quale (mi ero studiato ben bene, però, le reazioni della pallina nell’impatto con quel tipo di legno) per qualche anno non ce ne fu per nessuno (e nessuno, naturalmente era in grado di usarla con la stessa efficacia; insomma, un Ulisse del pingpong … poi subentrò l’artrosi e cominciò l’odissea …). Ecco l’immagine di quella che avevo battezzato micidial ’81 (come si legge nel dritto … manco fosse una moneta), personalizzandola con ulteriori scritte in cui spicca per modestia optima optimo (la migliore per il migliore). So già cosa state pensando: la locuzione è ellittica di qualcosa e va ricostruita così: la migliore (racch[i]etta) per il migliore (scorfano).

Tra una racchetta da pingpong ed un arco corre, però, una bella differenza.  Ma c’è di più: se è ipotizzabile che nell’antichità gli archi potessero essere di legno (ma non d’ulivo), l’arco di Ulisse non lascia adito a dubbi. Ecco come Omero descrive i preliminari, non meno importanti dell’atto che l’eroe si appresta a compiere (naturalmente la strage dei Proci …, che vi aspettavate con quei preliminari e il successivo atto?): “Prima guarda bene se è integro, poi lo passa attentamente sul fuoco e infine monta la corda”. Queste parole ci fanno inequivocabilmente capire che l’arco di Ulisse era di corno, il materiale di regola usato, oltre al legno, nella fabbricazione degli archi, ma che, a differenza di questo, andava preventivamente riscaldato in quanto la cheratina da cui è composto in tal modo si ammorbidisce e lo rende flessibile. Con questo trucchetto Ulisse fottè i Proci, che, nel tentativo di tenderlo a freddo, si ritrovarono tutti con una bella ernia e subito dopo vittime dei missili e dell’operazione chirurgica (la sua autentica, non fasulla e propagandistica in stile americano …) dell’eroe di Itaca.

Comunque, se l’arco esce di scena, ci sono due nuove entrate, sempre riferite all’eroe omerico e sempre dall’Odissea:

1) V, 474-487:  Ulisse trova riparo nella cavità di due olivi (di cui uno selvatico) insieme intrecciati a formare quasi un unico corpo.1

Immagine tratta da http://www.barinedita.it/inchieste/n513-ulivi-secolari-a-rischio--la-regione-vuole-modificare-la-legge-che-li-tutela
Immagine tratta da http://www.barinedita.it/inchieste/n513-ulivi-secolari-a-rischio–la-regione-vuole-modificare-la-legge-che-li-tutela

2) IX, 319-330: di ulivo è il tronco divelto da Polifemo per farsene un bastone, lasciato a stagionare nella caverna e utilizzato da Ulisse per accecarlo (quello che per Polifemo doveva essere uno strumento per far fronte all’artrosi diventa la causa di un male ben peggiore …).2

Gruppo frammentario rinvenuto nel 1957 nella caverna che fungeva da stanza da pranzo estiva nella villa di Tiberio a Sperlonga, conservato nel locale museo. Immagine tratta da http://www.ettorehippodamos.com/sites/ettorehippodamos.com/files/Odiseo%20y%20Polifemo.jpg

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1 Ὣς ἄρα οἱ φρονέοντι δοάσσατο κέρδιον εἶναι/βῆ ῥ᾽ ἴμεν εἰς ὕλην· τὴν δὲ σχεδὸν ὕδατος εὗρεν/ἐν περιφαινομένῳ· δοιοὺς δ᾽ ἄρ᾽ ὑπήλυθε θάμνους,/ἐξ ὁμόθεν πεφυῶτας, ὁ μὲν φυλίης, ὁ δ᾽ ἐλαίης./Τοὺς μὲν ἄρ᾽ οὔτ᾽ ἀνέμων διάη μένος ὑγρὸν ἀέντων,/οὔτε ποτ᾽ ἠέλιος φαέθων ἀκτῖσιν ἔβαλλεν,/οὔτ᾽ ὄμβρος περάασκε διαμπερές· ὣς ἄρα πυκνοὶ/ἀλλήλοισιν ἔφυν ἐπαμοιβαδίς· οὓς ὑπ᾽ Ὀδυσσεὺς/δύσετ᾽.  Ἂφαρ δ᾽ εὐνὴν ἐπαμήσατο χερσὶ φίλῃσιν/εὐρεῖαν· φύλλων γὰρ ἔην χύσις ἤλιθα πολλή,/ὅσσον τ᾽ ἠὲ δύω ἠὲ τρεῖς ἄνδρας ἔρυσθαι/ὥρῃ χειμερίῃ, εἰ καὶ μάλα περ χαλεπαίνοι. Τὴν μὲν ἰδὼν γήθησε πολύτλας δῖος Ὀδυσσεύς,/ἐν δ᾽ ἄρα μέσσῃ λέκτο, χύσιν δ᾽ ἐπεχεύατο φύλλων.Ὡς δ᾽ ὅτε τις δαλὸν σποδιῇ ἐνέκρυψε μελαίνῃ/ἀγροῦ ἐπ᾽ ἐσχατιῆς, ᾧ μὴ πάρα γείτονες ἄλλοι,/σπέρμα πυρὸς σώζων, ἵνα μή ποθεν ἄλλοθεν αὔοι,/ὣς Ὀδυσεὺς φύλλοισι καλύψατο (Mentre a lui che pensava era in dubbio che cosa fosse più conveniente, capitò di andare verso la selva; la trovò vicino all’acqua in un luogo splendido; si nascose sotto due arboscelli nati insieme, uno di ulivo selvatico, l’altro di ulivo domestico. Dentro di loro non soffiò forza di venti spiranti umidità né mai lo splendente sole li battè con i suoi raggi, né pioggia battente vi penetrò, così  reciprocamente intrecciarti erano cresciuti. Sotto di loro entrò Odisseo. Subito con le proprie mani si preparò un comodo giaciglio; infatti c’era uno strato di foglie smisuratamente spesso tanto da coprire due o tre uomini nella stagione invernale, anche se fosse stata estremamente rigida. Vedendo le foglie si rallegròil tanto sofferente divino Odisseo, si distese dunque nel mezzo e si sparse addosso uno strato di foglie. Come talvolta uno in isolata campagna, in cui non vi sono altri vicini,  nascose un tizzone sotto la nera cenere salvando il seme del fuoco per non attizzarlo da qualche altro luogo, così Odisseo si nascose sotto le foglie).

2 Κύκλωπος γὰρ ἔκειτο μέγα ῥόπαλον παρὰ σηκῷ,/χλωρὸν ἐλαίνεον· τὸ μὲν ἔκταμεν, ὄφρα φοροίη/αὐανθέν. Τὸ μὲν ἄμμες ἐίσκομεν εἰσορόωντες/ὅσσον θ᾽ἱστὸν νηὸς ἐεικοσόροιο μελαίνης,/φορτίδος εὐρείης, ἥ τ᾽ ἐκπεράᾳ μέγα λαῖτμα·/τόσσον ἔην μῆκος, τόσσον πάχος εἰσοράασθαι./Τοῦ μὲν ὅσον τ᾽ ὄργυιαν ἐγὼν ἀπέκοψα παραστὰς/καὶ παρέθηχ᾽ ἑτάροισιν, ἀποξῦναι δ᾽ ἐκέλευσα·/οἱ δ᾽ ὁμαλὸν ποίησαν, ἐγὼ δ᾽ ἐθόωσα παραστὰς/ἄκρον, ἄφαρ δὲ λαβὼν ἐπυράκτεον ἐν πυρὶ κηλέῳ/καὶ τὸ μὲν εὖ κατέθηκα κατακρύψας ὑπὸ κόπρῳ,/ἥ ῥα κατὰ σπείους κέχυτο μεγάλ᾽ ἤλιθα πολλή. (Nella spelonca del Ciclope giaceva un grande bastone verde, di ulivo; l’aveva tagliato perché fosse usato una volta secco. Guardandolo ci sembrò come albero di nera, grande nave mercantile a venti remi, che solca il vasto mare, tanta era a guardarsi la grossezza, tanto lo spessore. Avvicinatomi ne tagliai quanto due braccia aperte, la passai ai compagni e ordinai loro di pulirla; essi lo resero uniforme, io accostatomi appuntii l’estremità, subito poi afferratolo lo temprai nel fuoco ardente e lo nascosi accuratamente sotto il letame che giaceva abbondante nella spelonca).

 

 

 

Olio e imbonitori …

Olio

di Pino de Luca

 

In un tronco di ulivo Ulisse intagliò il suo talamo nuziale, di legno d’ulivo è il manico dell’ascia bronzea che Calipso gli dona per costruire la sua zattera, sempre dall’ulivo viene l’arco con cui il re d’Itaca compie la Nemesi verso i Proci. Biòs è l’arco d’ulivo, strumento di morte, Bìos è la vita che si concepisce nel talamo nuziale … E un ramoscello d’ulivo porta la colomba a Noé per suggellare il patto dell’Arca, e l’unzione sovrintende confermazione, ordine sacro e l’atto estremo. D’ulivo sono le fronde che accolgono l’Emanuele a Gerusalemme e frantoio (Getsemani) è il luogo del tradimento e dell’estremo sacrificio. Quanti simboli in quell’albero, in quei frutti e nel succo che ne scaturisce. Prezioso per tutti, per i vivi e finanche per i defunti. Salubre e santo.
Non si può far verbo dell’olio senza parlar d’ulivi.
Di oli ne esistono tanti, ma l’olio che viene dalla premitura delle drupe dell’albero che impreziosisce da millenni le terre del Mediterraneo è altra cosa. L’ulivo è pace, morigeratezza nei costumi, gloria, giustizia, sapienza, rinascita a nuova vita. È l’albero che si torce per impedire che da esso si possa trarre il legno della croce e così resta, scultura perpetua e testimone per secoli di abbondanze e carestie.
ph Mauro Minutello
ph Mauro Minutello
Conviviamo da sempre con questi giganti buoni, alberi che la stupidità e l’avidità di pseudo-umani troppo spesso sacrificano a inutili forme di pseudo-modernità. Dai nostri ulivi secolari si estrae, appunto da secoli, l’olio, l’oro verde. L’esigenza di tutelarne il valore ha prodotto, forse troppo lentamente, normative stringenti capaci di rendere più difficili le frodi. La più recente riguarda la riconoscibilità di oli prodotti da olive “maltrattate”.
Non è questo il luogo per tassonomie e classificazioni, ma l’elemento chimico-fisico minimale per riconoscere un Olio Extra Vergine d’Oliva (OEVO) ci sia permesso: Acidità: 0,8%; Numero di perossidi: 20; Acidi saturi: 1,3; Steroidi: 1, Isomeri: 0,03; e all’esame spettrofotometrico: K232: 2,5; K270: 0,1, ?K: 0,001.
Ovvio che non basta, queste sono le condizioni minimali, di chimico-fisiche, ve ne sono tantissime altre, fra le ultime la quantità di sostanze che va sotto il nome di alchil-esteri e metil-esteri.
Poi si ragiona di olfatto, gusto, salubrità. Il nostro territorio è da sempre dominato da cultivar di celina di Nardò, ogliarola leccese e porzioni ampie di leccino e frantoio.
Non eravamo terra vocata alla produzione di oli alimentari, ma solo di oli lampanti, ovvero atti a fornire energia per i lampioni di grandi città come Milano e Parigi. Poi l’evoluzione e il petrolio, l’energia elettrica e i testimoni della storia a presidiare i campi, a onorare le mense che intelligenza e cultura secolare hanno arricchito con produzioni ad uso alimentare e dalle caratteristiche straordinarie.
Quale miglior “integratore alimentare” per i bambini convalescenti può sostituire un cucchiaino di “olio di affioramento”? Cosa c’è di più sano di una frisa con olio, pomodoro, sale e un pizzico di origano fresco? E le paparine ripassate con olio, olive nere e una punta di diavolicchio?
Potremmo andar avanti per secoli … e per secoli siamo andati avanti. Liberi dalla necessità di produrre per le torce, i produttori più avveduti hanno affinato tecniche di produzione, di raccolta e di molitura e oggi il Salento è patria di oli da sballo, dal Terra d’Otranto DOP a vari monocultivar dalla versatilità incredibile. Arrivano mail che raccontano di uso per far pasta frolla e salsa besciamel, gelato e creme, infusi e guarnizioni … Gli oli del Salento son capaci di “parlare”, di suggerire l’uso da farne.
Ma per questi oli bisogna raccogliere le olive al momento giusto: l’invaiatura (ovvero quando da verdi cominciano ad annerire) e, immediatamente, molirle a freddo. Le drupe sono frutti che assorbono moltissimo e degradano rapidamente. Meno le si tocca meglio é. Ci sono oli buoni crudi su alimenti crudi, crudi su cotti, cotti per cotti, cotti per crudi. Sapori decisi, a scalare.
Un monocultivar di Celina filerà su un carpaccio di triglia, un blending  delicato colorerà un piatto di legumi, un leggero soffritto di fruttato medio con acciuga e aglio insaporirà dei cavoli al vapore, e neutro deve esser l’olio con il quale si tosta il guanciale che arricchisce una crudaiola di fiaschetti … Se la frittura non é abitudine giornaliera, farlo sempre e solo d’olio vergine di oliva dal gusto neutro, chi perora la leggerezza di altre sostanze per la frittura mente sapendo di mentire.
La possibilità di scelta per gli oli è straordinaria, chi fa ristorazione collettiva abbia il tavolo degli Oli e non l’oliera di un olio anonimo, è un tocco di classe non da poco. L’Olio di Oliva è storia, cultura e fede. Non si tratti come un qualunque grasso vegetale.
Il costo? Singolare che quando si va a fare il tagliando per l’auto si scelga l’olio migliore e per nutrir sé stessi e i propri figli ci si ponga il problema del costo dell’olio …
Son passati esattamente sette anni da quando questo articolo fu scritto e pubblicato. Ed ora? Tutto questo dovremmo lasciarlo svanire per insipienza, codardia o semplice ignavia? Nemmeno per sogno: difendere gli ulivi è difendere la vita. E va fatto seriamente e senza “se” e senza “ma”. E senza “guaritori” o “sciamani” per i quali spero che ci sia qualcuno pronto all’applicazione dell’art. 661.

Xilella e Salento

ph Marco Cavalera
ph Marco Cavalera

di Pino de Luca

 

Sto studiando la Xylella Fastidiosa, la moria di ulivi nel Salento è orribile e, temo, continuerà ancora per quattro o cinque anni. Il batterio è pericoloso ma abbiamo alcuni vantaggi operativi che non scriverò qui ovviamente. Se la Xylella diventa questione nazionale possiamo far fare all’Italia un grande balzo scientifico in campo agricolo e biologico. Se invece triamo a campare aspettiamoci anche l’attacco alla vite e la desertificazione di una delle aree più belle del pianeta. Altro che turismo e dieta mediterranea …

Si può agire, si può fare. Ma ci vogliono risorse e sforzi unitari. Poi litigheremo dopo.

Ma adesso bisogna mantenere il patrimonio ulivicolo e svilupparlo, e, possibilmente, trovare il modo PULITO di sconfiggere la Xylella. Si può fare.

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