Della morte nel 1799 del “giacobino” ugentino Oronzo Santacroce

 

di Luciano Antonazzo

 

Pietro Palumbo nel suo Risorgimento Salentino[1] descrisse i molteplici scontri, sfociati in omicidi, tra i fautori della Repubblica Napoletana ed i filo-Borbonici nel Salento.

Per quanto concerneva Ugento, testualmente scrisse a pagina 47:

“Ugento era lacerata dai partiti Santacroce e d’Alessio, il primo democratico, l’altro borboniano. Alle notizie di Lecce e di Campi gli odî si riaccesero e parve giunto il momento di sbarazzarsi dei giacobini. Il popolo fu spinto a tumultuare da Francesco d’Alessio, da Ippazio Viva e da Pasquale de Paolis, i quali decisero di ammazzare Oronzo Santacroce.

Suonando il vespero degli 11 febbraio [1799] un esercito di sfaccendati, di preti, di disertori, allagò le vie armato di schioppi e con le coccarde rosse ai cappelli. A quel rumore il Santacroce, indovinando le sinistre intenzioni della folla, segretamente uscì alla campagna. Scoperta la fuga, i più audaci gli corsero alle spalle, e il Santacroce sparò ed uccise Salvatore Pongo [Ponzo] il quale stava per ghermirlo. Ma raggiunto da altri fu finalmente colpito da punte di baionetta ed ucciso con pietre”.

In realtà però questo avvenimento ebbe luogo la notte del 15 marzo del 1799, presso la Porta San Nicola, ad ovest delle mura bizantine, e non in campagna, come ci attesta don “Hippatius Canonicus Theologus Colajanni Aeconomus Curatus” che registrò la morte del Santacroce nel libro dei defunti della cattedrale di Ugento. Questa registrazione ricalca l’esposizione di fatti riportata dal Palumbo, ma è più cruda nella sua realtà. Egli, quasi come cronista dell’epoca, testualmente riportò:

Uxenti die decima quinta Mensis martii anni R. S. millesimi septingentesimi noni, hora vigesima tertia cum dimidio, Orontius Santacroce, vir Barbarae Paschali coniugis de Uxento, aetatis sua annorum circa quadraginta, obiit extra muros hiuiusce Civitatis prope Portam vulgo dicta Santi Nicolai, ex violenti populari impetu lapidibus fractus, insimulatus tamquam Religiosissimo Regi nostro Ferdinandi IV rebellis, Gallisque hostibus amicus, vulgo Jacobinus; quam paullo ante ipse tormenti bellici laxata rota ignito globulo Salvatori Ponzo se se proprius inseguenti mortem intulisset in ipso dicto Portae Santi Nicolai fornice audituque. Ipse autem Orontius S. Croce in mortis articulo dato poenitentiae signo, ab adomudum Reverendo P. Magistro F. Alberto Arditi Carmelita de Praesitio Sacramentaliter absoluto decessit. Cuius corpus in proximum S. Oratorium Beatae Mariae Virginis sub titulo Assumptionis jam sequente nocte illatum, sequenti mane in Cathedralem Ecclesiam apportatutum, ibidem peractis ex R.R. Sacris cerimonis in sepultura heredum quondam canonici D. Antonii Sava inumatum fuit[2].

A questa segue la registrazione della morte di Salvatore Ponzo di circa trenta anni, deceduto “ex ictu sclopeti, qui sibi vulnus inflictum fuit ab Orontio S. Croce[3]. Il Ponzo ebbe il tempo di confessarsi allo stesso Colajanni e di ricevere il viatico, prima di rendere l’anima a Dio. La mattina seguente fu officiato il rito funebre ed il suo corpo fu deposto nella sepoltura dell’Università.

I tragici avvenimenti sopra descritti ebbero uno strascico ancora più crudele il giorno dopo.

Nello stesso registro dei defunti, dopo l’annotazione della morte del Ponzo, si legge infatti:

Uxenti die decima septima mensis martii millesimi septingentesimi noni, hora septima noctis praecedentis anima innocentis puellae Aemiliae S. Croce filia quondam Orontii Santacroce, aetatis suae annorum quatuor, et mensis unius cum dimidio in Coelum advolavit; convulsionibus enim repente abrepta fuit puella, quia imprudenter ducta fuissete in Sacrum Oratorium sub titulo Sanctae Mariae in Coelo Assuntae ad videndum Orontium S. Croce patrem suum vulneribus saucium domique miserrime jacentem. Cuius puellae corpus in Ecclesiam Cathedralem seguente mane illatum, expletis ex R.R. Sacris cerimoniis in sepultura heredem quondam canonici D. Antonii Sava simul cum patrem depositum manet[4].  

Oronzo Santacroce era nato il 24 ottobre 1658 dal notaio Vito e da Maddalena Nicolazzo, ed era fratello del notaio Francesco. Quest’ultimo venne implicato nella vicenda dei due omicidi ma, da quel che è dato sapere, ne uscì indenne. Di lui Nicola Vacca scrisse:

“Viene notato di perduto genio repubblicano. Mostrò tutta la premura di democratizzare quel luogo. Si insignì di coccarda tricolorata. Sparlò in pubblico dei sovrani.  Fu carcerato ed indi abilitato. Vi seguirono due omicidi, per i quali se n’è persa la memoria dal sig. udit.re D. Antonio Greco, ed esso Santacroce fu abilitato”[5]. 

 

[1] P. PALUMBO, Risorgimento Salentino (1799-1860), Gaetano Martelli Editore, lecce 1911.

[2] Trad.: “Ugento giorno quindici dell’anno della Riconquistata Salvezza 1799, all’ora ventitreesima e mezza, Oronzo Santacroce, marito di Barbara Pascale, coniugi di Ugento, all’età sua di circa quarant’anni, morì fuori le mura di questa città, vicino la porta dal volgo detta di S. Nicola in seguito a violento impeto popolare, fracassato con pietre, accusato sia come ribelle al nostro religiosissimo re Ferdinando IV, che come amico ai nemici francesi, per il volgo giacobino; il quale poco prima, esso stesso, con un’ infuocata palla di scioppo (tormenti bellici laxata rota),  a Salvatore Ponzo che proprio lui inseguiva, aveva arrecato la morte nello stesso detto arco ed adito della Porta di S. Nicola.  Lo stesso Oronzo S. Croce, dato in articulo mortis il segno della Penitenza dal molto Reverendo Padre Maestro frate Alberto Arditi carmelitano di Presicce, assolto sacramentariamente, decedette. Il cui corpo già deposto la notte seguente nel vicino S. Oratorio della Beata Vergine Maria sotto il titolo dell’Assunzione, la mattina successiva fu portato nella chiesa cattedrale, nello stesso luogo, avendo adempiuto secondo i Riti alle sacre cerimonie, fu inumato nella sepoltura degli eredi del defunto canonico don Antonio Sava”.

[3] Trad.: “per una ferita che gli fu inflitta da Oronzo Santacroce mediante un colpo di schioppetto”.

[4] Ugento -Archivio parrocchia della Maddonna Assunta, registro dei defunti 1798-1808, cc. 70r-70v.

Trad.: “Ugento, giorno diciassette del mese di marzo 1799, all’ora settima della notte precedente, l’anima dell’innocente fanciulla Emilia Santacroce, figlia del fu Oronzo Santacroce, all’età di anni quattro e mesi uno e mezzo volò in cielo; infatti la fanciulla fu repentinamente portata via dalle convulsioni perché imprudentemente era stata condotta nel Sacro Oratorio sotto il titolo di S. Maria Assunta in Cielo per vedere il padre suo straziato dalle ferite e nel tempio miseramente giacente. Il di cui corpo, della fanciulla,   portato il corpo la mattina seguente nella chiesa cattedrale, dopo aver adempiuto secondo i riti alle sacre cerimonie, rimane deposto insieme con il padre nella sepoltura degli eredi del fu canonico don Antonio Sava”.

[5] N. VACCA, I rei di Stato del 1799, Vecchi & C. Editori, Trani 1944, p. 98.

Considerazioni sulla “veduta” di Ugento del Pacichelli del 1703

di Luciano Antonazzo

 

Delle mura messapiche e di quelle bizantine della città di Ugento, negli ultimi decenni, si sono occupati diversi istituti di ricerca e diversi studiosi, sia italiani che stranieri.

Per quanto riguarda le più recenti ed esaustive pubblicazioni dei nostri connazionali, il prof. Antonio Pizzurro ha parlato diffusamente delle mura messapiche nel suo Ugento- Dalla preistoria all’Età Romana[1]. A lui ha fatto seguito il prof. Giuseppe Scardozzi con La cinta muraria di Ugento[2] e da ultimo la prof. Giovanna Occhilupo ha realizzato un importante lavoro dal titolo Ugento – La città medievale e moderna[3] nel quale ha dedicato un capitolo alle Mura medievali, ossia alla cinta muraria bizantina, lunga circa un chilometro, realizzata verso il X secolo per proteggere la parte alta della città.

Per i loro lavori i succitati autori si sono avvalsi della cartografia storica pervenutaci su Ugento: la “veduta” della città del Pacichelli del 1703, la Pianta iconografica dell’antica e moderna città di Ugento, realizzata dall’arch. Palazzi nel 1810 e la Pianta generale dei beni della casa Colosso in Ugento, realizzata dall’ing. Giuseppe Epstein nel 1897.

La dott.ssa Occhilupo nel suo testo rimarca come attorno alle mura della città, sia messapiche che bizantine, vi sia notevole confusione e discordanza tra gli studiosi riportandone le diverse opinioni.

La sua analisi parte dalla veduta della città che il Pacichelli (1634 – 1695) inserì nel secondo volume de Il Regno di Napoli in prospettiva diviso in dodici province, edito postumo nel 1703.

Veduta della città di Ugento – Pacichelli 1703

 

Si tratta di una pianta pseudo prospettica nella quale la città è vista da Est. In basso è evidenziato il borgo dal quale si diparte una strada che conduce alla fortificazione bizantina. L’accesso alla città per chi proveniva dal borgo era quello di Porta Paradiso, ma accanto a questo il Pacichelli ne riporta un secondo denominato Porta Piccola[4]. Sono quindi riportati gli edifici più importanti della città, indicati numericamente ed elencati in legenda. Alle spalle del centro urbano è raffigurata la cinta muraria messapica con tre porte denominate Porta S. Giorgio, Porta Santa Croce e Porta S. Nicola. Oltre le mura è raffigurato il mare su cui si affacciano altri centri urbani sovrastati da rilievi montani.

Questa pseudo-pianta però non è realistica in quanto vi sono delle incongruenze sia con lo stato dei luoghi che con quanto riportato da diversi documenti, sia anteriori che posteriori al 1703. Che detta riproduzione, assieme ad altre, non fosse del tutto affidabile lo si evince dal giudizio che ne diedero i posteri. Infatti, se il Regno di Napoli in prospettiva agli inizi raccolse molti elogi, successivamente fu oggetto di critiche severe.  Pietro Antonio Antonio Corsignani dichiarò che il Pacichelli incorreva in “vari abbagli”, come era “solito fare in quella sua opera,[Il Regno di Napoli..] affastellata senza discernimento” (1738. I, p.27)[5], mentre Lorenzo Giustiniani giunse a dire che si trattava di opera “con rami rozzi daddovero[6] e mal fatti” e “scritta da uomo acciabattante qual egli era[7]. Altri sollevarono dubbi sulla veridicità delle informazioni da lui riportate nelle sue opere, nelle quali si sarebbe dovuto “distinguere ciò che egli stesso ha veduto, da ciò che ha udito narrare per tradizione[8]. Anche studi recenti hanno accertato che la fama del Pacichelli è da ritenersi in larga misura usurpata. Risulta infatti che egli si limitò a riportare notizie raccolte qua e là, e che i suoi viaggi si svolsero solo dopo che aveva consegnato il manoscritto agli editori[9].

La prima osservazione da farsi è che egli, nel descrivere la città, dice che era “un miglio distaccata dal mare”, mentre in tutti i documenti, più o meno antichi, si dice (come in effetti era ed è) che la città distava dal mare “quattro miglia”; inoltre, nei due scudi ai vertici superiori della pianta non è raffigurato lo stemma di Ugento, benché lo stesso, come documentato, fosse stato adottato dalla città almeno dalla prima metà del ‘500[10].

In terzo luogo, nella cerchia delle mura messapiche indica a N/E della città, col n. 4, Porta S. Nicola, in corrispondenza dell’ex monastero dei Celestini, a Nord del borgo. In realtà questa porta era situata a S/O della cinta muraria bizantina e la conferma si ha, oltre che da innumerevoli documenti, dal fatto che detta porta prese la denominazione dell’esistenza nei suoi pressi di una chiesetta intitolata a S. Nicasio[11], appena fuori le mura.  Ed ancora, nel circuito delle mura messapiche col n. 3 è indicata a N/O porta S. Giorgio, mentre la stessa si trovava esattamente a N/E, nella contrada che da sempre è stata identifica col toponimo Santi Giorgi[12]. A N/E egli colloca invece Porta Santa Croce che certamente prese il nome dalla contrada S. Croce, poi Acquarelli[13], che si trovava a N/O dell’antico centro abitato.

E veniamo alla cosidetta Porta piccola che il Pacichelli colloca a S/E della muraglia bizantina, a poca distanza da Porta Paradiso sita a N/E, dalla quale secondo Salvatore Zecca irruppero in città i turchi nella loro incursione del 1537[14].

Dell’esistenza di questa porta non si è mai avuta cognizione ed il solo a parlarne fu il Pacichelli che ebbe come primo emulo l’arch. Palazzi il quale nella sua Pianta Iconografica di Ugento, la collocò, identificandola col n. 17, alle spalle della cattedrale, al vertice posteriore del suo lato destro (vista di fronte).

Tutti i successivi studiosi e scrittori locali, con dei distinguo, hanno preso per veritiera la “veduta” del Pacichelli, ma nei documenti pervenutici è rimarcato che due erano gli accessi alla città: Porta Paradiso[15] e Porta S. Nicola. Il primo di questi documenti è del 1634; si tratta dell’apprezzo che fece il tavolario Giulio Cesare Giordano in occasione della messa all’asta del feudo di Ugento. Vi si legge: “La città di Ugento […] è posta su una cima di Montetto murata attorno con bastioni, torri et altre fortificazioni, tiene li suoi ingressi per due parti, una dimandata la Porta di Paradiso, nella regione di levante, e l’altra dimandata Porta di Santo Nicola nelle regione di Ponenente […][16].  

Il feudo fu aggiudicato a Don Emanuele Vaaz de Andrada e nel documento della presa di possesso è precisato che la comitiva entrò in città da “Portam dictam del Paradiso” e che attraversando la piazza giunse a Porta S. Nicola[17]. Non vi è menzione di nessuna altra porta.

Oltre un secolo dopo, nell’apprezzo del tavolario Luca Vecchione del 1761, si legge che la città di Ugento si trovava: “quasi nel mezzo del feudo, sopra un dolce colle, da ogni intorno murato: si entra in essa mediante due porte: una detta del Paradiso, che riguarda Oriente, l’altra nominata di Santo Nicola coll’aspetto ad Occidente[18]. Anche qui non si accenna ad altre porte.

È verosimile che qualche decennio dopo vennero aperti altri varchi nella muraglia bizantina, ma fino ai primi dell’Ottocento, quando cominciarono ad essere usurpate le antiche mura bizantine[19], non si è rinvenuta alcuna testimonianza documentale in proposito.

Ma tornando alla famigerata “Porta piccola”, da dove salta fuori?

La spiegazione si trova nei protocolli del notaio Francesco Carida, di proprietà privata. In diversi suoi atti rogati tra il 1679 ed il 1696 troviamo che l’abitazione dei Papadia (corrispondente all’attuale sede degli uffici per il turismo che dà su Piazza A. Colosso e fa angolo von via Barbosa) era sita “in strada ubi dicitur la porta piccola di S. Vincenzo[20], o “ in strada ubi dicitur la porticella di S. Vincenzo[21], “in strada ubi dicitur la Porticella[22], “in strada ubi dicitur la porta piccola della chiesa di S. Vincenzo[23], “in strada ubi dicitur la porticella di S. Vincenzo[24], “ in strada ubi dicitur la porticella[25], “in strada ubi dicitur la porticella della Cattedrale di Ugento[26], “ in strada ubi vulgo dicitur la porticella della chiesa di S. Vincenzo[27], “in strada ubi dicitura la porticella[28], in strada ubi dicitura la porta piccola di Santo Vincenzo[29].

La denominazione ufficiale della strada era via Sferracavalli e come dice il notaio “dal volgo” era detta della

“porticella della chiesa di S. Vincenzo” perché conduceva alla porta secondaria e laterale di accesso alla cattedrale; non si trattava pertanto di un piccolo accesso aperto nella antica muraglia per comodità dei cittadini. Lo conferma anche il fatto che allora, fra il costone roccioso su cui sorge la cattedrale ed il piano sottostante, vi era un dislivello a strapiombo di oltre una decina di metri. Ai piedi di questo costone roccioso, prima che fosse realizzata l’attuale Via dei Cesari, correva un viottolo che permetteva ai contadini di raggiungere i propri poderi che si sviluppavano fino all’incrocio con Via Sallentina, nella contrada Barco. Tale dislivello venne superato solo alla fine dell’Ottocento con una ripida e lunga scalinata, oggi denominata salita Brancia, che si sviluppa in quattro rampe per un totale di una sessantina di gradini.

Tralasciando la disamina della rappresentazione e dell’ubicazione imprecisa di alcuni edifici della città raffigurati nella pianta del Pacichelli, è da attribuirsi dunque agli errori in essa contenuti la gran confusione che si è creata successivamente. Il Pacichelli (o chi per lui) probabilmente prese per buono, o equivocò, quanto riferitogli senza appurarne la veridicità e raffigurò una porta inesistente. A lui seguì il Palazzi il quale nella intestazione della pianta scrisse che la stessa era stata realizzata anche “per supplire alla deficienza delle memorie del primiero lustro di essa Città”. Probabilmente fu per perpetuare una fallace memoria che egli riportò l’esistenza di quella porta nelle mura bizantine mai esistita.

In effetti la città, data la sua esiguità all’interno delle mura, non necessitava di nessuna altra porta oltre le due documentate. Per recarsi nei fondi fuori le mura erano sufficienti le stradine che correvano attorno alla muraglia e per recarsi nei paesi limitrofi o alla marina erano sufficienti le strade che originavano dalle due porte poste ad Est ed a Sud/Ovest dell’abitato e distanti tra loro in linea d’aria circa 250 metri.

 

Delle mura messapiche

Il primo accenno alle mura messapiche è verosimilmente individuabile nel breve passaggio della Stima dei beni della Contea di Ugento, redatta da Troano Carafa nel 1530, in cui si dice: “La città a quattro miglia dal mare è cinta di forti mura con fossato[30].  Esplicitamente delle mura messapiche parla invece padre Secondo Lancellotti nel suo Il Mercurio Olivetano. Testualmente egli scrisse:

“Con l’occasione, che io l’anno 1616. girando per notare l’antichità, e raccorre le cose più degne dè nostri luoghi, mi trovai in queste parti, e mi trattenni l’inverno, fui chiamato a predicare la Quaresima ad Ogento. Hora è questa una città di sì pochi abitatori, che io credo, che non passino il numero di 500. […]. Dicevano gli Ogentini, che già la loro era una gran Città, ma non mi mostravano scrittore antico, che ne parlasse. […]. Ne meno apparivano vestigia di edifitij antichi a Città pretesa sì nobile convenevoli. È posta sopra un colle assai ben pietroso. Quindi, questo è ben vero, vedesi giù alla pianura un terzo di miglio lungi, gran giro di sassi coperti da gli sterpi, e dalle spine, e questo affermavano essere dell’antico Ogento. Io per curiosità fui quivi appresso, e volsi scavare un poco e vidi realmente essere una muraglia di pietre grandi, e quadrate secondo l’usanza di quei tempi, e tanto più stupij della rovina di tanta città, & e ancora quasi d’ogni memoria d’essa”[31].

Dopo quella pseudo prospettica del Pacichelli del 1703, la più datata pianta della città di Ugento si deve all’architetto Angelo Palazzi del 1810. La sua intestazione recita: Pianta iconografica dell’antica e moderna città di Ugento rilevata nel mese di febbraio dell’anno 1810 per supplire alla deficienza delle memorie del primiero lustro di essa Città. Nella planimetria, espressa in canne napoletane e piedi francesi, il sud è rappresentato in alto ed assieme al nucleo cittadino con le mura bizantine e i suoi torrioni, vi sono rappresentati il borgo e le diverse vie di comunicazione. Il tutto è circoscritto dalle mura messapiche il cui perimetro non presenta interruzioni. In alto, a destra, è raffigurato lo stemma antico di Ugento, e alla sinistra e ai piedi della pianta si sviluppa la legenda esplicativa dei diversi elementi raffiguratevi indicati con dei numeri. Il circuito messapico è contrassegnato col n. 1 e nella Annotazione si legge: “Antiche mura rilevate dai ruderi esistenti, e dalle traccie che tuttavia sovrastano, le quali il tempo non ha finora cancellato, della larghezza di circa palmi 18 per quanto si è potuto raccogliere. Il perimetro effettivo di detta città è di miglia italiane due e mezzo, e quarantanove canne lineari. L’estensione di suolo che occupavasi dall’antica città è ỻe [tumulate] 185, e passi quadri 1101, considerato il tomolo di passi quadri 1600 e ciascun passo di palmi 8[32].

Alla base della pianta vi è una dedica appena percettibile non riportata da alcuno degli studiosi che l’hanno visionata e tantomeno è presente nelle riproduzioni che ne sono state fatte a stampa. In essa si legge: “Dedicata al Sig. d.(?) Gius.pe  Colosso”. Si trattava dell’Arcidiacono e Cantore don Giuseppe Colosso sr. (1745-1833), personaggio di profonda cultura ed erudizione che scrisse diverse importanti opere rimaste inedite. Fra queste quella riguardante la storia di Ugento ispiratagli probabilmente proprio dalla pianta del Palazzi dato che egli la intitolò: “Antichità di Ugento esposte da Adelfo Filalete, O sia Rischiaramento su la Pianta iconografica dell’antica e moderna città di Ugento, rilevata dall’Architetto Angelo Palazzi l’anno 1810, e dell’Annotazione su la stessa dal medesimo fatta[33].

A questa pianta fece seguito nel 1897 la Pianta generale dei beni della Casa Colosso in Ugento, realizzata dall’Ingegnere Giuseppe Epstein con scala in metri 1: 10.000. In questa pianta sono raffigurati la città ed i territori circostanti con relativi toponimi, mentre con linee tratteggiate sono rappresentate le parti della muraglia messapica ancora visibile al suo tempo.

Riferisce il prof. Domenico Novembre in una sua pubblicazione che lo stesso Epstein aveva in precedenza ispezionato la cinta muraria e ne aveva stabilito il perimetro in 7 km.[34] A tal proposito Pizzurro, rifacendosi al citato autore, scrive:

“Nel 1889 Apstein (Epstein) misurò le mura e le trovò lunghe m. 7.000, in quanto sosteneva di aver trovato tracce di mura sia nella parte settentrionale (al di là della masseria Crocifisso) sia in quella orientale (al di là della cisterna del Serpe). Purtroppo non ci è giunto alcun rilievo di Apstein né la descrizione del perimetro della cinta muraria da lui rilevata”[35].

Ho il piacere, in questa occasione, di sottoporre all’attenzione degli studiosi proprio quella che ritengo sia una copia dell’originale (e malridotta) pianta realizzata dall’Epstein nel 1889, andata evidentemente perduta. La pianta in oggetto reca l’intestazione “UGENTO dentro le sue antiche muraglie”, mentre allo spigolo inferiore destro si legge. “Rilevò e disegnò Gius. Epstein – ing. l’anno (?) 1889”.

Pianta di “Ugento dentro le sue antiche muraglie” – Ing. G. Epstein 1889

Imm. 2

 

Di detta copia, assolutamente inedita, sono venuto casualmente in possesso e dal suo confronto con le altre due citate è possibile verificare il progressivo disfacimento delle mura messapiche.

È racchiusa in una cornice che misura cm. 39,5 x 30 ed è espressa anch’essa in metri con scala 1: 5.000, ciò che permette, a differenza del variabile valore della canna napoletana, di risalire all’effettiva lunghezza delle mura rilevata dall’Epstein. Misurando i vari tratti del perimetro (comprensivi dei tratti mancanti all’altezza della Cripta del Crocifisso e di quelli verosimilmente corrispondenti alla presenza di porte ubicate sulle strade di accesso alla città), complessivamente il tracciato misura circa 95 cm, corrispondenti sul terreno a circa 4.750 m., misura molto vicina a quella definitivamente accertata di m. 4.900 circa. Risulta pertanto errata e priva di fondamento la lunghezza delle mura messapiche di 7.000 metri attribuitagli.

Vi è rappresentata la città e il territorio compreso entro la cerchia messapica con alcuni toponimi ed il nome dei proprietari dei deversi appezzamenti di terreno.  Non vi è legenda ma per ognuna delle strade è indicato il nome del luogo o abitato verso cui conduce.  Vi sono raffigurate le nuove strade per Taurisano, per Gemini, per la marina di Torre S. Giovanni e per Gallipoli. Vi è delineato il percorso della futura Ugento – Casarano (1893) e la variante D’elia per via Monteforte. Vi è anche indicata l’ubicazione di una “antica tomba” lungo la strada che attraversava la contrada Colonne, poco prima che la stessa ripiegasse a S/O verso masserie Mandorle. Il circuito murario messapico è rappresentato con linee continue, tratteggiate o interrotte, a seconda dello stato delle mura, se intatte, con tracce visibili o inesistenti. Non vi sono indicate torri o porte specifiche. Un lieve differenza nel circuito con quella del Palazzi è riscontrabile nel tratto a sud/est, all’altezza dell’estremità sinistra della Terra dell’Aia. Per il Palazzi le mura formavano una specie rientranza a forma di cuneo fra la strada delle Pastane e la via vecchia per Acquarica. Secondo l’Epstein questa deviazione non c’era ed il percorso da lui tratteggiato proseguiva quasi per linea retta.

Si evidenzia anche come la strada delle Pastane (come appurato dagli studiosi succitati) si sviluppava a ridosso, o al di sopra, delle mura. Si differenzia ancora questa pianta con quella del Palazzi per quel che concerne il tracciato della vecchia via per Taurisano. Questa stradina partiva dalla via della Madonna della Luce (ex Sallentina), dal lato sinistro della chiesetta di S. Lorenzo, ed attraverso i campi giungeva ad incrociare la via per Taurisano che proseguiva, costeggiando le mura, fino all’incrocio tra la via per Melissano e quella per Casarano. Nella pianta dell’Epstein si vede invece chiaramente come questa strada sia stata interrotta dalla creazione di nuovi fondi agricoli. Il tratto occultato di questo sentiero conduceva direttamente a quello che il Palazzi riportò sotto la denominazione di “Torrione di S. Giorgio”, verosimilmente già demolito ai tempi dell’Epstein dato che egli nella sua pianta rappresenta il breve tratto di mura verso la nuova strada per Taurisano con una linea punteggiata. Come ritengono gli studiosi, il torrione prese la denominazione di S. Giorgio dalla porta omonima e nei suoi pressi una ventina di anni fa fotografai una grande lastra in pietra quasi integra che, se non è stata rimossa o distrutta, dovrebbe essere ancora sul posto. Molto probabilmente fungeva da copertura ad una tomba. Se ne riporta l’immagine:

Manufatto in pietra rinvenuto in prossimità del torrione S. Giorgio delle mura messapiche

 

Note

[1] A. PIZZURRO, OZAN UGENTO. Dalla Preistoria all’Età Moderna, Edizioni Del Grifo, Lecce 2002.

[2] G. SCARDOZZI, La cinta muraria di Ugento, Edizioni Leucasia, Presicce 2007. Accanto a questo testo è da menzionarsi l’ultima sua opera dal titolo Topografia antica e popolamento dalla Preistoria alla tarda Antichità – La Carta archeologica di Ugento, Edizioni Quatrini, Viterbo 2021.

[3]G. OCCHILUPO, Ugento – La città medievale e moderna – Metodologie integrate per la conoscenza degli abitati, Claudio Grenzi Editore, Foggia 2018.

[4] Le due porte sono contrassegnate rispettivamente con i numeri 11 e 12.

[5] P. A. CORSIGNANI, Reggia Marsicana ovvero memorie topografiche-storiche di varie Colonie, e città antiche e moderne della Provincia de i Marsi e di Valeria, Presso il Parrino, Napoli 1738, parte I, p. 277.

[6] Daddovero – arc. letterario = davvero

[7] L. GIUSTINIANI, La Biblioteca storica, e topografia del Regno di Napoli, Stamperia Vincenzo Orsini, Napoli 1793, p. 110.

[8] G. TIRABOSCHI, Storia della letteratura italiana del cavaliere abate Girolamo Tiraboschi, presso la Società Tipografica, Modena 1793, l. I, p. 98.

[9] V.: G. DE ROSA – A. CESTARO (a cura) Storia della Basilicata. 3. L’Età moderna, Editori Laterza, Bari (Ed. Digitale: dicembre 2021), p. 137. Le “vedute” utilizzate da Pacichelli sono opera del cartografo Francesco Cassiano da Silva  

[10] V.: L. ANTONAZZO, Gli stemmi della città di Ugento, Tip. Marra, Ugento 2016.

[11] Questa chiesetta bizantina era sita a pochi passi a nord della chiesetta della Madonna del Corallo, fuori le mura.

[12] Not. F. Carida, protocollo del 22/11/1683, c. 139v. Questo atto conferma che la località S. Giorgio era adiacente ad ovest all’Armino, suffeudo che si trovava ad Est del feudo di Ugento; vi si legge infatti “in loco ubi dicitur Santo Giorgio, iusta bona feudi nuncupati l’Armino ex occidente”.

[13] Not. F. Carida, protocollo del 10/1/1684, c. 12r.

[14] S. ZECCA, Portus Uxentinus vel Salentinus, Editore Mariano, Galatina 1963, p. 44.

[15] Se, come detto, Porta San Nicola derivava la sua intitolazione dalla vicina chiesetta di S. Nicasio, Porta Paradiso aveva assunto questa denominazione per la presenza nei suoi pressi di un giardino murato. Infatti il termine “paradiso” deriva dal persiano pairidaeza  (= giardino recintato) reso in greco con  paràdeisos. Il giardino in questione non corrispondeva però a quello realizzato dai conti Pandone sui lati nord ed ovest del castello, ma a quello degli Urso, esistente in parte ancora di fronte all’attuale ingresso al castello stesso.

[16] Archivio di Stato di Napoli, atto del notaio Leonardo Aulisio del 31 gennaio 1643 attinente all’acquisto del feudo di Ugento da parte di Pietro Giacomo d’Amore (Emptio Civitatis Ugenti pro Petro Jacobo de Amore).

[17] ASLe, Sez. Not., 46/39, not. G. F. Gustapane, protocollo del 15 marzo 1636, cc. 197r-216r.

[18]V.: G. OCCHILUPO, Ugento – La città medievale e moderna, cit. Appendice documentaria, p. 155.

[19]V.: L. ANTONAZZO, Trasformazioni urbane a Ugento tra Ottocento e Novecento, Edizioni Leucasia, Presicce 2005.

[20] Not. F. Carida, prot. del 6 gennaio 1679, c. 2v.

[21] Idem. Prot. del 30 ottobre 1683, c. 114r.

[22] Idem, prot. del 4 gennaio 1684, c. 3v, prot. del 11 gennaio 1684, c. 39r.; prot. del 18 settembre 1685.

[23] Idem, prot. del 21 febbraio 1685, c. 3r.

[24] Idem, prot. del primo agosto 1685, c. 60v.

[25] Idem, prot. del 18 settembre 1685, c. 111v.

[26] Idem, prot. del 5 dicembre 1685, c. 142r.

[27] Idem, prot. del 6 gennaio 1693, c. 1r.

[28] Idem, prot. del 3 settembre 1696,

[29] Idem, prot. del 8 luglio 1697, c. 108r.

[30] V.: F. CORVAGLIA, Ugento e il suo territorio, Editrice Salentina, Galatina 176, p. 77. Questo inciso potrebbe far riferimento anche alla cinta muraria bizantina, ma è improbabile data la morfologia del terreno che solo a nord e ad ovest delle mura, per essere pianeggiante, consentì la realizzazione di un fossato prospiciente il castello. Per quanto concerne il fossato antistante le mura messapiche, la sua esistenza per il momento è stata accertata limitatamente ad una porzione del lato est, in contrada Armino.

[31] S. LANCELLOTTI, Il Mercurio Olivetano, overo la Guida per le strade d’Italia, per le quali sogliono passare i Monaci Olivetani, Perugia 1628, pp. 55-56.

[32] La canna napoletana variava a seconda dei luoghi da un minimo di m. 2,14 ad un massimo di m. 2,37. Il Pizzurro, dando alla canna napoletana il secondo valore stabilì il perimetro delle mura messapiche in m. 5.237 (A. PIZZURRO, Ozan …, cit.p. 246). Rifacendosi invece al primo valore la lunghezza delle mura sarebbe stata di m. 4.729, misura più vicina ai circa m. 4.900 stabiliti negli anni Novanta del secolo scorso dagli studiosi.

[33]Ricalca pedissequamente questa operetta, anche nella ripartizione dei capitoli, l’opuscolo Memorie sulle antichità di Ugento 1857, di autore anonimo custodito presso la Biblioteca Provinciale Nicola Bernardini di Lecce ed edito a cura dello scrivente nel 2003 per Edizioni Leucasia.

[34] D. Novembre, Ricerche sul popolamento antico del Salento con particolare riguardo a quello messapico, in Annuario del Liceo Ginnasio “G. Palmieri”, Lecce 1965-66, pp. 78-79.

[35] A. PIZZURRO, Ozan …, cit., p. 247.

 Una campagna elettorale nella Ugento della seconda metà del XIX secolo

Una campagna elettorale nella Ugento della seconda metà del XIX secolo molto simile alle campagne elettorali dei nostri tempi

 

di Fernando Scozzi

Mi capita di leggere un opuscolo1 scritto da Niccola Vischi  (Trani, 1849 – Napoli, 1914) uno dei più illustri avvocati italiani, deputato e poi senatore a vita. E’ la pubblicazione dell’arringa pronunciata “Pei Signori Colosso Luigi, Massimo e Adolfo”, rispettivamente padre e figli, imputati di avere minacciato alcuni elettori allo scopo di indurli a votare per i candidati della loro lista. Le elezioni sono quelle per il rinnovo di un quinto dei consiglieri comunali, tenutesi ad Ugento il 31 luglio 1882.2 Al  partito di Vito Pezzulla, sindaco in carica, si contrappone il partito dei  Colosso che risulta vincitore delle elezioni.

La prima pagina dell’opuscolo dell’avv. Vischi

 

Che cosa fanno gli amici del Pezzulla dopo la sconfitta? Si oppongono alla convalida degli eletti;  ma il ricorso viene respinto. “A questo punto – secondo l’avv. Vischi –  il sindaco cerca di gittare un grido di allarme e rivolgendosi al magistrato inquirente scrive: A disimpegno dei miei doveri, quale Autorità locale di pubblica sicurezza ed ufficiale governativo vedomi nell’obbligo e nell’interesse della giustizia, di porgere quei lumi che portano allo scovrimento dei fatti ed indicando dodici testimoni denunzia alcune situazioni che secondo lui devono costituire i capi di accusa contro i signori Luigi, Adolfo e Massimo Colosso, Giovanni Rovito, Vincenzo Milone e Carmine Rizzo.” A conferma delle sue accuse, il  sindaco scrive: “ Colgo di poi questa opportunità per far conoscere alla Giustizia come gli elettori Vito Molle, Vito Congedi, Basile Lorenzo, Luigi Fiorito, Salvatore Ponzo, Luigi Santacroce, tutti di Ugento, mi dichiararono che i signori padre e figli Colosso, nonché il principe d’Amore Francesco ripetute fiate li minacciarono che ove non dessero il voto a seconda dei loro desideri, siccome si trovano, come si trovavano, fittuari e colòni di proprietà loro, li avrebbero scacciati a viva forza il giorno dopo la elezione; anzi, il primo dei nominati, Vito Molle, aggiungeva di essere stato minacciato di revolverata. Mi consta, poi – continuava il Sindaco – che dalla minacce passarono alle blandizie e vennero corrotti chi con pranzi, chi con denari, chi con generi”.

Panorama di Ugento. Acquerello di Cosimo De Giorgi (1882).

 

Le indagini sono affidate ad un delegato di pubblica sicurezza, il quale nella sua relazione al sottoprefetto di Gallipoli sottolinea “lo stato di eccessiva esaltazione in cui i partiti si contendono il potere amministrativo in Ugento”. Ciò nonostante  i Colosso sono rinviati a giudizio.

I primi a deporre sono Lorenzo Basile, Vito Molle, Luigi Fiorito ed altri, i quali negano di avere ricevuto minacce dai Colosso.  E d’altronde,  anche se le minacce ci fossero effettivamente state, potevano costoro testimoniare contro i loro “padroni?” Successivamente, depongono altri testimoni definiti dall’avv. Vischi come “i dodici apostoli” del Sindaco che hanno il compito speciale di asserire i fatti e la missione generale di avvalorare i detti degli altri con le parole anch’io ho inteso a dire, etc… .  Tra costoro – secondo il Vischi – abbiamo il vero capo partito nella persona di Donato Piccinno che si presenta con i suoi due figli: Oronzo, (assessore spodestato dal partito dei Colosso) e Giuseppe, definito violento e prepotente. In seconda linea vengono Salvatore Moro3 , maestro della scuola elementare della frazione Gemini, Ambrogio Rizzo, medico condotto (del quale i Colosso vogliono il licenziamento) e Paolo Andrioli, esattore delle imposte. Tutti  tre, essendo dipendenti comunali, sono dalla parte del sindaco, al quale  devono la nomina.  In terza linea – continua l’avv. Vischi –  vengono gli agenti dell’ultima classe, quelli che nei partiti hanno la missione di sbraitare, correre, encomiare, calunniare, sempre facendo da eco, e lavorando poco di coscienza e di mente, molto di gambe, di polmoni e di fiele, e tutto ciò per l’unica soddisfazione di sentirsi dire bravi ad ogni loro racconto di eccessi compiuti, nonché l’altra di potere esclamare: abbiamo vinto noi. Poveri iloti del ceto elettorale! Esercitano anch’essi in questa maniera la loro sovranità!…”

Insomma,  è la  descrizione di una campagna elettorale di 140 anni fa che, per molti aspetti, è uguale alle contese elettorali dei nostri tempi. Infatti, come non paragonare Donato Piccinno (definito  dal Vischi il vero capo del partito del Sindaco) ai tanti personaggi che, pur non scendendo in campo in prima persona, manovrano dietro le quinte e poi ottengono un posto di assessore per  un loro parente? Ed i “poveri iloti” di quel periodo non sono i “galoppini” contemporanei  che,  alla stessa maniera, sbraitano, calunniano, corrono di qua e di là…? Il discorso non cambia per i dipendenti comunali, che si comportano come la maggior parte degli impiegati, sempre pronti ad interpretare la volontà del Capo allo scopo di ottenere una promozione. E poi vengono i Colosso, il cui potere economico insieme a quello dei Rovito (con i quali sono imparentati) pervade la società ugentina del XIX secolo. Per questi è quasi un gioco vincere le elezioni  avendo dalla loro parte uno stuolo di affittuari, di colòni, di inquilini e di debitori ben disposti a  votare la lista dei Colosso pur di non avere altri problemi oltre a quelli dovuti alla povertà.  In un certo senso, è una sorta di voto di scambio, come quello che, in molti casi, si consuma tra elettori e candidati di tutte le campagne elettorali: cambiano i tempi, cambiano i protagonisti, ma ci sarà sempre chi sfrutterà i bisogni economici degli elettori, le loro convinzioni ideologiche, la loro fede religiosa per conquistare o mantenere il potere.

Ma torniamo al processo contro i Colosso ed all’arringa dell’avv. Vischi il quale, dopo aver ribaltato le accuse affermando che sono gli amici del Pezzulla ad essere “rei di broglio elettorale”, invoca l’assoluzione dei suoi assistiti, “distintissimi gentiluomini”, non per “insufficienza di prove” (come chiede il Procuratore del Re) ma per inesistenza del reato, giacchè l’influenza e le pressioni  non possono essere confuse con le minacce”.

E il sindaco Pezzulla? Il suo destino politico è segnato perché l’anno successivo si vota per il rinnovo dell’altro quinto dei consiglieri comunali e vince ancora una volta la lista dei Colosso. Il Pezzulla non ha più l’appoggio della maggioranza dei consiglieri comunali e quindi si dimette. Al suo posto si insedia un regio delegato straordinario;  poi il Re nomina Sindaco il principe Francesco d’Amore: i baroni Colosso (almeno in quel periodo)  non sono lusingati dall’umile carica di Sindaco di Ugento.

Antico stemma del Comune di Ugento

 

—————–

(1) L’opuscolo è datato Trani, 29 agosto 1883

(2) La legge elettorale n. 2248 del 20.3.1865 prevedeva che i consigli comunali si rinnovassero, ogni anno,  di un quinto dei loro componenti. Le operazioni di voto si svolgevano nel seguente modo: gli elettori si riunivano nella sala della votazione; quindi, il presidente del seggio elettorale chiamava ciascun elettore nell’ordine della sua iscrizione nella lista. Trascorsa un’ora dal termine del primo appello, si procedeva  ad una seconda chiama degli elettori che non avevano votato. Per essere elettore occorreva avere compiuto il 21° anno di età, godere dei diritti civili e pagare un certo tributo rapportato alla classe del Comune. Le donne non erano ammesse al voto. La Giunta veniva eletta dal Consiglio Comunale, mentre il Sindaco, nominato dal Re fra i consiglieri comunali, durava in carica tre anni.  Il Comune di Ugento, nel 1882, aveva una popolazione superiore a 3.000 abitanti e quindi il Consiglio era composto da 20 consiglieri.

(3) Salvatore Moro, originario di Galatina e maestro elementare a Gemini (frazione di Ugento)  era il nonno dell’ on. Aldo Moro. In quel periodo, i maestri della Scuola Elementare venivano nominati dal Consiglio Comunale essendo l’istruzione primaria di competenza del Comune.

 

Integrazioni a proposito di Ugento e dintorni in una carta del XVI secolo

di Luciano Antonazzo

A proposito di quanto riportato in questo sito dal prof. Polito circa il suo post su “Ugento e dintorni in una carta del XVI secolo”, riporto alcune mie considerazioni ed osservazioni, che vanno a completare

Ugento e dintorni in una carta del XVI secolo

Innanzitutto tengo a precisare che, contrariamente a quanto fin qui sostenuto da tutti gli studiosi locali, l’antica cattedrale gotica di Ugento non fu distrutta dai turchi nel 1537, ma che la stessa, benché danneggiata, sopravisse fino al 1735, anno in cui fu demolita per portare a compimento l’erezione dell’attuale.

Venendo ai toponimi indubbiamente quello di “Casato di Amore” si riferisce ai Marchesi di Ugento, mentre quello che sembra “lo Vicale” è da leggersi “lo Vitale”, chiaro riferimento alla facoltosa famiglia Vitale che, originaria di Otranto, verso il 1670 troviamo diramata in Ugento con l’UID Carlo Vitale.

Il toponimo che sembra “Abinienio” ritengo sia da leggersi “Abiniente”, nome di una nobile famiglia salernitana (denominata anche Abignente) alla quale apparteneva quel Marino che nel 1503 prese parte alla disfida di Barletta. Anche gli Abignente, come i Vitale, sono attestati in Ugento nella seconda metà del XVII secolo e sono menzionati da Giovan Battista Pacichelli (Il Regno di Napoli in prospettiva) tra le famiglie più in vista di Ugento.

Conseguentemente credo che anche il toponimo “il Grossa” faccia riferimento ad una qualche famiglia, ma comunque non di Ugento.

Per quanto riguarda la “Torre di Sansone” credo che corrisponda all’odierna Torre Sinfonò (in epoche precedenti detta anche Sanfono o Sonfono). L’attuale denominazione è a mio avviso dovuta ad una errata lettura della “s” minuscola che nella scrittura e nella stampa dei secoli passati veniva resa come una “f”.

Vengo ai toponimi “Scopulo detto del Barro”, “scopulo detto lo Fiorlito” e “Punta della volta”. I due scogli (dal lat. scopulus-i) di fronte a Torre Mozza[1] fanno parte del complesso di isolotti e bassi fondali che sono conosciuti come Secche di Ugento, denominate localmente “Scoglio di Pirro” in quanto, secondo la tradizione (o la leggenda), vi si incagliarono alcune navi di Pirro col loro carico di uomini, cavalli ed elefanti. E poiché “scopulo detto lo Barro” significa “scoglio detto l’elefante” (dal lat. Barrus-i = elefante) ne consegue che il toponimo potrebbe rimandare a detta tradizione. Non è da escludere però che lo stesso fosse così denominato perché la sua conformazione potrebbe vagamente richiamare la proboscide di un elefante[2].

Per quanto riguarda la “Punta della Volta”, tale toponimo si riferisce alla punta del promontorio di fronte all’isola Fiorlita e non alla stessa, come vorrebbe G. Battista Rampoldi. Così come probabilmente si sbaglia nel sostenere che il promontorio è “ugualmente chiamato della Volta”. A parte il suo testo da nessuna altra parte infatti si rinviene tale nome. Verosimilmente tale denominazione deriva dal fatto che i cavallari che controllavano la costa per prevenire incursioni dei Turchi, giunti all’altezza di questo sperone di scogliera “voltavano”, ossia invertivano il loro percorso. E’ quanto sembra potersi dedurre da alcuni atti notarili del maggio 1678 dai quali risulta che dall’Isola di “Pazze” e fino “alle Tre Fontane” (od. Fontanelle) il controllo della costa era demandato a cavallari di Ugento e che dalle “Tre Fontane” a “Pietra Lagna” il controllo era di spettanza dei cavallari di Presicce. E’ altresì precisato che i “posti” guardati dai cavallari di Ugento erano denominati Nervio e Pazze, mentre quelli di Torre Mozza, guardati dai cavallari di Presicce, erano denominati “della punta della vota[3], fiume grande, Petralagna”.

Tornando all’isola Fiorlita, essa indubbiamente corrisponde all’odierna Giurlita detta anche “Isola della Fanciulla[4] per via di una leggenda che Salvatore Zecca riporta nel suo Portus uxentinus vel salentinus.

Secondo questa leggenda “in tempi remoti” alcuni pescatori doppiando l’isolotto videro “arenato un corpo esanime di fanciulla, avvolta in una tunica bianca” indumento che, assieme ad altri indizi, indusse a ritenerla greca. Dai crostacei annidati nella sua veste si dedusse che il corpo era da molto tempo in mare, ma ciononostante “il suo volto era fresco e sorridente”. I pescatori la portarono a terra e poiché non dava segni di decomposizione, “la esposero all’altrui sguardo, adorandola come una Deità: poi la riportarono nei pressi dell’isola e ve la ancorarono su quei fondali”. In seguito diversi pescatori giurarono che “in qualche notte buia e tempestosa, nel doppiare il pericoloso isolotto, più di una volta avevano notato una tunica bianca garrire al vento, a monito del pericolo cui si andava incontro[5].

La stessa leggenda, con qualche lieve variante, viene riportata anche da Sofia Nicolazzo. Ella riferisce che in una notte del 1800 (!?) i pescatori della marina di Ugento, nel ritirare le loro reti videro galleggiare sull’acqua, illuminato dalla fioca luce delle loro lampade, il corpo di una fanciulla. Addosso “aveva un abito greco, conchiglie attaccate alla sua gonna ed ai suoi calzari dorati: erano documenti inconfondibili del lungo sostare nel fondo marino. Nella spalla sinistra uno squarcio nell’abito con un alone di sangue…”. Credettero che fosse una santa e portatala a terra la adagiarono in un’urna di cristallo e quando uscivano al largo per il loro lavoro si raccomandavano a lei. Nelle notti tempestose vedevano la fanciulla che indicava loro il cammino e ne udivano la voce che, accompagnata dal sibilo del vento, reclamava la restituzione del suo corpo. Fu così che “in un giorno calmo e sereno, i pescatori raccolsero tutti i fiori delle contrade, e adagiata sulla barca la cassa, la coprirono con questa coltre profumata”. I pescatori della barca con la salma a bordo, accompagnati da altre barche a loro volta piene di fiori, giunti sul posto dove il corpo della fanciulla era stato rinvenuto, calarono in mare la cassa di cristallo: “In un primo momento l’urna galleggiò in quell’onda fiorita: poi lentamente sprofondò[6].

Probabilmente deriva da questo particolare rito funebre che deriva la denominazione di Isola Fiorlita: il suo significato è infatti “ isola cosparsa di fiori” (dal lat. flos –is = fiore, e litum da lino, livi, litum, ere = stendere, cospargere).

 

 

[1] In una carta topografica realizzata presso la stamperia di Michele Luigi Mutio (Torino 1665 ca – 1722) sono invece rispettivamente denominati “Scoglio di Bare” e “Fiorlita”, sottinentendosi isola,

[2] Tale scoglio non è oggi più visibile per essere stato sommerso dall’acqua. Di contro sono numerosi i locali e ed i complessi turistici della zona denominati “Scoglio di Pirro”.

[3] Nel dialetto ugentino la stessa era definita “Punta della Ota”, da “utare” o “otare” = girare. (Cfr. S. ZECCA, Portus Uxentinus vel salentinus, Editrice Mariano, Galatina 1963, p. 39.

[4]Proprio come l’isoletta che sta di fronte alla marina di Torre Pali e la cui denominazione a sua volta deriva da una leggenda risalente al 1547.

[5] S. ZECCA, Portus uxentinus vel salentinus, cit. pp. 62-63.

[6] S. NICOLAZZO, Ausentum nell’Ausonia . Favolette-Leggende-Bibliografie, Tip. Marra, Ugento 1978, pp. 102-103.

Ugento: una bolla di consegna di 120 anni fa

di Armando Polito

Il tempo ha il potere di valorizzare documenti che al momento in cui vengono prodotti hanno un valore relativo e nei decenni successivi insignificante, tanto da essere buttati via. Qualche volta, però, capita di trovare nel fondo di un cassetto un oggetto, un disegno, una ricevuta, una foto o uno scritto e di resistere alla tentazione di fare pulizia una volta per tutte presi da una sorta di arcano rispetto del passato, col rischio, nell’epoca dell’usa e getta, di essere considerati dei maniaci. Senza quei maniaci non esisterebbe il collezionismo, che, senza scomodare i musei o gli archivi,  spesso offre la possibilità di integrare la conoscenza della storia o di mettere particolarmente a fuoco certi suoi tasselli. Sarà successo così anche al documento che mi appresto a presentare e che ho rinvenuto su ebay (http://www.ebay.it/itm/Ugento-LE-documento-fabbricante-di-botti-1897/251705725463?hash=item3a9ad49217:g:ElYAAOSwosFUWf0Z), dove alla data in cui scrivo (6 dicembre 1017) è in offerta al prezzo di 8 euro. Lì è presentata come un documento riferito a un fabbricante di botti, ma dal contenuto mi pare si tratti non di botti ma di carri (in salentino traìni). Per quanto riguarda le voci tecniche non presumo di aver dato sempre la definizione corretta e per questo confido nell’eventuale correzione da parte di qualche studioso e, senza andare troppo lontano, nell’aiuto del concittadino generale Enrico Ciarfera, che anni fa sottopose alla mia attenzione un suo pregevole lavoro sull’argomento, frutto di ricerche sul campo, quando era ancora possibile trovare il contadino del caso, cioè il carpentiere specializzato.

Ugento, 5 luglio 1897

Consegnato al signor Colosso

1° un traino co caviglie1 9

2°   raggi2 3 di li stesso traino

3° rote spinolate3 e cantate4

più una meza crocera5 e

una martellina6 e di più

le tavole poste alla litera7

2° lavoro 9 luglio 97

La careta crossa de cavigli8 5 più una (una barrato) la cascia de lasso9

e cantate10 e legne

(di mano diversa) 22 luglio 97 in Ugento (segue, indecifrabile, quella che potrebbe essere la firma del consegnatario).

 

Interessante, infine, è il timbro, anche se fa rabbia il fatto che esso non è perfettamente leggibile anche per la deformazione parziale dovuta forse ad impressione non troppo decisa.

 

Riesco a leggere solo, al massimo ingrandimento utile e dopo adeguata rotazione, procedendo dall’alto verso il basso e con più di un dubbio: MARCHESE (?) BIAGIO (?) FABBRICANTE  Nego(ziante?).La ricorrenza non trascurabile del cognome BIANCO sull’elenco telefonico di Ugento mi fa ben sperare in ulteriori, graditissimi sviluppi …

______

1 Nel vocabolario de Rohlfs cavigghia è registrato col significato di ciascuno dei pezzi onde si compone la circonferenza della ruota. Da profano, però, immaginando che il massimo della compattezza sarebbe dato da un numero di questo elemento pari a quello dei raggi (più avanti si dice che questi ultimi sono tre=

2 Per essere i raggi della ruota) nove pezzi mi sembrano decisamente troppi; a meno che tutte le voci relative alle componenti del carro non s’intendano come pezzi sciolti, non montati.

3 Con i raggi Incuneati (spinula=piccola spina) tra la parte periferica e il mozzo.

4 Fornite di cantu, il cerchio di ferro. Cantu è dal latino chantus con lo stesso significato e, estensivamente, quello di ruota. Canthus, poi, è dal greco κανθός (leggi canthòs), sempre con lo stesso significato, ma partendo da quello base di angolo in genere e angolo dell’occhio in particolare. E così è chiaro da dove derivano i nostri canto e cantone.

5 Struttura di rinforzo della litera (vedi nota 8).

6 Meccanismo frenante a ceppi azionato manualmente. La voce dovrebbe essere in rapporto con la forma che ricorda un martello.

In italiano è martinicca, che è fatto derivare dal nome proprio Martino, senza, però, dare alcuna spiegazione. Credo che si possa tranquillamente ipotizzare che sia una variante di martinicchia (attestato nel Marchigiano), da un latino *martinicula. Martello è dal latino tardo martellus, che suppone un precedente *martus probabile variante del classico martus. E a questo punto potrebbero avere la stessa origine martinetto e martinello, fatti derivare anch’essi da Martino.

7 Corrisponde formalmente all’italiano lettiera; qui è il piano di carico del carro (in neretino littera).

8 Al maschile, contro il caviglie precedente.

9 Cassa dell’asse?

10 Riferito a cavigli come se fosse caviglie?. Per cantate vedi nota 4.

11 Ha tutta l’aria di essere un aggettivo ma non riesco a capirne il significato; idem se fosse un sostantivo.

Ugento e dintorni in una carta del XVI secolo

di Armando Polito

 

L,o scarso numero di riscontri suscitati dalla presentazione di alcune parti della Terra d’Otranto così come sono rappresentate in una carta di alcuni secoli fa1 non mi ha dissuaso dal dedicare a Ugento ed al territorio circostante quella che probabilmente è l’ultima puntata della serie. Come per le altre, la toponomastica fungerà da base per  eventuali ulteriori considerazioni. Per rendere più agevole al lettore la fruizione del tutto ho assegnato e segnato sulla carta un numero per ogni toponimo presente replicandolo in dettaglio. Confido nell’aiuto degli studiosi di storia locale per le identificazioni non corrette, mancate o, eventualmente, errate nella lettura.

1) Ussento, oggi Ugento

 

Il dettaglio ingrandito mostra la cinta muraria con due torri, mentre all’interno della città svettano due chiese, Quella a sinistra per chi guarda dovrebbe essere l’antica chiesa gotica distrutta dall’incursione saracena del 1537, sulla quale poi sorse agli inizi del XVIII secolo la cattedrale di S. Maria Assunta. La rappresentazione mi pare sovrapponibile con la tavola di Ugento2, che di seguito riproduco, a corredo del secondo volume de Il Regno di Napoli in prospettiva di Giovan Battista Pacichelli (1641-1695), opera  uscita postuma per i tipi di Parrino a Napoli nel 1703.

 

2) Casato di Amore


Considerando casato come forma oggi obsoleta per caseggiato, rimane Amore. Se il riferimento è a Pietro Giacomo d’Amore che comprò la città di Ugento nel 16433, mi pare doveroso qualche ripensamento sulla datazione della carta (da spostare ulteriormente, dunque, alla metà del XVII secolo), anche se essa dovesse essere considerata come una sorta di aggiornamento di una più antica,

 

3) Falline, oggi Felline

 

4) Torre di Sansone

Presente, per il territorio di Felline, al n. 49 tra le torri di Terra d’Otranto citate in Enrico Bacco, Il Regno di Napoli diviso in dodici provincie, Carlino e Vitale, Napoli, 1609.

 

5) Casale di Suda dir(uto)

 

6) il grossa ?

 

7) Torre del Porto

8) Porto di Ugento

 

9) Scopulo detto la Barro


10) Scopulo detto lo Fiorlito

 

11) Punta della Volta

(G. B. Rampoldi, Corografia dell’Italia, Fontana, Milano, 1834v. III, p. 504)

 

12) S.to Joanni, oggi Torre S. Giovanni (credo che l’attuale vicinanza alla costa sia dovuta all’erosione)

 

13) Abinienio ?

 

14) lo Vicale?

Chiudo con la documentazione del mutamento della linea di costa avvenuto fino ai nostri giorni attraverso tre immagini: la prima è tratta dalla nostra carta, la seconda da quella dell’Atlante di Giovanni Antonio Rizzi Zannoni uscito a Napoli per i tipi della Stamperia reale dal 1789 al 1808, la terza da Google Maps.

_____________

1 https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/02/05/lecce-porto-s-cataldo-cosi-al-tempo-adriano/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/13/lecce-territori-sud-est-carta-aragonese-del-xv-secolo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/21/nardo-altri-centri-limitrofi-carta-aragonese-del-xvi-secolo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/02/15/brindisi-suo-porto-carta-aragonese-del-xv-secolo/ 

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/02/27/otranto-dintorni-carta-aragonese-del-xvi-secolo/ 

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/04/castro-dintorni-carta-aragonese-del-xv-secolo/

2 Vedi pure https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/04/03/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-1414-ugento/

3 Erasmo Ricca, La nobiltà del Regno delle Due Sicilie, v. iV, parte I, de Pascale, Napoli, 1869.

Libri| Gli stemmi civici di Ugento

ugento-stemma

di Mario Cazzato*

Nell’analizzare storicamente la vicenda dello stemma di Ugento, dall’origine ai nostri giorni, Luciano Antonazzo, credo per la prima volta nell’ambito di questo tipo di studi che riguardano, in fondo, l’identità civica di una comunità, affronta l’irrisolto problema dell’origine storica, e non favolosa, degli stemmi civici. Prima di procedere oltre facciamo nostra l’osservazione, fondatissima, dello stesso Antonazzo, per il quale l’adozione di uno stemma per Ugento risale al periodo rinascimentale, anche se é solo dal primo decennio del ‘700 che possiamo verificarne le prime attestazioni.

Ulteriore merito di questo studio è l’aver individuato in un letterato rinascimentale del luogo, il poeta Antonino Lenio, il possibile autore dello stemma civico ugentino che, come documenta Antonazzo, era costituito da una figura (corpo) esprimente due basilischi affrontati e da un motto (anima), che recitava “Hoc signum dedit Hermes”.

L’humus culturale di siffatta costruzione che prende il nome di Impresa si inserisce pienamente nella riscoperta rinascimentale, come sottolinea l’Autore, dell’antico Egitto, che dal punto di vista simbolico ebbe vasta diffusione grazie agli agli “Hieroglyphica” di Valeriano che nella prima metà del ‘500 inaugurarono una vera e propria moda, costituendo un vero e proprio mito.

Che l’eco di queste raffinate ricostruzioni umanistiche abbia avuto un riflesso anche nell’estremo Salento è un fatto estremamente significativo. Ma non ci deve meravigliare tutto questo perché una delle opere più importanti, e tra le prime pubblicate, è “Il Rota overo dell’Imprese”, composta a Lecce dal leccese Scipione Ammirato e pubblicata a Napoli nel 1562.

Quella dello stemma ugentino non è una storia lineare perché l’antico stemma di Ugento non è rimasto immutato nel corso del tempo. Come potrete leggere, fu integrato nel XIX secolo con un fonte tra i due basilischi, così come rappresentato in uno stemma in pietra, facente parte della collezione Colosso, e ritenuto l’autentico stemma della città. Quest’arma venne a sua volta sostituita ai primi del ‘900 con quella raffigurante Ercole come era raffigurato sulle monete della zecca ugentina e lo stesso mitologico eroe è infine stato schematicamente raffigurato nell’attuale stemma cittadino.

Il lettore potrà seguire questo iter attreverso i secoli con le dotte osservazioni dell’Autore che, facendo finalmente chiarezza sul tema, travalicano il mero interesse localistico. Per questo dobbiamo esser grati ancora una volta a Luciano Antonazzo che da oltre un decennio ricostruisce alcuni tra gli aspetti più interessanti della civiltà ugentina.

copertina-ugento

* Segretario della Società Storica di Terra d’Otranto

Mezzelune fertili nell’orto dei TU’RAT

 turat

 

di Daniela Liviello

Il Salento è territorio ad alto rischio desertificazione ma è percorso da venti che, attraversando il Mediterraneo, si caricano di umidità preziosa per imbevere i terreni aridi.

I TU’RAT, costruzioni arcaiche in pietra a secco, dati orientamento e forma a mezza luna, catturano il vapore dei venti di libeccio e scirocco che, condensando, penetra la terra rendendola fertile e produttiva senza emungimento meccanico del sottosuolo che, oltre tutto, darebbe acqua ormai fortemente salmastra dato l’elevato sfruttamento agricolo.

Nell’orto dei Tu’rat, magico luogo risonante di antiche, benefiche vibrazioni, sono presenti dodici mezzelune in pietra a secco, cioè senza uso di malta o altri materiali collanti dette, appunto, Tu’rat e conosciute già in tempi remoti da abitanti di terre aride che così hanno potuto realizzare oasi, frutteti e giardini verdeggianti.

turat1

Il Salento è quasi interamente percorso, nelle campagne, da muretti a secco che delimitano i poderi e segnano le vie campestri con le loro merlettate geometrie; notiamo alla base o fra le pietre crescere e verdeggiare infinite varietà di erbe e piante spontanee. Le mezzelune dei Tu’rat amplificano il potere assorbente data la particolare porosità della pietra di Alessano utilizzata per la costruzione, pietra che è la risulta dello scavo per la realizzazione, nel secolo scorso, dell’acquedotto pugliese quindi ancor più l’orto è un ecosistema altamente sostenibile.

Obiettivo dell’orto è il miglioramento dell’equilibrio ambientale attraverso la semina e la piantumazione di specie autoctone che non richiedono utilizzo eccessivo di acqua, difesa del territorio e riqualificazione dell’incolto.

turat2

Il parco culturale-agricolo-ecologico è situato in agro del comune di Ugento ed accoglie il visitatore con la bellezza di uno scenario incantato dove le fate sembrano armonizzare silenzio e lentezza al riparo delle fantastiche dodici mezze lune in pietra che, sotto i cieli estivi, diventano sipario per le più svariate forme d’arte, dalla poesia alla musica al teatro alla danza.

 

A proposito dei libri del conte di Ugento Angilberto del Balzo

di Luciano Antonazzo

Alcune considerazioni su un sonetto del quale il prof. Polito ha scritto in due suoi articoli, postati su questo sito nel gennaio 2014, col titolo “Su alcuni libri del primo duca di Nardò e una misteriosa poesia ”:

Su alcuni libri del primo duca di Nardò e una misteriosa poesia (1/2)

Su alcuni libri del primo duca di Nardò e una misteriosa poesia (2/2)

Tale poesia, come egli ci riferisce, si trova scritta su una pagina bianca dei Trionfi del Petrarca, libro posseduto da Angilberto del Balzo, conte di Ugento e primo duca di Nardò, e custodito assieme ad altri appartenuti allo stesso del Balzo, nella Bibiloteca Nazionale di Parigi. Tali volumi, assieme ad altre carte, compreso un inventario, riferiscono gli studiosi che furono confiscati dagli Aragonesi al conte dopo la sua condanna per la partecipazione alla congiura dei baroni del 1484 -6.

Il suo testo originale, con a fianco la trascrizione del professore (mutuati dal suo post) è il seguente:

duca

Egli ne fa una colta disamina concludendo che è pressoché impossibile risalire al suo autore ed al contesto in cui venne scritta. Alla nota 12 della seconda parte avanza anche l’ipotesi che la poesia, qualora per alcuni versi facesse rimando al Tasso (1544 – 95) potrebbe essere stata scritta qualche decennio dopo la morte del duca, ed è questo passaggio che mi ha portato a riflettere ed a cercare di risalire a chi potrebbe esserne stato l’autore ed al motivo che lo portò a scriverla.

Per quanto sia obiettivamente ardua l’impresa provo senza preunzione a sciogliere il dilemma, comiciando col dire che a mio avviso la sesta parola del primo verso della terza strofa, anziché firmi, come ritiene il professore, debba leggersi fiumi, così come imineo del penultimo verso non stia ad indicare il canto nuziale, ma corrisponda al nome proprio del dio delle nozze, Imeneo.

Per venire al possibile autore ho congetturato che il manoscritto potesse esser passato per le mani del poeta Antonino Lenio che visse alla corte del conte di Ugento Francesco del Balzo e del quale ho parlato in un articolo postato in questa sede nel settembre del 2015 dal titolo “Un’intrigante ipotesi sul poeta Antonino Lenio alla corte del conte di Ugento

https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/09/29/unintrigante-ipotesi-sul-poeta-antonino-lenio-alla-corte-del-duca-di-ugento/.

Mi rendo conto che l’ipotesi avanzata è anacronistica in quanto la biblioteca di Angilberto del Balzo (almeno in parte), stando a quanto asseriscono gli studiosi, risulta essere stata portata in Francia verso il 1495, mentre il Lenio risulta essere giunto alla corte di Ugento attorno ai primi anni del ‘500; tuttavia ritengo valga la pena prospettarla.

Come ho già detto nella precedente occasione, il poeta per allietare le giornate della sua padrona, Antonia del Balzo, figlia del conte e della sua prima moglie, Brigida Carafa, scrisse un poema epico-cavalleresco, di ben 1.900 ottave, pubblicato a venezia nel 1531 col titolo “ORONTE GIGANTE[1], pubblicato quasi integralmente a cura del compianto Mario Marti con una dottissima esegesi e un chiarissimo commento[2].

Ed è proprio in quest’opera che ho provato a cercare eventuali corrispondenze coi versi della poesia.

Non ho trovato granché ma solo alcuni rimandi, che comunque potrebbero forse avere una valenza probatoria significativa.

Il “primo motore” del primo verso della poesia trova una corrispondenza nel “Gran Motore” che ritroviamo in Oronte III, I, 391 e III, II, 688 (Gran Motor).

La qualifica di “lucido” attribuita ad Apollo nel secondo verso la si rinviene nel lib. I, canto XVI, v. 354 (Apollo lucido e nitente).

Il pronome “Collei”, incipit della terza strofa, lo si ritrova all’inizio del verso 418 del sesto canto del primo libro (“collei per chi mai simil passione”), mentre l’intera strofa ha un’eco nella descrizione di Virginia Carafa, seconda moglie del conte (I,VI, 500-512) e di Antonia del Balzo (vv. 580 -84).

A Nettuno che gli chiede conto del ritardo il fiume Sebeto risponde:

Inclito Sire,

io son tardato, e contra el mio pensiero,

né per mia colpa, anzi de dui bei lumi,

ch’hanno in sé la forza de fermar i fiumi.

 

Sebetide virginea, andando a spasso

Per le mie rive, a canto la marina,

per saper ch’era, fermai alquant’el passo;

ma lei, che gl’occhi verso me declina,

al primo sguardo me conver’in sasso;

ma udendo la parola sua divina,

mirando el fronte e quel eburneo dente,

me versò un’altra volta in rio corrente.

E proseguendo Sebeto aggiunge che si era attardato anche perché sulla riva del mare, “nel lito ogentino” (v. 536) aveva visto passeggiare Antonia che così descrive:

Questè quel bel lume

qual io, signor, per sort’ebbi a vedere

in mezzo de sue ninfe, quale Teti,

ch’al mirar sol,  fa i venti mansüeti”.

Per quanto concerne lo spagnolismo “y” dello stesso nell’intero poema non se ne trova traccia, mentre in tutta l’opera al posto dell’articolo “il” si trova immancabilmente lo spagnolo “el”.

Per quanto attiene invece la parola “ponti” del primo verso della quarta strofa, la stessa potrebbe giustificarsi in quanto fa rima col “monti” del secondo verso della strofa precedente; seppur col significato di “punte” in Oronte (II, II, 167 -178) troviamo “ e fur sì mutue l’amorose ponte / che generaro me su questo monte”.

Infine “imineo” nel poema si rinviene quattro volte: III, IV, 132 – III, V, 250 (Imeneo);

I, II, 236 – I, VI, 373 (Imeno).

Prima di passare all’analisi della poesia occorre precisare che dedicataria del poema Oronte fu la stessa Antonia, che ne fu anche l’ispiratrice. Il poeta in verità come sua musa invoca una metafisica Gesia ma questa non è altro che l’ipostasi di Antonia della quale decanta innumerevoli volte la bellezza e la progenie. Ma quello che qui più interessa è che il poeta in numerosi passi dell’opera, ed in almeno sei dei quarantacinque epigrammi in latino che chiudono il volume, dichiara il suo amore (non corrisposto) per la sua padrona[3].Valga ad esempio l’incipit del quarto epigramma:

O Gesia, perché, sottraendoti, fai disperare il tuo infelice innamorato?”.

Per venire al contesto della poesia, l’astro splendente più di Apollo mandato da Dio sulla terra potrebbe essere identificato in Antonia della quale nel poema (I, III, 25-28) il Lenio dice:

ma che novel sol è quel ch’appare

che gli occhi abbaglia per soperchia luce?

certo Gesia serà, che non ha pare;

altro lume del ciel tanto non luce”.

La seconda parte della prima strofa, in particolare l’espressione “gran disastro di lume”, potrebbe invece alludere alla condizione di Roma e della Chiesa dopo il saccheggio da parte dei Lanzichenecchi (1527)? Quel tragico evento il poeta nell’Oronte (I, VI, 125-28) così descrive:

Portò [Roma] corona et or porta la benda,

come propria cagion del proprio male;

giace ferita de le sue sagette,

talch’a sacco le dier Lanzechenette”.

Aggiungendo (II, IV, 1-8):

De Giov’è il tempio, e non tocco da foco,

quando dà Greci Troia fu brusata,

ché se rispetta ogni sacro loco;

Né fu sì mal, com’ora Roma, trattata,

che violar li tempi è stato un gioco

e li clerici andar per fil de spata,

commetter tutti esorbitanti mali,

tener prigioni e papa e cardinali”.

E concludendo (III, IV, 15-16):

burdell’e beccaria fatto han de Roma,

talché squarciato n’ha el petto e la chioma”.

Passando alla parte finale della poesia ritengo che questa debba intedersi: Ma giusto è che s’adonti [Antonia] –perché quell’ingrato e rigido Imeneo – per sposa a un fauno (la dia) prego Deo.

Mi rendo conto che questa lettura appare un controsenso, ma tale non è perché il fauno è da identificarsi con lo stesso Lenio. Che egli non fosse un Adone ma alquanto sgraziato nella figura lo testimonia un “amabile e sorridente epigramma per lui composto ed a lui dedicato dall’amico Giano Anisio, una sapida puntasecca: «Si quis te aspiciat, Leni, nil torvius, at si / inspiciat nil te lenius putet»”[4].

E deve essere stata questa sua figura sgraziata che, costituendo per lui un ostacolo per convolare a nozze, lo porta a definire Imeneo “ingiusto e rigido”.

E la sua preghiera non è rivolta a Dio, ma a Deo, vale a dire Cerere[5], la cui bellissima figlia Proserpina fu rapita da Plutone per farne la sua sposa; e Plutone, come dio degli inferi, sappiamo che non era certo un modello di bellezza.

Le preghiere del Lenio non furono ascoltate e la bella Antonia, per interessamento di Ferrante Gonzaga, duca di Mantova, andò in sposa ad Ambrogio Branciforte, marchese di Licodia e (dal 1563) Principe di Butera, nel messinese. E forse a questo matrimoni, con conseguente partenza di Antonia per la Sicilia, fa riferimento il XIII epigramma:

Tu te ne parti, e io muoio; né è strano: di questo petto – tu sola sei l’anima, o Gesia, senza la quale il corpo è un cadavere”.

Concludento: se l’ipotizzata identificazione tra l’autore della poesia ed Antonino Lenio trovasse conferma, ne conseguirebbe che la confisca della biblioteca di Angilberto del Balzo ( o di una sua residuale parte) potrebbe essere avvenuta in seguito al “tradimento” del conte Francesco del Balzo che nel 1527 si schierò col Lautrec.

 

[1] Col sottotitolo:“ DE LEXIMIO POETA ANTONINO LENIO SALENTINO continente le Battaglie del Re de Persia et del Re de Scythia fatte per Amor de la figliola del Re di Troia. Capitani de Perse Rinaldo, et de Scythe Orlando cose belle et nove. Con additione de le battaglie per Amor de la Figlia del Re Pancreto in Nabatea. Et certe epigramme Amorose”.

[2] M. Marti, “ Oronte gigante (e Bradamante gelosa di S. Tarentino)”, Ed. Milella, Lecce 1985.

[3] Il poeta, stando alla ricostruzioe del prof. Marti (Oronte …, cit., p. 15) dovrebbe esser nato tra il 1470 ed il 1475, mentre Antonia dovrebbe esser nata poco dopo il matrimonio dei genitori avvenuto verso il 1501.

[4] M. Marti, Oronte …, cit. P. 35. (Trad: Se qualcuno ti guardas esteriormente, o Lenio, niente di più torvo (di terribile aspetto), ma se ti guarda introspettivamente, niente stima più mite (gentile) di te”.

[5] Detta in greco Demetra ma anche “Deo“ dal verbo Dèo (io trovo) in riferimento ai viaggi da lei fatti in cerca della figlia Proserpina.

Il dipinto delle sante Maria Maddalena e Francesca Romana del pittore Donato Antonio D’Orlando

 

di Stefano Tanisi

Donato Antonio d'Orlando

Soggetto: Sante Maria Maddalena e Francesca Romana

Epoca: 1618

Autore: Donato Antonio D’Orlando (1560 ca. – 1636)

Tecnica: olio su tela

Misure: cm. 263,5 x 166

Stato di conservazione: recente restauro

Provenienza: Ugento, Museo Diocesano (già nella chiesa delle Benedettine di Ugento)

Iscrizioni: DONATO ANTONIO D’ORL.DO PICTORE DI NARDÒ 1618/ S. M. MADALENA / S. FRANCESCA ROMANA / scene lato sinistro: Christum adit cum Simone leproso mense acumbentem / Domum reversa aurea catena corpus suum asperrime castigat / Ad concionem cum Marta se confert ubi amore Dei vehementer accenditur / Romam adeunt a S. Petro inteletum cum Matalena vera pr[A]edicaret / Madalena indeserium locum abit ubi sacta vitam extremo die claudit / scene lato destro: Moltiplica il pane in refettorio / Esce odore soavissimo del suo corpo / Spesso dopuo la Comunione era rapita in estasi / Sana un putto del mal caduco / […]

 

La tela, proveniente dalla chiesa delle Benedettine di Ugento, raffigura le due Sante Maria Maddalena e Francesca Romana. È un’opera autografa del pittore Donato Antonio D’Orlando di Nardò, da come si può leggere dalla firma “DONATO ANTONIO D’ORL.DO PICTORE DI NARDÒ 1618”. Datata dunque 1618, allo stato attuale è l’ultima opera che si conosce con certezza del pittore neretino.

Il dipinto, come spesso si riscontra nelle opere del pittore, ha un carattere devozionale e didattico, grazie all’utilizzo di scenette che ritraggono gli episodi salienti della vita delle due sante accompagnate dalle relative didascalie che permettono ai fedeli una più facile lettura della rappresentazione sacra. Come in altre opere, il pittore utilizza delle bordature in foglia oro per delimitare le scene.

In passato la Chiesa latina accomunava nel culto di santa Maria Maddalena tre donne diverse: 1) la peccatrice perdonata a casa di Simone il lebbroso; 2) Maria di Betania, la sorella di Marta e Lazzaro; 3) l’indemoniata Maria Maddalena (da Magdala, città da dove proveniva) liberata da Gesù che diverrà la sua devota discepola. Essa fu tra le donne che assistette alla crocifissione e divenne la testimone diretta della resurrezione di Cristo. Ed è quest’ultima che va correttamente indicata come la nostra santa.

Nel dipinto ugentino la Maddalena è raffigurata a sinistra in ginocchio con le mani congiunte in segno di preghiera; il suo sguardo è diretto verso il cielo. Alle spalle è un vaso di vetro trasparente contenente il profumo con il quale avrebbe dovuto ungere la salma di Cristo la Domenica di Pasqua. Il lato sinistro è ripartito da cinque scenette con gli episodi della vita della santa, accompagnate da sintetiche didascalie in latino stentato, dove troviamo a partire dall’alto: Gesù mentre è a cena a casa di Simone guarito dalla lebbra, la peccatrice s’inginocchia ai suoi piedi (Christum adit cum Simone leproso mense acumbentem); a casa la santa fa penitenza in ginocchio frustandosi il petto con una catena d’oro di fronte a un tavolo dove è poggiato un crocefisso, il vaso dei profumi e il teschio simbolo della vanitas (Domum reversa aurea catena corpus suum asperrime castigat); Maria con la sorella Marta insieme a un gruppo di donne ascoltano la predica di Cristo posto su di un pulpito (Ad concionem cum Marta se confert ubi amore Dei vehementer accenditur); lo sbarco della Maddalena a Marsiglia, anche se la didascalia allude a una predica con san Pietro a Roma (Romam adeunt a S. Petro inteletum cum Matalena vera pr[A]edicaret); la morte della Maddalena e la gloria tra gli angeli (Madalena indeserium locum abit ubi sacta vitam extremo die claudit).

Donato Antonio d'Orlando

La Maddalena ugentina, pur nella rigidità della posa, ricorda la stessa santa raffigurata nella Crocifissione della chiesa matrice di Galatone. Entrambe, anche se dipinte specularmente, si dimostrano simili nella fisionomia del volto, nell’attacco della testa al lungo tozzo collo, nel modo di trattare la fluente capigliatura, nell’anatomia delle mani.

Donato Antonio d'Orlando

Queste due opere si rivelano assai decisive nell’attribuzione al D’Orlando di un noto dipinto raffigurante la Pietà, conservato nella chiesa dei Carmelitani di Nardò, attribuito nel 1964 da Michele D’Elia e Nicola Vacca al pittore Gian Serio Strafella (documentato dal 1546 al 1573) di Copertino: nonostante il recente restauro che ha evidenziato i colori e le forme, nel 2013, nel catalogo della mostra leccese dedicato ai pittori manieristi (Cassiano-Vona, 2013), gli studiosi hanno confermato tale dipinto al pittore copertinese. È chiaro che la qualità pittorica e coloristica dei tre dipinti menzionati è certamente differente (cosa assai palese nella produzione del pittore), ma mettendo a confronto i tre volti della Maddalena sorprendentemente si richiamano tra loro nella configurazione del naso e delle palpebre dell’occhio, particolari fisiognomici – riscontrabili anche in altri dipinti autografi – che sono peculiari della produzione del D’Orlando. Conferma si ha quando si raffronta anche l’anatomia del corpo esanime del Cristo nel compianto di Nardò con quella del Crocifisso di Galatone (confronta anche con il corpo di Cristo della tela della Madonna della Misericordia della chiesa omonima di Nardò o con quello dell’Allegoria del Sangue di Cristo della chiesa di Santa Maria delle Grazie di Seclì).

Simmetricamente a destra troviamo raffigurata, sempre in ginocchio, santa Francesca Romana. La santa, vissuta tra il XIV e il XV secolo, fu sposa, madre, vedova e fondatrice a Roma dell’ordine religioso delle Oblate Benedettine di Monte Oliveto. Ha dedicato la sua vita all’unità della Chiesa, ai poveri, malati e morenti. Nel dipinto ugentino l’oblata è raffigurata nella sua consueta iconografia: vestita con abito nero e lungo velo, mentre nelle mani regge il libro delle regole. È affiancata dall’angelo custode – abbigliato con una vistosa dalmatica rossa e tiene in mano una palma con i datteri – che la difese dal demonio. Anche il lato destro è occupato da cinque scene dei miracoli della santa, con le relative didascalie scritte invece in italiano, dove troviamo: santa Francesca che moltiplica il pane nel refettorio di fronte alle consorelle (Moltiplica il pane in refettorio); la salma della santa distesa su un catafalco, dal cui corpo esce un odore soave, mentre le consorelle assistono sorprese e un monaco gli si è inginocchiato ai piedi (Esce odore soavissimo del suo corpo); la santa raffigurata in ginocchio davanti il tabernacolo mentre è rapita in estati dopo la Comunione (Spesso dopuo la Comunione era rapita in estasi); la santa guarisce dall’epilessia un giovane trattenuto da un anziano (Sana un putto del mal caduco); la santa visita un’ammalata distesa nel letto (didascalia consunta).

Lo sfondo, dalle contrastate tonalità fredde grigio-verde, è occupato in alto dal cielo plumbeo che va gradualmente a rischiarirsi sulle vette delle montagne alle cui pendici compaiono dei piccoli nuclei abitativi.

Il recente restauro ha restituito i colori e i dettagli del dipinto, oscurati da numerose ridipinture e strati di sporco. Nella rimozione delle parti ridipinte è emerso che le labbra delle due sante sono state in passato volutamente sfregiate.

 

Bibliografia:

– D’Elia M. (a cura di), Mostra dell’Arte in Puglia dal tardo antico al rococo, catalogo, Istituto Grafico Tiberino, Roma, 1964, p. 136;

– Vacca 1964 = Vacca N., Nuove ricerche su Gian Serio Strafella da Copertino, in Archivio Storico Pugliese, XVII, 1964, p. 33;

– Corvaglia F., Ugento e il suo territorio, ristampa, Tipografia F. Marra, Ugento, 1987, p. 110;

– Palese S., Monasteri e società in Terra d’Otranto. Le monache benedettine di Ugento, in «Archivio Storico Pugliese», Bari, Società di Storia Patria per la Puglia, a. XXXIII, 1980, pp. 271-272;

– Cazzato M., Sulle vie delle capitali del Barocco, Antonio Donato D’Orlando (XVI-XVII Sec.), Aradeo 1986, p. 22

– Cassiano A., Il Museo Diocesano di Ugento, in Antonazzo L., Guida di Ugento. Storia e arte di una città millenaria, Galatina, Congedo Editore, 2005, p. 90;

– Cassiano A. – Vona F. (a cura di), La Puglia il manierismo e la controriforma, catalogo della mostra, Congedo Editore, Galatina 2013, pp. 56-57, 224-225.

 

(Tratto da: Tanisi S., Scheda 6. Sante Maria Maddalena e Francesca Romana, in S. Cortese (a cura di), La fede e l’arte esposta. Catalogo del Museo Diocesano di Ugento, Domus Dei, Ugento 2015, pp. 51-53)

Un’intrigante ipotesi sul poeta Antonino Lenio, alla corte del conte di Ugento

???????

di Luciano Antonazzo

 

Francesco del Balzo fu l’ultimo della  celebre famiglia di origine francese a possedere la contea di Ugento.  Condusse  una vita tranquilla, mantenendo però sempre vivo nel suo animo il proposito di vendetta per la tragica fine del padre Angilberto,  giustiziato nel 1491 dagli spagnoli come fautore della cosidetta “Congiura dei Baroni”. L’occasione gli si presentò nel 1527 quando scese in Italia il Lautrec, luogotenente del re di Francia Francesco I. Non esitò a schierarsi al suo fianco, ma dopo i successi iniziali l’esito della guerra arrise agli spagnoli e a Francesco non rimase che l’esilio. Riparò a Ragusa in Dalmazia dove si fermò per due anni. Esaurite le sue finanze rientrò in Italia , a Roma, dove si mise sotto la protezione del cardinale Trivulzio  ricevendo per proprio sostentamento, e quello di due servi, appena due baiuli al giorno.

Ad accompagnare Francesco del Balzo nel suo esilio a Ragusa e a Roma c’era il poeta Antonino Lenio che viveva alla corte ugentina  dove, per compiacere ed allietare le giornate della figlia del conte, Antonia, diede inizio alla composizione di un poema epico-cavalleresco di ben 1900 ottave, vale a dire 15.200 versi, che fu stampato in Venezia nel 1531 col titolo “ORONTE GIGANTEe col sottotiolo “ DE LEXIMIO POETA ANTONINO LENIO SALENTINO continente le Battaglie del Re de Persia et del Re de Scythia fatte per Amor de la figliola del Re di Troia. Capitani de Perse Rinaldo, et de Scythe Orlando cose belle et nove. Con additione de le battaglie per Amor de la Figlia del Re Pancreto in Nabatea. Et certe epigramme Amorose”.

Il poema sarebbe rimasto sconosciuto se non vi si fosse imbattuto Benedetto Croce nelle sue esplorazioni della cultura napoletana. Sotto l’aspetto letterario ne diede un giudizio drasticamente negativo, ma lo definì “il più importante contributo dell’Italia meridionale alla letteratura cavalleresca del tempo”. E’ indubbio comunque che sotto l’aspetto storico-culturale il poema ha una significativa valenza, come ha evidenziato il prof. Mario Marti che meritoriamente lo ha pubblicato quasi integralmente nel 1985[1], offrendo ai lettori, con una anlisi approfondita, la possibilità di apprezzarne anche “l’ibridismo linguistico” rappresentato dall’uso di grecismi,  latinismi e lemmi dialettali.

L’incipit dell’opera è costituito dalla dedica “DIVAE ANTONIAE BAUTIAE”,  “donna angelica e divina-che passeggiava nel lito ogentino – de chi lo padre tiene la signorìa” (libro I, canto VI, vv. 356-58),  versi che attestano inconfutabilmente che quantomeno il primo libro del poema fu composto in Ugento. Rimane invece  dubbia la patria dell’autore. Egli si dice “salentino” senza precisare il suo luogo d’origine, ma per Giovanni Bernardino Tafuri sarebbe nato a Parabita, altro feudo appartenente a Francesco del Balzo.

Qualche notizia sulla sua attività poetica, e sulla sua solida formazione letteraria il Lenio la dà incidentalmente nel poema stesso, dove non manca di elogiare i grandi letterati e filosofi del tempo (suoi docenti o suoi amici) dedicatari di alcuni dei suoi 45 distici in latino formanti gli “Epigrammata” che chiudono l’opera .

Altro di lui non ci è dato sapere ma forse é sopravvissuta una testimonianza della sua presenza in Ugento.

???????

Al piano superiore dell’ex convento dei Minori Osservantisi, oggi sede del Museo Civico, si trova una cella che si affaccia sul cortile, sulle cui pareti laterali vi sono dei disegni elementari. Vi sono raffigurate delle scene intervallate da uccelli su una sfera poggiata su una base pseudo – trapezoidale. Tali scene con figure maschili e femminili, più o meno vestite, rappresentano dei duelli e degli amplessi; sulla parete laterale destra dell’ingresso vi sono raffigurate anche alcune strutture architettoniche mentre sulla parete di fronte vi è la raffigurazione del peccato originale e un inusuale fonte della vita. Come si desume dagli abiti dei personaggi e soprattutto dalla forma triangolare del pettorale delle dame i dipinti delle pareti laterali soo databili al XVI secolo e nel complesso sembrano rimandare ad un qualche poema epico – cavalleresco.

La loro realizzazione, soprattutto per la presenza di scene di sesso, certamente non è ascrivibile al frate che vi dimorava; di contro è più verosimile la loro attribuzione a qualcuno che avesse dimestichezza con la letteratura dell’epoca.

E se si trattasse proprio di Antonino Lenio? L’intrigante ipotesi abbisognerebbe della dimostrazione che egli dimorasse nel convento e questa circostanza sembra avvalorata  da una ottava nella quale ironizza sul comportamento dei frati.

10

Nel libro I, canto XVI, ai versi 225- 232, il poeta parla di un sacrificio di “mille bovi” alla dea Minerva Iliade, e sottolinea come  la carne andava a finire ai “sacerdoti” in modo di farli “in gaudemus stare”, cioè “viver da gaudenti”; chiude quindi l’ottava dicendo con malizia “come ancor oggi i frati soglion fare”. Che questa chiusa fosse rivolta ai frati del nostro convento lo esplicita l’ottava seguente (versi 233-40) nella quale dice:

 

Quando la mia Signora del buon vino

e pan bianco gli manda e bei cappon

cantan devoti l’ufficio divino

con tanti pater nostri et orazioni

cogl’occhi bassi e co’ lo capo chino

reputando noi altri da babioni,

ridono in ciambra che ben chiaman cela

che li secreti loro asconde e cela.

???????

Il tratteggiare in questo modo il comportamento che i frati tenevano in privato a nostro avviso discende da una conoscenza diretta, e dall’interno del convento, che l’autore doveva  avere.

Ad avvalorare ulteriormente questa ipotesi potrebbero essere anche alcuni elementi disegnati sulle pareti laterali.

12

Come detto vi sono dipinti diversi uccelli e questi potrebbero avere attinenza col fatto che il poeta narra di aver sognato di essere diventato uno storno (v. libro I, canto X, vv.296 – 7) e di aver stretto amicizia con una rondinella, l’unica tra gli altri volatili incontrati (tra cui uno smerlo) a parlare l’idioma umano (v. libro I, canto X , vv. 320 -21; 345-48).

Anche le strutture architettoniche potrebbero rinviare ad alcuni degli edifici degli dei che egli particolareggiatamente descrive (v. libro I, canto III, vv. 32-36; libro I, canto XI, vv. 1-8) .

15

Resta da capire se i superiori del convento tollerarono o non si avvidero affatto delle rappresentazioni osées sulle pareti. Riteniamo plausibile la seconda ipotesi, perché altrimenti le avrebbero di certo cancellate. In effetti al padre guardiano del convento era precluso entrare nella cella di un ospite e quand’anche, in sua assenza,  avesse voluto controllare se in quella  fosse tutto in ordine poteva farlo solo sbirciando attraverso una finestrella della porta chiusa; ma dallo spioncino poteva avere solo una visuale ridotta che  gli impediva di vedere i dipinti delle pareti laterali; di contro sulla parete di fronte vedeva chiaramente la raffigurazione del peccato originale e del fonte della vita, rappresentazioni che verosimilmente lo inducevano a credere che il resto dei dipinti fosse dello stesso tenore. Solo quando il poeta seguì il conte nel suo esilio i frati ebbero contezza di quello che i dipinti rappresentavano e , per nostra fortuna, si limitarono a ricoprirli con uno strato di calce che li ha preservati fino alla loro riscoperta.

16

17

[1] M. MARTI (a cura), Oronte gigante (e Bradamante gelosa di S. Tarentino), Milella Ed. Lecce 1985.

 

 

La Terra d’Otranto ieri e oggi (14/14): UGENTO

di Armando Polito

Il toponimo

Risale a Tito Livio (I secolo a. C.-I secolo d. C.), Ab Urbe condita, XXII, 61 l’etnico Uzentini1 che suppone un toponimo Uzentum.

La forma greca Οὔξεντον (leggi Ùxenton) è attestata in Tolomeo (II secolo d. C.), Geographia, III, 1, 67.

Nella Tabula Peutingeriana (IV secolo d. C.) la forma del toponimo è Uzintum (evidenziato in rosso nell’ellisse nell’immagine che segue.

 

In Guidone (XII secolo d. C.), Geographia, in due paragrafi diversi (29 e 71) si legge … Yentos quae nunc Augentum (Yento che ora si chiama Augento).

Tutte le forme fin qui riportate probabilmente sono figlie di ΟΖΑΝ, attestato dalle fonti numismatiche (in basso una moneta del III secolo a. C.).

immagine tratta da http://www.wildwinds.com/coins/greece/calabria/uxentum/BMC_4.jpg
immagine tratta da http://www.wildwinds.com/coins/greece/calabria/uxentum/BMC_4.jpg

OZAN (evidenziato con l’ellisse rossa nell’immagine che segue) è attestato anche nella Mappa di Soleto e, se questa fosse autentica, cioè risalente al VI secolo a. C., sarebbe la forma più antica del toponimo.

Quanto all’etimo,  Francesco Ribezzo negli anni 30 del secolo scorso mise in campo un  *Ausentum da collegare con una radice mediterraneo-indeuropea auso (=chiaro, lucente, aurora, sole) connessa con gli Ausoni, l’antico popolo che insieme con gli Iapigi e gli Enotri popolavano l’Italia meridionale prima dell’arrivo dei coloni greci.

La proposta più recente è di Mirko Urro che nel suo saggio Ugento e il suo Zeus nella Messapia: un viaggio fuori rotta, Barbieri, Manduria, 2005 ipotizza che OZAN derivi da Ὁ (leggi O, nominativo dell’articolo maschile singolare)+  ZAN (leggi ZAN), nominativo dorico per ΖΗΝ (leggi ZEN), per cui OZAN significherebbe alla lettera Lo Zeus. L’ipotesi, indubbiamente suggestiva, mi appare ispirata un po’ troppo dalla statua di Zeus stilita rinvenuta ad Ugento nel 1961.  

Pacichelli (A), pag. 178:

Pacichelli, mappa:

Immagine tratta da https://www.google.it/search?q=ugento+panorama&newwindow=1&tbm=isch&source=iu&imgil=Bh63khpr3WV3gM%253A%253Bhttps%253A%252F%252Fencrypted-tbn3.gstatic.com%252Fimages%253Fq%253Dtbn%253AANd9GcTfotKkeviR0gbA7tVOI6pZoEZavqQnx6uF-xp1X-Lo8Mb1Cjtg%253B100%253B75%253BHoa_Kf8t3bOCMM%253Bhttp%25253A%25252F%25252Fitalia.indettaglio.it%25252Fita%25252Fpuglia%25252Fugento.html&sa=X&ei=7sGtUujED-ToywPFoIGoDw&ved=0CDkQ9QEwAw&biw=1280&bih=630#facrc=_&imgdii=zWdtRgkWZCTMEM%3A%3BY6kNzj9eLAR8PM%3BzWdtRgkWZCTMEM%3A&imgrc=zWdtRgkWZCTMEM%3A%3BVqmGl99JKXUnAM%3Bhttp%253A%252F%252Fwww.japigia.com%252Fle%252Fugento%252Fugento_panorama.jpg%3Bhttp%253A%252F%252Fwww.japigia.com%252Fle%252Fugento%252Findex.shtml%253FA%253Dugento_1%3B403%3B261
Immagine tratta da https://www.google.it/search?q=ugento+panorama&newwindow=1&tbm=isch&source=iu&imgil=Bh63khpr3WV3gM%253A%253Bhttps%253A%252F%252Fencrypted-tbn3.gstatic.com%252Fimages%253Fq%253Dtbn%253AANd9GcTfotKkeviR0gbA7tVOI6pZoEZavqQnx6uF-xp1X-Lo8Mb1Cjtg%253B100%253B75%253BHoa_Kf8t3bOCMM%253Bhttp%25253A%25252F%25252Fitalia.indettaglio.it%25252Fita%25252Fpuglia%25252Fugento.html&sa=X&ei=7sGtUujED-ToywPFoIGoDw&ved=0CDkQ9QEwAw&biw=1280&bih=630#facrc=_&imgdii=zWdtRgkWZCTMEM%3A%3BY6kNzj9eLAR8PM%3BzWdtRgkWZCTMEM%3A&imgrc=zWdtRgkWZCTMEM%3A%3BVqmGl99JKXUnAM%3Bhttp%253A%252F%252Fwww.japigia.com%252Fle%252Fugento%252Fugento_panorama.jpg%3Bhttp%253A%252F%252Fwww.japigia.com%252Fle%252Fugento%252Findex.shtml%253FA%253Dugento_1%3B403%3B261

4  Porta di San Nicola (mappa/immagine tratta ed adattata da Google Maps)

6 Minori Osservanti/S. Antonio da Padova (mappa/http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/e/e8/Chiesa_di_Sant’Antonio_da_Padova_Ugento.jpg)

 

 

7  Santa Maria della luce/Santuario della Madonna della Luce (mappa/http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/c/cd/Santuario_Madonna_della_Luce_Ugento.jpg)

9  Santa Maria del Corallo (mappa/https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/04/10/la-chiesetta-della-madonna-del-curato-ad-ugento/)

 

11 Porta del Paradiso  (mappa/immagine tratta ed adattata da Google Maps)

13 Duomo (mappa/http://it.wikipedia.org/wiki/File:Cattedrale_di_Ugento.jpg)

14  Palazzo del Marchese  (mappa/http://www.solemare.org/index.php?&set=188&dom_id=&dom_sld=solemare&dom_tld=org&no_tags=1&sito_gratis=&sito=&local_page=foto&left_local_page=&foto_id=528553&seleziona_album=Monumenti)

Stemma: nella mappa compaiono due scudi vuoti; l’attuale nell’immagine che segue tratta http://it.wikipedia.org/wiki/File:Ugento-Stemma.png

 

(FINE)

 

Prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/12/19/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-114-presentazione/

Seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/12/23/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-214-alessano/

Terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/05/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-314-brindisi/

Quarta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/09/la-terra-dotranto-ieri-414-carpignano/

Quinta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/14/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-514-castellaneta/

Sesta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/20/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-614-castro/

Settima partehttps://www.fondazioneterradotranto.it/2014/02/05/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-714-laterza/

Ottava parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/02/17/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-814-lecce/

Nona parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/02/21/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-914-mottola/

Decima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/02/26/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-1014-oria/

Undicesima partehttps://www.fondazioneterradotranto.it/2014/03/04/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-1114-ostuni/

Dodicesima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/03/14/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-1214-otranto/

Tredicesima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/03/31/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-1314-taranto/

___________

1 Attestato successivamente da Plinio (I secolo d. C.), Naturalis historia, III, 11.

Un inedito dipinto ugentino attribuibile a Giovanni Andrea Coppola

Fig. 1. Ugento, ubicazione sconosciuta, Giovanni Andrea Coppola (attr.), Figura femminile (dipinto su tela, sec. XVII) (foto Archivio Ufficio Beni Culturali Ecclesiastici Diocesi di Ugento)
Fig. 1. Ugento, ubicazione sconosciuta, Giovanni Andrea Coppola (attr.), Figura femminile (dipinto su tela, sec. XVII) (foto Archivio Ufficio Beni Culturali Ecclesiastici Diocesi di Ugento)

 

di Stefano Tanisi

 

 

Nell’Archivio dell’Ufficio Beni Culturali Ecclesiastici della Diocesi di Ugento, nel riordinare dei fascicoli contenenti delle stampe fotografiche degli anni Settanta del secolo scorso, è stata rinvenuta una foto in bianco e nero di una tela, in cattivo stato di conservazione, raffigurante un’interessante figura femminile (fig. 1), opera di cui sembrerebbe aver perso le tracce. Poiché il dettaglio fotografato non riprende attributi iconografici, è difficile risalire con esattezza all’identità del soggetto raffigurato. Bisogna pur notare che il volto e il corpo di questo personaggio femminile sono impostati nella direzione del braccio sinistro in tensione e sembrerebbe che nella mano poteva reggere qualche peso: alla luce di queste considerazioni si potrebbe trattare di Giuditta con la testa di Oloferne o di Salomè che mostra la testa del Battista.

Nel retro della foto è annotata a matita “Ugento – esistente in soffitta chiesa…”, indicazione che purtroppo non ci dice in quale chiesa ugentina la tela era un tempo ubicata, né tantomeno ci specifica l’autore, la dimensione e l’epoca di realizzazione del dipinto.

Fig. 2. Ugento, ubicazione sconosciuta, Giovanni Andrea Coppola (attr.), Figura femminile, particolare (dipinto su tela, sec. XVII)
Fig. 2. Ugento, ubicazione sconosciuta, Giovanni Andrea Coppola (attr.), Figura femminile, particolare (dipinto su tela, sec. XVII)

 

Esaminando questa inedita immagine dal punto di vista stilistico appare chiaro il modellato assai plastico e solido, un disegno incisivo nei contorni e nei tratti fisiognomici. La ripresa fotografica infatti ci restituisce l’ottima definizione pittorica di questo dipinto: la dettagliata descrizione del volto e dei capelli denota una finezza esecutiva che s’incontra nelle opere certe del seicentesco pittore gallipolino Giovanni Andrea Coppola (1597-1659). Difatti la stessa levigatezza del volto la si può notare nelle molteplici figure femminili e negli angeli adulti che il Coppola ha realizzato in diverse sue opere, in cui emerge una chiara elaborazione del viso su un modello classico di bellezza. Il volto (fig. 2) in questo inedito dipinto ugentino, ad esempio, pare molto simile a quello di una delle figure (fig. 3), il probabile san Giovanni Evangelista, che appare a destra, accanto all’anziano Apostolo, nel bel dipinto dell’Assunta (fig. 4) della Cattedrale di Gallipoli. Mettendo a confronto i due volti, infatti, ci accorgiamo subito delle molteplici affinità tanto da ritrovare gli stessi lineamenti (come il profilo del naso, la bocca carnosa, il mento affilato) e lo stesso trattamento delle ciocche dei capelli, ma anche il medesimo modo di concepire le luci che sembrano ripetersi in entrambi i dipinti nella zona retroauricolare, in quella periorbitaria e alla base del collo.

Fig. 3. Gallipoli, Cattedrale, Giovanni Andrea Coppola, Assunta, particolare (olio su tela, sec. XVII)
Fig. 3. Gallipoli, Cattedrale, Giovanni Andrea Coppola, Assunta, particolare (olio su tela, sec. XVII)

«Picturae perquam studiosus» con queste parole, spigliatamente si firmava il Coppola nella nota tela delle Anime purganti della Cattedrale di Gallipoli. Da queste parole cogliamo un uomo-artista probabilmente compiaciuto dal suo diletto per la pittura. Un artista che non smette mai di deliziarci come in questo sconosciuto dipinto di Ugento, la cui ubicazione attuale ci è ignota, che si spera di recuperare e di restituirlo alla collettività.

 

Fig. 4. Gallipoli, Cattedrale, Giovanni Andrea Coppola, Assunta (olio su tela, sec. XVII)
Fig. 4. Gallipoli, Cattedrale, Giovanni Andrea Coppola, Assunta (olio su tela, sec. XVII)

 

Pubblicato su Il delfino e la mezzaluna n°2

Musei diocesani pugliesi scrigni di ricchezze

museo-gallipoli-248

di Giuseppe Massari

Nel panorama culturale pugliese ci sono delle testimonianze e delle realtà che non si può fare a meno di visitare. Tra i tanti doni naturali che la Puglia possiede, e che ha gratuitamente ricevuto in dono,  ci sono quelli costruiti da mani esperte ed umane. Sono immagini sacre, quadri, sculture di santi, reliquiari, paramenti ed arredi sacri. Un corredo enorme che costruisce e ricostruisce la storia della Chiesa pugliese. Che fa da cornice e da sfondo ad una storia scritta, ma non sufficientemente conosciuta. Un bagaglio culturale di enorme spessore, interesse e bellezza attraverso il quale si sono cimentati pittori e artisti di fama mondiale, ripercorrendo in lungo e in largo la sacralità, la spiritualità, la fede della nostra regione.

Questi ricchi contenitori di arte ed espressività, intonati e sintonizzati con le corde del cuore, sono i molteplici musei diocesani sparsi dal nord al sud della Puglia.

Ma in realtà quanti sono? In una prima ricostruzione, fatta alcuni anni fa, dalla Commissione per la cultura della Conferenza episcopale pugliese,  e sfociata in una pubblicazione che ha visto la luce circa cinque anni fa,  “Guida dei Musei diocesani di Puglia”, essi assomano ad un numero pari a 17. Va detto subito che sono fra i più importanti e i più ricchi per contenuti di oggetti espositivi. A questo elenco vanno aggiunti quelli definiti ecclesiatici, cioè sempre di proprietà della Chiesa, ma più, per quanto riguarda la gestione, di natura privata o privatistica.

Tutti, comunque, in ugual misura, contribuiscono ad integrare il già vasto patrimonio architettonico delle nostre chiese romaniche, gotiche e barocche.

Tutti questi cimeli, uniti indissolubilmente alle storie di ogni singola cattedrale o chiesa locale, sono il miglior viatico, il migliore mezzo per portare la Puglia oltre i suoi limitrofi e lontani confini. Essi svolgono una funzione turistica di indubbio valore, se è vero, come è vero, che la sete del sapere e del conoscere non può non passare attraverso le bellezze che racchiudono il sacro, il divino, il trascendente, il culto, la fede, la tradizione, la specificità di un messaggio autentico e non artefatto, in mezzo al confusionismo moderno o della modernizzazione dissacrante, blasfema ed iconoclasta.

Nell’economia di questi tesori viventi vanno aggiunti i cassetti della memoria spolverata o impolverata degli Archivi. Altre miniere di ricchezza di documenti, di racconti particolari, curiosi, metodici, puntuali dello svolgimento della vita della Chiesa, con gli atti ufficiali dei molteplici vescovi che hanno abitato le sedi episcopali. La vita dei Capitoli cattedrale. Le particolarità raccontate dei vari personaggi storici, che hanno contribuito a scrivere ogni fetta e parte di storia locale. Forse, con l’eccezione e la dovuta distinzione, però, va evidenziato come i musei, per la loro capacità di farsi guardare e ammirare sono mete ambite da molti.

Gli archivi, sono luoghi di studio, riservati a pochi, a cultori, ad appassionati di ricerche, e, quindi, meno esposti ai visitatori occasionali e di passaggio. Ma gli uni e gli altri non differiscono dall’ essere punti centrali d’incontro e di partenza per lo studio di ogni realtà particolare. Gli uni e gli altri insieme per assolvere a quella funzione di supporto propagandistico e promozionale del nostro territorio.

Non potendo elencare tutti i tesori contenuti nelle strutture museali diocesane, quanto meno, ci è sembrato opportuno, riportare, grazie all’ausilio di un recente studio, elaborato attraverso una Tesi di Licenza in Museologia, curata dal giovane Giorgio Gasparre e discussa presso il Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, presso la Città del Vaticano, nell’Anno accademico 2004 – 2005, l’elenco aggiornato di tutti i musei che insistono nelle varie diocesi pugliesi.

 

 

Provincia di Lecce

Ÿ         Museo Diocesano d’ arte sacra dell’ Arcidiocesi di Lecce: Comune: Lecce- Diocesi: Lecce- Sede: Palazzo del seminario, piazza Duomo- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, a pagamento.

Ÿ         Museo Diocesano di Otranto: Comune: Otranto- Diocesi: Otranto- Sede: palazzo Lopez, piazza della Basilica- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Chiuso per restauro. 

Ÿ         Museo Diocesano di Gallipoli: Comune: Gallipoli- Diocesi: Nardò-Gallipoli- Sede: ex Seminario Vescovile- Tipologia: archeologico, artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto a pagamento. 

Ÿ         Museo Diocesano di Ugento: Comune: Ugento- Diocesi: Ugento- Santa Maria di Leuca- Sede: Palazzo del Seminario- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- In progettazione.

 

Provincia di Brindisi

Ÿ         Museo Diocesano “Giovanni Tarantini”: Comune: Brindisi- Diocesi: Brindisi- Ostuni- Sede: chiostro del Palazzo del Seminario- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- In allestimento. 

Ÿ         Museo Diocesano di Oria: Comune: Oria- Diocesi: Oria- Sede: Palazzo Vescovile- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto a richiesta. 

 

Provincia di Taranto

Ÿ         Museo Diocesano di Taranto: Comune: Taranto- Diocesi: Taranto- Sede: ex Seminario Vescovile- Tipologia: artistico, arte sacra-Proprietà: diocesano. Prossima apertura.

Ÿ         Museo Diocesano di Castellaneta: Comune: Castellaneta- Diocesi: Castellaneta- Sede: ex Seminario Vescovile- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- In progettazione.

Provincia di Bari

Ÿ         Museo Diocesano della Basilica Cattedrale di Bari: Comune: Bari- Diocesi: Bari- Bitonto- Sede: Arcivescovado- Tipologia: archeologico, artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, gratuito.

Ÿ         Museo Diocesano: Pinacoteca Mons. A. Marena e Lapidario romanico: Comune: Bitonto- Diocesi: Bari- Bitonto- Sede: Palazzo Vescovile- Tipologia: archeologico, artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, gratuito.

Ÿ         Museo Capitolare della Cattedrale di Gravina di Puglia: Comune: Gravina di Puglia- Diocesi: Altamura- Gravina- Acquaviva delle Fonti- Sede: Seminario Vecchio- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: Capitolo della Cattedrale di Gravina di Puglia- Aperto, offerta libera.

Ÿ         Museo Diocesano della Cattedrale di Altamura: Comune: Altamura- Diocesi: Altamura- Gravina- Acquaviva delle Fonti- Sede: Matronei della Cattedrale- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- In progettazione.

Ÿ         Museo Diocesano di Monopoli: Comune: Monopoli- Diocesi: Conversano- Monopoli- Sede: Ex Seminario- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, a pagamento.

Ÿ         Museo Diocesano di Bisceglie: Comune: Bisceglie- Diocesi: Trani- Barletta- Bisceglie- Sede: Palazzo Vescovile- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Chiuso per restauro.

Provincia di Barletta- Andria- Trani

Ÿ         Museo Diocesano di Trani: Comune: Trani- Diocesi: Trani- Barletta- Bisceglie- Sede: piazza Duomo- Tipologia: archeologico, artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Chiuso.

 

Provincia di Foggia

Ÿ         Museo Diocesano di Foggia: Comune: Foggia- Diocesi: Foggia- Bovino- Sede: Chiesa dell’ Annunciata- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Chiuso per restauro.

Ÿ         Museo Diocesano di Bovino: Comune: Bovino- Diocesi: Foggia- Bovino- Sede: Castello di Bovino- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, gratuito.

Ÿ         Museo Diocesano di San Severo: Comune: San Severo- Diocesi: San Severo- Sede: ambiente ipogeo di via vico freddo- Tipologia: archeologico, artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, gratuito.

Ÿ         Museo Diocesano di Lucera: Comune: Lucera- Diocesi: Lucera- Troia- Sede: Episcopio- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, a pagamento.

Ÿ         Museo Diocesano del tesoro della Cattedrale di Troia: Comune: Troia- Diocesi: Lucera- Troia- Tipologia: artistico- arte sacra- Proprietà: diocesano- Chiuso per restauro.

Le foto a corredo di questo articolo riprendono alcuni dei beni esposti nel Museo Diocesano di Gallipoli

Il castello di Ugento e le decorazioni pittoriche che ornano le sue volte (seconda parte)

La “sciarada estetica” dei d’Amore nel salone del castello di Ugento (seconda e ultima parte)

di Daniela De Lorenzis

Ugento, palazzo d’Amore, particolare degli affreschi sulla volta del salone (Venere e Cupido), (foto A. Bonzani)

… Cultura, tenore di vita e intento autocelebrativo dei nuovi insediati si evincono dalla lettura degli affreschi che ornano le volte del palazzo, ma soprattutto da quelli presenti nel salone ubicato nell’“Appartamento antico”.

In questo ambiente, «la lamia gaveda dipinta a fresco»[i] esibisce una complessa impalcatura iconografica, interessante non tanto per la resa pittorica piuttosto modesta (fatta eccezione per gli stemmi che presentano una fattura meno approssimativa)[ii], quanto per i significati che sottende: è evidente, da una parte, l’intento di celebrare la lucida politica matrimoniale dei d’Amore – volta a evitare l’estinzione del casato, ma anche un eccessivo frazionamento dei beni patrimoniali – dall’altra di rendere in chiave mitica un tributo alla virtus della stirpe, o di singoli membri, quali dispensatori di benessere e prosperità per il feudo.

Al centro della volta campeggiano le figure di Mercurio, Venere, Cupido e, probabilmente, Giove[iii], fra loro collegate dallo svolazzo di un lungo e sinuoso drappo rosso, simbolo della natura passionale dell’Amore.

Il leit-motiv che informa le decorazioni pittoriche sembrerebbe essere dunque il tema amoroso con evidente allusione al cognome d’Amore, ma anche alle vicende familiari dei marchesi[iv]: negli stessi anni in cui sono realizzati gli affreschi, infatti, Francesco e Nicola d’Amore impalmano rispettivamente Anna Maria Basurto e Camilla d’Amore, ossia la vedova e la figlia del defunto marchese Giuseppe d’Amore, erede del maggiorato.

Gli affreschi del salone celebrano dunque queste doppie nozze, avvenute tra il 1695 e il 1697, ma i cui capitoli matrimoniali erano stati stipulati già nel 1691.

Non è un caso, del resto, che i due stemmi della famiglia al centro della volta sono posti in asse con le raffigurazioni mitologiche che sono per eccellenza l’esaltazione dell’amore, proponendo in successione le figure di Venere e Cupido, del primo stemma dei d’Amore sul quale Venere depone una corona, del secondo stemma dei d’Amore sul quale Cupido depone un’altra corona e, infine, di Venere e Adone.

La sequenza autorizza pertanto a ritenere che ci si trovi di fronte a una sorta di sciarada estetica non solo allusiva al cognome della famiglia, ma volta

Il castello di Ugento e le decorazioni pittoriche che ornano le sue volte

La “sciarada estetica” dei d’Amore nel salone del castello di Ugento

 

di Daniela De Lorenzis 

Ugento, palazzo d’Amore, affreschi sulla volta del salone (1694-95), (foto A. Bonzani)

Nell’ambito del processo di trasformazione che nel Salento, dal XVI al XVIII secolo, porta alla riconversione di molte strutture fortificate in palazzi gentilizi[i], il salone è indubbiamente uno degli elementi che sancisce con maggiore incisività questo passaggio[ii].

Ubicato sempre al piano nobile, è il luogo deputato per antonomasia a scopi celebrativi e di rappresentanza. In esso il proprietario «orchestra ed elabora la scenografia della grandezza familiare»[iii], facendo sfoggio nel contempo della propria cultura ed erudizione. è quanto emerge dall’analisi delle decorazioni pittoriche presenti in molte residenze aristocratiche del Salento, non ultime quelle che ornano le volte del castello di Ugento[iv].

Acquistato da Pietro Giacomo d’Amore[v] – insieme al feudo – il 31 gennaio 1643, il fortilizio sorge in cima all’acropoli ponendosi a caput del recinto murario sul versante nord-orientale[vi]. Da questo lato il “Marchesale Palaggio” domina sul sottostante pianoro dove si adagia il Borgo, così come illustrato nella veduta dell’abitato realizzata sul finire del Seicento da Cassiano De Silva e pubblicata il 1703 dall’abate Pacichelli[vii].

La trasformazione più radicale del maniero – oggetto di numerosi interventi di restauro nel corso dei secoli – si colloca tra la fine del Seicento e l’ultimo quarto del secolo successivo quando, con l’insediamento dei d’Amore, sono ridimensionate le caratteristiche difensive dell’immobile che, soprattutto all’interno, assume l’aspetto di un palazzo gentilizio.

Pur risiedendo saltuariamente a Ugento, i marchesi si prodigano non poco per rendere fastosa questa residenza, adeguando l’antica struttura militare alle proprie esigenze e ampliando le fabbriche preesistenti con ambienti dotati di moderna funzionalità e con nuovi spazi di rappresentanza, opportunamente decorati da cicli pittorici di soggetto mitologico.

Promotori degli interventi tardo-seicenteschi sono verosimilmente i fratelli Nicola e Francesco d’Amore. A farlo presumere sono alcune considerazioni che si potrebbero fare in merito alla politica successoria della famiglia. Infatti, a seguito della morte senza eredi maschi di Giuseppe d’Amore (figlio di Carlo, che il 23 dicembre 1649 aveva elevato la contea al rango di marchesato), il cugino Nicola eredita il feudo di Ugento nel 1691, insieme al maggiorato istituito dal capostipite Pietro Giacomo, il quale – per disposizione testamentaria – aveva stabilito che alla morte senza eredi della linea primogenita maschile del figlio Carlo sarebbe dovuta subentrare la primogenitura maschile del figlio secondogenito Giovan Battista.

Francesco d’Amore, invece, succede allo zio Carlo Brancaccio nel possesso dei feudi di Ruffano, Torrepaduli e Cardigliano, sul primo dei quali consegue il titolo di principe con diploma del 14 novembre 1695[viii].

Questi, inoltre, ottiene la delega di assumere il governatorato di Ugento dal

Vestigia di due insediamenti scomparsi tra Felline e Ugento

di Stefano Cortese

Chi dalla marina di Posto Rosso si reca a Felline, non può fare a meno di visitare quei ruderi di un’antica chiesetta intitolata alla Vergine “Santa Potenza”. Tanti misteri cela questo antico edificio sacro, già a partire dall’attributo alla Vergine, misterioso quanto insolito nelle nostre aree. Nella monografia di Felline (Cartanì 1990) viene detto che risalirebbe al 1481, per via un beneficio ecclesiastico in onore della Natività della Vergine voluto da Rosa de Nicola da Cutrofiano, ma già nella visita pastorale del 1452 del mons. De Epiphanis si hanno diverse attestazioni del “loco Santa Mariae Potenciae” (Cortese 2010, 95): la sfortuna ha voluto che tale chiesa, insieme ad altre di Felline, Melissano e Casarano parvum, fossero state censite nel foglio poi smarrito, perdendo cosi tutto il suo inventario “bonorum mobilium et stabilium”. La primitiva chiesetta potrebbe anche essere stata di culto italo-greco, come sembrano confermare i non certamente probanti indizi dell’orientamento est-ovest e di una croce greca incisa in un blocco di reimpiego.

Una volta ricostruita nella seconda metà del XV secolo, subì diverse modifiche tra cui l’abbattimento dell’altare della Purificazione nel 1580 e soprattutto l’edificazione di alcuni locali adiacenti dove doveva vivere l’oblato. Nel 1640 fu dipinta, nel muro di recinto del giardino, una Vergine in trono con Bambino, mentre ai primi anni del ‘700 risale la pittura, oggi in evoluto stato di degrado (si nota ancora la sinopia), del “Riposo durante la fuga in Egitto”, sita a destra entrando nella chiesetta. Sul muro frontale, dove doveva esistere l’altare della SS. Trinità, non rimane che una nicchia, invasa sia dalla vegetazione affiorante, sia dai conci del soffitto crollato.

Pochissimo è rimasto anche delle sale adiacenti, edificate a differenza del sacro edificio, in pietre informi misto a bolo, mentre resiste ancora oggi il muro a secco con nervature in conci che recinta il giardino.

Si teneva una festa il giorno della Natività della Vergine (8 settembre) e la prima antifona vespertina era celebrata dall’arciprete di Ugento, la seconda dall’arciprete di Felline (AVU 1819), essendo lo stesso complesso situato metà nel feudo fellinese (il giardino), metà nel feudo ugentino (la stessa chiesa). Nella visita del 1878 del mons. Masella viene detta “in ristaurazione” (AVU 1878).

In alcune fonti la chiesa viene ubicata nel cuore di Cesite, un casale ricordato nel 1278 quando era infeudato a Raynaldo de Hugot e che verrà poco dopo accorpato a Felline essendo spopolato. A personale avviso l’insediamento di Cesite, come confortato dalle ricognizioni, era situato ancora più ad est, ai piedi della serra, nella zona Acquare/Santi Viti (Cortese 2007): è qui infatti che è stata rinvenuta ceramica imperiale e frammenti sporadici di età bizantina, confortata inoltre dalla presenza della chiesetta intitolata a San Vito, diruta già nel XVII secolo. La chiesa di Santa Potenza era a metà tra l’insediamento medievale di Felline (anch’esso leggermente più ad est) e quello di Cesite, quest’ultimo abbandonato già in età medievale e non come citano le fonti (Corvaglia 1987), soltanto dopo la scorreria turca del 1547.

Un altro insediamento, distante un chilometro circa, è quello di Fracagnone (Cortese 2010, 27-28). Questo insediamento è ben più difficile da intercettare, ma dovrebbe essere sito in prossimità del fondo Gorgoni o Palombaro; toponimo, quest’ultimo, che ci indica la presenza di un bene, cioè una colombaia in avanzato stato di degrado. Probabilmente fu edificata nel ‘500, quando l’insediamento era già da qualche secolo spopolato, e presenta profonde lesioni che minacciano un crollo imminente. E’ una colombaia a pianta circolare, inframmezzata da un toro e con una graziosa merlatura in parte preservata.

 

BIBLIOGRAFIA

-AVU 1819, Visita pastorale mons. Alleva

-AVU 1878, Visita pastorale mons. Masella

-G. Cartanì (1990), Felline. Storia tradizione costume, Grafo 7, Taviano pp. 316-20

-E. Ciriolo (1999), “Gli affreschi della chiesa di S. Maria della Potenza in Felline” in Lu Lampiune n° 2 anno XV, edizioni del Grifo, Lecce pp. 127-128

-S. Cortese (2007), Il paesaggio medievale tra Felline e Ugento, tesi di laurea in topografia medievale a. a. 2006/07 relatore prof. Paul Arthur

-S. Cortese (2010), Nei borghi dei Tolomei. Formazione e caratteristiche dei borghi antichi di Racale, Alliste e Felline, C.R.S.E.C. Le/46 Casarano, Parabita pp. 95-97

-F. Corvaglia (1987), Ugento e il suo territorio, Galatina pp. 153-155

-P. Scarlino (1899), Memoria giuridica pel comune di Alliste e frazione Felline contro Vitali, ed eredi Basurto fu Luigi da Racale, Gallipoli, Tipografia gallipolina

Ugento. Da Ozan messapica a Uxentum romana: la città odierna sopra quella antica

di Stefano Todisco


Attestata sull’area dell’antica città messapica chiamata Ozan, l’odierna Ugento è uno dei centri culturali più brillanti della provincia di Lecce. Sul suo territorio trova posto un museo archeologico, dedicato all’artista Salvatore Zecca nel 1968, restaurato per la riapertura del 2009-2010 in occasione della quale è ritornato il famoso Zeus di Ugento (vedi voce sotto).

tomba dell'atleta nel museo di Ugento
Tomba dell’atleta nel museo di Ugento

I reperti ivi conservati fanno comprendere l’intenso scambio di idee tra il popolo messapico, simbolo del Salento antico, e quello greco. Questa simbiosi è presente sullo stemma della città: il dio greco Eracle, con la clava, e la scritta del nome preromano del luogo (Ozan).

Un altro museo, nel Palazzo Colosso, ospita l’omonima collezione archeologica con testimonianze ugentine dal VI secolo a.C. all’altomedioevo.

Ma l’archeologia ugentina non è stipata solo nei luoghi della fruibilità visiva: nella zona a nord del centro abitato, prospiciente la campagna, si ergono gli orgogliosi resti delle possenti mura messapiche. Erano queste un circuito difensivo di 9 km di lunghezza, spesso 8 metri, e realizzato con grandi massi squadrati, nel IV secolo a.C. (1)

Mura di Ugento
Mura di Ugento

Il muraglione, munito di circa 90 torri, testimonia il clima turbolento che si era creato in Puglia tra V e III secolo a.C. in seguito all’arrivo di invasori stranieri (guerre contro Taranto, spedizione di Alessandro il Molosso, spedizione di Pirro d’Epiro ed espansionismo romano dopo la guerra annibalica).

In piazza Italia e all’angolo tra via Acquarelli e via Trieste è possibile vedere ciò che resta di questa opera difensiva antica.

Ozan fu uno dei baluardi della “dodecapoli messapica” (2), potente federazione che con la presenza di città-fortezze, a breve distanza l’una dall’altra, impedì ai coloni greci di penetrare nel territorio salentino per fondare nuovi insediamenti. (3)

ricostruzione di una porta di una città messapica
Ricostruzione di una porta di una città messapica

Il municipio romano di Uxentum è testimoniato sulla Tabula Peutingeriana col toponimo di Uzintum, equidistante dieci kilometri sia da Alezio (Baletium) sia da Patù-Vereto (Veretum).

Ugento indicata come Uzintum sulla tabula Peutingeriana
Ugento indicata come Uzintum sulla tabula Peutingeriana

Ugento segnata come OZAN sulla mappa di Soleto
Ugento segnata come OZAN sulla mappa di Soleto, V secolo a.C.

L’antico porto: Torre San Giovanni

L’antico porto di Ugento era Torre San Giovanni (IV-III secolo a.C.), luogo in cui sono state ritrovate tracce dell’emporio di epoca romana ed alcune tombe di guerrieri cartaginesi della flotta di Annibale che anche qui sbarcò durante gli anni della guerra contro Roma.

A poche centinaia di metri da Torre San Giovanni si trovano delle isolette, dette Le Pazze, davanti alle cui coste è stato trovato un insediamento dell’età del Ferro.

Una leggenda narra del naufragio delle navi di Pirro presso le secche di Ugento, un tratto di mare insidioso in cui, nei giorni di bassa marea, emerge uno scoglio roccioso a due kilometri dalla costa di Torre Mozza-Marina di Ugento. (4)

 

Lo Zeus di Ugento

Scoperta fortuitamente, nel 1961, sull’acropoli messapica, la statuetta bronzea di Zeus testimonia gli antichi scambi tra cultura greca e cultura indigena. L’artista, dal chiaro manierismo greco arcaico, suggerì un’iconografia ellenistica della divinità messapica: nudo, nell’atto di scagliare col braccio destro una saetta (andata perduta), regge con la mano sinistra un oggetto, purtroppo non pervenuto, plausibilmente un volatile.

La semplicità artistica del nudo è nascosta dalla torsione del corpo (conquista artistica della tarda scultura arcaica greca) e soprattutto dalle fattezze decorative del capo: l’eccellenza dell’artista è dimostrata dalla barba e dai baffi a rilievo, dalla fila di riccioli sulla fronte, dalle trecce corpose e zigrinate che ricadono sul petto e sulla schiena (tipiche dei kouroi greci di VI secolo a.C.). Una corona di foglie d’alloro, poggiante su una benda con fiori, rimanda alla decorazione del capitello dorico della colonna su cui si ergeva la statua. (5)

La statuetta è alta 74 cm, compresa la base. Stilisticamente viene datata al periodo tra 520 e 500 a.C.

Fino a pochi mesi fa è stato esposto al museo archeologico nazionale di Taranto; di recente è ritornato a far parte dei mirabilia ugentini.

Zeus di Ugento

Zeus di Ugento sul capitello

ricostruzione della collocazione della statua di Zeus
Ricostruzione della collocazione della statua di Zeus

Al momento della scoperta era collocato in una cavità roccioso e coperto dal suo capitello. Non si conoscono le ragioni di tale occultamento, è possibile che si trattasse di un episodio anti-ellenistico che investì le comunità di Messapi, Peuceti e Dauni (i 3 popoli della Puglia antica, detta Japigia).

Infatti nel 473 a.C. ci fu una battaglia tra greci di Taranto (aiutati dai greci di Reggio) e Japigi (6): la sconfitta tarantina fu una delle peggiori per una città greca, tanto che lo storico Erodoto parla di phònos Hellenikòs mèghisto, enorme strage di greci. (7)

 

La cripta del crocifisso e della Madonna di Costantinopoli

Percorrendo la strada che da Ugento porta a Casarano, all’altezza del bivio per Melissano si incontra un piccolo edificio, di nuovo allestimento, che porta all’ipogea cripta del Crocifisso. Questo luogo sotterraneo, ricavato dall’estrazione della roccia, è un posto carico di misticismo: scendendo una scalinata si accede alla sala principale, ricca di affreschi parietali che mostrano scene sacre (annunciazione, crocifissione, Cristo Pantocratore, San Nicola) e profane come animali stilizzati (leone, toro) o immaginari (Idra, Grifone), stelle e scudi templari e teutonici sul soffitto.

Cripta del Crocifisso
Cripta del Crocifisso

Cripta del Crocifisso. Annunciazione
Cripta del Crocifisso. Annunciazione

Cripta del Crocifisso. Crocifissione
Cripta del Crocifisso. Crocifissione

Cripta del Crocifisso. Scudi dipinti sul soffitto
Cripta del Crocifisso. Scudi dipinti sulla volta

Il perimetro dell’ipogeo era interessato dalla collocazione di 8 sepolture. La cripta si ritiene una realizzazione di VIII secolo d.C., ascrivibile ad ambiente bizantino ed utilizzato poi, come dimostrano gli scudi degli ordini cavallereschi, fino al periodo delle crociate. L’attuale entrata è ben successiva, di XVII secolo.

 

Note

  • (1) M. BERNO, Salento : luoghi da scoprire, arte, storia, tradizioni, società e cultura, curiosità, p. 153.
  • (2) STRABONE, Geografia, VI, 3.
  • (3) S. TREVISANI, Viaggio nella Puglia archeologica, p. 62.
  • (4) M. BERNO, op. cit.
  • (5) F. D’ANDRIA, I nostri antenati, viaggio nel tempo dei Messapi, p. 41.
  • (6) ARISTOTELE, Politica V, 3, 7; DIODORO SICULO, Biblioteca Storica XI, 52, 1-4.
  • (7) ERODOTO, Storie VII, 169-172.

Bibliografia

Info

Collezione A. Colosso
via Messapica 28
Tel. 0833554843
orario: mar-dom h. 10-12 e 18-20

Museo civico archeologico Salvatore Zecca
via della Zecca 1
Tel. 0833555819
email museo@comune.ugento.le.it
orario: mar-dom h. 10-12 e 18-20

Nota dell’autore

Chi scrive ha visitato Ugento tra 2004 e 2008. Le foto della cripta sono state scattate dallo stesso, le ricostruzioni e gli altri scatti sono tratti dai siti internet citati in bibliografia.

La cripta del Crocifisso ad Ugento

di Valeria Sasso

Ugento, Città d’Arte. Un’arte, dalle molteplici forme, che evoca secoli di storia; un’arte che suggestiona e conforta l’osservatore contemporaneo perché frutto gentile e nobile del genio umano.

Emblema di quest’arte eloquente è la cripta detta del Crocefisso, un luogo di culto ipogeo, scavato nella roccia, che racchiude mirabili affreschi, echi di cultura bizantina. Detto ipogeo è situato all’ingresso di Ugento per chi vi giunge da Casarano, in un’area, di notevole interesse archeologico, che registra la presenza umana almeno dal IV secolo a.C. È opportuno ricordare, brevemente, la presenza di un tratto del circuito murario della città messapica, conservatosi in località denominata Porchiano (a sud-ovest dell’ipogeo); il rinvenimento di una necropoli messapica in località denominata S. Antonio (a sud-est dell’ipogeo); l’esistenza di un villaggio rupestre, forse di origine tardo-romana, a nord dell’ipogeo; il recente rinvenimento di alcune tombe medioevali presso il lato occidentale dell’invaso.

Il contesto si arricchisce ulteriormente se si considera l’ubicazione della cripta di Ugento sulla cosiddetta Via Sallentina. Il percorso di quest’ultima si evince dalla Tabula Peutingeriana, una rappresentazione cartografica del mondo antico redatta, probabilmente, nel IV secolo d.C. ma pervenutaci in una copia medioevale. La Tabula offre un quadro completo del sistema stradale della penisola salentina: vi sono indicate la via Appia, la via Traiana, il suo prolungamento “calabro” (da Brindisi ad Otranto) e la via “salentina” (da Otranto a Taranto attraversando Castra Minervae, Veretum, Uzintum, Baletium, Neretum e Manduris).

Acquisita al patrimonio del Comune di Ugento, la cripta è stata sottoposta ad accurati interventi di restauro conservativo delle strutture murarie e degli affreschi ed è stata restituita al pubblico, in uno splendore rinnovato, il 13 gennaio 2006.

I predetti interventi, oltre a migliorare la leggibilità delle decorazioni già note, hanno permesso l’individuazione e la riapertura dell’ingresso originario (posto sulla parete occidentale dell’invaso), nonché la scoperta di inediti affreschi.

Le nuove acquisizioni hanno offerto maggiori possibilità di comprensione e di interpretazione: il programma iconografico, come in altre chiese rupestri dell’Italia meridionale, appare di tipo votivo, legato ad una committenza privata e ad una funzione funeraria; sembrerebbe, dunque, superata l’ipotesi di una funzione eremitica.

L’aspetto odierno della cripta è il risultato di modifiche operate in età moderna, probabilmente a partire dal sec. XVI, consistenti nell’elevazione, sopra l’ipogeo, di una semplice costruzione, funzionale all’attuale ingresso (posto sul lato settentrionale); nella collocazione di due colonne all’interno, sostenenti un soffitto prevalentemente piano; nell’aggiunta di un altare sulla parete orientale, sovrastato da un affresco seicentesco raffigurante la Crocifissione (da cui il nome della cripta).

La semplicità dell’architettura esterna cela il fascino, quasi inaspettato,

1752. Un assalto di pirati sulle coste di Ugento

UN ASSALTO DI PIRATI SULLE COSTE DI UGENTO DESCRITTO IN UN DOCUMENTO DEL 1752

di Ennio Ciriolo

Una tartana in una incisione del XIX secolo

 

Il 18 aprile del 1752 un grande veliero con un albero a vela latina (tartana), partì dal porto di Manfredonia per raggiungere Napoli, capitale del Regno, con un carico di cinquemila tumuli di orzo. Un tumulo è pari a circa 15 Kg. Quindi, la tartana doveva far arrivare a destinazione circa 75.000 Kg di orzo. La Puglia era considerata il granaio del Regno di Napoli e, infatti, la maggior parte dei carichi mercantili provenienti dalla Puglia, trasportavano frumento.

La tartana si chiamava Immacolata Concezione ed Anime del Purgatorio e l’equipaggio era composto dal comandante Michele Guida e dai mozzi Salvatore di Palma, Egidio Rossano e Michele Visco, tutti provenienti da Vico Equense, una delle più belle città del napoletano affacciate sul mare.

Il percorso più rapido per un’imbarcazione salpata da Manfredonia era quello di arrivare a Capo di Leuca e da qui proseguire per le coste calabresi, passando poi per lo stretto di Messina e risalendo infine per Napoli. La distanza non doveva superare le 600 miglia nautiche. Certamente il tragitto non era dei più lunghi se paragonato alle grandi traversate di ciurme che praticavano il commercio via mare fin dall’inizio dell’Età moderna, toccando i maggiori porti europei come Barcellona, Marsiglia, Genova, Venezia, Napoli, Bari, Taranto, Malta, fino alle coste più a sud del Mediterraneo.

Tuttavia un tragitto più breve non significa certo meno pericoloso.

Il nostro veliero, partito il 18 aprile, dovette già fermarsi il giorno dopo, a pochi chilometri a sud di Otranto, presso Porto Badisco, per il vento poco favorevole. Solo la sera del 24 aprile, dopo cinque giorni, il veliero Immacolata Concezione salpò per proseguire la sua rotta fino a Napoli. Ma per l’imbarcazione comandata da Michele Guida le insidie non erano certo

Diario del Salento – I pomodori secchi

 

di Tommaso Esposito

Tommaso Esposito gira il Salento. Ecco le sue suggestioni


E’ un miope incapace di stupore chi nel cibo scorge oggi solo il frutto della tecnica che ha sostituito antichi attrezzi da lavoro o della scienza che ha inventato mutazioni genetiche.”
E. Bianchi, Il pane di ieri, p.37.

Ritorno da Gemini frazione di Ugento dove incontro un amico.
Un gelato non degno di nota.
Rientro e mi trovo lungo la strada per Alliste, l’antica Kallistos, “La Bellissima” in griko.
E se passo per Felline? No, sarò al “Mulino di Alcantara” un’altra sera.
Bene. La rossa campagna argillosa mi fa compagnia.
Cosa fanno laggiù?
Nooo, son pomodori stesi al sole.

La chiesetta della Madonna del Curato a Ugento

 

di Luciano Antonazzo

Fra le più antiche chiese di Ugento é da annoverare quella denominata “Madonna del curato”.
Sorge su una roccia scoscesa sul ciglio della stradina omonima, all’incrocio fra via Barco e la vecchia strada per Gemini, e chi ha cercato finora di tracciarne un profilo storico ha dovuto arrendersi davanti alla mancanza assoluta di notizie; oggi però grazie al rinvenimento da parte nostra di una breve relazione redatta in seguito ad una visita pastorale effettuata nei primi decenni del 1600 siamo in grado di fare un po’ di luce sulla sua origine e sulla sua reale intitolazione.

La piccola chiesa ad aula rettangolare é suddivisa in tre sezioni con copertura a spigolo e sul lato sinistro le é addossato un piccolo locale con volta a botte che era adibito ad abitazione “del curato” ciò che sarebbe secondo l’opinione corrente all’origine della sua denominazione.

Sulle sue possibili origini e per cercare di spiegarne l’intitolazione scrisse Mons.

Musei diocesani pugliesi scrigni di ricchezze

 

 

di Giuseppe Massari

Nel panorama culturale pugliese ci sono delle testimonianze e delle realtà che non si può fare a meno di visitare. Tra i tanti doni naturali che la Puglia possiede, e che ha gratuitamente ricevuto in dono,  ci sono quelli costruiti da mani esperte ed umane. Sono immagini sacre, quadri, sculture di santi, reliquiari, paramenti ed arredi sacri. Un corredo enorme che costruisce e ricostruisce la storia della Chiesa pugliese. Che fa da cornice e da sfondo ad una storia scritta, ma non sufficientemente conosciuta. Un bagaglio culturale di enorme spessore, interesse e bellezza attraverso il quale si sono cimentati pittori e artisti di fama mondiale, ripercorrendo in lungo e in largo la sacralità, la spiritualità, la fede della nostra regione.

Questi ricchi contenitori di arte ed espressività, intonati e sintonizzati con le corde del cuore, sono i molteplici musei diocesani sparsi dal nord al sud della Puglia.

Ma in realtà quanti sono? In una prima ricostruzione, fatta alcuni anni fa, dalla Commissione per la cultura della Conferenza episcopale pugliese,  e sfociata in una pubblicazione che ha visto la luce circa cinque anni fa,  “Guida dei Musei diocesani di Puglia”, essi assomano ad un numero pari a 17. Va detto subito che sono fra i più importanti e i più ricchi per contenuti di oggetti espositivi. A questo elenco vanno aggiunti quelli definiti ecclesiatici, cioè sempre di proprietà della Chiesa, ma più, per quanto riguarda la gestione, di natura privata o privatistica.

Tutti, comunque, in ugual misura, contribuiscono ad integrare il già vasto patrimonio architettonico delle nostre chiese romaniche, gotiche e barocche.

Tutti questi cimeli, uniti indissolubilmente alle storie di ogni singola cattedrale o chiesa locale, sono il miglior viatico, il migliore mezzo per portare la Puglia oltre i suoi limitrofi e lontani confini. Essi svolgono una funzione turistica di indubbio valore, se è vero, come è vero, che la sete del sapere e del conoscere non può non passare attraverso le bellezze che racchiudono il sacro, il divino, il trascendente, il culto, la fede, la tradizione, la specificità di un messaggio autentico e non artefatto, in mezzo al confusionismo moderno o della modernizzazione dissacrante, blasfema ed iconoclasta.

Nell’economia di questi tesori viventi vanno aggiunti i cassetti della memoria spolverata o impolverata degli Archivi. Altre miniere di ricchezza di documenti, di racconti particolari, curiosi, metodici, puntuali dello svolgimento della vita della Chiesa, con gli atti ufficiali dei molteplici vescovi che hanno abitato le sedi episcopali. La vita dei Capitoli cattedrale. Le particolarità raccontate dei vari personaggi storici, che hanno contribuito a scrivere ogni fetta e parte di storia locale. Forse, con l’eccezione e la dovuta distinzione, però, va evidenziato come i musei, per la loro capacità di farsi guardare e ammirare sono mete ambite da molti.

Gli archivi, sono luoghi di studio, riservati a pochi, a cultori, ad appassionati di ricerche, e, quindi, meno esposti ai visitatori occasionali e di passaggio. Ma gli uni e gli altri non differiscono dall’ essere punti centrali d’incontro e di partenza per lo studio di ogni realtà particolare. Gli uni e gli altri insieme per assolvere a quella funzione di supporto propagandistico e promozionale del nostro territorio.

Non potendo elencare tutti i tesori contenuti nelle strutture museali diocesane, quanto meno, ci è sembrato opportuno, riportare, grazie all’ausilio di un recente studio, elaborato attraverso una Tesi di Licenza in Museologia, curata dal giovane Giorgio Gasparre e discussa presso il Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, presso la Città del Vaticano, nell’Anno accademico 2004 – 2005, l’elenco aggiornato di tutti i musei che insistono nelle varie diocesi pugliesi.

 

 

Provincia di Lecce

Ÿ         Museo Diocesano d’ arte sacra dell’ Arcidiocesi di Lecce: Comune: Lecce- Diocesi: Lecce- Sede: Palazzo del seminario, piazza Duomo- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, a pagamento.

Ÿ         Museo Diocesano di Otranto: Comune: Otranto- Diocesi: Otranto- Sede: palazzo Lopez, piazza della Basilica- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Chiuso per restauro. 

Ÿ         Museo Diocesano di Gallipoli: Comune: Gallipoli- Diocesi: Nardò-Gallipoli- Sede: ex Seminario Vescovile- Tipologia: archeologico, artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto a pagamento. 

Ÿ         Museo Diocesano di Ugento: Comune: Ugento- Diocesi: Ugento- Santa Maria di Leuca- Sede: Palazzo del Seminario- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- In progettazione.

 

Provincia di Brindisi

Ÿ         Museo Diocesano “Giovanni Tarantini”: Comune: Brindisi- Diocesi: Brindisi- Ostuni- Sede: chiostro del Palazzo del Seminario- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- In allestimento. 

Ÿ         Museo Diocesano di Oria: Comune: Oria- Diocesi: Oria- Sede: Palazzo Vescovile- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto a richiesta. 

 

Provincia di Taranto

Ÿ         Museo Diocesano di Taranto: Comune: Taranto- Diocesi: Taranto- Sede: ex Seminario Vescovile- Tipologia: artistico, arte sacra-Proprietà: diocesano. Prossima apertura.

Ÿ         Museo Diocesano di Castellaneta: Comune: Castellaneta- Diocesi: Castellaneta- Sede: ex Seminario Vescovile- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- In progettazione.

Provincia di Bari

Ÿ         Museo Diocesano della Basilica Cattedrale di Bari: Comune: Bari- Diocesi: Bari- Bitonto- Sede: Arcivescovado- Tipologia: archeologico, artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, gratuito.

Ÿ         Museo Diocesano: Pinacoteca Mons. A. Marena e Lapidario romanico: Comune: Bitonto- Diocesi: Bari- Bitonto- Sede: Palazzo Vescovile- Tipologia: archeologico, artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, gratuito.

Ÿ         Museo Capitolare della Cattedrale di Gravina di Puglia: Comune: Gravina di Puglia- Diocesi: Altamura- Gravina- Acquaviva delle Fonti- Sede: Seminario Vecchio- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: Capitolo della Cattedrale di Gravina di Puglia- Aperto, offerta libera.

Ÿ         Museo Diocesano della Cattedrale di Altamura: Comune: Altamura- Diocesi: Altamura- Gravina- Acquaviva delle Fonti- Sede: Matronei della Cattedrale- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- In progettazione.

Ÿ         Museo Diocesano di Monopoli: Comune: Monopoli- Diocesi: Conversano- Monopoli- Sede: Ex Seminario- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, a pagamento.

Ÿ         Museo Diocesano di Bisceglie: Comune: Bisceglie- Diocesi: Trani- Barletta- Bisceglie- Sede: Palazzo Vescovile- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Chiuso per restauro.

Provincia di Barletta- Andria- Trani

Ÿ         Museo Diocesano di Trani: Comune: Trani- Diocesi: Trani- Barletta- Bisceglie- Sede: piazza Duomo- Tipologia: archeologico, artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Chiuso.

 

Provincia di Foggia

Ÿ         Museo Diocesano di Foggia: Comune: Foggia- Diocesi: Foggia- Bovino- Sede: Chiesa dell’ Annunciata- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Chiuso per restauro.

Ÿ         Museo Diocesano di Bovino: Comune: Bovino- Diocesi: Foggia- Bovino- Sede: Castello di Bovino- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, gratuito.

Ÿ         Museo Diocesano di San Severo: Comune: San Severo- Diocesi: San Severo- Sede: ambiente ipogeo di via vico freddo- Tipologia: archeologico, artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, gratuito.

Ÿ         Museo Diocesano di Lucera: Comune: Lucera- Diocesi: Lucera- Troia- Sede: Episcopio- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, a pagamento.

Ÿ         Museo Diocesano del tesoro della Cattedrale di Troia: Comune: Troia- Diocesi: Lucera- Troia- Tipologia: artistico- arte sacra- Proprietà: diocesano- Chiuso per restauro.

Le foto a corredo di questo articolo riprendono alcuni dei beni esposti nel Museo Diocesano di Gallipoli

La chiesetta della “Madonna del curato” ad Ugento

Ugento, La chiesa della Madonna del curato restaurata

di Luciano Antonazzo

Fra le più antiche chiese di Ugento é da annoverare quella denominata “Madonna del curato”.
Sorge su una roccia scoscesa sul ciglio della stradina omonima, all’incrocio fra via Barco e la vecchia strada per Gemini, e chi ha cercato finora di tracciarne un profilo storico ha dovuto arrendersi davanti alla mancanza assoluta di notizie; oggi però grazie al rinvenimento da parte nostra di una breve relazione redatta in seguito ad una visita pastorale effettuata nei primi decenni del 1600 siamo in grado di fare un po’ di luce sulla sua origine e sulla sua reale intitolazione.

La piccola chiesa ad aula rettangolare é suddivisa in tre sezioni con copertura a spigolo e sul lato sinistro le é addossato un piccolo locale con volta a botte che era adibito ad abitazione “del curato” ciò che sarebbe secondo l’opinione corrente all’origine della sua denominazione.

Sulle sue possibili origini e per cercare di spiegarne l’intitolazione scrisse Mons. Ruotolo: “Ad Ugento c’è un’antica chiesetta, chiamata la Madonna del «corato» o curato. Tale nome suggerisce l’ipotesi che un tempo fosse officiata da un parroco, distinto dal Capitolo. Dato che la chiesetta, pur essendo antica, non è anteriore al secolo XVI, si può pensare che quel titolo alluda al tempo immediatamente posteriore alla distruzione del 1537. Allora essendo rimasti pochi cittadini e pochissimi sacerdoti, si sarà costituito un curato per la vita religiosa del paese, che risorgeva dalle rovine” .

Francesco Corvaglia, oltre a convenire col vescovo sull’origine della denominazione della chiesa, ritenne anche che nella stessa fosse stato officiato “il rito greco fino ai primordi dell’Ottocento”, derivando questa sua convinzione dalla presenza di “pitture bizantine” .

Contrariamente a quest’ultima opinione, riteniamo che non c’entri nulla con la chiesa il rito ortodosso, mentre per quanto riguarda la figura del curato, é possibile che quella possa aver avuto un ruolo, ma é da escludersi che sia all’origine dell’attuale intitolazione della chiesa, poiché questa é invece da farsi risalire ad una “correzione”popolare della precedente specificazione “del corato”.
Ma chi credette, in buona fede, di aver semplicemente tradotto nel linguaggio corrente quel termine, non si avvide di aver invece occasionato lo stravolgimento definitivo della vera ed originaria intitolazione della chiesetta che non aveva nulla a che fare con “corato” o “curato”ma era denominata Ecclesia Santae Mariae dello Corallo.
Così infatti la troviamo denominata nell’intestazione del citato documento e nell’incipit, dove a confermare una già avvenuta confusione, é detta “S. Maria del corato, aliter corallo”.

Madonna del corallo ad Ugento

Di questa doppia denominazione non si trova però più traccia in seguito, a partire dallo stesso documento, nel resto del quale, come si trattasse di

Salvatore Zecca da Ugento, pittore, poeta, scrittore, giornalista, disegnatore

di Cosimo Giannuzzi

Salvatore Zecca nasce a Ugento nel 1907. Insegnante elementare dal 1948 al 1973 ed Ispettore onorario della Sovrintendenza alle Antichità e Belle Arti. E’ uno fra i più illustri personaggi salentini quale protagonista della ricerca archeologica nel Salento.

In sua memoria è stato intitolato  nel 1968 il Museo Civico di Archeologia e Paleontologia di Ugento da lui tenacemente voluto e realizzato.

Il rinvenimento di resti fossili di specie di animali preistorici e di un’industria litica in territorio di Ugento nel fondo “Focone” portarono a denominare il luogo di rinvenimento “Pozzo Zecca”.

La scoperta che gli darà fama in Italia e all’estero è soprattutto il rinvenimento fortuito a Ugento della scultura bronzea risalente al 530 a.C  di “Zeus stilita” realizzata senza dubbio da un artista tarantino.

Zecca affiancherà la signora Sofia Nicolazzo, presidente della Pro loco e anche lei ispettrice onoraria della Soprintendenza alle Antichità, nella tutela e conservazione di questo reperto.  In un primo momento questa scultura era stata denominata “pupu” ma in seguito Zecca la identificò quale Poseidon, dedicandogli monografie e articoli  mirati innanzitutto a smentire le supposizioni che lo additavano come un  “ falso reperto” e a promuovere il valore storico ed artistico dell’opera. Al di là dell’inesattezza dell’identificazione, resta la sua avvedutezza nel sostenere la signora Nicolazzo nel recupero delle parti mancanti della figura che rischiavano di sperdersi, durante lo scavo.

Uomo eclettico: pittore, poeta, scrittore, giornalista, disegnatore. Poco nota è la sua creazione di “giochi di percorso” di tipo didattico. Ne realizza quattro denominati: Prudenza (sussidio didattico riguardante il risparmio), Prudenza (sussidio didattico riguardante l’educazione stradale), Monello saggio (sussidio didattico riguardante l’apprendimento della tabellina dei numeri, di questo gioco esiste una variante nella quale mutano soltanto le figure).

Cessa di vivere nel 1995 all’età di 88 anni.

 

Un sincero ringraziamento va al prof. Walter Zecca, attuale Direttore del Museo “Salvatore Zecca” di Ugento per la cortese disponibilità nel consentire la pubblicazione dei materiali inediti del padre.

Quei ruderi invincibili della chiesa Madonna di Monticchio

di Stefano Cortese

 

A circa un km dall’abitato di Gemini, in prossimità della superstrada statale 274 Gallipoli-Leuca, sono visibili ancora oggi i ruderi di una antichissima chiesa, denominata Madonna di Monticchio o dei Turchi.

Della storia di questo ex edificio sacro, pochissimo ci è edito, tramandatoci dalle monografie di Ugento (Corvaglia 1987) e Gemini (De Dominicis 1994), ma si argomenta solo circa una probabile datazione, peraltro discordante

Vecchia foto frontale (da De Dominicis 1994)

 

tra i due in quanto secondo il primo risalirebbe al 1300/1400, mentre secondo il De Dominicis al 1200/1300, in base alla fattura romanica del portale .

Una volta individuato il sito, non proprio facile da scovare, ho notato subito l’orientamento est-ovest e che l’elemento datante, cioè l’ingresso lunettato probabilmente dentellato, era scomparso.

ruderi da Est

 

L’unico muro rimasto in piedi è quello nord (fig. 1), il quale presenta come ornamento, a metà altezza, dei blocchi posizionati di testa e sbozzati in forma sub-triangolare, mentre nel punto mediano della lunghezza del muro è ancora visibile una graziosa porticina, anch’essa lunettata (fig. 3): facile immaginarvi all’interno della lunetta una Vergine con Bambino in qualche modo collegato alla intitolazione della chiesa. Nel lato ovest, nella residua parte superstite, si intuisce una piccola monofora, mentre dal lato sud si ha una visione completa del complesso interno (fig. 4), ma difficilmente decifrabile da lontano, vista anche la presenza copiosa di vegetazione mediterranea. Una situazione verosimile porterebbe a prospettare la presenza in passato di qualche oblato che abbia abitato probabilmente nel piano superiore, mentre l’altare maggiore doveva essere sito sul fondo del muro ovest. Appena fuori da quello che doveva essere il muro a sud, c’è comunque una larga fossa rettangolare scavata ed intonacata, forse una cisterna, ma ora riempita di materiale di diverso tipo (fig. 5).

Fig. 3 – Porta laterale muro Nord

 

Delle pochissime informazioni che ho potuto scovare nell’archivio vescovile di Ugento, ho rinvenuto solo la presenza della contrada “croce di Monticchio” e quella riportata dalla visita pastorale del 1878 del mons. Masella, il quale la interdice al culto perché pericolante senza alcun altro accenno alla chiesa.

fig. 4 – vista dal lato Sud

 

Probabilmente è da allora che l’incuria e l’insensibilità umana cerca di mietere un’altra vittima, ma quei ruderi, forse invincibili, stanno lì a ricordarci uno spaccato di storia che aspetta di essere riscoperta, tutelata e poi valorizzata.

fig. 5 – la presunta cisterna

BIBLIOGRAFIA

-F. Corvaglia, Ugento e il suo territorio, Marra, 1987

-F. De Dominicis, Gemini di Ugento: l’esperienza di una classe a tempo prolungato, fra storia documenti, masserie e tradizioni, Centro Studi Giuseppe De Dominicis, 1994

Le foto sono di Stefano Cortese

La cappella di S. Maria Alemanna di Ugento

  

la volta decorata della cripta del Crocifisso a Ugento

di Luciano Antonazzo

“Di questa antica cappella un tempo esistente in Ugento si è molto parlato in quanto, come chiaramente indica la sua intitolazione, strettamente legata ai Cavalieri Teutonici.

L’Ordine religioso-militare sorto in Terrasanta per assistere i pellegrini tedeschi si sviluppò rapidamente nel Mediterraneo, ottenendo privilegi ed immunità sia imperiali che papali.

In Puglia, dopo il 1223, i Teutonici ottennero in concessione l’Abbazia di S.Leonardo di Siponto con tutte le sue grance ed i ricchi possedimenti sparsi dentro e fuori la regione.

Per varie vicende storiche, verso la seconda metà del 1400, il ricchissimo monastero di Siponto, detto allora delle Matine o di Torre Alemanna, venne soppresso e tutti i suoi beni con relative entrate, sottratte ai Teutonici, furono affidati in commenda al cardinale di Parma.

Anche nel nostro feudo gli agostiniani dell’Abbazia di Siponto  possedevano dei beni, come attestato fin dal 1448 da alcuni resoconti del baliaggio teutonico in Puglia e come confermato da due documenti (del 1467 e del 1485) rintracciati da Primaldo Coco nell’Archivio di Stato di Napoli e pubblicati in un suo saggio.

cavaliere teutonico

Nel documento del primo settembre del 1467 Giovanni Grande di Francoforte, luogotenente e socio percettore di S.Leonardo, espose che l’Ordine dei Teutonici aveva nella città di Brindisi la chiesa di S. Maria degli Alemanni alla quale appartenevano beni siti “tam in civitatibus Brundusii, Neritoni, Licii, Hostuni, Galatuli, Casarani, Ogenti, Callipoli, quam in aliis locis provinciae Hidrunti”, aggiungendo subito dopo che (poiché mancava) era necessario nominare un percettore affinché i beni non patissero detrimento.

Ad un ventennio di distanza la gran parte dei possedimenti del Salento di pertinenza della chiesa di S. Maria degli Alemanni di Brindisi risulta affittata o concessa in enfiteusi, e anche quelli posti nel territorio di Ugento e feudi circostanti seguirono la stessa sorte, come attestarono il trenta luglio del 1485 il giudice ai contratti Santillo de Vito, di Bari, ed il notaio Paolo Serbo della stessa città.

La loro fede giurata riveste assoluta importanza poiché è esplicitamente affermata l’esistenza in Ugento della chiesa intitolata a S. Maria Alemanna e che erano di sua pertinenza tutti i beni dati in affitto a tale Angelo Spano.

Nel documento in oggetto sono esposti in questi termini i punti essenziali del contratto:

[…] In primis li dicti procuratori locano, affittano, et arrendano tocti li introiti de li dicti terre, cità  et lochi pertinenti alla ecclesia de S. maria Alemanna de la cità de Ogento, zoé dinari, censi, cera, frumenti, pertinenti alla dicta ecclesia che se ha beano da riscoterre per lo dicto Don Angelo ad soj spesi et fatiche per anni sei ad triennium […]; item che lo detto Angelo sia tenuto ad mantenere la ecclesia cum lampi accesi, cera messa, et omni settimana dirsi una messa; item che lo dicto Angelo sia tenuto a sue spese pagere le dicte oglio, cera, et altre cose, excepto in repqaratione eccl[esiae] et decimarum et che sia tenuto pagari ultra li tarii quindici, tarii tre allo episcopo et tarii uno allo cantorato; item che lo dicto Angelo rescota tutto quello che rescoteva prima”.

Furono quindi previste per lo Spano le sanzioni in caso di inadempienza e precisamente. “ad poenam unciorum I de carlenisi si dicto Angelus predicta non  adempliverit; non facta soluzione in dicto tempore sit excomunicatus”.

Si è cercato, finora invano per l’assoluta mancanza di documenti, di identificare l’antica chiesa o quantomeno di individuarne il sito, e pertanto ci si è dovuti limitare ad avanzare solo qualche ipotesi in proposito.

Così la presenza di ben tre raffigurazioni della Madonna (patrona dell’Ordine) e di scudi nero-crociati dipinti sulla volta della cripta del Crocifisso  ha fatto ipotizzare una sua possibile identificazione con quest’ultima o quantomeno una committenza dei suoi dipinti da parte dei Cavalieri Teutonici; ma oltre la presenza preponderante di scudi rosso-crociati che farebbero propendere per una commissione dei Templari, sembra escluderlo il riferimento che si fa , nel contratto di affitto citato, ad “eventuali” riparazioni della chiesa.

Allora la cripta era infatti tale di nome e di fatto, ovverossia una grotta scavata nel tufo, per cui non si vede quali interventi riparatori fossero immaginabili.

Solo oggi, grazie al rinvenimento di un documento, frutto di nostre assidue ricerche, è finalmente possibile indicare il sito e conoscere la struttura dell’antica chiesa eretta (forse) dai Teutonici in Ugento.

Si tratta di poche righe scritte nel 1628 in seguito ad una visita pastorale, e costituiscono l’unico, e pertanto preziosissimo, documento in cui si parla di questa nostra perduta chiesa.

Ne riportiamo testualmente la parte più significativa:

Ecclesia Santae Mariae della lamanni [sic]

Deinde visitavit Eccl.am Santae Mariae della lamanni quam est annexam ut habetur in visitazione Rd.mi Sebastiani Minturni Ecclesiae Santi Leonardi della Matina, quam possedetur per [ manca il nome del possessore] et est commendatam Abb. Thomas Dherle per R.dum Joseph Rubeis Episcupum Uxentinum sub die 5 mensis martii 1599. Ecclesia sita est in suburbio dictae civitatis in via qua ducit Taurisano, et est antiqua, circumcirca depicta variis imaginibus Santorum; habet tria altaria, unum intra chorum, et duo extra hortum; et altare in quo est titulus ipsius Eccl.ae fuit inventum decenter hornatum, caret tamen altari portatili, quod tempore celebrationibus apponitur. Prope ipsum altare ex latere dextro pendent lampa ardens, et ex eodem sepoltura ruditer (?) tecta. Tectum ecclesiae est tegolis testaceis […]; Imago Virginis est in pariete, antiqua, cum vultu magno, et pendent aliqua vota”.     

La breve descrizione della cappella continua con l’elenco degli oggetti d’arredo e dei pochi immobili posseduti, comprendenti “una casa terragna” adiacente. Si conclude il documento con la precisazione che il suo introito era di venti carlini  l’anno e che su quella gravava l’onere di una messa settimanale nell’altare di S. Maria Alemanna.

La cappella dei Cavalieri Teutonici si trovava dunque a poca distanza dalla cripta del Crocefisso, sulla antica strada, o meglio, sentiero che conduceva a Taurisano ed il cui tracciato, almeno per il tratto iniziale, non coincideva con l’attuale, ma si snodava alle spalle del santuario della Madonna della Luce.

Di questa chiesa fondata dai Cavalieri Teutonici non è rimasto alcun vestigio, nonostante dovesse essere stata un a chiesa importante, se non altro per l’esistenza di un “altare portatile” o mobile, espressione che sta ad indicare una “pietra sacra” piatta, consacrata dal vescovo e contenente reliquie, sulla quale è permesso celebrare la messa, anche fuori dalla chiesa, in virtù di un indulto della Santa Sede.

Una seconda ed ultima testimonianza della esistenza della chiesa di S. Maria Alemanna risale al 1688, anno nel quale, in data 22 ottobre, fu battezzato “justus Fortunatus cuius parentes ignorantur, repertus expositus in Ecc. S. Mariae della Manni extra suburbium huius civitatis”.

L’esposizione di un neonato nella cappella denota che a quella data la stessa era certamente frequentata e forse ancora officiata, anche se era ormai sconosciuta ai più la sua originaria e corretta intitolazione, oltre che la ragione della stessa.

(pubblicato su Il BARDO, anno XVI, N. 2, Dicembre 2006)

I misteri dei Messapi rivivono in un libro di Lory Larva

 

lorylarva_messapia_paolopagliaroeditore

di Stefano Donno

Interessante il volume “Messapia. Terra tra due Mari”, a cura dell’archeologa e giornalista Lory Larva, edito da Paolo Pagliaro Editore.

La casa editrice salentina, “fresca di stampa”, esce con tale pubblicazione proprio mentre serpeggia a queste latitudini un sentimento di necessità per un’idea di autonomia locale, volta alla creazione di una Regione Salento. Ma non è politico l’obiettivo del volume … forse!?

Ad ogni modo si tratta di un lavoro piuttosto corposo, circa 366 pagine, ricco di numerose fotografie a colori, che nell’intenzione dell’autrice vuole essere un esaustivo compendio sull’antica civiltà dei Messapi, popolo misterioso che abitò quello che oggi è il Salento tra il IX e la metà del III secolo a.C.

Ma chi erano veramente i Messapi? Lory Larva scandaglia in profondità le innumerevoli fonti storiche sui Messapi pervenuteci ad oggi, non trascurando analisi concernenti il sistema insediativo messapico, il sistema cultuale rappresentato prodromicamente dal “culto aniconico del pilastro-stele”, e in seguito da cippi iscritti associati a depositi votivi, il sistema della produzione e di quello commerciale tra la Messapia e il mondo greco,

La Fondazione Terra d'Otranto, senza fini di lucro, si è costituita il 4 aprile 2011, ottenendo il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia - con relativa iscrizione al Registro delle Persone Giuridiche, al n° 330 - in data 15 marzo 2012 ai sensi dell'art. 4 del DPR 10 febbraio 2000, n° 361.

C.F. 91024610759
Conto corrente postale 1003008339
IBAN: IT30G0760116000001003008339

Webdesigner: Andrea Greco

www.fondazioneterradotranto.it è un sito web con aggiornamenti periodici, non a scopo di lucro, non rientrante nella categoria di Prodotto Editoriale secondo la Legge n.62 del 7 marzo 2001. Tutti i contenuti appartengono ai relativi proprietari. Qualora voleste richiedere la rimozione di un contenuto a voi appartenente siete pregati di contattarci: fondazionetdo@gmail.com.

Dati personali raccolti per le seguenti finalità ed utilizzando i seguenti servizi:
Gestione contatti e invio di messaggi
MailChimp
Dati Personali: cognome, email e nome
Interazione con social network e piattaforme esterne
Pulsante Mi Piace e widget sociali di Facebook
Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo
Servizi di piattaforma e hosting
WordPress.com
Dati Personali: varie tipologie di Dati secondo quanto specificato dalla privacy policy del servizio
Statistica
Wordpress Stat
Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo
Informazioni di contatto
Titolare del Trattamento dei Dati
Marcello Gaballo
Indirizzo email del Titolare: marcellogaballo@gmail.com

error: Contenuto protetto!