Saveria e le sue trecce alla “scaunizzu”

LETTERATURA GASTRONOMICA

LE TRECCE ALLA “SCAUNIZZU”

di Nino Pensabene

Le trecce alla “scaunizzu” Saveria le preparava d’inverno, vicino al camino acceso. A semicerchio intorno alla fiamma disponeva le pigne, affinché, sciolta al caldo la resina, fosse agevole recuperare i pinoli e, nel frattempo, si dava a preparare l’impasto.

Metteva in una padella, a bordo alto, un litro di vincotto al quale aggiungeva mezzo chilo di fichi secchi tritati, tre etti di mandorle pestate, due etti di noci sminuzzate, tre cucchiaiate di mostarda, una manciata di uva passa, un po’ di cedro candito tagliato a dadini e un pizzico di cannella. Faceva bollire a lungo, amalgamando col mestolo di legno, poi passava sulla spianatoia a raffreddare. A parte preparava la sfoglia con mezzo chilo di farina, due etti di strutto, una presa di sale e un pizzico di lievito sciolto in un bicchiere di marsala.

Le sfoglie le tirava lunghe e sottili, le tagliava a nastri larghi cinque dita e le riempiva del composto, chiudendole solo a tratti, a pizzicotti, come una giacca male abbottonata. Poi le intrecciava a due a due e, dove la sfoglia si allargava, lasciando intravedere l’impasto, tracciava un disegno con i pinoli. Le infornava, sorvegliandone attentamente la breve cottura. Tirate fuori al punto giusto, si presentavano croccanti, con un aroma spiccato e un gusto delizioso.

Erano in parecchi a mangiare le trecce dolci di Saveria, ma da un po’ di tempo a questa parte, è inutile attenderne l’offerta. No – afferma decisa -, non ne preparo più. Le facevo per gli amici ed era una gioia, ma ho avuto modo di constatare che oggi la parola “amicizia” è qualcosa di astratto, una parola che appartiene ad una lingua che non si parla più. Me li chiami forse veri amici gli opportunisti, i falsi, i traditori?

Una amara constatazione la sua che diviene amara meditazione per noi ogni qualvolta il profumo delle “trecce alla scaunizzu” riempie la casa di Saveria e dilaga financo sulla strada, perfido come una tentazione e pesante come una condanna.

Da “L’APOLLO BONGUSTAIO”, ALMANACCO GASTRONOMICO PER L’ANNO 1973, a cura di Mario Dell’Arco (Dell’Arco Editore in Roma), pag. 76

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