San Giovanni Battista nella tradizione popolare salentina

di Giorgio Cretì

In illo tempore, nel Salento che fu, quando la gente viveva sulla terra che coltivava e da essa traeva il proprio sostentamennto, si faceva grande uso di piante spontanee res nullius che prendevano il nome di foje creste ossia di erbe agresti, che non avevano bisogno di essere seminate e coltivate. Era la sapienza della tradizione che permetteva di ricavare da esse alimenti squisiti e anche salutari.

Tra queste erbe erano compresi anche i cardi prima che indurissero e sviluppassero le loro durissime spine. Molto apprezzato era il Rattalùru, ossia il Cardo scolimo (Scolimus hispanicus), che sulle Murge quando muore genera i funghi carduncielli. Ed anche il cardo mariano (Silybum marianum) che veniva impiegato in cucina ed era pure apprezzatissimo per suoi principi attivi riitenuti ancora oggi molto efficaci per l’apparato cardio-vascolare e per la sua funzione epatica.

A Ortelle, ed anche a Vitigliano, che un tempo di Ortelle era frazione, così pure a Vaste che è frazione di Poggiardo, il cardo mariano si chiamava, e si chiama ancora, Spina de San Giuvanni. In altri paesi, come per esempio Spongano, è detto Cardune.

Rosetta basale e capolino di Spina di san Giovanni (ph Antonio Chiarello)

E’ simile ad una delle tante specie del genere Carduus con foglie spinosissime che avvolgono il fusto ed i suoi capolini isolati di colore purpureo che somigliano ai fiori del carciofo. E’ diffuso nell’Italia Centrale e Meridionale e nelle Isole, più raro è nell’Italia settentrionale dove sopravvive come relitto di antiche colture un tempo tenute solo a scopo medicinale. Nei ricordi della signora ‘Maculata di Vitigliano se ne facevano anche dicotti.

Era credenza molto antica che il cardo mariano, in occasione della festa di San Giovanni dimostrassse particolari virtù divinatorie.

Santina di Vignacastrisi ricorda che la sera della vigilia di San Giovanni gli uomini al ritorno dalla campagna tagliavano gli steli fioriti e li portavano a casa. Le donne li bruciacchiavano alla fiamma del camino e poi li mettevano in un seccchio pieno d’acqua; c’era anche chi lasciava le spine bruciate, o anche altre erbe, semplicemente sulla lamia a prendere la rugiada della notte che così guariva da certe malattie. La mattina dopo, comunque, le spine rifiorivano e questo era sempre e comuque buon segno. Le giovani donne innamorate per sapere se si sarebbero sposate entro l’anno, o per sapere se l’uomo verso il quale spasimavano si sarebbe dichiarato, mettevano le spine bruciaccchiate dentro un bicchiere e le lasciavano sul davanzale a prendere il fresco della notte. Dalla loro posizione traevano i buoni auspici.

Nella notte del 24 giugno in cui gli antichi celebravano il solstizio d’estate, anche nel Salento cristiano, si festeggiava San Giovanni Battista ed era una festa di purificazione in cui si dava fuoco alle stoppie secche. Ma qualcuno per conto suo faceva festa anche con focareddhe vere e proprie ad imitazione dei grandi falò propiziatori fatti in piazza in altri posti e in altre occasioni. Niente a che vedere, comunque, con la “Festa delle Panare” di Spongano che si tiene il 22 dicembre di ogni anno e dove si bruciano le paddhotte, le zolle della sansa dei frantoi.

Focareddha di arbusti

Nella tradizione popolare San Giovanni era venerato come taumaturgo capace di guarire qualsiasi male, ma gli  venivano accreditati soprattutto gli attribuiti del fuoco e dell’acqua ed era a Lui che il popolo si rivolgeva per scongiurare il pericolo dei temporali che incutevano sempre grande paura per i danni che potevano arrecare ai raccolti e alle persone. Ancora a Immacolata De Santis di Vitigliano (‘Macculata) dobbiamo la momoria di alcune invocazioni recitate per scongiurare l’arrivo del maletiempu di ogni genere.

San Giuvanni meu barone

Ka ‘ncoddhu purtavi nostru Signore,

Lu purtavi e lu nucivi

u maletiempu tu  sparivi.

 

E nulla cambiava se a volte era chiamato ad intervenire assieme ad altri santi. In quest’altra composizione il richiedente si rivolge prima a Santa Barbara per poi affidare la parte operativa del miracolo richiesto a San Giovanni.

 Santa Barbara ci sta’  ‘menzu ‘li campi

Nu time acqua, nè troni nè lampi,

Azzete Giuvanni e duma tre cannile 

Ka visciu tre scère(1) ‘quarrittu vinire:

De acqua, jentu e maletiempu.

A mare a mare lu maletiempu,

Addhurca nu  canta gallu,

Addhunca nu luce luna

Addhunca nu passa anima una.

 

(1) Scèra era detta il cumulonembo

E a San Giovanni Battista era affidata anche la responsabilità di proteggere il contratto sociale detto del comparaggio, che non aveva niente a che vedere con il reato previsto dal nostro Diritto, ma era quello del battesimo, in cui i contraenti – di solito parenti o amici – assumevano, appunto, l’appellativo di compari di San Giovanni. Al santo profeta  che aveva battezzato Gesù veniva dedicato un rapporto speciale che si creava e rimaneva sacro per tutta la vita. Tra il padrino e la famiglia del bambino tenuto a battesimo, si instauravano speciali rapporti di amicizia che avevano un valore quasi uguale a quello di parentela. Il bambino figlioccio, fin dalla tenera età, era educato a rivolgersi con affetttuoso rispetto al proprio padrino facendo precedere sempre il suo nome dall’appellativo di nunnu/nunna, anche nell’età adulta. Il padrino/madrina si rivolgeva al figlioccio chiamandolo semplicemente sciuscettu (lat. filius susceptus, figlio adottato) e sullo stessso esercitava quasi la stessa autorità del padre/madre naturale.

Per ultimo non è da dimenticare uno squisiito fico precoce, la cui maturazione avviene a cavallo del soltizio d’estate ed è una varietà di Ficus carica detta fica de San Giuvanni. I suoi fioroni, fichi di primo frutto, puntualmente sono pronti per il 24 di giugno  ed hanno forma di trottola con polpa granulosa, dolce ma non mielosa, ottimi per il consumo fresco. Ed essendo la cultivar bifera produce anche un fòrnito, un fico di secondo frutto, di forma globosa a fiasco allungato con buccia gialla, costoluto e con polpa giallo verdastra. Come per tutti gli altri fichi, se al solstizio di giugno sofffia vento di Scirocco i frutti si gonfiano ed essendo i primi sono molto attesi. Se invece persiste vento di Tramonata la loro maturazione diventa difficoltosa e ntaddhene, fanno il callo, cioè, e sono da buttare.

Fichi di San Giovanni

San Giovanni Battista nella tradizione popolare salentina

di Giorgio Cretì

In illo tempore, nel Salento che fu, quando la gente viveva sulla terra che coltivava e da essa traeva il proprio sostentamennto, si faceva grande uso di piante spontanee res nullius che prendevano il nome di foje creste ossia di erbe agresti, che non avevano bisogno di essere seminate e coltivate. Era la sapienza della tradizione che permetteva di ricavare da esse alimenti squisiti e anche salutari.

Tra queste erbe erano compresi anche i cardi prima che indurissero e sviluppassero le loro durissime spine. Molto apprezzato era il Rattalùru, ossia il Cardo scolimo (Scolimus hispanicus), che sulle Murge quando muore genera i funghi carduncielli. Ed anche il cardo mariano (Silybum marianum) che veniva impiegato in cucina ed era pure apprezzatissimo per suoi principi attivi riitenuti ancora oggi molto efficaci per l’apparato cardio-vascolare e per la sua funzione epatica.

A Ortelle, ed anche a Vitigliano, che un tempo di Ortelle era frazione, così pure a Vaste che è frazione di Poggiardo, il cardo mariano si chiamava, e si chiama ancora, Spina de San Giuvanni. In altri paesi, come per esempio Spongano, è detto Cardune.

Rosetta basale e capolino di aspraggine (ph Antonio Chiarello)

E’ simile ad una delle tante specie del genere Carduus con foglie spinosissime che avvolgono il fusto ed i suoi capolini isolati di colore purpureo che somigliano ai fiori del carciofo. E’ diffuso nell’Italia Centrale e Meridionale e nelle Isole, più raro è nell’Italia settentrionale dove sopravvive come relitto di antiche colture un tempo tenute solo a scopo medicinale. Nei ricordi della signora ‘Maculata di Vitigliano se ne facevano anche dicotti.

Era credenza molto antica che il cardo mariano, in occasione della festa di San Giovanni dimostrassse particolari virtù divinatorie.

Santina di Vignacastrisi ricorda che la sera della vigilia di San Giovanni gli uomini al ritorno dalla campagna tagliavano gli steli fioriti e li portavano a casa. Le donne li bruciacchiavano alla fiamma del camino e poi li mettevano in un seccchio pieno d’acqua; c’era anche chi lasciava le spine bruciate, o anche altre erbe, semplicemente sulla lamia a prendere la rugiada della notte che così guariva da certe malattie. La mattina dopo, comunque, le spine rifiorivano e questo era sempre e comuque buon segno. Le giovani donne innamorate per sapere se si sarebbero sposate entro l’anno, o per sapere se l’uomo verso il quale spasimavano si sarebbe dichiarato, mettevano le spine bruciaccchiate dentro un bicchiere e le lasciavano sul davanzale a prendere il fresco della notte. Dalla loro posizione traevano i buoni auspici.

Nella notte del 24 giugno in cui gli antichi celebravano il solstizio d’estate, anche nel Salento cristiano, si festeggiava San Giovanni Battista ed era una festa di purificazione in cui si dava fuoco alle stoppie secche. Ma qualcuno per conto suo faceva festa anche con focareddhe vere e proprie ad imitazione dei grandi falò propiziatori fatti in piazza in altri posti e in altre occasioni. Niente a che vedere, comunque, con la “Festa delle Panare” di Spongano che si tiene il 22 dicembre di ogni anno e dove si bruciano le paddhotte, le zolle della sansa dei frantoi.

Focareddha di arbusti

Nella tradizione popolare San Giovanni era venerato come taumaturgo capace di guarire qualsiasi male, ma gli  venivano accreditati soprattutto gli attribuiti del fuoco e dell’acqua ed era a Lui che il popolo si rivolgeva per scongiurare il pericolo dei temporali che incutevano sempre grande paura per i danni che potevano arrecare ai raccolti e alle persone. Ancora a Immacolata De Santis di Vitigliano (‘Macculata) dobbiamo la momoria di alcune invocazioni recitate per scongiurare l’arrivo del maletiempu di ogni genere.

San Giuvanni meu barone

Ka ‘ncoddhu purtavi nostru Signore,

Lu purtavi e lu nucivi

u maletiempu tu  sparivi.

 

E nulla cambiava se a volte era chiamato ad intervenire assieme ad altri santi. In quest’altra composizione il richiedente si rivolge prima a Santa Barbara per poi affidare la parte operativa del miracolo richiesto a San Giovanni.

 Santa Barbara ci sta’  ‘menzu ‘li campi

Nu time acqua, nè troni nè lampi,

Azzete Giuvanni e duma tre cannile 

Ka visciu tre scère(1) ‘quarrittu vinire:

De acqua, jentu e maletiempu.

A mare a mare lu maletiempu,

Addhurca nu  canta gallu,

Addhunca nu luce luna

Addhunca nu passa anima una.

 

(1) Scèra era detta il cumulonembo

E a San Giovanni Battista era affidata anche la responsabilità di proteggere il contratto sociale detto del comparaggio, che non aveva niente a che vedere con il reato previsto dal nostro Diritto, ma era quello del battesimo, in cui i contraenti – di solito parenti o amici – assumevano, appunto, l’appellativo di compari di San Giovanni. Al santo profeta  che aveva battezzato Gesù veniva dedicato un rapporto speciale che si creava e rimaneva sacro per tutta la vita. Tra il padrino e la famiglia del bambino tenuto a battesimo, si instauravano speciali rapporti di amicizia che avevano un valore quasi uguale a quello di parentela. Il bambino figlioccio, fin dalla tenera età, era educato a rivolgersi con affetttuoso rispetto al proprio padrino facendo precedere sempre il suo nome dall’appellativo di nunnu/nunna, anche nell’età adulta. Il padrino/madrina si rivolgeva al figlioccio chiamandolo semplicemente sciuscettu (lat. filius susceptus, figlio adottato) e sullo stessso esercitava quasi la stessa autorità del padre/madre naturale.

Per ultimo non è da dimenticare uno squisiito fico precoce, la cui maturazione avviene a cavallo del soltizio d’estate ed è una varietà di Ficus carica detta fica de San Giuvanni. I suoi fioroni, fichi di primo frutto, puntualmente sono pronti per il 24 di giugno  ed hanno forma di trottola con polpa granulosa, dolce ma non mielosa, ottimi per il consumo fresco. Ed essendo la cultivar bifera produce anche un fòrnito, un fico di secondo frutto, di forma globosa a fiasco allungato con buccia gialla, costoluto e con polpa giallo verdastra. Come per tutti gli altri fichi, se al solstizio di giugno sofffia vento di Scirocco i frutti si gonfiano ed essendo i primi sono molto attesi. Se invece persiste vento di Tramonata la loro maturazione diventa difficoltosa e ntaddhene, fanno il callo, cioè, e sono da buttare.

Fichi di San Giovanni

Diso. Il culto e la festa dei SS. Apostoli Filippo e Giacomo

 

Il culto e la festa dei SS. Apostoli Filippo e Giacomo, Patroni di Diso (Lecce) : i “Santi nosci”

 

di Rocco Boccadamo

Le celebrazioni espressamente dedicate hanno inizio il 21 aprile con il novenario.

Di buon mattino, a cura ed opera del Parroco e dei priori, questi ultimi intesi come i principali esponenti del comitato festa, le statue di legno dei Santi sono prelevate dalle nicchie appositamente ricavate nelle pareti interne della chiesa, “spogliate”, ossia senza gli ornamenti delle corone e delle insegne (croce e asta), e poggiate su uno scanno in prossimità dell’altare.

In quella fase, il luogo è quasi a porte chiuse, in pratica vuoto, l’azione si svolge in un misterioso silenzio, ammantato di riservatezza e di esclusività.

Il prete e i priori allestiscono, nel consueto angolo del tempio, a sinistra guardando l’altare, il baldacchino o “tosello” in pesante tessuto rosso; quindi prendono,  dalle custodie di sicurezza, le anzidette insegne in argento e le reliquie dei Santi, ponendole addosso ai rispettivi simulacri, in gergo “vestono” le statue.

Contemporaneamente, i rintocchi delle campane fanno giungere alla popolazione l’atteso, immancabile e immutabile avviso.

Fino a qualche decennio fa, la gente era colta dall’annuncio, quando già, dopo la sveglia all’alba secondo le antiche abitudini dei contadini, si trovava da tempo intenta al lavoro; dunque, lasciando di colpo arnesi e occupazioni, accorreva di buona lena, a passo affrettato, direttamente dalla campagna verso la chiesa.

Adesso, invece, nella quotidianità e particolarmente il giorno 21 aprile, nessuno si reca nei campi, anzi le persone si preparano in casa, in un certo senso con abiti di festa, per l’evento.

In tutta la comunità, sembra che sia rimasta solo un’anziana donna, la quale non ha cambiato le usanze e raggiunge la parrocchia così come si trova.

Con il luogo sacro ormai gremito di fedeli, il parroco e i priori intronizzano le statue sul baldacchino.

Nel tardo pomeriggio, in piccola processione, dalla congrega (cappella) della confraternita si preleva il simulacro in cartapesta della Madonna Immacolata – qui conosciuta come Madonna dell’Uragano, giacché la Vergine, stando alla tradizione, tenne indenne Diso da un devastante evento atmosferico – e lo si

Taranto. Il cammino dei Perdoni (prima parte)

I riti della Settimana Santa di Taranto, tra fede, storia e tradizione popolare

Processione dei Sacri Misteri, poste di perdoni

 

di Francesco Lacarbonara

Raccontare i riti della Settimana Santa di Taranto, per chi a Taranto è nato è vissuto come me, non è impresa facile. Basterebbe poco, infatti, per lasciarsi trascinare dai ricordi delle tante processioni alle quali si è assistito fin da bambino, col rischio di scivolare così in un nostalgico sentimentalismo che, seppur onesto e legittimo in quanto espressione di un sano attaccamento alle proprie origini, non renderebbe ragione della complessità del fenomeno che stiamo per trattare.
Non sarebbe però neppure corretto ridurre il tutto a una mera, e alquanto asettica, operazione di ricerca storico-antropologica (con i relativi risvolti sociali e psicologici) nel tentativo, forse vano, di analizzare razionalmente un evento che, a ventunesimo secolo ormai avanzato, continua a riproporsi con lo stesso immutato carico di coinvolgimento emotivo, vuoi per chi del rito è protagonista, vuoi per chi al rito partecipa come semplice, ma mai indifferente, spettatore.

Proveremo allora ad accostarci al rito della Perdonanza tarantina con la giusta dose di curiosità per una “sacra rappresentazione” che torna ad inscenarsi nuovamente tra le vie del borgo e della città vecchia di Taranto. Ma lo faremo anche con il dovuto rispetto per coloro che vivono la Settimana Santa con spirito di fede e devozione e, anche se solo per pochi giorni, si apprestano a trascendere i confini della quotidianità per affacciarsi, con un sentimento misto di timore e tremore, nella dimensione del sacro e del mistero. Seguiremo in particolare il rito del Pellegrinaggio ai Sepolcri, oggi svolto solo dai confratelli della Confraternita di Maria SS. del Monte Carmelo. Ci occuperemo in un secondo momento del rito della Processione dei Sacri Misteri (condotto anch’esso dai confratelli del Carmine) e di quello della Processione della B.V. Addolorata, tanto cara a tutti i tarantini e portata avanti, con devozione sincera e immutato attaccamento alle tradizioni, dai confratelli della Confraternita di Maria SS. Addolorata e San Domenico. Tale confraternita fu fondata nel 1670 dai Padri Domenicani che prestavano servizio nel Tempio di San Domenico, situato nella parte più alta della città vecchia di Taranto; il Tempio fu edificato nel 1302 sulle fondamenta di una Chiesa probabilmente sorta agli inizi del XIII secolo e fu solo a partire dal 1870 che la Confraternita assunse il titolo di San Domenico e dell’Addolorata.

Le origini
Occorre risalire al XVI secolo, periodo che vede Taranto sotto la dominazione spagnola, per ritrovare le prime tracce dei riti della Settimana Santa tarantina. Le numerose e nobili famiglie spagnole residenti in città introdussero e diffusero tra la popolazione locale usi e costumi importati dalla madre patria, anche a carattere religioso. Nascono così le prime confraternite e hanno inizio i primi pellegrinaggi, come avveniva già da diverso tempo in molte città della Spagna, quali, ad esempio, Siviglia, Saragozza, Malaga e Barcellona.
A questo periodo però si deve far risalire solo il rito del Pellegrinaggio ai Sepolcri, che si svolgeva la mattina del Venerdì Santo da parte delle confraternite già allora esistenti in città. È probabile però che forme di devozione nei confronti dei sepolcri fossero diffuse già da prima, sulla scia di quanto raccontato nella Peregrinatio Aetheriae, nota anche come Itinerarium Egeria. Eteria, o Egeria – probabilmente una donna facoltosa di origine spagnola vissuta tra il IV e il V secolo – descrive in una lettera, scritta in un latino colloquiale, i luoghi da lei visitati durante un suo pellegrinaggio in Terrasanta. Dal suo racconto, ricco di particolari curiosi, si sarebbe iniziato a rappresentare nelle chiese scene riproducenti i luoghi santi, con il chiaro intento di riproporre i momenti più significativi della Passione e della Morte di Cristo, il tutto offerto alla devozione popolare.

Processione dei Sacri Misteri, statua di Cristo morto
Per le processioni dell’Addolorata e per quella dei Misteri si dovrà invece aspettare la metà del XVIII secolo, ma per raccontarne le origini occorre fare prima un piccolo passo indietro. Tra la fine del 1600 e gli inizi del 1700 Don Diego Calò, discendente della omonima famiglia giunta a Taranto nel 1580, ordinò e fece venire da Napoli due statue, di cartapesta e di autore ignoto, quella dell’Addolorata e quella di Cristo Morto, per essere custodite nella cappella gentilizia del suo palazzo. In occasione del Venerdì Santo venivano invitate dal patrizio tarantino tutte le confraternite per portare in processione i suddetti simulacri tra le vie della città vecchia che a quel tempo, ma sarà così fino a ben oltre metà ottocento, rappresentava la sola area urbanizzata. La pia tradizione famigliare si trasmise fino al 1765, allorquando un suo discendente, Don Francescantonio Calò, fece dono delle due statue alla Confraternita Maria SS. Del Monte Carmelo, fondata ufficialmente il 10 Agosto del 1675 con un decreto dell’allora Arcivescovo di Taranto Mons. Tommaso Sarria. Diversi documenti riportano invece come data di fondazione il 1577, anno in cui la comunità dei frati Carmelitani si trasferì dalla Chiesa della Madonna della Pace, nella città vecchia, alla Chiesa di Santa Maria extra moenia, detta Chiesa della “Misericordia”, e per l’appunto nel 1577 dedicata alla Vergine del Carmelo.

Fu così che il Venerdì Santo del 1765 i due simulacri varcarono per l’ultima volta il portone di Palazzo Calò per raggiungere in processione quella che diventerà la loro sede definitiva, la Chiesa del Carmine extra moenia, ovvero in aperta campagna, in quello che è diventato adesso il cuore del borgo di Taranto, nella città nuova.
Questi due simulacri, più volte restaurati nel corso degli anni per ovviare all’inevitabile usura del tempo, sono gli stessi che vengono portati in processione ancora oggi dalla Confraternita del Carmine, insieme ad altre statue che si sono aggiunte nel corso degli anni, a completare il racconto plastico della Passione e Morte di Gesù mediante la raffigurazione dei suoi momenti più drammatici e significativi.

(Fine prima parte)

 

Testo e Foto di:

Francesco Lacarbonara – MMXI- tutti i diritti riservati –

Metereologia salentina e celebrazione dei Santi, dall’8 settembre a Natale

da un vetrino a coppia stereoscopica (per gentile concessione di Nino Pensabene)

CULTI MAGICO-RELIGIOSI  NEL SALENTO  FINE OTTOCENTO

TI LA MMACULATA

L’ACQUA SERVE SULU PI LLI PUCCE

 

 Le celebrazioni dei santi come termini convenzionali di riferimento meteorologico in una strumentale emissione di volontà collettiva e l’accanita ricerca di segni a carattere divinatorio.

 

 

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

(…) Dal niente al troppo. Era questa la scomoda altalena della meteorologia salentina, nel cui quadro però, il “troppo” non veniva tanto rappresentato dagli improvvisi nubifragi – statisticamente rari nel Salento -, quanto dalle possibili eccedenze pluviali del tardo autunno, capaci di determinare, con l’impantanamento delle campagne, non solo la crisi economica dei coltivatori (era periodo di semine e di raccolta delle olive), ma soprattutto la disperazione dei sciurnaliéri (giornalieri) che, privati di ogni possibilità di trovare ingaggio di lavoro, soffrivano la fame.

Uno spauracchio che nella frequenza del suo proporsi aveva generato una vera e propria psicosi stagionale, a sua volta convertita, quasi a contrasto propiziatorio, in una sorta di tabella delle piogge da scandire in misura calendariale, ovverosia assumendo le celebrazioni native dei santi come termini convenzionali di riferimento meteorologico. Riferimento che, sia pure inconfessatamente, voleva adire alla messa in orbita di un condizionamento, la cui sostanza magico-religiosa la si poteva carpire più che dalla valenza delle singole aggiudicazioni, dalla curiosa eterogeneità di significanti espressi dallo stessa scadenzario, nel quale venivano a confluire, unitamente ai sensi di affidamento devozionale, una strumentale emissione di volontà collettiva e l’accanita ricerca di segni a carattere divinatorio.

Tela della Vergine Immacolata e Santi. Per gentile concessione di Nino Pensabene

Appena iniziato settembre, con ancora sulla nuca lo specchio ustorio dell’estate, i contadini cominciavano a parlare di pioggia come di un ospite che avesse già annunziato il suo arrivo, fissandone la data in concomitanza con la festa della Madonna delle Grazie (8 settembre), giorno ritenuto di stura ai doni celesti e perciò quanto mai adatto a segnare l’avvio di quello che era il ciclo di fertilità della terra:

Pi’ lla Matònna ti li razzie,

ssetta li roddhre, scupa la lliàma

e mminti lu limmu sott’a llu canàle,

scuscitàtu ca l’acqua la tiéni an capitàle.

Entro la ricorrenza della Madonna delle Grazie, / sistema i semenzai, scopa la terrazza / e metti la vaschetta sotto il canale di scolo, / sicuro di avere l’acqua già sotto il guanciale.

Pur se attinte al comune canovaccio delle consuetudini contadine e perciò ricche di una certa spontaneità nella scelta, le tre azioni da compiere in sostanza risultano ideologicamente mediate nella sovrapposizione dei simboli, ovverosia finalizzate a rappresentare il passaggio da un presente ancora in debito col passato a un presente già in commistione col futuro: la terrazza da liberare dalle scorie accumulatesi durante  il tempo dell’arsura; la presenza della conca che da vuota deve farsi piena; la sistemazione dei semenzai– momento icastico del rinnovamento nel festoso schiudersi dei germogli -, nel mentre provvedono ad assolvere a quelli che sono gli strascichi della patita sofferenza estiva, si convertono in rituale di accoglienza dell’acqua, peraltro celebrata non in quanto oggetto della speranza, ma come bene già assicurato, prova ne sia che la si dà presente sotto il guanciale, notturno posto di deposito dei risparmi contadini e quindi significante il pieno possesso del tesoro.

Non è infatti difficile notare come il tutto tenda a stabilire un magico processo di decretazione, quasi si voglia, attraverso la forza coercitiva del pensiero, vincere le leggi della fisicità facendole incappare nel tranello di una finzione che vuole dare per conclusa una stagione ancora in attivo.

Malgrado gli alberi di fico fossero ancora carichi di frutti in maturazione e si prevedesse di continuare il lavoro di essiccazione per tutto settembre, li ficalùri (i ficaioli) si imponevano l’aria del disarmo già dai primi del mese, non trascurando di far rimbalzare da campo a campo l’interessato monito:

A Mmatònna rriàta,

furnìta la spaccata…

Stà rrusce lu mmuddhràtu…

ncanìscia lu siccàtu,

ccuégghi lu siccatiéddhru

e lli littére mìntile a ccastiéddhru.

L’8 settembre, / la spaccatura dei fichi è conclusa!… / Si avverte già il crepitìo della pioggia… / ci conviene, pertanto, radunare nella canestra l’ultimo prodotto seccato, / raccogliere da terra quello appassito sugli alberi / e mettere i cannicci a deposito, sistemandoli, come si fa a ogni fine stagione, uno sull’altro a mo’ di castello.

Né diversamente si comportavano gli ortolani di Copertino: pur sapendo che avrebbero aspettato la festa ti li paisàni [1] (19 settembre) per portare al mercato li ponte ti cucùzza (le cimature delle piante di zucca), ritenute una leccornia in quanto raccolte solo una volta all’anno – in concomitanza cioè con l’estirpazione di tutta la coltura -, nell’approssimarsi della festa della Madonna delle Grazie davano già per conclusa la stagione orticola:

La tìa ti li ràzzie

no ffranca la mmuddhràta:

scigghiàmu la pagghiàra

e ffacìmu scapuzzàta.

Il giorno dedicato alla Madonna delle Grazie / non ci rinfranca dalla pioggia: / smontiamo perciò il pagliaio / e, raccogliendo gli ultimi frutti, sradichiamo le piante.

 

A quanti potranno trovare assurda tanta finzione, magari giudicandola incompatibile col rozzo semplicismo campagnolo, facciamo presente che lo spirito d’impostura non era estraneo al comportamentale  dei contadini spesso obbligati dalla necessità a prospettare ai padroni, più precisamente ai fattori, una situazione  – familiare, economica o agricola – diversa da quella reale, all’uopo mendicando la complicità dei vicini e sempre riservandosi la possibilità di cambiarne i termini allorché venivano a mutare le tangenze della loro convenienza.

Ugualmente impotenti di fronte alle forze della natura, trovavano logico ricorrere allo stesso stratagemma, credendo di poter influire sul proporsi della fenomenica meteorologica così come, imbrogliando, condizionavano le decisioni dell’avversario padrone: unica differenza  che questa volta la complicità la chiedevano ai santi, delle cui ricorrenze si servivano come di altrettante chiavi di volta in sintonia con i loro tornaconti. L’avere scelto la festività della Madonna delle Grazie a data della prima pioggia, rientrava in un loro calcolato piano di ipotetica regolamentazione degli avvicendamenti atmosferici, nella convinzione che solo attraverso lo scatto del primo passo le nuvole stabilivano il tempismo dei successivi: un partire col piede giusto, in base al quale – e proprio in virtù di quelle che erano le naturali leggi di avvicendamento fra periodi di sereno e giornate piovose -, una volta piovuto ai primi di settembre, si sarebbe avuto bel tempo durante la vendemmia, il cui travaglio aveva inizio subito dopo la festa di San Giuseppe da Copertino (18 settembre).

Processione di S. Giuseppe da Copertino, 1914. Immagine ricavata da un vetrino a coppia stereoscopica. Collezione Nino Pensabene

Va da sé che simili previsioni erano del tutto aleatorie, nessuno essendo certo che una volta ottenuta la pioggia questa non avrebbe poi continuato a cadere per giorni e giorni, miseramente fagocitando quello scampolo di sereno necessario ai vendemmiatori, nonché a quanti dovevano approntare i campi per la semina delle granaglie. Un’apprensione che, sollecitando al rimedio preventivo, faceva sì che i contadini, appena superata la festa della Madonna delle Grazie, avessero di colpo a cambiare bandiera, incentrando la loro volontà – sino a quel momento evocativa della pioggia – in uno scongiuro orientato a ottenere bel tempo. E poiché la vendemmia, come già detto, si poneva a ruota delle celebrazioni patronali, era proprio a San Giuseppe che si appellavano, coinvolgendolo in un’azione di salvaguardia comprendente festa e campagna:

Ti la paratùra e ddi lu innimàre

Sangiséppu nuésciu no ssi nni pote scirràre.

Della luminaria e della vendemmia / San Giuseppe nostro non se ne può dimenticare.

   L’associazione delle due proposte beneficiarie – luminaria e vendemmia – risultava più che pertinente ai fini atmosferici, e non soltanto perché l’addobbo stradale, per essere l’elemento più fragile della festa, offriva perfetta corrispondenza alla deperibilità dell’uva in caso di gravi intemperie, ma anche per il sottile concatenamento di incomodi che pure una semplice piovuta avrebbe provocato e ai festeggiamenti e ai vendemmiatori.

Per comprendere l’oggettività della concatenazione, occorre rifarsi all’epoca, cioè tenere presente che nell’Ottocento, essendo l’illuminazione elettrica una realtà di là da venire e non avendo il  Salento adottato quella ad acetilene – attestatasi solo ai primi del Novecento -, le luminarie venivano ancora allestite fissando alle arcate di legno – in una composizione a tappeto – dei piccoli bicchieri di vetro variamente colorato, che debitamente riempiti d’olio  e muniti di luminelli venivano accesi dai paratori con un paziente passare di stoppino.

Copertino, Festa patronale 1925. Nell’evoluzione dei tempi l’illuminazione non è più ad olio ma ad acetilene. Lo rivelano i tubicini di conduttura del gas applicati alla luminaria. Collezione Nino Pensabene

A tanta laboriosità di accensione corrispondeva un’altrettanta precarietà di funzionamento, essendo bastevole un semplice piovasco a decretare non soltanto l’immediato abbuiarsi, ma anche l’intransitabilità delle strade addobbate: la pioggia, colmando i bicchieri, faceva infatti traboccare l’olio, macchiando i vestiti di chi si trovava a passare sotto gli archi e, quel che era più grave, rendendo pericolosamente sdrucciolevole il selciato. Un incomodo che durava anche a pioggia finita, convertendosi in vero e proprio ostracismo al passeggio, soprattutto a quello dei contadini, i quali, calzando acchétte cu lli tacce (stivaletti con le suole bullonate), nel contatto fra metallo e pietra unta facilmente finivano stesi per terra.

Analoghe conseguenze si registravano in campagna se la vendemmia si svolgeva sotto la pioggia: nel passa e ripassa fra i filari di vite, il terreno bagnato diventava estremamente viscido, non  offrendo stabile appiglio ai piedi nudi ti li scufanatùri (dei trasportatori) che, già sbilanciati dal peso delle tinéddhre (tinozze) rette sulle spalle, sommavano capitomboli con grave rischio per la loro incolumità e ovvio danneggiamento dell’uva così malamente scodellata per terra. C’è da aggiungere che all’impraticabilità dei terreni faceva riscontro quella dei viottoli e strade sterrate, per cui spesso capitava che i carri pieni d’uva s’impantanassero, richiedendo,  per il loro disincaglio, immani sforzi di uomini e bestie messi insieme.

Alla luce di tanta collimanza e soprattutto tenendo presente la stretta successione dei tempi – inizio di vendemmia a fine celebrazioni – , vien fatto di pensare che i contadini, nel basare la richiesta di protezione sull’abbinamento “paratùra-innimàre”, al di là dell’indiscusso interesse alla buona riuscita dei festeggiamenti, perseguissero un calcolo di opportunistica connessione delle due citazioni, volendo far sì che l’una (luminaria) avesse a risultare il preambolo dell’altra (vendemmia): se infatti avesse piovuto durante i giorni di festa, all’untuosità del selciato avrebbe corrisposto la fanghiglia della campagna, mentre il bel tempo assicurato ai festeggiamenti – qui rappresentati dalla luminaria – si convertiva in terreno asciutto per chi si accingeva a vendemmiare. Un esplicito sfruttamento delle circostanze, che trasferito sul piano morale veniva a configurarsi in manovra di incastro per le buone disponibilità di S. Giuseppe, il quale, dopo aver vigilato sinu all’ùrtimu scungulàre ti nucéddhre (fino all’ultimo sgusciare di noccioline [fino agli ultimi minuti di festa]), e presumibilmente soddisfatto per le onoranze ricevute, non poteva ingratamente uscirsene con un ”Sparàti li fuéchi, ccenca bbole fazza, fazza!” (“Una volta esplosi i fuochi d’artificio, quel che il tempo vuol fare, faccia!”), fregandosene della vendemmia: se per tre giorni consecutivi il paese si trasformava in un “paradiso di suoni e di luci”, lo si doveva in buona parte al contributo economico di pastori e contadini, i quali, abituati com’erano all’obbligatoria  spartizione dei prodotti cu lli patrùni ti stu munnu (con i padroni terreni), si facevano scrupolo di non concorrere personalmente e tangibilmente alla spesa per i festeggiamenti in onore ti lu  patrùnu an celu ti tuttu lu paése (del santo padrone di tutto il paese). Quasi il pagamento di una decima, il cui saldo, per i contadini avveniva proprio durante la vendemmia, quando i componenti del comitato feste patronali imboccavano i viottoli campestri sollecitando i coltivatori – così come d’estate avevano fatto con i pastori per le pezzotte di formaggio – a offrire uno o più panieri d’uva.

Nna stiddhra ti miéru pi llu Santu nuésciu!…” (“Una goccia di vino per il nostro santo!…”), chiedevano con voce stentorea fermando al margine del campo il loro traino con sopra due botti vistosamente contrassegnate da più croci dipinte con la calce; e a ogni vuotata di paniere si facevano obbligo di prendere un grappolo d’uva e sollevarlo verso il cielo, quasi volessero lasciare intendere che S. Giuseppe stava lì, affacciato a conteggiare l’entità dell’offerta. “Bbiùnnali a ccentu vussignurìa…” (“Ricompensali centuplicando, vostra signoria…”), dicevano infatti, dandone per scontata la presenza; e  rifacendosi alla necessità del momento, concludevano pressanti: “E stiénni la manu a ttiémpu ssuttu… ca topu nn’annu ti fatìa, no bbògghia Ddiu àggianu a sprangìre jastìme!…” (“E stendi la mano a trattenere il bel tempo… ché dopo un anno di lavoro, non voglia Dio abbiano motivo di snocciolare bestemmie!…”).

Copertino, vendemmia 1924. Immagine ricavata da un vetrino a coppia stereoscopica. Collezione Nino Pensabene

L’abitudine a minacciare i santi di un possibile ricorso alla bestemmia in previsione di un qualsivoglia accadimento avverso – viziosità della religione popolare, altrove messa in rilievo – in questo caso viene a spogliarsi da ogni sospetto di esagerazione nella causa, suffragata com’è dal fatto che settembre era periodo di rotture atmosferiche, facili a passare dalla semplice piovuta alla catastrofica grandinata. Un peggio che se pure scaramanticamente taciuto per non creare nell’alone evocativo dell’immagine una qualche forza di richiamo, era nel senso e nella destinazione dell’appello, implicitamente intendendo stabilire nella raccomandazione “stendi la mano a trattenere il bel tempo” il più radicale dei fermi all’evoluzione del negativo.

Non a caso fra richiesta di intervento e minaccia di ricorso all’imprecazione scatta la cognizione di causa “dopo un anno di lavoro”, pregiudiziale che nel mentre si fa consuntiva dei sacrifici affrontati, allude a una temuta vanificazione degli stessi, qualificando lo stato apprensivo in paura di completa distruzione dell’uva. Un attestarsi sul problema di fondo – quello degli interessi economici -, del resto implicito nello scongiuro iniziale, non certo esauribile agli incomodi provocati dalla banale piovuta ma chiaramente finalizzato a salvaguardare quello che era il nocciolo e della vendemmia e della festa: il guadagno, appunto.

Dietro l’ostracismo al passeggio, in sé per sé patetico – e diciamo pure alquanto comico -, scattava l’anticipato rientro dei pellegrini, decurtando, se non addirittura azzerando, l’introito dei venditori. E in quei tre giorni di festa, venditore non era soltanto il piazzista venuto da fuori a rizzare la sua bancarella, ma anche la contadina che, collocando sulla soglia di casa uno sgabello con sopra tre fichi e un grappolo di ua rosa (uva da tavola bianco-rosata), invitava i forestieri a entrare e comprare i frutti della sua campagna; o l’artigiana che, sperando di ottenere commesse di lavoro, appendeva agli stipiti della porta – a seconda se era tessitrice, frangiaia o filatrice – un lembo di tela, due fiocchetti di frangia o una matassina di cotone filato. Un intrecciarsi di piccole industrie casalinghe che venivano a saldarsi agli introiti delle improvvisate trattorie, ai contributi pro-festa, alle offerte lasciate in chiesa e – perché no? – all’accarezzata speranza delle ragazze di trovare marito, assillo che le madri fronteggiavano corredando le figlie di un vestito nuovo, magari stentatamente pagato cu ssordi pigghiàti a spiéttu (con denaro preso in prestito) e per la cui restituzione attendevano i risultati della vendemmia.

Nel malaugurato caso di una grandinata, altro che mancato pagamento del vestito! Dopo un intero anno di lavoro non retribuito in quanto svolto nel proprio campo, e privata di quella che sarebbe stata la giusta ricompensa dei sudori, la famiglia si ritrovava sul lastrico, impossibilitata non solo ad assolvere ai debiti contratti nell’attesa del raccolto, ma tragicamente catapultata nel contesto di una miseria in alcuni casi talmente nera da far dubitare circa le possibilità di sopravvivenza. Ecco perché a scongiurare simile catastrofe i componenti il comitato festa patronale si rifacevano all’uso del ricatto: furbamente menzionando il disperato ricorso alla bestemmia erano convinti che S. Giuseppe, interessato come tutti i santi a salvare l’anima dei fedeli, pur di non indurre in tentazione i contadini facendoli peccare, avrebbe soddisfatto le loro suppliche, quella preventiva e quella memorativa, che ripetevano in continuazione mentre vendemmiavano:

Sangiséppu no tti nni scirràre

mantiéni lu tiémpu

pi’ ttuttu lu innimàre.

 

S. Giuseppe non te ne dimenticare; / trattieni il bel tempo / finché tutti abbiano finito di vendemmiare.

 

Richieste che in fin dei conti si riducevano a ottenere solo una breve parentesi di sereno, essendo bastevoli pochi giorni a eseguire il taglio di tutte le uve: a parte l’abbondanza della manodopera, all’epoca il Salento non vantava le odierne estensioni di vigneto, trovando gli agricoltori pari convenienza economica in coltivazioni alternative, quali i seminativi e i ficheti, senza parlare poi degli uliveti, ai cui impianti secolari nessuno si sarebbe mai azzardato di sostituire la vite. “Cinca tàgghia nn’àrriru t’aulìa / scetta nna chésia!” (“Chi taglia [estirpa] un albero d’ulivo / abbatte una chiesa!”), dicevano i contadini a difenderne la sacralità, ben lontani dall’immaginare i sacrilegi che invece furono perpetrati subito dopo la seconda guerra, quando, col sorgere delle cantine sociali e quindi nel miraggio di una redditizia esportazione vinicola, vaste zone furono selvaggiamente disarborate.

C’è da aggiungere che, allora, si coltivavano solo ue nustràli (uve nostrane, cioè vitigni non innestati), capaci di dare qualità, non quantità di prodotto, per cui a fine settembre la vendemmia poteva dirsi conclusa o quanto meno agli sgoccioli. In verità, se qualche ritardo c’era, lo si doveva al caparbio ordine di quei padroni che, dovendo vinificare solo per uso familiare, pretendevano uva ultramatura, spesso cozzando con gli intendimenti dei coloni, il cui credo, in tempo di vendemmia, era solo quello di “manisciàmune mmanisciàmune prima ca rrìanu l’àngili”  (“sbrighiamoci, sbrighiamoci, prima che arrivino gli angeli”).

Nel loro quadro meteorologico, infatti, il 2 di ottobre (festa degli Angeli custodi) era giornata di rientro nel clima piovoso; e questo porsi nuovamente in aspettativa dell’acqua lo si poteva notare già nella mattinata del 27 settembre, quando le donne, convenendo in chiesa per la messa dei SS. Cosimo e Damiano (protettori della salute), si auguravano l’un l’altra: “La casa a mmanu a lli Santi miétici / e lli gnofe a mmanu a ll’Angili ti Ddiu” (“La casa sia affidata ai Santi medici [affinché custodiscano la salute degli abitanti] e le zolle agli Angeli di Dio [affinché non le abbiano a privare dell’acqua]”). Un buttare in avanti le mani nel timore che il bel tempo, una volta instauratosi, non avesse più a finire, in questo caso confermando lo sgradito detto:

Ci l’Angilu no ssi mmoddhra l’ale

no cchiòe fenca a Nnatale.

Se il 2 ottobre l’Angelo non si bagnerà le ali / non pioverà fino a Natale.

 

Previsione preoccupante per l’andamento agricolo, essendo ottobre e novembre gli antonomastici mesi delle piogge, periodo che i contadini, vigili traduttori delle necessità della campagna, definivano ti mpurpamiéntu (di rimpolpamento [nutritizio]), poeticamente immaginando la terra nello stadio della primissima infanzia, quando unico compito – e spettanza – è quello di dormire e succhiare. Dal canto loro avevano provveduto ad assicurare questo nutrimento, spargendo a larghe manate il letame curato nelle concimaie, ma affinché lo stesso penetrasse ingrassando le zolle e raggiungendo le radici delle piante, occorreva la collaborazione delle nuvole, ovverosia l’azione dissolvente della pioggia, in assenza della quale il processo rigenerativo non sarebbe avvenuto, mettendo in serio dubbio la sperata produttività:

Fiàcca nnata si para nnanti

ci ti tutti li Santi

la nuégghia no cchiànge

e lla gnofa no rrufa!…

Cattiva annata si prospetta / se arrivata la festività di Ognissanti / la nuvola non piange / e la zolla non tracanna!…

Luigi Bechi, Raccolta delle olive

Situata com’era il I° di novembre, proprio al centro di quello che veniva ritenuto il periodo delle piogge, la festa di Ognissanti si poneva a data di resoconto della situazione, diciamo pure di verifica dell’ansia insorta un mese prima, cioè quando, ricorrendo la festa degli Angeli custodi, si era paventata la iattura di un asciutto protratto sino a Natale. Ormai non si era più nell’ambito delle ipotesi, bensì dei riscontri oggettivi, al di là dei quali c’erano solo urgenze, venendo inesorabilmente a restringersi il tempo giudicato utile all’impinguamento idrico della campagna. La ricorrenza di San Martino (11 novembre) era vicina e per quella data ogni acquiescenza nell’attesa si intendeva bandita, letteralmente cancellata dal montare di una fretta tradotta in perentorietà di affermazione:

Ti Santu Martinu

la gnofa s’à ttaccàre a lla menna ti la nuégghia

comu lu mbriàcu a lla entre ti la otte.

 

Di San Martino / la zolla deve attaccarsi alla mammella della nuvola / come l’ubriaco si attacca al ventre della botte.

 

     Considerando come questo era l’ultimo dei detti affermanti la necessità della pioggia e senza trascurarne il senso di voluttuosa imbibizione – già espresso nel detto riguardante la ricorrenza di Ognissanti e perciò piuttosto esasperante nella rimarcatura -, vien fatto di pensare che i contadini, nella scelta della data e  più che altro mediante la metafora comparativa terra-ubriaco, intendessero – sia pure in modo indiretto – prefigurare i termini di quella che, nella loro visuale, doveva essere la svolta meteorologica.

Decretando l’immancabilità della pioggia per l’11 novembre, in sostanza concedevano parecchio spazio al pacifico susseguirsi delle precipitazioni, ma nell’istintiva rimonta dell’atavica diffidenza prudentemente cercavano di segnarne  la cessazione ricorrendo, appunto, alla comparazione terra-ubriaco: se da una parte l’ubriachezza relazionava l’avidità del bere, per cui ne usciva esclusa l’immagine limitativa del bicchiere – controfigura dell’isolata pioggerellina -, dall’altra, proprio in virtù dell’ingordo tracannare, scattavano i limiti dell’assorbimento: continuando a bere, l’ubriaco rischiava di vomitare, così la terra, nell’esagerato intridersi, si sarebbe impantanata.

Una deduzione che potrebbe apparire frutto di arzigogolamento, se ad assolvere ogni dubbio di arbitraria interpretazione non concorresse il successivo detto imperniato sul 30 novembre, ricorrenza di S. Andrea Apostolo:

Pi’ Ssantu Ndrea ti li corde

tinne croce fatta;

ca ci nno rria jùtu ti limòne

nni tocca lu maru ti lu fele.

Il giorno di Sant’Andrea delle corde[2] / devi dire “Sia croce fatta [punto e basta]”; / perché se non viene in aiuto il limone [fermo della pioggia] / ci toccherà l’amaro del fiele [vomito, cioè tanta pioggia d’averla a nausea].

 

Ora, premettendo come questi detti, che a noi possono apparire isolati, in realtà si ponevano a tasselli di un mosaico unico, per cui, nascendo concatenati nella significazione, l’uno si prestava a complementarità dell’altro, va sottolineato che quest’ultimo riguardante S. Andrea non aveva esclusiva applicazione agricolo-meteorologica, essendo ampiamente sfruttato dai cantinieri allorché, per una certa etica professionale, si vedevano costretti a rifiutare la mescita agli ubriachi che palesemente non erano più in grado di reggere altro vino. Esortazione-imposizione che accompagnavano appunto con l’offerta di un limone (ne tenevano sempre un cesto pieno sul banco), le cui proprietà antiemetiche e astringenti venivano a rappresentare sia il rimedio pratico, sia la scansione simbolica del punto e basta.

Detto questo, al lettore risulterà chiara – e soprattutto giustificata – l’interpretazione fornita circa il ricorso alla comparazione terra-ubriaco; tanto più se riuscirà a convincersi che i simbolismi popolari – spesso esposti in accozzaglia – non erano riducibili a semplice funzione connotativa, ma erano invece condizioni della decifrabilità stessa dell’esposto, in quanto metro delle effettive denotazioni psicologiche. Un eleggere l’immagine a mezzo di svisceramento della tensione interna, e che, per quanto riguardava il 30 novembre, denunciava un vero e proprio subbuglio negli animi, venendo di lì a due giorni a scattare la ricorrenza di S. Bibiana, giornata pericolosa ai fini meteorologici, gravata com’era dalla scoraggiante affermazione:

Ci chiòe ti Santa Bbibbiana

quarànta sciùrni e nna simàna.

Se piove il giorno di S. Bibiana / pioverà per quaranta giorni e una settimana.

 

     Se in ottobre e novembre l’acqua veniva invocata, compiacentemente  tollerandone anche l’eccesso, con l’attestarsi di dicembre si reclamava un tassativo ritorno del sereno, nel timore che le granaglie già seminate avessero, per il troppo ammollo, a marcire e ponendosi la fretta di iniziare la raccolta delle olive, per la quale occorreva poter contare su un terreno agibile al via-vai dei passi. Ansia che, pur quando veniva brillantemente superato lo scoglio di S. Bibiana, non  si acquietava, tant’è che il 7 dicembre, vigilia dell’Immacolata, ci si impegnava a dire e ridire “Ti la Mmaculàta / l’acqua serve sulu pi lli pucce” (“Il giorno dell’Immacolata / l’acqua serve solo per fare le pagnottelle con le olive”), enucleando, nella laconicità della frase, e la tangenza del rifiuto, e la blandizie devozionale.

Essendo le pucce assurte a emblema del digiuno vigiliare, nominandole si faceva presente alla Madonna la pia disponibilità alla penitenza, implicitamente chiedendole, a contropartita, di appoggiare il rifiuto dell’acqua, peraltro espresso in una forma che oseremmo definire elegante, cioè basandolo su un simbolo privilegiato e facendolo nascere per gioco di antitesi: nel dichiarare l’acqua necessaria solo alla produzione delle pucce, ci si riferiva a quella occorrente per sciogliere il lievito e impastare, operazione per la quale si adoperava solo acqua piovana, essendo quella sorgiva di scarso sollecito alla fermentazione; nel momento però che si tirava in campo la panificazione, automaticamente si entrava nell’aura di quelli che erano i rituali domestici, sicché l’immagine mentale che ne conseguiva escludeva l’acqua piovana come contemporaneità di effetto-pioggia, focalizzata com’era sulla madre di famiglia che, scoperchiando la cisterna – sua o della vicina di casa -, religiosamente vi attingeva ripetendo ad alta voce una delle tante antiche formule di benedizione scrupolosamente trasmesse da madre a figlia. Tirando le somme e tenendo presente che in quel periodo le cisterne erano già colme, si può affermare che nel dire “L’acqua serve solo per le pucce” i contadini intendevano precisare: “La pioggia non serve affatto”.

Dal diplomatico rifiuto all’aperta provocazione il passo era breve; sette giorni appena, quelli appunto che intercorrevano fra la vigilia dell’Immacolata e la ricorrenza di S. Lucia (13 dicembre), al cui approssimarsi i contadini non si peritavano di commentare “Santa Lucia éte pisciacchiàra!…” (“S. Lucia è pisciona!…”), furbamente sperando che la santa, risentita per così irrispettoso epiteto, si impegnasse a smentirlo tenendo lontana la pioggia.

Azzardo curioso nel suo farsi chiave di convincimento attraverso l’offesa, ma non certo unico nella proposizione, poiché se ne trovava copia pressoché conforme il 16 di luglio, quando la Madonna del Carmine veniva definita “La Madonna latra ca pìzzica la ua” (“La Madonna ladra che ruba l’uva”), nell’ingenuo convincimento, appunto, di indurla a moderare i raggi solari che, battendo sui chicchi d’uva ancora troppo teneri, ne provocavano la bruciatura con ovvia decurtazione del raccolto.

E’ chiaro che, pur se anomali nella formulazione, tali detti nascevano per così dire comprovati, traendo origine dal riscontro oggettivo di quelle che erano le climatiche stagionali: se la Madonna del Carmine diventava “ladra”, era perché, essendo piena estate, bastava una giornata di sole più cocente a danneggiare i chicchi in gonfiatura; così come con  S. Lucia, alla quale si dava della “pisciona” perché piscione poteva essere il tardo autunno, spesso caratterizzato da uno snervante rincorrersi di pioggerelle che, si sapeva, erano di preludio a quelle più compatte dell’inverno ormai alle porte.

L’accanimento con il quale i contadini perseguivano lo stralcio di sereno era dovuto in  buona parte a questa consapevolezza, diciamo pure paura dei mesi a venire, a moderare la quale altro non rimaneva che aggrapparsi alla consolatoria previsione scandita a chiusura della tabella calendariale:

Ci uéi bbegna nna bbona nnata

Natàle ssuttu e Pasca mmuddhràta.

Per avere una buona annata / Natale asciutto e Pasqua sotto la pioggia.

Vergine Immacolata nella cappella della “Casa dei Poeti” a Copertino. Per gentile concessione di Nino Pensabene

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[1] Essendo la festa di S. Giuseppe da Copertino (16-18 settembre) frequentatissima da pellegrini che giungevano da tutto il Salento, gli abitanti del luogo, per un senso di ospitalità, l’avevano soprannominata “Festa ti li furastiéri”. Di contrasto, il 19, giornata ritenuta di ponte fra la stanchezza delle celebrazioni e la ripresa della normale attività lavorativa, era festa tutta per loro; festa ti li paisàni, appunto, durante la quale potevano, senza la confusione dei giorni precedenti, fermarsi con calma alle bancarelle superstiti, comprare a minor prezzo, e a sera, sia pure a luminaria pressoché spenta, assistere tranquillamente all’esibizione concertistica di una delle bande rimasta in paese esclusivamente per loro.

[2] Detto “delle corde” per agevolarne la visualizzazione iconografica che lo presentava su una croce decussata, oltre che confitto, legato con più giri di grosse funi.

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Da “TRE SANTI E UNA CAMPAGNA”, Culti Magico-Religiosi nel Salento fine Ottocento, con la collaborazione di Nino Pensabene, Laterza, Bari 1994, pagg. 359-373

Aradeo. La notte de li lazzareni

 

 

di Alessio Palumbo

 

Circa quindici anni fa, ad Aradeo, la tradizione del Santu Lazzaru era ormai data per morente. Una sola famiglia continuava a perpetuarla, portando le note e le voci della canto quaresimale nelle case di amici e parenti.

Avevo poco più di dieci anni e da non molto avevo preso a suonare la fisarmonica. Questo scatenò l’iniziativa di mio zio: perché non formare un gruppo per il Santu Lazzaru? Ci volle più tempo a dirlo che a farlo. La canzone è assai semplice, pienamente alla portata di un fisarmonicista alle prime armi. Come giustamente la definisce Giovanna Falco è una “lunga cantilena” con due strofe che si alternano. Dopo un paio di prove si era pronti.  Ed ecco come si svolgeva (e credo si svolga ancora) la notte dei lazzareni.

Intorno alle dieci ci si riuniva per l’ultima prova. Terminata questa e concordato il giro delle case, si usciva intorno alla mezzanotte. Mio padre e mio zio, le prime voci del gruppo, usavano preparare la gola mangiando pane, sarde e ricotta

Oppio e oppiacei nella tradizione popolare di Terra d’Otranto

  
Jenny Lind in “La Sonnambula”

 

LA CIVILTA’ CONTADINA NEL SALENTO FINE OTTOCENTO

IL SONNAMBULISMO E TUTTE LE FORME LINGUISTICHE

INERENTI L’USO DELL’OPPIO E DEGLI EFFETTI OPPIACEI

LA PAPARINA (LA PAPAVERINA)

 

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

 

(…) Non appena il sonnambulo  – impressionante nell’atonia dei suoi occhi sbarrati – sgusciava fuori dal letto come risucchiato dall’urgenza di compiere un’azione – peraltro imprevedibile in quanto determinata da interferenze oniriche -, un familiare, o persona amica appositamente rimasta a vegliarlo, si metteva sui suoi passi, attento a sincronizzarsi nei tempi di andatura al fine di mantenere una certa distanza cautelare: per un’improvvisa inversione di marcia, il sonnambulo non si sarebbe così scontrato col suo pedinatore, evitando quel risveglio improvviso i cui effetti si temeva fossero letali. Seguendolo, era infatti di regola agire con la massima delicatezza, tenendo presente che più di una volta occorreva arginarlo in azioni rese pericolose dal suo stato di non lucidità: poteva mettersi a tirare acqua dal pozzo, arrampicarsi su un albero, salire su una grondaia, camminare sull’estremo ciglio di un fosso, o inoltrarsi in un campo non suo e venire aggredito da qualche cane da guardia.

Per fortuna, se il contatto fisico – involontario o voluto che fosse – creava dei timori, nessuna preoccupazione sussisteva per ciò che riguardava rumori, voci, grida, sicché la persona che lo seguiva poteva liberamente parlare a voce alta, in tal modo prendendo due piccioni con una fava: da una parte ciò gli consentiva di svolgere l’azione terapeutica, che – come già accennato – consisteva in una reiterazione di messaggi, dall’altra, proprio in virtù di questo suo alto e continuo vociare, dava legalità all’inconsueto incedere notturno, comunicando in tempo a eventuali intercettatori che non si trattava di un malintenzionato ma solo di nnu sunnàmbulu a ppassìu (un sonnambulo a passeggio). Nessuno infatti avrebbe  mai potuto malignare udendo l’avvitarsi di quel monologo, inequivocabile peraltro anche a considerevole distanza per via della particolare cadenza: un litaniare lento nella pronuncia, ma forte nel tono e coreograficamente sostenuto dal costante tendere dei palmi verso la nuca del malato, gesto se non di vera e propria irradiazione, quanto meno di convogliamento della volontà.

Va da sé che la volontà era quella di riportare il sonnambulo nel suo letto, in pari tempo convincendolo a non ritentare l’esperienza di quell’assurdo deambulare, per cui, nel chiaro intento di forzarne la sfera psichica, alle frasi si dava misura lapidaria, forgiandole in termini di confronto fra ordine e disordine e offrendole come chiave di rientro nella normalità: “Spranga li farcùni e ttorna a llu chiasciòne prima ca lu castariéddhru si nni ccorge.” (“Chiudi gli occhi e ritorna nel lenzuolo prima che il gufo se ne accorga.”); “No ss’à ddurmire tisi, s’à ddurmire stisi.” (“Non si deve dormire in piedi, si deve dormire stesi.”); “Lu sciùrnu a mmiénzu all’erva, ma la notte intra,a llu liéttu.” (“Di giorno fra l’erba, ma la notte nel letto.”); “Uécchi piérti a llu sole li bbinitìce  Ddiu; uécchi piérti ti notte li rranfa la cuccuàscia.” (“Occhi aperti di giorno li benedice Dio; occhi  aperti di notte per sonnambulismo li graffia la civetta.”).

A questi messaggi, che il tramando orale definiva “palòre ti cugnu” (“Parole cardine”), spesso venivano a sommarsi “Li palòre scange” (“Le parole non regolamentari”), frasi fantasiosamente improntate da quanti, trovandosi per caso a  incrociare il patetico passìu e forse curiosi di vedere come andavano a finire le cose, facevano gruppo alle spalle del sonnambulo.

Cchiù mmànure sprùanu l’aulìe / cchiù mprima  si àe a llu trappìtu.” (“Più sono le mani che brucano le olive / più presto si va al trappeto [prima si ha l’olio].”), dicevano questi avventizi a giustificare la loro intromissione, analogicamente facendola valere come provvidenziale rafforzamento dell’azione terapeutica e quindi capace di determinare un più rapido “ssugghimiéntu ti nnùbbiu”.

     Questo identificare la guarigione del sonnambulo in uno scioglimento da nùbbiu (annebbiamento) – la cui valenza semantica era specificatamente volta a indicare l’effetto oppiaceo – svela un’indubbia trasposizione di segno nella logica, non essendo accettata, neppure a livello di diagnosi contadina, un’oggettiva correlazione fra stato sonnambolico e azione narcotica. Il perché dell’improprio accostamento va quindi cercato nella sfera delle trascrizioni associative, innestandosi in quella particolare dialettica mentale le cui coniugazioni raramente sottostavano alla legge dei rilievi matematici, interessate com’erano a cogliere i riflessi di ipotetiche derivanze e interferenze.

A tale scopo, occorre necessariamente rifarsi al parlato quotidiano, cioè vedere quali erano in pratica le occasioni di riporto all’effetto oppiaceo e se e quanto l’applicazione linguistica variasse nell’eventuale passaggio dal dichiarato al sottinteso.

L’oppio, per il suo essere prodotto dei campi e quindi più o meno alla portata di tutti, si può dire fosse il ritrovato più comune della farmacopea contadina, per cui, sempre in riferimento terapeutico, non si aveva nessuna remora nell’avallarne e caldeggiarne l’uso.

papavero bianco (“la papagna”) fotografato nel Salento da Ivan Lazzari

Ci uéi cu ddorma, tocca cu llu nnubbi.” (“Se vuoi che si addormenti gli devi propinare un po’ di oppio sciolto nel latte.”), si diceva a una giovane madre alle prese con un bambino restio ad addormentarsi; e se qualcuno lamentava dei dolori – fossero reumatici o mestruali – non ci si peritava di consigliare: “Nnùbbiate cu lla paparìna, accussì no ssuéffri.” (“Stordisciti con uno sciroppo a base di oppio, così non soffri.”).

  

Per quanto diffusa, la paparìna (papavero bianco, nel Salento quasi sempre rosaceo) non era erva ti scapìstru (erba priva di capestro, cioè proliferante) come le famose scàttule (papaveri rossi), per cui, nel suo nascere a ceppi isolati, richiamava l’attenzione dei bambini: “Stàtibbe alla larga ti la paparìna, no nci ficcati lu nasu, ca sinnò bbi nnùbbia.” (“Tenetevi alla lontana dalla corolla del papavero, non avvicinate il naso, altrimenti vi ottunde, vi addormenta.”).

In verità, quando al culmine della fioritura le capsule si gonfiavano accusando la presenza dell’oppio, anche gli adulti giravano al largo per evitarne le esalazioni; né mancava chi – marito geloso di una donna giovane e calda – le guardava in tralice, temendo che la moglie avesse poi a servirsene per narcotizzarlo, in tal modo assicurandosi libertà d’incontri durante la notte. Paura dettata dal comportamento di donne leggere, i cui tradimenti – a quanto si raccontava – erano stati agevolati dalla cummàre paparìna, ca sobbra’a lli corne nci mintìa l’ammàce ssicurànnu a lla mugghére nfitéle nnu marìtu gnorri e scuscitàtu (dalla comare papaverina, che copriva le corna con la bambagia, assicurando così alla moglie infedele un marito ignaro e tranquillo). Episodi che, per quanto sporadici, facevano testo nel ristretto ambiente paesano, malignamente alimentando quel linguaggio ironico-allusivo sempre gradito alle bocche maschili: vedendo un contadino presentarsi al lavoro mezzo addormentato o comunque tardo nei movimenti, i compagni non si lasciavano sfuggire l’occasione di chiedergli fra il faceto e il preoccupato: “Cce tt’à ffattu mugghérita stanotte, t’à nnubbiàtu?” (“Che ti ha fatto tua moglie questa notte, ti ha dato oppio?”).

papavero bianco (“la papagna”) fotografato nel Salento da Ivan Lazzari

E senza dare tempo alla risposta seguiva il collettivo nonché fraterno consiglio: “Anna sotta’a llu saccone, frate mia, e ci ttruéi scusa paparìna, scàngiala cu mmiéru ti putéa, ca nnu lliòne ale cchiùi ti nnu crapòne!” (“Cerca sotto il materasso, fratello mio, e se vi trovi dell’oppio, cambialo [commercialo] con vino di bettola, ché un leone [ubriaco  prepotente] vale più di un caprone [cornuto]!”).

Santa Apollonia in immaginetta devozionale

In realtà, cedendo alla lusinga  del quarto di vino da consumare in allegra compagnia, i contadini eleggevano le bettole a loro privilegiate banche di cambio, incoraggiati dalla bravura che gli osti avevano nel fare incetta di tutto. In tale quadro speculativo, un particolare interesse lo suscitava proprio l’oppio, vantaggiosamente ricollocabile presso gli speziali o i barbieri, usi questi ultimi ad adoperarlo come analgesico durante le loro prestazioni odontoiatriche. All’epoca, infatti, per calmare un forte mal di denti non si aveva altra alternativa se non quella di ricorrere ai buoni uffici o dei barbieri o degli apicultori, gli uni e gli altri esperti nel dare sollievo utilizzando quelli che il popolo definiva “mbàrsami scusi ti la criazziòne” (“lenimenti nascosti nella natura”).

     L’apicultore, condotto il paziente nei pressi di un’arnia, con destrezza catturava un’ape  in un bicchiere, sveltamente otturandone l’imboccatura con un’immaginetta di S. Apollonia la cui protezione contro il mal di denti era unanimemente riconosciuta.

Tàggiu scucchiàta la mégghiu apicéddhra…” (“Ti ho scelto la migliore ape…”), diceva correndo al rincaro del suo servigio, e opinando che più l’insetto si agitava, più veleno accumulava e quindi maggiore effetto aveva la puntura, aggiungeva: “Tàmule tiémpu cu ssi rràggia, ca cchiù si mbiléna mégghiu gghéte” (“Diamole il tempo d’invelenirsi, perché più s’invelenisce meglio è”). Solo quando vedeva l’insetto sbattere furiosamente contro il vetro e ne udiva il ronzare in forsennato crescendo si decideva a capovolgere il bicchiere sulla guancia dolorante, sfilando poi lentamente l’immaginetta e dando così all’ape la possibilità di conficcare il suo pungiglione.

Per l’azione velenifera e più ancora per il turgore che ne conseguiva, il poveretto registrava un rapido scemare del dolore, sicché se ne poteva  tornare subito al lavoro senza dover neppure attendere all’estrazione del pungiglione: trattandosi di ape mellifera, usa a posarsi soltanto sui fiori, non sussisteva rischio di infezione. Se preoccupazione sopravanzava, era solo quella di risarcire all’allevatore la perdita dell’ape (privato del pungiglione l’insetto era destinato a morire), un danno sulla cui entità non c’era da obiettare, soprattutto se si era in tempo di fioritura quando a ogne bbulu criscìa nna stiddhra ti mele (a ogni volo la produzione del miele aumentava di una stilla).

Meno laborioso e quasi più aristocratico il rimedio offerto dai barbieri, come s’è detto basato sull’oppio. “Tiémpu cu ssi mpìccia lu craòne e llu miràculu ete fattu!” (“Il tempo occorrente per accendere un carbone e il miracolo è bell’e fatto!”), promettevano a ogni avanzare di richiesta; e desiderosi di far colpo sulla semplicità contadina ostentavano mosse solenni nel mettere in campo il prezioso oggetto con il quale compivano il vantato ‘miracolo’: un fornello quadrato, quasi una scatola metallica, che voleva essere una pipa da terra, popolarmente soprannominata argiòla” (“gabbia”) e per associazione di meccanismo nonché di uso riportabile ai narghilé orientali.

Posta all’interno la dose dell’oppio, stabilito il calore necessario e inserita nell’apposito buco una rigida e lunga cannuccia, invitavano il paziente ad aspirare il fumo lentamente, raccomandandogli di trattenerlo il più a lungo possibile nel cavo orale affinché il dente malato avesse tempo cu ssi nnùbbia toce toce (di assorbire l’oppio dolcemente).

Pur se ammirata come oggetto di non comune possesso e celebrata in quanto mezzo risolutore di uno stato di sofferenza al quale prima o poi tutti si era costretti a soggiacere (senza cugni nasci, senza cugni muéri [senza denti si nasce, senza denti si muore]), la cargiòla  veniva guardata con un certo sospetto dal popolo, non ignaro che della stessa se ne servivano quanti usavano l’oppio, privatamente, a fine voluttuario; casi rarissimi, spesso semplicemente sospettati o comunque accertabili solo a distanza di tempo, cioè quando nell’assuefazione e conseguente rincaro delle dosi l’oppiomane ne dava conferma con il suo comportamento: delle azioni che compiva in stato di nnùbbiu non serbava memoria.     “Mancu ci gghete nnu sunnàmbulu! » (« Neanche fosse un sonnambulo a come si comporta!”) commentavano alle spalle quanti ne venivano a contatto, e fra questi non mancava chi, passando dal rilievo alla sentenza, impietosamente concludeva: “Tiscrazziàtu cinca lu nnùbbiu si lu cerca ti sulu!” (“E’un essere spregevole chi l’annebbiamento se lo procura volontariamente, cioè per vizio!”). Due frasi che pur se casuali nella proposizione e apparentemente disancorate fra di loro, si offrono a chiave d’interpretazione della definizione “Ssugghimiéntu ti nnùbbiu”, citata a proposito dell’azione terapeutica svolta a favore del sonnambulo.

Se la prima, situando i termini di confronto nell’azzeramento della memoria, fa strada alla ragione dell’improprio accostamento fra sonnambulismo ed effetto oppiaceo – qui focalizzato nella caratteristica di vizio -,  la seconda, calcando nel segno della riprovazione, lascia chiaramente intendere quanto lo stesso effetto oppiaceo – sempre in versione distruttiva – potesse avere origine dolosa. E poiché nùbbiu sostanzialmente stava per sonno indotto, nel momento che se ne parlava come di un negativo interferente, implicitamente lo si identificava in uno stato ipnotico malevolmente provocato da terzi, sia pure in modo indiretto, ovverosia tramite un’azione di affatturamento.

Proprio per questo suo battere sul versante della comminazione esoterica, punto nevralgico delle paure popolari, l’assunto veniva a porsi come certificazione d’immanenza nel vissuto quotidiano, per cui – sempre a livello di agito verbale – lo ritroviamo diluito in più superficiali applicazioni, fatto causa di un cattivo comportamento o decifrazione di un particolare stato d’animo. Tanto per fare un esempio, se una madre vedeva il figlio giovane farsi di colpo svagato e come disancorato dalla realtà, non esitava a dire “Quarche puttàna ti fémmina mi ll’à nnubbiàtu” (“Qualche malafemmina me lo ha rimbambito”), sposando così l’azione pratica del dare oppio a quella meno documentabile ma più temibile del plagio mentale.

Del resto per il popolo fra plagio, sortilegio e maleficio non correva acqua, l’uno innestandosi nell’altro in forza di un’unica matrice che si voleva demonica e perciò responsabile di tutto quanto  poteva capitare di sgradito, dannoso o sia pure semplicemente indecifrabile.

Da “TRE SANTI E UNA CAMPAGNA, Culti magico-religiosi nel Salento fine Ottocento”, con  la collaborazione di Nino Pensabene, Laterza, Bari, 1994, pagg. 222-227

Si conclude la saga di Cretì. Ippazziantonio si accasò…

Fidanzata e sposa

di Giorgio Cretì

Alla fine, poi, Ippazziantonio si accasò e con una ragazza alla quale era arrivato da solo, direttamente, senza alcuna intermediaria o ruffiana.

Era ancora il tempo delle sanzioni economiche all’Italia, dell’autarchia fascista e della raccolta di derrate alimentari gestite dallo Stato, nonchè dell’occultamento  di ciò che veniva sottratto all’ammasso. Doveva essere dichiarato qualsiasi raccolto, anche se si trattava di pochi tomoli, poi le autorità decidevano qual era il fabbisogno del contadino-produttore.

Tabacco al sole (ph Giorgio Cretì)

La gente nascondeva di tutto, però: grano, legumi, olio e soprattutto tabacco, nei posti più impensati ed a poco servivano le ispezioni, che, per la verità, non erano molto fiscali. Si coltivava il tabacco ma i fumatori, per mantenere il vizio, non potevano adoperarlo e dovevano comprare quello del Monopolio. Qualcuno per nascondere l’olio aveva escogitato un sistema molto originale: scavava una buca nel terreno, vi sistemava, per esempio, una giara piena d’olio e poi copriva con una lastra di pietra e con la terra; quindi, piantava le fragole o il prezzemolo che innaffiava regolarmente. I muri a secco delle strade campestri nascondevano il tabacco migliore che i contadini fumavano durante le soste dal lavoro. I caini della Finanza per sorprenderli con il contrabbando, a volte dovevano rimanere acquattati per ore e per mezze giornate per poter appioppare loro una contravvenzione.

Dal mese delle messi alla Madonna del Rosario quasi tutti gli abitanti dei paesi si trasferivano in campagna e dormivano anche in ricoveri di fortuna; principalmente per la coltura del  tabacco e poi per gli ortaggi in genere, i pomodori e la raccolta dei fichi da seccare per i mesi invernali quando si tornava ad abitare in paese.

Dopo la disfatta di Cerfignano, dove aveva rischiato di rimetterci le cuoia, Ippaziantonio aveva preso a frequentare la Madonna di Costantinopoli, una

Il caso dei calvari nell’area Jonico-Salentina (I parte)

A rischio il patrimonio nazionale dei beni architettonici “minori”

Il caso dei calvari nell’area Jonico-Salentina

(I parte)

di  Francesca Talò

Nei centri originari delle nostre città, edifici comuni ed edifici artistici coesistono, variamente collegati tra loro, a costruire quel cosiddetto ambiente che ne forma la caratteristica fisionomia  (Carlo Ceschi).

Calvario a Montesano Salentino (ph Stefano Cortese)

 

L’invito a presentare gli esiti della laboriosa ricerca di Bruno Perretti sui calvari di Puglia – certamente rara, per quel che attiene l’argomento di studio – mi consente una riflessione, sia pure amara, sul destino senza futuro che sembra incombere su tanta parte di quello straordinario patrimonio dei cosiddetti beni culturali “minori[1]”, custodi di importanti tasselli di storia municipale, che in essi si riconosce e si identifica e di cui riccamente si adorna il nostro Paese. In sostanza, queste testimonianze dal tono dimesso, rappresentano riferimenti storici e artistici di un vissuto comunitario che, ancor più dei grandi e noti complessi monumentali, esprimono la specificità di un territorio, partecipando significativamente alla sua configurazione topografica e urbanistica e la cui perdita è anche perdita di memoria delle proprie radici culturali. Eppure, tale patrimonio, immeritatamente, sembra soffrire di una mancanza di attenzione su più fronti: da parte delle Soprintendenze, perché non soggetto alle norme del vincolo, da parte delle pubbliche amministrazioni, poiché ben altri sono gli interventi che urgono sul territorio urbano e, non ultimo, da parte delle singole comunità, oggi perse in altri modelli culturali, certamente non orientati a far recepire – attraverso la presa di coscienza di simili testimonianze materiali, aventi “valore di civiltà”[2] – una più corretta e consapevole gestione della propria municipalità e delle sue potenzialità.

Nello specifico, soffrono ancor più quei modesti (solo per mero valore materiale) monumenti dei centri storici, abbandonati all’edacia del tempo e all’incuria dell’uomo; e parlo di quei preziosi segni connotativi di una specifica

Origine e discendenza dei carmati ti Santu Pàulu

ELSHEIMER ADAM, S. Paolo a Malta

 

RELIGIONE E MAGIA NELLA CIVILTA’ CONTADINA DI FINE OTTOCENTO

ORIGINE E DISCENDENZA DEI
CARMATI TI SANTU PAULU

 Necessaria precisazione linguistica per evitare che, alla luce del nuovo dialetto, gli agguerriti carmàti ti Santu Pàulu vengano identificati non più come i fortunati discendenti di una famiglia magicamente dotata, bensì come persone ammansite da S. Paolo.

 di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

Negli Atti degli Apostoli, in riferimento al viaggio di S. Paolo da Gerusalemme a Roma, dopo la descrizione della tempesta nelle acque di Creta e il successivo naufragio, si legge:

“Una volta in salvo, venimmo a sapere che l’isola si chiamava Malta. Gli indigeni ci trattarono con rara umanità; ci accolsero tutti attorno a un gran fuoco, che avevano acceso perché era sopraggiunta la pioggia ed era freddo. Mentre Paolo raccoglieva un fascio di sarmenti e lo gettava sul fuoco, una vipera, risvegliata dal calore, lo morse a una mano. Al vedere la serpe pendergli dalla mano, gli indigeni dicevano tra loro: certamente costui è un assassino, se anche scampato dal mare, la Giustizia non lo lascia vivere. Ma egli scosse la serpe nel fuoco e non ne patì alcun male. Quella gente si aspettava di vederlo gonfiare e cadere morto sul colpo, ma dopo avere molto atteso senza vedere succedergli nulla di straordinario, cambiò parere e diceva che era un dio”.

Su questa succinta nota degli Atti, la fantasia popolare ci aveva ricamato sopra, e stando all’ampliata versione assunta come testo tradizionale, S. Paolo non aveva scosso il braccio e fatto cadere la vipera nel fuoco, bensì l’aveva afferrata delicatamente con due dita e dopo averla compassionevolmente rimproverata chiamandola “fìgghia spinturàta ti lu piccàtu” (“figlia sventurata del peccato”) le aveva ingiunto di fare il giro dell’isola, chiamando a raccolta tutte le vipere e facendole convenire in massa accanto al fuoco. Torcendosi in spire precipitose la vipera si era allontanata, per poi riapparire pochi minuti dopo seguita da centinaia e centinaia di vipere che si erano fermate a pochi metri dal santo sibilando la loro minacciosa presenza.

Issùte ti lu ‘nfiérnu parìanu
e llu ‘nfiérnu purtànu intra lla occa
mpéssime an core loru si ticìanu:
ilénu tinìmu, uai a ccinca nni tocca!

Uscite dall’inferno sembravano / e l’inferno portavano nella bocca / cattive in cuor loro si dicevano: / veleno teniamo, guai a chi ci tocca!

Ma S. Paolo era ben più potente di loro. Fra gli urli di terrore dei suoi compagni di naufragio si era avvicinato sin quasi a toccarle, e tracciando un segno di croce aveva loro imposto, nel nome di Dio, di avvicinarsi al rogo e sputare nelle fiamme il dente velenoso.

Miràculu ti Ddiu istu e ttuccàtu
la zzoca ti lu male s’ìa spizzàta,
lu tiàulu si nn’ìa sciùtu scunfunnàtu,
la facce ti li sierpi ja cangiàta.

No cchjùi ssassìne cu ll’uécchi ti la morte,
ma criatùre ti Ddiu senza piccàtu,
criatùre carmàte pi’ nna bbona sorte,
mmansùte comu àunu ‘mpena natu.

Miracolo di Dio visto e toccato / la corda del male s’era spezzata, / il diavolo se n’era andato confuso, / la faccia delle serpi era cambiata: // non più assassine con gli occhi della morte, / ma creature di Dio senza peccato, / creature incantate per una buona sorte, / ammansite come agnello appena nato.

Fatte appunto docili come agnelli, le vipere avevano obbedito: dopo avere strisciato in tondo ai piedi di S. Paolo per rendergli omaggio, a una a una si erano avvicinate al fuoco sputando denti e veleno. Commosso da tanta obbedienza, il santo le aveva benedette, e a simbolo delle stabilita alleanza

La tìpara cchiù rrossa ja zziccàta
tuttu cundùtu si l’ìa mpisa an cuéddhru
tànnule ssiéttu, bbona ncummitàta
la cota amm’occa, sistimàta a nniéddhru.

E cquannu poi pi’ mmare s’ìa ‘mbarcàtu
si ll’ìa purtàta a rretu, ca sapìa
quiddhru ca nn’ìa ffare, ja pinzàtu
pi cquale ràzzia ranne lli sirvìa.

La vipera più grossa aveva acchiappato / tutto compiaciuto se l’era appesa al collo / dandogli assetto, buona accomodata / la coda in bocca, sistemata ad anello. // E quando poi per mare si era imbarcato / se l’era portata dietro, perché sapeva / quello che ne doveva fare, aveva pensato / per quale grazia grande gli serviva.

Con la vipera attorcigliata al collo, S. Paolo era arrivato a Galatina, suscitando l’immediata ostilità degli abitanti, atterriti dalla poco rassicurante presenza della serpe. Pur essendo gente ospitale, pronta a fraternizzare con i forestieri, nessuno gli aveva rivolto la parola, anzi al suo passaggio se ne erano discostati precipitosamente, e tutte le volte che aveva fatto mossa di avvicinarsi a un uscio, questo gli era stato sbattuto sul muso.
Dopo aver percorso tutto il paese chiedendo invano la carità di un alloggio, sul calare della notte si era ritrovato in periferia, dove fra il diradarsi delle case s’incuneava il verde della campagna. Adocchiato un orto pieno di alberi, vi si era inoltrato, andandosi a rannicchiare sotta’a nn’àrvilu ti mbrufìcu (sotto un albero di caprifico) il cui fitto fogliame prometteva bbuénu ‘mbràcchiu a lla muttùra (buon riparo all’umido della notte).
A poca distanza dall’albero sorgeva una casa, nella cui muraglia s’inseriva un pozzo a due bocche: una prospiciente il caprifico per chi voleva attingere dall’esterno, e l’altra all’interno della casa per l’uso familiare. Sicché quando S. Paolo allo scoccare della mezzanotte si era messo a salmodiare, la sua voce, passando dalla bocca esterna del pozzo a quella interna, aveva svegliato gli abitanti, che allarmati erano corsi a spalancare l’uscio. Nel vedere con quanta fede quell’uomo pregava, si erano pentiti di non avere accolto la sua domanda di ospitalità e, superando ogni diffidenza e paura per la presenza della vipera, lo avevano voluto loro ospite per tutto il tempo che si era trattenuto a Galatina.
Grato per tanta carità, il santo aveva pensato di disobbligarsi, e poiché ranne era la ràzzia ca tinìa (grande era la grazia che teneva), prima di ripartire aveva operato tre miracoli. Per prima cosa aveva accarezzato i rami del caprifico, che da quel momento, alla produzione di profichi fòrniti, buoni solo per la caprificazione, aveva aggiunto una successiva maturazione di frutti commestibili; prodigio che, a quanto si raccontava, si era protratto per secoli e che, una volta seccato l’albero galatinese ed estinta la ‘progenie’ dei suoi polloni, sporadicamente e limitatamente a uno o due frutti per albero, e non del tutto commestibili, si riproponeva nelle campagne salentine. Un fenomeno botanico normalissimo, ma che naturalmente veniva attribuito alla benevolenza di S. Paolo, anzi a un rinnovarsi del miracolo, sicché il contadino che all’alba avvistava fra i rami di un caprifico un frutto edulo si sentiva in dovere di farsi il segno della croce e comunicare ai confinanti del campo: “Sta notte Santu Pàulu è bbinùtu acquai cu ppassìa e ss’à ffirmàtu sott’a llu mbrufìcu!” (“Questa notte S. Paolo è venuto qui a passeggiare e si è fermato sotto il caprifico!”).

dal libro di Brizio Montinaro “San Paolo dei serpenti”, Sellerio, Palermo 1996

Del secondo prodigio era stata protagonista la vipera: il santo, dopo averle raccomandato di moltiplicarsi, l’aveva buttata nel pozzo, dove, miracolo dei miracoli, anziché annegare si era trasformata in biscia acquatica. Da quel momento l’acqua del pozzo aveva assunto virtù particolari e chi, essendo morso da bestie velenose – serpi, tarantole, scorpioni – ne beveva nnu ursùlu curmu (un boccale colmo) vomitava subito il veleno ottenendo la guarigione. Dulcis in fundo, il santo aveva riunito tutti i componenti maschi della famiglia e “ll’ìa carmàti a nno ppatìre ilénu e a zzziccàre siérpi, sia iddhri ca lli fili ti li fili ti li fili”, cioè li aveva incantati trasmettendo loro il dono di essere invulnerabili al veleno e di potere catturare i serpenti, sia loro che i figli dei figli dei figli.

San Paolo
S. Paolo in un’antica stampa. Coll. priv. Nino Pensabene

 

Nasceva così la definizione “Carmàti ti Santu Pàulu”, che, pur se a volte sostituita da quella più sommaria di “Sampaulàri”, si intendeva la più ufficialeo quanto meno la più rivendicata dagli interessati, in quanto chiariva l’origine dei loro poteri. Se all’appellativo carmàti, che già di per sé li attestava iniziati magicamente, si aggiungeva il fatto che a trasmettere tali virtù soprannaturali era stato S. Paolo, la loro quotazione – è il caso di dirlo – saliva alle stelle, tenendo anche conto della misura quasi ontologica che il popolo dava alla parola carmàre, la cui valenza oggettiva era però sempre in stretto rapporto con la figura di chi carmàva, o per meglio dire con le qualità spirituali che questi possedeva.
E qui ci sia consentito di sottolineare che ci stiamo riferendo a una significazione inerente l’antico dialetto e la cui derivazione è da ricercare nell’altrettanto arcaico termine dialettale “carma” (carme), valevole qui per incanto, parola magica, influsso attuante una dotazione spirituale. Precisazione necessaria ora che il dialetto non ha più cittadinanza nel vissuto linguistico e ha perso la sua originaria identità. Anche là dove affiora è ormai memoria incerta, spesso e volentieri imbastardito sia nella costruzione che nella resa fonica; soprattutto nella significazione, giacché si tratta di una lingua nata e sviluppata per esprimere un contesto di vita a noi ora completamento estraneo: venendo meno la misura oggettiva di quel particolare codice di comportamenti, peraltro determinati da un complesso patrimonio psicologico, anche l’atto verbale risulta sradicato e quindi difficile a reperire nella sua accezione effettiva.
Fin troppo abituati alla sintesi, non riusciamo a possedere il dialetto nella sua peculiarità di sfumature, e ciò porta a una frettolosa omologazione di termini, spesso espunti da un’arbitraria traduzione dall’italiano.
In seguito allo spopolamento delle campagne, in margine a un processo di urbanizzazione vissuto come rottura dello stato di subalternità e quindi non esente da uno spirito di globale rinnegazione del passato, soprattutto a causa di un condizionamento mentale determinato dai mass media, il dialetto si è trovato, direttamente o indirettamente, sotto processo, quasi che dal suo perdurare dipendesse la scomoda patina di retrività e ignoranza. E poiché non si poteva di colpo cancellarlo, in quanto non si era ancora padroni dell’idioma nazionale, si è cercato via via di modificarlo, di ingentilirlo, col risultato di creare una parlata che è misero compromesso tra la storpiatura dell’italiano e la falsazione del dialetto. Imbastardimento che, come già detto, ha oltretutto implicato una falsazione di significati, in quanto le parole più arcaiche, ritenute per questo più rozze, sono state del tutto cancellate e alle altre, oltre alla plasmatura ammodernatrice, si è insistito a dare significazioni in linea con il nuovo contesto di vita nonché con i termini italiani che si è creduto ne fossero gli equivalenti.
Ciò è accaduto appunto con il vocabolo “carma”, completamente abbandonato per ciò che concerneva la sua originaria significazione e arbitrariamente riassunto come equivalente dialettale dell’italiano “calma”. Sicché oggi carmàtu lo si fa bellamente derivare dal verbo calmare, chiamato ad assolvere indifferenziatamente a tutti gli stati o le proposte di acquetamento, e dimenticando così che anticamente il vocabolo dialettale non veniva svilito in semplice convenzione onnivalente, ma posto nel discorso in misura di appropriazione circostanziale. Ne conseguiva una nomenclatura lessicale caratterizzata da un largo uso di sinonimi, a ognuno dei quali si dava una valenza specifica, ossia un’applicazione differenziata: per comunicare che un dolore di denti o reumatico in genere si era calmato si usava dire “Lu tulòre m’à llintàtu” (“Il dolore mi si è allentato”); ma se lo stato dolorifico riguardava la sfera digestiva si passava a una diversa formulazione: “Lu ngruppu s’à ssuétu” (“L’ingorgo si è sciolto”). Il calmarsi di un accesso febbrile veniva focalizzato con “La frèe m’à scisa” (“La febbre è scesa”), ma se a calmarsi era il vento si diceva “Lu jentu è ccalàtu” (“Il vento è calato”). E continuando in questa minuta frastagliatura di appropriazioni, la bonaccia era “mare cuietàtu” (“mare acquetato”), un giorno senza alito di vento “sciurnàta sota” (“giornata immobile”) e il calmarsi del freddo “aria ndurcinàta” (“aria addolcita”).
Oggi, nel processo evolutivo di cui dicevamo, si è dato un colpo di spugna alla molteplicità delle aggettivazioni, e nel seguire la lingua italiana, in “calmare” si è trovata la scorciatoia per addivenire a una polivalente significazione: se carmàtu si dice in rapporto al dolore, carmàtu vale anche per il vento, e carmàta è la febbre, carma la giornata e carmu il mare. E ciò avviene anche in sede di dialogo evocativo, poiché rivolgendosi a una persona agitata non le si dice più come anticamente “Cuiétate, cuiétate” (“Acquietati, acquietati”) o se l’agitazione era esclusivamente spirituale “No tti mbilinàre” (“Non ti avvelenare”), ma si adopera un generico “Statte carma, statte carma” (“Statti calma, statti calma”). “Statte carmu” (“Statti calmo”) lo si dice anche al ragazzino irrequieto al posto del tradizionale “Statte sotu” (“Statti immobile”), raccomandazione che là dove nasceva preventiva, cioè in vista di una visita da compiere o di una permanenza in chiesa, veniva sostituita da un altrettanto tassativo “Sisci mansu” (“Sii mansueto”). Allo stesso modo, per mettere in evidenza la posatezza di un ragazzo che aveva superato l’aggressività dell’età puberale o un periodo di nervosismo in genere, non si diceva “S’à ccarmàtu” (“Si è calmato”) ma “S’à mmansùtu “ (“Si è ammansito”).

San Paolo
S. Paolo Apostolo. Cartapesta del 1800 custodita in Galatina nella “cappeddhra ti li tarantate”

La contrapposizione tra mmansùtu e carmàtu, o più esattamente la sostanziale diversità di significato che anticamente si dava ai due vocaboli, la ritroviamo evidenziata nello stesso testo poetico riguardante la leggenda di S. Paolo, dove, proprio in uno degli stralci che abbiamo riportato, si puntualizza il processo di trasformazione delle vipere, scandito nella successione di due tempi, o per meglio dire chiarito nel suo andare dalla causa all’effetto. L’intervento del santo, in prima istanza, punta a rendere le vipere “criatùre carmàte pi’ nna bbona sorte”, ossia le incanta, le strega, e poiché ciò avviene “pi’ nna bbona sorte” è chiaro che non si intende alludere a un fenomeno transitorio, a una temporanea sospensione della naturale aggressività delle serpi, ma a una totale trasformazione valevole per tutta la vita e perciò implicante l’azione di un influsso magico, tanto potente da riuscire a svellerle dal loro primiero stato di “figghe spinturàte ti lu piccàtu”.
La successiva connotazione, che ci presenta vipere mmansùte comu àunu ‘mpena natu”, non può perciò essere intesa come elemento rafforzativo del precedente concetto – il che renderebbe equivalenti i vocaboli carmàte-mmansùte -, bensì come consequenziale effetto di un processo in sé e per sé già concluso e che non viene maggiorato ma solo confermato dal comportamento. Pur nella concatenazione verbale, che a prima vista sembra unificare la formulazione del pensiero, la separazione dei due campi è netta, e quello che è ragguaglio fisico, o materiale che dir si voglia, subentra ma non si confonde col preavvenuto influsso spirituale.
Ci rendiamo conto che parlare di influsso spirituale in rapporto a delle serpi è semplicemente assurdo, ma propria o impropria che sia la definizione, riteniamo sia l’unica adatta a esprimere fedelmente la specificità che il popolo dava al vocabolo carmàre. E per convincersene basta riaffidarsi a quell’insuperabile chiave di lettura che è il referente antropologico, ossia osservare a quale dinamica di applicazioni il vocabolo sottostava nell’azione verbale del quotidiano.
L’occasione più emergente e più vincolata all’uso era la cresima, un sacramento al quale il popolo attribuiva grande importanza, tanto da giungere a reclamarne l’amministrazione subito dopo il battesimo, soprattutto quando le condizioni fisiche del neonato non lasciavano troppo sperare nella sua sopravvivenza.
In quel tempo, l’alto indice di mortalità infantile era realtà scottante, e ciò determinava non solo un’estrema sollecitudine da parte della Chiesa nell’amministrare i sacramenti, ma anche un senso di scrupolosa responsabilità nei genitori, che ritenevano loro stretto dovere provvedere tempestivamente e nella misura più larga possibile alla sorte eterna dei figli.
Il conferimento del battesimo si poneva come l’atto più urgente da compiere, e perciò quasi mai procrastinato oltre gli otto giorni dalla nascita; ma pur se vissuto con senso liberatorio, in quanto ipso facto assicurava la salvezza, questo non acquetava del tutto l’ansia di arricchire al massimo l’anima del figlio. l’aldilà beatifico, il popolo lo concepiva in una misura oseremmo dire dantesca, immaginando un paradiso sistemato a piani, la cui raggiungibilità veniva determinata dalle credenziali che l’anima poteva esibire al suo arrivo. Per gli infanti, queste si concretizzavano, oltre che nella loro innocenza, nel numero dei sacramenti ricevuti: ne conseguiva che un neonato semplicemente battezzato non avrebbe mai goduto quanto uno attisciàtu e ccrisimàtu.
A questo accaparramento di esclusivo ordine spirituale riguardante l’aldilà, faceva riscontro un’altrettanta premura di ordine temporale, sempre collegata al desiderio di un arricchimento interiore del cresimando ma che trasbordava dalle linee portanti della fede – più che altro si discostava da quelle che erano le intenzionalità ecclesiali nel conferire il sacramento.
Mentre la Chiesa basava il rituale sull’invocazione dello Spirito Santo e affidava l’opera trasformatrice unicamente all’azione della grazia santificante, il popolo dava molta importanza anche all’imposizione delle mani da parte dei padrini, visti non come li voleva la Chiesa in veste di garanti della fede, ma come ministranti chiamati a dispensare virtù a stretto appannaggio terreno. Se la mano consacrata del vescovo propiziava le benedizioni divine richiamando grazie “pi’ ricchjmiéntu ti l’ànima e ccutimiéntu ti l’eternitàte” (“per arricchimento dell’anima e godimento nell’eternità”), la mano del padrino catalizzava doni “pi’ ndutazziòne ti sta ita ti munnu a ddonca l’ànima camina cu lli piéti ti lu cuérpu, e ti la furtùna no nni pote fare a mmenu” (“per dotazione di questa vita nel mondo, dove l’anima cammina con i piedi del corpo, e della fortuna non può farne a meno”).

San Paolo
S. Paolo in un’antica stampa. Coll. priv. Nino Pensabene

Religione e magia, come sempre, andavano a braccetto: all’esuberanza di fede, riscontrata nel desiderio dei sacramenti per il completamento dell’essere cristiani e in virtù di un interesse escatologico, si innestava l’inconfessato riemergere di pregnanze arcaiche, che sia pure in termini sfumati si ritrovavano in parallelismo con il rituale della cresima, imperniata sull’imposizione delle mani, gesto che per se stesso riportava ad ancestrali riti di iniziazione o trasmissione di poteri. Di qui la premura di scegliere come padrino o madrina di cresima una persona ricca di doti spirituali, virtù che proprio attraverso l’imposizione delle mani avrebbe trasmesso al figlioccio (o figlioccia), riplasmandolo a sua somiglianza.
Era ferma convinzione che per il cresimato, subito dopo il rito, iniziasse una fase di trasformazione caratteriale che lo avrebbe portato gradatamente a diventare la controfigura del padrino e quindi ad assorbirne anche la intùra, ossia ad avere un destino uguale al suo. Non a caso nella scelta del padrino ci si orientava prevalentemente verso una persona anziana: al senso di maggiore affidabilità o di più ampia panoramica circa la correttezza di vita nonché la fortuna che aveva avuto, si aggiungeva, fattore non trascurabile, la cospicuità degli anni, attestante il dono della buona salute. E ciò valeva soprattutto quando si trattava di cresimare un neonato in pericolo di vita, anzi in quel caso più che un anziano si cercava una persona addirittura vecchia, e alla quale non ci si peritava dal chiedere esplicitamente “Ncòddhrane puru l’anni ti ssignurìa”, ossia “Trasmettigli anche la tua longevità”. Postulazione che se per caso veniva seguita da un reale miglioramento fisico del neonato malato, assurgeva a incontrovertibile testimonianza dell’avvenuto assorbimento, immettendo i genitori in una sfera di assoluta tranquillità circa l’avvenire del figlio. Tanto è vero che a chi si rallegrava con loro per l’avvenuta guarigione usavano rispondere con sicurezza: “Nùnnusa éte écchiu e ll’à ccarmàtu an curmu”.
Si noti come anziché dire “l’ha cresimato” si preferisce dire “l’à ccarmàtu”, il che non va semplicisticamente inteso come banale sostituzione di termine, bensì come voluto scavalco della causa in favore dell’effetto, reso ancora più emergente dalla precisazione “an curmu” che dà misura quasi visiva dell’avvenuto travaso. Interpretazione che ritroviamo confermata dalla frase che si pronunciava allorquando si invitava qualcuno a far da nunnu (padrino) e che, nel riporto di ambedue i termini, annulla ogni sospetto di sostituzione puramente linguistica, attestando che crisimàre stava come azione o rito da compiere e carmàre come risultato da ottenere: “Aggiu ffare crisimàre fìgghiuma e ci nni ll’ài a ppiacìre nci tinìa mutu cu mmi ll’aggi a ccarmàre ssignurìa” (“Devo fare cresimare mio figlio, e se lo hai a piacere ci terrei molto che l’abbia a dotarlo vossignoria”).
Del resto non meno illuminanti risultano altre frasi di più ordinaria occasione, giacché era nell’uso comune sfruttare l’incontro di una persona anziana o particolarmente saggia per presentarle il bambino e, al contrario di quando si incontrava un sacerdote dal quale si pretendeva una semplice benedizione, chiedere specificatamente: “Mpòggiane la manu an capu ssignurìa ca sinti bbiunnàtu ti Ddiu e ccàrmamilu a ccore chinu” (“Poggiagli la mano sulla testa vossignoria che sei abbondato da Dio e trasformalo con tutto il cuore”). Né da tanta petizione venivano esentati li signùri (i signori), ai quali più esplicitamente si chiedeva: “Sulamente ssignurìa mi lu puéti carmàre pi’ nna bbona furtùna” (“solamente vossignoria lo puoi incantare per una buona fortuna”).
Varianti che danno ulteriore conferma all’intendimento della ‘trasmissione’, e che potremmo proporre e analizzare in tante altre sfumature se ormai non fosse del tutto superfluo. Il nostro discorso è nato all’unico scopo di fornire una precisazione ed evitare che, alla luce del nuovo dialetto, gli agguerriti carmàti ti Santu Pàulu vengano identificati non più come i fortunati discendenti di una famiglia magicamente dotata, bensì come persone ammansite da S. Paolo.

 

GIULIETTA LIVRAGHI VERDESCA ZAIN, “TRE SANTI E UNA CAMPAGNA”, Culti Magico-Religiosi nel Salento fine Ottocento (pagg. 27 – 36)
con la collaborazione di Nino Pensabene, Laterza 1994

La più antica fiera di Maglie: lu panìri

di Emilio Panarese

Tra le cinque fiere annuali di Maglie lu panìri era la più antica, essendo stata istituita nell’ottobre del 1819 dal re di Napoli Ferdinando I di Borbone. Cadeva nei giorni 27, 28 e 29 giugno, giorni dei festeggiamenti in onore dei SS. Pietro e Paolo. Posteriori le altre fiere: S. Oronzo, 1834;  S. Nicola e Addolorata, 1860; SS. Medici, 1891. Oggi l’unica sopravvissuta è quella dell’Addolorata, che si svolge nel viale omonimo il venerdì precedente la Domenica della Palme.

Il panìri dal neogreco πανηγúρι vuol dire “riunione di gente in occasione di particolari festività”. La parola neogreca fu in seguito usata estensivamente e genericamente nel senso di “mercato” oppure “dono che in particolari festività si faceva alla fidanzata o a parenti ed amici”: lu panìri de san Pietru; lu paniri de san Nicola ecc..

A Maglie il mercato boario del panìri, che era esente da imposte, si svolgeva la mattina del 29 al Largo Cuti sul piazzale dei SS. Medici; la sera, per sicurezza di ordine pubblico, era prescritta l’illuminazione di tutti i fanali a petrolio. Gremitissimo il mercato in piazza, che attirava molti acquirenti dei paesi vicini.

I due santi erano venerati nella chiesa di san Pietro (una delle tre esistenti in piazza), che, delle antiche chiese medievali di rito greco, fu quella che resistette di più per le sue buone condizioni statiche. Solo agli inizi dell’800 cominciò a mostrare grosse crepe. Venne abbattuta nel 1880 e trasformata in palazzo (oggi vi è la sede dalla Banca Popolare Pugliese). Nell’interno si vedevano sulle pareti molte immagini di santi e  sull’altare due grandi statue di

Puglia in Festa, di Tito Manlio Altomare

di Paolo Rausa

Me ne aveva parlato con il coinvolgente entusiasmo che ci mette sempre quando si infila nel varco aperto dagli eventi di un certo rilievo, Tito Manlio Altomare. Ho avuto il privilegio di conoscerlo a Milano durante l’iniziativa organizzata lo scorso anno dall’Associazione Regionale Pugliesi a favore degli italiani, per lo più pugliesi,  di Crimea deportati da Stalin nel 1942 e tuttora senza riconoscimenti, durante la quale aveva proiettato il suo toccante documentario “La Puglia oltre il Mediterraneo”, in questo caso verso il Mar Nero. L’iniziativa si è poi ripetuta al Palazzo della Cultura di Poggiardo, in Salento.

Tito portava con sé due libri, donati a me e all’animatore dell’Associazione Libera, Giuseppe Colafati, che poi sarebbe diventato sindaco del paese. Il libro era questo. Ne abbiamo poi riparlato durante la sosta di qualche mese fa a Milano, mentre era in procinto di raggiungere Kerč, in Crimea, laddove abitano i nostri connazionali sopravvissuti alla deportazione e i loro discendenti. In quella occasione riparlammo del libro, delle sue illustrazioni, del suo valore culturale e antropologico, ma – si rammaricava Tito – anche della importanza economica della “industria delle feste” in Puglia, ora in evidente crisi,  che coinvolge dai 7 ai 10 milioni di persone e un impegno di 700 mila giornate lavorative. Dati di una certa importanza, soprattutto in una regione di emigrazioni come la Puglia.

Tito M. Altomare non è nuovo ad approfondimenti e ad avventure di questo genere. Si è sempre speso, nel corso della sua lunga carriera di giornalista Rai, nel documentare i fatti spesso tragici che hanno colpito le comunità, dalle guerre, ai terremoti, ai grandi disastri ecologici con le conseguenze nefaste che si possono immaginare. Ed ha avuto anche prestigiosi riconoscimenti per

San Cesario. Lu santu scarbatu

RELIGIONE POPOLARE NEL SALENTO FINE OTTOCENTO

Tutti presenti meno che San Cesario,

“lu santu scarbàtu”

di Nino Pensabene

Leggo fra gli appunti etnologici di Giulietta – e trascrivo quasi testualmente – che

“Per festeggiare la vita esorcizzando la morte, il primo di novembre –  periodo propizio per la facilità di raccolta – era di uso fra la popolazione salentina mangiare funghi. E tanto profondamente era sentito l’atto devozionale che, nel mettere la pietanza a tavola, automaticamente si salutavano tutti i santi, la cui presenza era assicurata, esclusa  quella di San Cesario, che per tanta defezione veniva chiamato “Lu santu scarbàtu” (“Il santo sgarbato”).

La ragione – si diceva – stava nel fatto che ricorrendo la sua festa proprio il 1 novembre ed essendo la stessa soppiantata da quella più importante di tutti i Santi, il ribelle, sentendosi defraudato della propria celebrazione, si ‘ncazzàa (si incavolava) e anziché partecipare al banchetto mannà tutti a ddhru paése (mandava tutti all’inferno) andandosene  a raccogliere funghi.

I più pii, invece, non attribuendo mai ai santi atti di ribellione o scortesie di sorta, correggevano la versione piuttosto laica  – opera ti lu tiàulu – ed asserivano che san Cesario era assente dalle tavolate perché, generoso com’era, andava a funghi pur di unirsi agli altri raccoglitori e vigilare sugli stessi affinché non avessero a sbagliare nello scarto fra commestibili e velenosi.

Secondo costoro, per questo motivo invece c’era l’uso di mangiare funghi il primo novembre, per rendere cioè onore a San Cesario, che per il bene altrui annualmente si privava della festa collettiva”.

San Giovanni Battista nella tradizione popolare salentina

di Giorgio Cretì

In illo tempore, nel Salento che fu, quando la gente viveva sulla terra che coltivava e da essa traeva il proprio sostentamennto, si faceva grande uso di piante spontanee res nullius che prendevano il nome di foje creste ossia di erbe agresti, che non avevano bisogno di essere seminate e coltivate. Era la sapienza della tradizione che permetteva di ricavare da esse alimenti squisiti e anche salutari.

Tra queste erbe erano compresi anche i cardi prima che indurissero e sviluppassero le loro durissime spine. Molto apprezzato era il Rattalùru, ossia il Cardo scolimo (Scolimus hispanicus), che sulle Murge quando muore genera i funghi carduncielli. Ed anche il cardo mariano (Silybum marianum) che veniva impiegato in cucina ed era pure apprezzatissimo per suoi principi attivi riitenuti ancora oggi molto efficaci per l’apparato cardio-vascolare e per la sua funzione epatica.

A Ortelle, ed anche a Vitigliano, che un tempo di Ortelle era frazione, così pure a Vaste che è frazione di Poggiardo, il cardo mariano si chiamava, e si chiama ancora, Spina de San Giuvanni. In altri paesi, come per esempio Spongano, è detto Cardune.

Rosetta basale e capolino di Spina di san Giovanni (ph Antonio Chiarello)

E’ simile ad una delle tante specie del genere Carduus con foglie spinosissime che avvolgono il fusto ed i suoi capolini isolati di colore purpureo che somigliano ai fiori del carciofo. E’ diffuso nell’Italia Centrale e Meridionale e nelle Isole, più raro è nell’Italia settentrionale dove sopravvive come relitto di antiche colture un tempo tenute solo a scopo medicinale. Nei ricordi della signora ‘Maculata di Vitigliano se ne facevano anche dicotti.

Era credenza molto antica che il cardo mariano, in occasione della festa di San Giovanni dimostrassse particolari virtù divinatorie.

Santina di Vignacastrisi ricorda che la sera della vigilia di San Giovanni gli uomini al ritorno dalla campagna tagliavano gli steli fioriti e li portavano a casa. Le donne li bruciacchiavano alla fiamma del camino e poi li mettevano in un seccchio pieno d’acqua; c’era anche chi lasciava le spine bruciate, o anche altre erbe, semplicemente sulla lamia a prendere la rugiada della notte che così guariva da certe malattie. La mattina dopo, comunque, le spine rifiorivano e questo era sempre e comuque buon segno. Le giovani donne innamorate per sapere se si sarebbero sposate entro l’anno, o per sapere se l’uomo verso il quale spasimavano si sarebbe dichiarato, mettevano le spine bruciaccchiate dentro un bicchiere e le lasciavano sul davanzale a prendere il fresco della notte. Dalla loro posizione traevano i buoni auspici.

Nella notte del 24 giugno in cui gli antichi celebravano il solstizio d’estate, anche nel Salento cristiano, si festeggiava San Giovanni Battista ed era una festa di purificazione in cui si dava fuoco alle stoppie secche. Ma qualcuno per conto suo faceva festa anche con focareddhe vere e proprie ad imitazione dei grandi falò propiziatori fatti in piazza in altri posti e in altre occasioni. Niente a che vedere, comunque, con la “Festa delle Panare” di Spongano che si tiene il 22 dicembre di ogni anno e dove si bruciano le paddhotte, le zolle della sansa dei frantoi.

Focareddha di arbusti

Nella tradizione popolare San Giovanni era venerato come taumaturgo capace di guarire qualsiasi male, ma gli  venivano accreditati soprattutto gli attribuiti del fuoco e dell’acqua ed era a Lui che il popolo si rivolgeva per scongiurare il pericolo dei temporali che incutevano sempre grande paura per i danni che potevano arrecare ai raccolti e alle persone. Ancora a Immacolata De Santis di Vitigliano (‘Macculata) dobbiamo la momoria di alcune invocazioni recitate per scongiurare l’arrivo del maletiempu di ogni genere.

San Giuvanni meu barone

Ka ‘ncoddhu purtavi nostru Signore,

Lu purtavi e lu nucivi

u maletiempu tu  sparivi.

 

E nulla cambiava se a volte era chiamato ad intervenire assieme ad altri santi. In quest’altra composizione il richiedente si rivolge prima a Santa Barbara per poi affidare la parte operativa del miracolo richiesto a San Giovanni.

 Santa Barbara ci sta’  ‘menzu ‘li campi

Nu time acqua, nè troni nè lampi,

Azzete Giuvanni e duma tre cannile 

Ka visciu tre scère(1) ‘quarrittu vinire:

De acqua, jentu e maletiempu.

A mare a mare lu maletiempu,

Addhurca nu  canta gallu,

Addhunca nu luce luna

Addhunca nu passa anima una.

 

(1) Scèra era detta il cumulonembo

E a San Giovanni Battista era affidata anche la responsabilità di proteggere il contratto sociale detto del comparaggio, che non aveva niente a che vedere con il reato previsto dal nostro Diritto, ma era quello del battesimo, in cui i contraenti – di solito parenti o amici – assumevano, appunto, l’appellativo di compari di San Giovanni. Al santo profeta  che aveva battezzato Gesù veniva dedicato un rapporto speciale che si creava e rimaneva sacro per tutta la vita. Tra il padrino e la famiglia del bambino tenuto a battesimo, si instauravano speciali rapporti di amicizia che avevano un valore quasi uguale a quello di parentela. Il bambino figlioccio, fin dalla tenera età, era educato a rivolgersi con affetttuoso rispetto al proprio padrino facendo precedere sempre il suo nome dall’appellativo di nunnu/nunna, anche nell’età adulta. Il padrino/madrina si rivolgeva al figlioccio chiamandolo semplicemente sciuscettu (lat. filius susceptus, figlio adottato) e sullo stessso esercitava quasi la stessa autorità del padre/madre naturale.

Per ultimo non è da dimenticare uno squisiito fico precoce, la cui maturazione avviene a cavallo del soltizio d’estate ed è una varietà di Ficus carica detta fica de San Giuvanni. I suoi fioroni, fichi di primo frutto, puntualmente sono pronti per il 24 di giugno  ed hanno forma di trottola con polpa granulosa, dolce ma non mielosa, ottimi per il consumo fresco. Ed essendo la cultivar bifera produce anche un fòrnito, un fico di secondo frutto, di forma globosa a fiasco allungato con buccia gialla, costoluto e con polpa giallo verdastra. Come per tutti gli altri fichi, se al solstizio di giugno sofffia vento di Scirocco i frutti si gonfiano ed essendo i primi sono molto attesi. Se invece persiste vento di Tramonata la loro maturazione diventa difficoltosa e ntaddhene, fanno il callo, cioè, e sono da buttare.

Fichi di San Giovanni

Tarantismo salentino e antico culto ellenico di Asclepio

Le sorprendenti analogie di rito presenti nel tarantismo salentino e nell’antico culto ellenico di Asclepio

di Romualdo Rossetti

Alla luce delle ultime ricerche storiche ed archeologiche risulta evidente che il tarantismo salentino, a differenza di quanto sostenuto da Ernesto De Martino nella sua Terra del Rimorso, affonda le sue radici nella prima storia del bacino del Mediterraneo. Se ci si sofferma ad analizzare con spirito sereno la particolarissima ritualità di questo fenomeno antropologico, ormai in via d’estinzione, non si possono non cogliere le numerosissime corrispondenze di culto che lo legano intimamente agli antichi riti di guarigione praticati in tutti i santuari di Asclepio della Magna Grecia e delle zone ad essa culturalmente contigue.

Ernesto De Martino interpretò il tarantismo quasi esclusivamente in chiave sociologica individuandone la causa nel malessere sociale dei poveri del Mezzogiorno d’Italia, nella condizione subordinata all’uomo della donna contadina, nella società rurale salentina retrograda e culturalmente arretrata, nella diversità fisico-psichica e sessuale mal vissuta e/o socialmente mal tollerata e soprattutto in uno spaccato esistenziale ingenuo e sottomesso all’autorità religiosa.

Per quel che concerne l’origine del fenomeno sociale, nel quinto paragrafo del commentario storico della sua Terra del Rimorso l’etnologo collocò l’atto di nascita del tarantismo nell’alto Medioevo, durante gli scontri tra la civiltà cristiana e quella musulmana in occasione delle Crociate, uno spazio temporale ben preciso che, a ben vedere, escludeva drasticamente la possibilità che esso si fosse generato nella protostoria dell’Occidente. Un’indagine, quella demartiniana, che finì per porre in essere un’interpretazione riduttiva del tarantismo perché frutto di una visione personale del marxismo vissuto soprattutto in chiave esistenzialista, una lettura antropologica, dunque, vittima del tempo (anni 50 del XX secolo) in cui il fenomeno venne studiato, etichettato e proposto al pubblico.

Galatina, cappella di San Paolo, particolare della tela del santo omonimo

Ciò che lascia oggi sorpresi è però, come mai, uno studioso delle religioni attento, intelligente ed intuitivo come Ernesto De Martino abbia trascurato di esaminare il culto di una importantissima pratica medica delle origini e la sua probabile sovrapposizione sincretica in un altro rito nel corso degli anni. Probabilmente ciò fu dovuto proprio dalla formazione culturale dell’etnologo, una formazione culturale fedele all’indirizzo imposto da Benedetto Croce, da sempre poco incline ad analizzare ciò che poteva fuorviare il dato storico da analizzare. In realtà, però, gli sarebbe bastato interpretare con più attenzione le stesse critiche del medico settecentesco Francesco Serao, da lui più volte menzionate nella Terra del Rimorso, quando affermava che la fenomenologia del tarantismo non dipendeva affatto dal morso della tarantola quanto, piuttosto, dall’indole congenita dei pugliesi.

L’indole di un popolo, è notorio che non la si costruisce dall’oggi al domani, ma è un sovrapporsi di simboli, significati e vissuti sociali che si tramandano nei secoli nei costumi, soprattutto in quei contesti culturali arretrati come possono esserlo quelli propri del mondo contadino. Gli sarebbe bastato poco per intuire che il tarantismo come forma di catarsi dall’oistros, come esorcismo coreutico-musicale, affondava le sue radici nella protostoria della Magna Grecia. Se soltanto avesse disatteso le proprie radici crociane e si fosse soffermato ad osservare lo Zodiaco, la prima mappa sapienziale dell’uomo, avrebbe di sicuro intuito che l’Oistros deteneva, non a caso, un posto d’onore anche tra le stelle dove compariva altresì il nome divino della sua risoluzione. Poco sopra la costellazione dello Scorpione difatti, gli antichi scrutatori e denominatori degli astri, avevano posto la costellazione dell’Ofiuco, detto anche Anguitenens o Serpentario che col calcagno pare schiacciare lo Scorpione che a sua volta, pare, volerlo pungere. A quel punto la chiave di risoluzione del mistero dell’origine del tarantismo poteva essere facilmente risolta rifacendosi ad un’unica antichissima divinità, ad Asclepio il signore e demone colui il quale fu da Zeus predisposto alla guarigione fisica e psichica dei mortali.

Se De Martino non si fosse soltanto soffermato a catalogare in maniera quasi ossessiva, come stabiliva il metodo storicistico, il comportamento dei tarantolati durante l’esorcismo nella piccola cappella sconsacrata della casa di S. Paolo a Galatina ma si fosse soffermato ad esaminare l’ubicazione del pozzoomphalos dalle acque emetico-curative all’interno del complesso architettonico della cappella avrebbe sicuramente colto la corrispondenza strutturale che la associava ad un antico asclepeion.

Anche i tanti simboli della città di Galatina, a partire dal nome della stessa, furono trascurati e non furono vagliati con la dovuta accuratezza filologica e semantica. Ad onor del vero ciò è accaduto non unicamente con l’indagine demartiniana ma anche con le altre numerose successive indagini antropologiche che, pur volendo distanziarsi dalla lettura del fenomeno operata tramite la Terra del Rimorso, hanno continuato a trascurare l’evidente inoltrandosi in un indirizzo di ricerca alla “moda”, (interpretazione nietzscheana) con tanto di eccessivi ed azzardati rimandi al dionisismo ed al menadismo.

Esculapio

Asclepio, il protagonista nascosto del tarantismo salentino, veniva rappresentato solitamente come un uomo maturo, il più delle volte munito di  barba con in pugno un bastone e con l’altra mano appoggiata sulla testa di un

“Lu taluèrnu”, ovvero dalla lamentazione funebre ad un tipo assillante.

di Armando Polito

Le prefiche, dipinto di Franco Corlianò1

 

Questo post, per via delle frequenti “incursioni” nel dialetto napoletano, compare in contemporanea sul sito http://www.vesuvioweb.com/new/ con l’augurio che possa essere l’inizio di un felice gemellaggio.

Le parole hanno una vita molto simile a quella degli uomini: possono durare poche stagioni o molti anni; alcune di loro, però, sembrano ricalcare pure il comportamento che un uomo può assumere nel corso della sua esistenza: come uno può essere, infatti, coerente con i suoi principi o “ballerino”, così le parole col tempo, essendosi estinto il fenomeno che esse definivano, grazie a quella forma di trasformismo linguistico che si chiama metafora, possono sopravvivere assumendo un nuovo significato molto labilmente collegato a quello di partenza.

È il caso di talùernu che nel dialetto napoletano (taluòrno o talòrno) designava la veglia funebre in cui erano protagoniste delle vere e proprie professioniste del lamento che, a pagamento, accompagnavano con il loro “canto” il defunto nell’ultimo viaggio.

Si tratta di una consuetudine fino alla metà dello scorso secolo ben nota anche in Puglia, ma di origini remote. Praefica (da praefìcere=mettere a capo) si chiamava nell’antica Roma colei che dirigeva le ancelle nel corso della lamentazione funebre. Per il mondo romano ne abbiamo il ricordo in Plauto (III°-II secolo a. C.)2 e in Varrone (II°-I° secolo a. C.)3; per il mondo greco spicca per il lucido disincanto (quanto ne avremmo bisogno oggi!) la favola di Esopo (VI° secolo a. C.) Plùsios kai threnodòi (Il ricco e le prefiche)4.

Il significato originario della voce in questione nella letteratura napoletana si presenta un po’ sfumato in Sgruttendio (XVII° secolo)5, ma già in Giambattista Basile, che di poco lo precede, aveva assunto il significato metaforico attuale di fastidio6, per recuperare quello iniziale in Biagio Valentino (XVIII° secolo)7.  Chi ha appena finito di leggere la nota 6 e sia rimasto turbato dalla “volgarità” dell’immagine può riprendersi con questi versi della celebre Funiculì funiculà (Luigi Denza. Peppino Turco, 1880) : Lo core canta sempe ‘no taluorno:/ Sposammo, oi’ Ne’!… Sposammo, oi’ Ne’!… (Il cuore canta sempre una cantilena: Sposiamoci, o Nina…Sposiamoci, o Nina!…). Chissà, però, cosa avrebbe risposto Nina se nell’aria fosse aleggiato ancora il primitivo significato funebre della parola e lei l’avesse colto…

E come tacere del proverbio Ogne gghiuorno è taluorno (ogni giorno è noiosa ripetizione) in cui è condensata un’amara e rassegnata concezione della vita?

Nel dialetto neretino la voce ha assunto il significato di oggetto inutile,

Santi, culti e società

Parte di una cappella in miniatura (pietra leccese e cartapesta) realizzata nel vano di una porta nella seconda setà dell’Ottocento. L’opera artigianale ha oggi motivazioni storiche perché riproduce, fra l’altro, il distrutto antico altare maggiore della Basilica Sancta aria ad Nives di Copertino. ph Nino Pensabene

Santi, culti e società

nel volume di Giulietta Livraghi Verdesca Zain
“Tre santi e una campagna”

Ricerca antropologica, recupero della tradizione, storia, mito, leggenda e aneddotica in un libro di piacevolissima lettura

di Selene Ballerini

Li carmàti ti Santu Pàulu (Gli incantati di san Paolo), Li mànure ti Santu Itu (Le mani di san Vito), Li fronne ti Santu Cristòfuru (Le fronde di san Cristoforo): nei titoli delle parti di cui è costituita l’opera – corrispondenti anche a titoli onorifici connessi al culto di questi santi ed espressi in dialetto salentino, forma linguistica che serpeggia per tutto il libro, vivacizzandolo e dandogli un sapore di verità – sono sintetizzati i tre nuclei fondamentali intorno ai quali si sviluppa l’ampia ricerca antropologica.

L’ambiente di cui Giulietta Livraghi Verdesca Zain offre uno spaccato pregnante e realistico è il mondo contadino, povero, arretrato del Salento tardo-ottocentesco, mentre i tre santi protagonisti, popolarmente vissuti con un approccio a metà fra la devozione cristiana e la pagana magia, sono quelli la cui influenza veniva accorpata dalla tradizione salentina in un’unica cultualità: la scola ti li ttre pputiénti (La scuola dei tre potenti), i cui “ministri” popolari venivano eletti fra coloro che – magari poveri, magari analfabeti – dimostravano fin dall’infanzia di averne i carismi richiesti.

Acutamente la studiosa puntualizza come la definizione di “scuola”, in cui veniva evidenziata una gerarchia di tipo sciamanico con tanto di passaggio dei “poteri” da maestro a discepolo, acquisisse risonanze eclatanti e di forte gratificazione in un ambiente sociale così “mortificato dall’analfabetismo e offeso da un continuo rinfaccio di ignoranza” (p.23). Lo “spazio alternativo” che il popolo veniva in questo modo a ritagliarsi, commenta l’autrice, “non consentiva soltanto un perdurare in ritualismi a contaminazione arcaica, non concedeva semplicemente libertà di abbinamenti fra magico e religioso, ma

Botrugno/ Invito alla lettura de “U Focalire”

Invito alla lettura de “U Focalire – Frammenti di lingua, di memoria e di identità popolare”

 

di Gianluca Palma

 

Lu vitti una, doi, tre sire e poi me disse

guarda ca ieu oiu fazzu amore cu tie.

Lampu moi no putimu dire amore

ca si no se pènsane ca n’imu curcati.

(U focalire, 2009, p. 52)

Sino alle generazioni dei nostri padri o dei nostri nonni, in assenza di cucine a gas e di impianti di riscaldamento, u focalire era cucina e calorifero, ma soprattutto luogo di ricomposizione del gruppo familiare e di ritrovo con il vicinato. Nel segno dell’indigenza e del risparmio, durante le lunghe e fredde sere d’inverno, esso riuniva insieme nonni e padri, figli e nipoti, e con loro i vicini di casa, spesso cumpari o nunni; si trasformava in scenario di una piccola comunità di affetti e in teatro dell’oralità, del raccontare e trasmettere fatti, favole e cunti.

Il libro “U Focalire – Frammenti di lingua, di memoria e di identità popolare” è stata realizzata dall’associazione Club ’79 di Botrugno (LE) presieduta dal prof. Luciano Vergari. La pubblicazione è stata curata dal prof. Vito Papa,

Libri/ Il morso d’amore e altre fascinazio​ni

a cura di Stefano Donno

Autore: Luigi Chiriatti
Titolo: Morso d’amore
Prezzo: € 12.00
Pagine: 184
Uscita: Giugno 2011
Note: Volume realizzato con il contributo del Centro sul tarantismo e costumi salentini di Galatina
C.so Porta Luce, 2 – 73013 Galatina (Le)
3805310814 | tarantate@supereva.it

L’autore presenta lo svolgersi del suo lavoro sul tarantismo, dalle prime inchieste alla collaborazione con la regista Annabella Miscuglio per la realizzazione del film documentario Morso d’amore (1981), alle ultime interviste e verifiche degli anni Novanta.
Racconta la propria esperienza di ricercatore, nato e cresciuto nei luoghi e nella cultura su cui indaga, che si ferma sulla soglia del rito nel timore di esserne catturato e di non potersene allontanare.
L’autore, quindi, più dei suonatori terapeuti, più delle tarantate stesse, si offre come protagonista di una ricerca a ritroso dei simboli e dei luoghi magico-rituali frequentati da bambino: quasi un esorcizzare razionalizzante per poter unificare le due anime, quella di portatore conoscitore dei fenomeni della propria etnia e quella di ricercatore e studioso degli stessi.

Luigi Chiriatti da decenni si dedica all’attività di ricerca nel campo delle tradizioni popolari del Salento. Dopo aver inciso nel 1977 con il Canzoniere Grecanico Salentino il disco Canti di terra d’Otranto e della Grecìa

Come ci inventiamo una cultura: il caso della Notte della Taranta. Parte seconda.

 

Distinzioni e chiarimenti sulle categorie e le esperienze del tipico, del tradizionale e del popolare: strumenti minimi per difendersi da stereotipi e clichè 

di Pier Paolo Tarsi

Il fatto che, passata l’estate, nel corso dell’anno la Pizzica scompaia quasi completamente dalle nostre vite (questione empirica incontestabile e salutare) significa qualcosa di ben più profondo di quello che si potrebbe credere a prima vista, significa, come mostreremo analiticamente, che questa non si può affatto considerare musica tipica salentina né musica popolare salentina e credere che tale sia per davvero significa solo confondere la rappresentazione generata dalle forze sociali –  la finzione auto-etero-rappresentativa ad uso turistico di un patrimonio culturale nella sua versione più semplificata di cui abbiamo detto  nella prima parte: http://spigolaturesalentine.wordpress.com/2011/06/08/come-ci-inventiamo-una-cultura-il-caso-della-notte-della-taranta/– con il reale, il quale va cercato nella concretezza della vita e dei contesti esperienziali in cui questa si esprime, non nelle guide turistiche e negli spot pubblicitari confezionati dagli assessorati per il turismo.

Tutte le precisazioni che faremo potrebbero sembrare pedanti sottigliezze se non fossero, come intendiamo mostrare ai lettori che avranno la pazienza di non abbandonarci, agili strumenti euristici in grado di spiegare diverse esperienze comuni nell’incontro con varie manifestazione della nostra cultura. La percezione a livello intuitivo della confusione nel minestrone stereotipico tra “tradizionale”, “tipico”, “popolare” (categorie su cui cercheremo di fare chiarezza) spiega ad esempio perché tutti noi salentini abbiamo riso (quando non ci siamo indignati) del feticcio di tipicità incarnato (o meglio indossato, recitato affettatamente, stereo-tipicamente appunto) dalla graziosa salentina che ha partecipato ad una recente edizione del Grande Fratello. Questa signorina infatti si è presentata come una vera “femmina salentina”, donna “legata alla sua terra”, alle radici, inscenando questo attaccamento in un video che la vedeva in un campo a ballare la “pizzica” (per chi volesse proprio farsi del male, il video è reperibile qui: http://gossip.fanpage.it/grande-fratello-11-concorrenti-francesca-giaccari-salentina-doc-foto-e-video/). Il risultato non era solo una finzione per molti irritante e per tutti distante anni luce dalla realtà attuale, il risultato era soprattutto risibile e ridicolo, perché fondato e stereo-tipicamente sbilanciato interamente sulla semplificazione della rappresentazione ad uso turistico del Salento! Siamo insomma di fronte a un caso evidente e parossistico di auto-etero-rappresentazione estremamente irrealistica e ad un pasticcio categoriale del tradizionale, del tipico e del popolare per come ne facciamo esperienza nel quotidiano: sappiamo tutti infatti che nessuna “tipica” ragazza salentina – mentalmente in salute si intende – se ne va in giro scalza nei campi a ballare la pizzica raccogliendo fichi d’india!

Dovremo dotarci di alcuni strumenti di carattere logico-linguistico essenziali per trattare in modo adeguato le questioni che ci interressano.

Per cominciare, chiariamo che cosa significa propriamente “tipico” in senso antropologico.

La migliore definizione antropologica (migliore dal punto di vista logico e

Tiesire, tiesilla… preghiere invocazioni filastrocche

 

TIESIRE TIESILLA, CONCEPATO E CONCEPILLA

 

di Paolo Vincenti

“Matonna mia te la Cutura/ quantu è bella la tua ficura/ Famme turmire,/ famme ripusare,/ se nc’è bisognu/ famme ddisciatare/”.

Una splendida Madonna della Coltura, amata protettrice di Parabita, campeggia sulla copertina di questo libro, “Tiesire, tiesilla… preghiere invocazioni filastrocche”, di Anna Piccino e Ortensio Seclì,  edito dal Laboratorio, di Aldo D’Antico, nella collana di studi e ricerche “La Meridiana” (2007). E parabitani doc sono i curatori del libro stesso: Anna Piccino è la coordinatrice del Centro di Solidarietà “Madonna della Coltura” di Parabita, che ha voluto questa pubblicazione; Ortensio Seclì, promotore dell’associazione culturale “Progetto Parabita” è un conosciuto ed apprezzato studioso, impegnato da molti anni sul fronte della ricerca e della divulgazione storica, autore di numerose pubblicazioni tutte puntualmente accompagnate da una discreta fortuna critica oltrechè da un notevole successo di pubblico.

Come si può vedere, la Madonna della Coltura ricorre spesso in questa pubblicazione, e sotto i suoi buoni auspici nasce il libro di Seclì e Piccinno, che si è scelto di pubblicare proprio nei giorni della festa della Patrona parabitana, protettrice degli agricoltori. 

Il libro è una gustosa raccolta di preghiere ed invocazioni sacre che fanno parte di quel patrimonio straordinario che sono le tradizioni religiose del nostro popolo salentino.

Un volume preziosissimo, dunque, non solo per lo scavo storico, antropologico e linguistico che è stato condotto dai suoi attenti curatori, ma anche perché ci consegna uno spaccato della vita e delle abitudini della società contadina dei secoli scorsi, che si esprime, vibrante e pregno di significati, nelle filastrocche, nei modi di dire, nelle invocazioni al Signore, alla Madonna e ai Santi di volta in volta interpellati. 

Questo sostrato di cultura popolare è  custodito gelosamente nell’archivio memoriale di quei vecchi parabitani che sono stati consultati dai curatori del

Come ci inventiamo una cultura: il caso della Notte della Taranta

di Pier Paolo Tarsi

Possiamo partire da un’interessante intervista (interamente disponibile al seguente link: http://www.vincenzosantoro.it/nottedellataranta.asp?ID=233) rilasciata il 13 agosto 2005 a Carla Petrachi da Eugenio Imbriani, docente di Antropologia Culturale all’Università del Salento, studioso serio del tarantismo e non solo. È opportuna anzitutto una precisazione: Imbriani, per anni impegnato nel seno dell’Istituto Diego Carpitella, al momento in cui l’intervista è stata rilasciata si era già volontariamente allontanato da questo ente, battezzato “nell’estate del 1997 con il proposito di studiare e valorizzare il patrimonio artistico e culturale del Salento” (fonte: sito dell’Istituto Diego Carpitello: http://www.lanottedellataranta.it/istituto_carpitella.php) e poi finito per diventare di fatto, con un evidente restringimento dei vasti intenti sopra indicati e a scapito in specie dell’attività di ricerca scientifica, semplicemente (o almeno, soprattutto) il promotore e l’organizzatore della famigerata Notte della Taranta, cioè – eventualmente qualcuno avesse passato gli ultimi anni su Marte e non lo sapesse – della estiva kermesse musicale itinerante per vari comuni salentini che conclude il suo ciclo a Melpignano, ove raggiunge il suo clou nel mega-concertone e show-mediatico finale negli ultimi giorni di agosto. Data la situazione descritta, il detto antropologo, interessato ovviamente più che altro alla ricerca e allo studio, finalità purtroppo “fagocitate” dalla Notte della Taranta che, per sforzi e risorse economiche e organizzative richieste, “cannibalizza” necessariamente tutto il resto delle attività per cui era sorto l’Istituto stesso, se ha inteso come anticipato prendere a suo tempo le distanze da questo, non ha ritenuto opportuno sollevare polemica alcuna. Imbriani infatti ribadisce spesso nella sua intervista di voler rimanere assolutamente lontano dalle polemiche su un eventuale “tradimento” dell’ampiezza di finalità per cui l’Istituto si era costituto e in particolare di voler astenersi da polemiche sul fagocitante e totalizzante evento mediatico (che vede almeno tanti detrattori, per ragioni molto diverse e spesso distanti tra loro, quanti sono i tifosi, motivati da ragioni anche qui molto variegate, ragioni che per continuità tematica non interessa ora analizzare).

Scelta arguta questa astensione dalle polemiche che non è dovuta (come si potrebbe pensare) ad una sobria pacatezza della persona in questione, a indifferenza o addirittura a una accondiscendenza remissiva e arrendevole della stessa, quanto al fatto, ben più interessante e istruttivo qui per noi, che Imbriani, con la mentalità tipica dello studioso, è interessato più a

Libri/ Usi e costumi a Parabita dal 1930 al 1950

GAETANO LEOPIZZI RICORDA LA VECCHIA SOCIETA’
 

di Paolo Vincenti

Già autore di Arte e artigianato a Parabita, Gaetano Leopizzi pubblica questo La vecchia società – Usi e costumi a Parabita dal 1930 al 1950, per la collana “Tracce” ,del Laboratorio di  Aldo D’Antico. L’editore spiega nella Prefazione del libro che “il pregio di questo libro è quello di far comprendere che la storia non è solo quella scritta nei libri scolastici, ma anche quella vissuta giorno dopo giorno, secondo una linea del tempo all’interno della quale la cronaca giornaliera di ciascuno diventa la vicenda di tutti” .

Gaetano Leopizzi, imprenditore settantenne in pensione, vuole ripercorrere, in questa sua seconda fatica, un periodo molto importante della sua vita e di quella di tutti i parabitani come lui che hanno conosciuto la fame, la sete e tutte quelle privazioni che sembrano impensabili al giorno d’oggi. Con quegli stenti e privazioni si arrivò a costruire la società come la conosciamo oggi.

Anni caratterizzati dall’ “arte di arrangiarsi”, come la chiama l’autore, quando si facevano grossissimi sacrifici per mettere famiglia e tirare su i figli, quando gli alimenti, come pane, zucchero, pasta, olio, erano razionati; anni di stenti, in cui anche un bene primario come l’acqua spesso era carente, come spiega l’autore nel secondo capitolo, “Fresche, dolci acque…”. In questo capitolo, ricorda un personaggio parabitano, Arturo Felline, che vendeva l’acqua in paese a 10 centesimi di lire al barile da dieci litri e a 25 centesimi quello da venti. E, alle volte, l’acqua veniva anche comprata a credito per mancanza di soldi.

All’epoca, c’erano tre cisterne comunali: quella dei “Gronghi”, nella parte alta del paese, quella più grande, che si trovava in Piazza Umberto I, e quella denominata “U puzzu te i cucuddhrichi”, nell’attuale Piazzetta degli Uffici.

La memoria narrata: invito all’opera di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

di Pier Paolo Tarsi

 

Vogliamo gettare un tassello facente parte di un ben più ampio progetto di ricerca e studio iniziato altrove da chi scrive[1]. Tale progetto, qui solo annunciato al lettore al fine di solleticarne l’interesse e il coinvolgimento, consiste nella riscoperta e nella rivalutazione dell’imponente opera letteraria, artistica ed etnologica di Giulietta Livraghi Verdesca Zain.

Donna dall’ingegno poliedrico, giornalista, studiosa, pregevole scrittrice, scultrice e artista varia e versatile, nota in vita per lo più come poetessa e antropologa, la Verdesca Zain nasce a Salice Salentino il 17 dicembre del 1931, discendente di una nobile casata di Copertino. In quest’ultimo paese, ove muore il 10 novembre 2007, la Nostra trascorre tutta la sua esistenza con l’eccezione di una parentesi di anni a cavallo tra il 1962 e il 1971, operosamente vissuti a Roma. Nella capitale, ove la Livraghi si lega presto al futuro compagno di una vita intera – il poeta calabrese Nino Pensabene, conosciuto negli ambienti colti -, grazie ad una vena poetica stimata da tutti i più attenti intellettuali dell’epoca, la sua grandiosa personalità emerge rapidamente e si impone come un punto di riferimento dei cenacoli letterari di rilievo. Oltre che per la sua prolifica attività di critica letteraria e critica d’arte, in quegli anni infatti la Livraghi si distingue anche – se non in primo luogo – per le pubblicazioni di alcune raccolte di sue poesie che le fanno guadagnare numerosi e importanti premi nazionali, a testimonianza del riconosciuto valore dei suoi versi. Non è tuttavia solo per la levatura delle numerose opere che suscitano l’ammirazione generale che la Nostra si mette in luce: nei medesimi anni, insieme al marito, i due danno corso parallelamente ad una intensa attività organizzativa che li vede in breve assurgere al ruolo di animatori di primo piano della vita culturale romana e nazionale. Nella città eterna, essi fondano e dirigono importanti riviste quali “La Prora. Periodico Internazionale d’Arte e Cultura” e “Il Nuovo Eon. Periodico Internazionale di Letteratura, Filosofia, Scienze, Arti”, organo quest’ultimo dell’Accademia Internazionale di Lettere, Scienze ed Arti “Pacem in terris”, ente presieduto dalla Livraghi stessa, destinato ad elevarsi rapidamente a cenacolo di riferimento dell’intellighenzia migliore. Assorbita dall’intreccio fitto di impegni a cui tali attività culturali la legano in quegli anni di animata vita romana, la Livraghi fa in seguito ritorno a Copertino per dedicarsi qui interamente – con il necessario distacco dagli oneri mondani e sociali – ad un vasto studio etnologico, finalizzato al «completamento di un quadro panoramico della civiltà contadina del Salento»[2]: una impresa immane quest’ultima, condotta in solitudine quasi eremitica, con slancio febbrile ed estrema lucidità sino al talamo della morte, sino agli ultimi aliti di una vita che, ormai demolita da una estenuante lotta combattuta con ardore contro una lunga e grave malattia, veniva trattenuta solo dalle amorevoli cure del compagno «con le unghie, come ultimo riverbero di un tramonto»[3].

Il risultato di questi anni di duro e poderoso lavoro antropologico, dedito con passione e amore intellettuale alla terra natia, consiste in un immenso lascito di scritti che va ben al di là di quanto emerso attraverso la pubblicazione di una magistrale opera etnologica della Nostra, “Tre Santi e una campagna. Culti magico-religiosi nel Salento fine Ottocento”, edita da Laterza nel 1994 e salutata dagli antropologi di professione come un capolavoro massimo[4], cui si accompagnano ulteriori piccoli stralci editi, comparsi sul quotidiano “La Gazzetta del Mezzogiorno” nel corso degli ultimi anni di vita della Verdesca Zain. Tali materiali, seppur di importanza fondamentale per la conoscenza del Salento e pertanto meritevoli di essere riportati oggi – e per sempre – all’attenzione del pubblico e degli studiosi, costituiscono tuttavia sparuti frammenti di un ben più ampio e “panoramico” progetto, condotto dalla Livraghi nell’arco di una vita di comunione e condivisione intellettuale e spirituale con il compagno, all’insegna di un’esistenza consacrata interamente alla conoscenza della civiltà tradizionale salentina. Una grande opera è dunque questa, da preservare e studiare come una delle più grandi eredità della nostra storia, come un bene sommo della nostra terra e della nostra tradizione.

Nel lavoro complessivamente preso della Livraghi vi è infatti non solo un monumento mai innalzato che è a nostro avviso tempo di edificare, ma vi è, per quanto ora qui nello specifico interessa evidenziare, una sorgente densissima di restituzione di un immenso patrimonio etnologico- linguistico da tutelare, al quale è doveroso – moralmente prima che intellettualmente – rifarsi nell’ambito di ogni sforzo di seria e continuata indagine storico-antropologica sul Salento.

Di tale florida e vivida sorgente, siamo ben lieti di donare un piccolo assaggio al lettore di Specilegia attraverso la mediazione di un brano inedito dell’autrice, da chi scrive scelto faticosamente tra i tanti di egual valore. Ciò al fine di offrire un saggio della forza evocativa della penna della Nostra, capace di punteggiare liricamente persino la descrizione saggistica e antropologica relativa a un mondo salentino descritto ad intreccio tanto nelle sue consuetudini originarie e nel suo antico immaginario simbolico, quanto nelle sue intricate dinamiche sociali tra poveri contadini e signori della terra: un mondo ormai estinto, il quale, fortunatamente, ci viene tramandato in molte sue dimensioni dalla memoria narrante di colei che non si dovrà più esitare a definire la più grande antropologa del Salento. Al nome della Livraghi Verdesca Zain, dimenticato da molti ed oggi in pratica estraneo ai più, spetta infatti, ne siamo certi, un posto d’altissimo rilievo nella storia della cultura italiana del Novecento – non solo salentina – e un posto d’onore, in particolare, nella storia dell’antropologia.

per gentile concess. di Nino Pensabene

A questo mancato tributo a una studiosa che a questa terra e alla memoria della sua civiltà contadina ha donato i frutti migliori del proprio genio versatile, ci auguriamo di contribuire a porre rimedio anche attraverso le pagine di questa bella rivista, oramai sempre più incarnazione di un punto di riferimento autorevole della vita culturale meridionale e non.

Le ragioni di tale tributo, teniamo a puntualizzare, non sono da rintracciare solo nei meriti in sé dell’autrice e della sua penna, quanto piuttosto nel valore complessivo che l’opera di conservazione di un patrimonio etnologico-linguistico assume nel contesto del processo contemporaneo di globalizzazione planetaria che ci coinvolge in prima persona. Nel mondo attuale, infatti, vediamo risorgere ovunque spinte localistiche compensative dei movimenti di omogeneizzazione insiti nella mondializzazione, pressioni che possono pericolosamente degenerare in consolatorie chiusure nei confronti delle altre culture e favorire arroccamenti in astratte mitizzazioni identitarie (quali, per esempio, il popolo padano, il popolo salentino ecc): tali effetti costituiscono delle difese della psiche collettiva che sorgono, paradossalmente, proprio laddove labile e frammentaria risulta la conoscenza del proprio passato, impedendo pertanto uno sviluppo sereno e creativo di un futuro storico consapevolmente interconnesso con la continuità del proprio mondo originario e, proprio per tale ragione, pacatamente aperto e disponibile all’incontro fecondo e costruttivo con l’altro, con il diverso.

In coerenza con quanto detto sopra, ci pare opportuno infine lasciare spazio alla voce diretta della Livraghi, senza frapporre ulteriori nostri interventi, ponendo così termine a queste nostre note, con l’augurio che le stesse risuonino per tutti come un invito alla rilettura e alla scoperta dei lavori che abbiamo indicato e, in generale, dei vari contributi dell’ingegno di questa coterranea.

Lu crucifissu ti lu asu (scritto inedito di Giulietta Livraghi Verdesca Zain)[*]

 Lu crucifissu ti lu asu (il crocefisso del bacio), per il suo stare fra le mani dei defunti durante le veglie funebri, non doveva essere usato come simbolo di culto, veniva ritenuto sconsacrato, motivo per cui, le poche famiglie ricche di un paese, potendosi permettere più crocifissi, ne tenevano uno apposito; e siccome apparenza voleva non fosse soltanto un simbolo religioso ma anche un elemento decorativo della salma, era un crocefisso importante, se non addirittura prezioso. Destinato a essere trasmesso di generazione in generazione, doveva poter rappresentare nel tempo il decoro delle casata, e non di rado  – ritenendolo soggetto a diritti dinastici – veniva citato nei capitoli testamentari, devoluto quasi sempre al primogenito.

Col passare degli anni e il sommarsi delle morti, il prestigio di quel crocefisso aumentava, tanto che si arrivava a fregiarlo di un nome particolare, affibbiandogli quello del trapassato più illustre: in qualche famiglia poteva essere “Il crocefisso di nonno Giovanni”, in qualche altra quello del bisnonno Giuseppe, in qualche altre ancora “Il crocefisso dello zio monsignore”. Un dato di fatto che aveva sempre irritato, e qualche volta mandato in bestia, le vecchie cameriere: per loro, figlie del popolo, alle cui usanze rimanevano vincolate per rapporto viscerale, quell’indicazione suonava bastarda, se non blasfema, giacché ritenevano inaccettabile l’idea di sovrapporre alla totalità di Cristo la riduzione di un possesso espresso attraverso il nome di un mortale, sia pure passato alla storia come illustre. Per loro, come per tutti i loro simili, quello era e doveva rimanere crucifissu ti lu asu, anche se, a rifletterci bene, avevano torto: i crocifissi mortuari delle famiglie nobili non potevano incarnare sino in fondo quella simbologia, giacché, data la differente sistemazione delle salme, nessun bacio poteva sfiorarli. La nobiltà veniva identificata, sia pure in modo allusivo, in un perenne rapporto di altezze, e se la vita aveva le sue lotte di gradino, anche la morte doveva sottostare alla regola dei rialzi. I catafalchi che si approntavano erano dei veri e propri monumenti, non facilmente raggiungibili nella loro sovrapposizione di piani: due per le donne, ma non meno di tre per i maschi, ai quali anche da morti spettava il riconoscimento di una supremazia adombrata nel mito del loro seme. E più il personaggio era stato importante, più la castellana (il catafalco) doveva essere alta.

i coniugi Pensabene e Livraghi Verdesca Zain

Posta al vertice e in posizione un po’ inclinata per consentirne la visibilità, la salma incuteva una  certa soggezione, rafforzata dai damaschi – rossi o giallo oro – che in ricchi drappeggi scendevano sino a terra: un’ulteriore barriera che fermava a timorosa distanza i visitatori più umili, che mai e poi mai si sarebbero permessi di accostare a quelle stoffe preziose i loro piedi sporchi di terra, anche se, per la circostanza, infilati nelle scarpe della festa.

Una circoscrizione capace di gelare il cuore dei semplici e apparire, pur nell’esuberante presenza della ricchezza, come l’estrema penitenza di un modo di essere, forse il volto più duro della morte, giacché anticipava il silenzio della pietra.

La morte dei poveri era una cosa ben diversa, e anche se urlava come una belva aveva volto e fiato umani. Le salme, adagiate basse sulla matthrabbanca (madia – tavolo), non erano isole irraggiungibili, ma lembi di carne mantenuta umida da lacrime e aliti. Nelle loro mani il crocefisso non era soltanto l’asta della misericordia che promette perdono, ma la radice sublimata di un credo trascendentale che, sovrapponendosi al momento temporale del trapasso, stabiliva una convivenza quasi sacrale fra il ricordo dei viventi e l’essenza purificata dei trapassati.

Le persone in visita di lutto vedevano in quel crocefisso il tramite insostituibile dei loro sentimenti, ossia il filo conduttore di un dialogo che intendevano stabilire con l’aldilà: baciandolo erano sicure di ottenere da Dio il permesso di affidare all’anima della salma in esposizione saluti e messaggi da portare alle anime dei loro cari. Un vero e proprio ufficio postale, anomalo nella sua equivalenza di fede, ma tragicamente reale nello sfogo delle pene individuali: appelli di aiuto, richieste di consiglio, sollecitazione di sogni rivelatori, comunicazioni di mutamenti drammatici, o notizie rassicurative per l’anima partita in travaglio.

un’opera grafica dell’artista

Una ridda di voci che trovava la sua espressione più colorita negli interventi delle donne, sempre prime ad accorrere sui luoghi del dolore: convinte che una rappresentazione visiva dei loro affanni servisse a rendere più efficaci le parole, e quindi a meglio esprimere i loro sentimenti, non esitavano a strapparsi i capelli, a graffiarsi il viso, o comunque ad agitare le mani in una mimica di disperazione che sembrava racchiudere l’essenza stessa del dolore.

Scansioni da tragedia che toccavano il vertice quando, con un incedere assorto da statua dell’Addolorata, si faceva largo una giovane vedova seguita dal grappolo dei suoi orfani. Sulla bocca dell’innocenza, morte e miseria trovavano commistione in un unico boccone amaro, e non a torto il coro delle donne si dava a chiedere: “Pane!… Pane!… Pane!…”. Un’invocazione che di proposito si faceva echeggiare forte, poiché, oltre a essere una preghiera rivolta al Cielo, intendeva imporsi come appello rivolto ai vivi: un grido che nasceva sì in nome della pietà, ma che, sfruttando l’impunibilità del momento, vibrava come rabbiosa pietrata sui portoni dei ricchi, rappresentando, sia pure in modo coatto, un fermento di ribellione sociale.

Più silenzioso, forse più struggente, il pellegrinaggio dei vecchi. Entravano nelle case in lutto in punta di piedi, rigirando fra le mani la coppola nera come fossero intenti a raggomitolare i fili di un’esistenza che l’età tarda confinava nell’amarezza dei consuntivi. Fasciati da una solitudine visibile come un’amputazione, si presentavano con timidezza, quasi che l’essere ancora vivi fosse un torto da farsi perdonare, ma il loro faticoso curvarsi sul crocefisso acquistava il significato di un’espiazione collettiva, una mortificazione antica che non era soltanto loro, ma stillava l’amaro di un’infinità di radici, forse nate nell‘alba del mondo.

Anche la loro voce aveva sapore di lontananza, mentre sussurravano parole spezzettate dalla commozione: si rivolgevano all’anima della moglie (non aveva importanza se morta un giorno o dieci anni prima) per farle sapere che la vita senza di lei non aveva senso, ch’erano stanchi e aspettavano la sua chiamata. Un monologo che invariabilmente finiva col franare in una vera e propria commemorazione, tirando in campo le virtù di quell’anima benedetta che tanto aveva lavorato e sofferto nel portare avanti una famiglia. Dilatazione della memoria che trasferiva nel mito una verità vissuta e che le donne presenti ricevevano come indiretto tributo alle loro funzioni di spose e di madri. Sentendosene investite, come protagoniste di un ruolo che misconosciuto in vita trovava giusto apprezzamento solo dopo la morte, non lasciavano passare inosservato quel momento di esaltazione e intervenivano a coro per rafforzare i termini della valutazione femminile.

Mentre il vecchio chiedeva angosciato: “Cce rrestu a ffare sobbra lla facce ti stu munnu ci m’à lassatu sulu… sulu comu fugghiazza allu jèntu?!…” (“Che resto a fare sulla faccia di questo mondo se mi hai lasciato solo… solo come foglia al vento?!…”), loro, rivolgendosi alla defunta in questione, che per essere già, presumibilmente, in Paradiso, chiamavano “Benett’ánima ti rázzia”(“Anima benedetta per grazia”), incalzavano: “Facennulu cattíu l’a fattu orfanu!…” (“Facendolo vedovo, lo hai fatto orfano!…”); e giostrando sul tono della pietà, furbamente inserivano, forse a monito di qualche marito presente, un proverbio scelto a loro emblema: “Casa senza fèmmina ete terra senza acqua”. Una definizione lapidaria della loro indispensabilità, e i cui termini di comparazione si agganciavano a due simboli (terra – acqua} ritenuti sacri da tutta la popolazione salentina.

Del resto erano sempre le donne a essere le vere protagoniste delle veglie funebri; e la loro presenza, così come la loro continua intromissione nella sottolineatura dei messaggi, sapeva di padronanza, come se presiedere agli uffici della morte fosse un loro naturale diritto, derivato dal fatto che erano loro, donne, a partorire la vita. Solo nel messaggio ti la perdunanza (di richiesta di perdono) non osavano intervenire, anzi se ne tiravano fuori in modo visibile, stringendosi contro le pareti della stanza e creando lo stacco di un vuoto fra loro, il postulante e il crocefisso.

La persona che, a cancellazione di un odio o rimorso, andava a chiedere perdono a un’anima offesa in vita e con la quale non era riuscita a rappacificarsi prima della morte, non doveva avvalersi di interventi estranei: il suo era un particolare caso di coscienza, e sebbene la confessione veniva fatta a voce alta, doveva pur sempre rimanere un atto di umiliazione personale, senza interferenze e patrocini terreni. Aspettavano perciò che il messaggio fosse concluso, prima di tornare ai loro posti e riprendere la cadenza mimata dei lamenti. Solo qualche vecchia, a chiusura della parentesi, quasi offrendosi a testimone di un patto di pace, si permetteva di dare un bacio supplementare al crocefisso, mormorando un “così sia” ch’era affermazione ma anche implorazione. Una libertà che si poteva prendere solo in nome dell’età avanzata, vista come scaturigine di particolari diritti e di altrettanti particolari doveri.

Uno dei doveri delle vecchie era proprio quello di procurare il crocefisso del bacio, ed era un compito che eseguivano con scrupolo, convinte di potere così suffragare tutte le anime sante del purgatorio. Non potendo i poveri permettersi un crocefisso da dedicare alla morte, erano loro ad andare a chiederlo in prestito alle famiglie ricche, e affinché l’atto di carità fosse più valevole, usavano rivolgersi alla famiglia meno amica, o per lo meno andare a bussare alla casa più lontana.

Avvolte nello scialle nero, che per l’occasione di lutto indossavano alla monacale, facendolo aderire basso sulla fronte e fermandolo attorno al viso come un soggolo, si presentavano ai portoni signorili con l’atteggiamento umile di chi si riconosce in bisogno, ma nello stesso tempo con lo sguardo fiero di chi sa che la sua richiesta non può, per cause maggiori, essere respinta.

Il crocefisso del bacio, infatti, non si negava mai, e non soltanto per il rispetto che si aveva verso la morte, ma per la paura di attirare, con quel diniego, la disgrazia nella propria casa.

A Cristu nicatu sècuta muèrtu chiantu” (“Alla negazione di un crocefisso segue il pianto per un morto in famiglia”), stabiliva un detto popolare; e giacché ai signori dispiaceva prestare il crocefisso dei propri morti, ne tenevano un altro esclusivamente dedicato alle richieste del popolo. Di legno, quasi sempre chiaro, era caratteristico per il Cristo di rame che, mantenuto lucido dal ripetuto strofinio di labbra, aveva barbagli strani, quasi sprazzi sanguigni. Avvolto in un quadrato di tela nera, lo si teneva a portata di mano, chiuso in qualche stipetto della sala d’ingresso dove c’erano anche un fascio di candele e una scorta di pezzuole di lino, oggetti anche questi di continue richieste.

Quello di famiglia, al contrario, essendo un oggetto che ci si augurava non dovesse servire mai, si conservava in uno dei nascondigli più segreti della casa, e sebbene venisse intenzionalmente dimenticato, al momento opportuno il più giovane della famiglia sapeva sempre dove trovarlo. Pur nella confusione o smarrimento che quelle tristi circostanze potevano generare, nessuno scordava i suoi compiti, anzi ognuno se ne faceva uno scrupolo nell’osservarli, ansioso di rispettare le tradizioni, ma forse più che altro rassicurato da una successione di regole che potevano avere valore scaramantico. A prelevare quel crocefisso doveva infatti essere il più giovane, e doveva farlo a tempo giusto, cioè quando la salma era già composta sobbr’a lla castellana e la fiamma dei quattro candelotti aveva già scavato la sua buca nella cera.

Sollecitato dai parenti, che gli tenevano dietro in processione, il ragazzo si avviava commosso a compiere la sua missione, anche se l’importanza e la responsabilità di quel gesto erano tanto grandi da non consentire spazio alle emozioni. Prima di prendere il crocefisso doveva segnarsi devotamente tre volte e attendere a che le donne gli appendessero al braccio, a mo’ di manipolo sacro, un asciugamano usato in occasione di un battesimo: uno di quegli asciugamani di lino che ogni famiglia ricca approntava per le nascite, contrassegnandoli con delle crocette ricamate a sfilato un angioletto eseguito a filè[†]. Esibiti con gioia al fonte battesimale, quei lini tornavano a galla nell’ora del dolore, e, sebbene in forma più dimessa, la loro presenza risultava altrettanto importante, giacché voleva significare che l’offerta di quel crocefisso veniva fatta in nome di un’innocenza non ancora in debito con la morte.

Il concetto di un’esistenza da scompitare col travaglio della fine scattava dopo, a veglia funebre conclusa, cioè quando, immediatamente prima dei funerali, il crocefisso doveva essere tolto dalle mani del morto. Un compito che spettava al più anziano della famiglia, il quale si sentiva in dovere di autoindicarsi come il più stanco della vita, facendo valere il rispetto per quella legge di naturali successioni che la morte non doveva assolutamente incrinare con mietiture fuori stagione.


[1] Ci sia concesso di rimandare il lettore al nostro “Per un’antropologia linguistica della memoria narrata. Invito alla riscoperta dell’opera etnologica di Giulietta Livraghi Verdesca Zain. ”, in corso di pubblicazione.
[2] LIVRAGHI VERDESCA ZAIN G., Tre Santi e una campagna. Culti magico-religiosi nel Salento fine Ottocento, Laterza, Bari 1994, p. XI

[3] L’immagine è tratta da una poesia inedita della Verdesca Zain, “Otranto: visita alla cappella dei Martiri”, ove leggiamo: «tu – Nino – poeta eremita / che moduli i giorni / in levigate consonanze d’amore / io / particella di un fiato / che trattieni con le unghie / come ultimo riverbero di un tramonto».

[4] In particolare si vedano le seguenti recensioni Cfr. BRONZINI G.B., Giulietta Livraghi Verdesca Zain, Tre santi e una campagna, in Bollettino storico della Basilicata, n. 10, 1994, pp. 337-342; IMBRIANI E., Giulietta Livraghi Verdesca Zain, Tre santi e una campagna, in Miscellanea storico salentina «Giovanni Cingolani», IV, 1995, pp.145-151; IMBRIANI E., Giulietta Livraghi Verdesca Zain, Tre santi e una campagna, in LARES Rivista trimestrale di studi demoetnoantropologici, Anno LXI, n. 4, ottobre-dicembre 1995, pp. 632-4.


[*] Per meglio comprendere la differenza di vedute nonché di usi che correva tra ricchi e poveri a proposito della morte, leggere della stessa autrice, Tre Santi e una campagna. Culti magico-religiosi nel Salento fine Ottocento, Laterza, Bari 1994, Cap. “Li manure ti Santu Itu”, pp. 119-129.
pubblicato su Spicilegia Sallentina n°6

Parlava la lingua dell’orto – il salento maruggese

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VIVA  IL  DIALETTO, TUTTI  I  DIALETTI

 di Francesco Lenoci

Sono nato a Martina Franca, in Puglia,  nel 1958. Vi ho trascorso un’infanzia felice e una giovinezza altrettanto felice. Dopo aver conseguito la maturità scientifica, sono andato a Siena per gli studi universitari e, poi,  a Cagliari, dove ho prestato  il servizio militare. Dal 1983 vivo,  lavoro e insegno nella  seconda, per numero di abitanti, città pugliese d’Italia: Milano.

Il mio Amico Emilio Marsella è nato a Maruggio, in Puglia, ha studiato come me anche a Martina Franca e si è affermato professionalmente, come il sottoscritto, a Milano.

Non credo di sbagliare affermando che Milano è la città dove generazioni di  pugliesi hanno dato il meglio di sé. Perché Milano ti accoglie, ti stimola, ti offre un’opportunità . . .   che non puoi non cogliere . .  .  se hai “occhi di tigre”, “orecchie alla Dumbo” e voglia di fare strada.

Viviamo da tanti anni lontani dalla Puglia, ma “la lontananza” – come cantava Domenico Modugno – “spegne i fuochi piccoli e accende quelli grandi”. Non temo di essere smentito affermando che ai nostri nomi  non sarà mai affiancato il proverbio maruggese “Pi iddu, pi iddu, ognunu penza pi iddu”. La speranza è che trovi applicazione l’altro proverbio maruggese citato nel Libro: “Ci busca e dai a Mparatisu vai”.

Per promuovere il Libro di Emilio Marsella “Parlava la lingua dell’orto – il salento maruggese prima degli anni 30/40 del millenovecento e dopo” ED INSIEME, giugno 2009, ho, inter alia, creato un gruppo su Facebook denominato “Maruggio….Martina Franca….Milano….Maruggio”.

Sono i nidi ove è ambientato il Libro. Cominciano tutti con la lettera “M” . . . come Marsella.

Maruggio sta all’inizio e alla fine della denominazione del gruppo: ha la valenza di due nidi. Mi hanno chiesto in tanti. . . . perché? Lo rivelo questa sera, utilizzando l’incipit della recensione del Libro che un grande giornalista, un grande Amico mio e di Emilio Marsella, Franco Presicci, ha pubblicato su La Gazzetta della Puglia di aprile-luglio 2009.

Scrive Franco Presicci: “Difficile dimenticare il proprio nido. Ci sono uccelli che vi tornano sempre. E se il vento o la pioggia lo hanno irrimediabilmente disfatto, loro ne fanno un altro, ma nello stesso posto: lo stesso albero, un buco dello stesso fabbricato come i passeri, o  sotto lo stesso tetto come le rondini. Emilio Marsella non ha dimenticato la sua Maruggio. Il suo cuore batte sempre per Maruggio,  che campeggia  spesso nei suoi discorsi”.

Ho letto una prima volta “Parlava la lingua dell’orto” nel mese di gennaio 2009 a Milano. Da quella lettura è scaturita la mia prefazione al Libro. L’ho riletto la settimana scorsa a Martina Franca. Come diceva don Tonino Bello, mutuando un’espressione di Max Weber, “Un libro che non è degno di essere letto due volte, non è neppure degno che lo si legga una volta sola”.

Nel Libro giganteggia la figura della nonna di lu Miliu: nonna Checca. Il perché è spiegato a pag. 87: “Nel nido in cui accolse il figlio e i nipoti (dopo  la prematura morte della nuora) non fu più solo la nonna. Ma in assoluto la loro mamma Checca. I piccoli nipoti la chiamavano, infatti, sempre mamma: come la chiamava il figliolo. E lei fu sempre loro madre e nonna insieme”.

Ritengo  che giganteggi perché a me, proprio a me, fa venire in mente tanti ricordi. Nonna Checca aveva un figlio emigrato in Argentina, a Buenos Aires. Anche mia nonna, morta quattro anni prima che io nascessi, aveva un figlio emigrato a Buenos Aires. Prima di partire mio zio Giovanni diceva sempre: “Tutto andrà male….non mangerò più  fave…. che lui odiava”.

La nonna di mia madre – mammà – mi vide nascere; percorreva a piedi circa un chilometro per potermi tenere in braccio. A 93 anni ballava ancora la pizzica. A pag. 122  del Libro si apprende (per i ragazzi di oggi queste cose sono in gran parte sconosciute) che “Il gallo era per nonna Checca il primo segnale naturale del nuovo giorno  e della notte, che si era ormai conclusa all’apparire della luce. Udendolo cantare ancora, l’assecondava – Tuni cuntinui a rùsciri! Nui sapimu ca jè giurnu!

Più tardi, accanto al pollaio, reagiva debolmente, senza cattiveria, alle galline che la beccavano saltandole addosso  e strappandole dalle mani il mangime che spargeva. Il padre di Emilio, allorché si accorgeva che il pollame vorace  diventava aggressivo  e assaliva  nonna Checca graffiandola, subito interveniva per allontanarlo. Affettuosamente la esortava anche a stare attenta a non farsi pizzicare”.

Anche mia nonna aveva le galline in campagna: una, alla quale  era particolarmente affezionata, la portava anche in Paese. Quella sciagurata usciva dalla gabbia e andava in giro fino a quando veniva intercettata dai vigili urbani, che facendo sciò…sciò riuscivano a risalire alla casa da cui si era allontanata. Mia nonna era sempre riuscita ad evitare la multa.

Un brutto giorno, però, la gallina anziché coccodè cominciò a fare il verso del gallo. Era un presagio di sventura, come disse alla nonna tutto il vicinato. Mia nonna, a malincuore, ammazzò la gallina una mattina. Poche ore dopo, sul far della sera,  mia nonna morì, vittima di un incidente stradale.

Un tema che pervade il Libro è il rapporto docente/studente. Emilio Marsella ha incontrato docenti non bravi e docenti bravi. È un tema complicato: mi permetto solo di dire che quello del docente è un ruolo difficilissimo. Chi vi parla è un docente universitario che, spesso, ripete una meravigliosa preghiera di don Tonino Bello:

“Salvami Signore:

  • dalla presunzione di sapere tutto;
  • dall’arroganza di chi non ammette dubbi;
  • dalla durezza di chi non tollera ritardi;
  • dal rigore di chi non perdona debolezze;
  • dall’ipocrisia di chi salva i principi e uccide le persone”.

Continuerei a leggere parti del Libro, a  commentarle  e a ricordare per ore, ma non posso e non devo  farlo, perché siamo qui riuniti, soprattutto, per ascoltare Emilio Marsella e, quindi,  mi avvio alle conclusioni.

Che cos’è un maestro di cultura?

Come dimostra da par suo, Emilio Marsella, anche con “Parlava la lingua dell’orto”, è colui che ha la capacità di viaggiare nel tempo e nello spazio, discernendo le cose positive nella pittura, nella scultura, nella poesia, nella letteratura,  nella musica, nella storia. . . . nella vita quotidiana.

E perché un maestro di cultura utilizza anche il dialetto?  Semplicemente perché il dialetto esprime al meglio, da sempre,  ciò che l’uomo è.

Grazie, grazie di cuore, Amico mio.

Un punto fermo.  Non c’è partita tra la capacità espressiva del dialetto, di ogni dialetto, e della lingua italiana. Provo a spiegarlo ricorrendo a degli esempi. Ho prestato il servizio militare, tanti anni fa, a Cagliari e, precisamente, nella caserma “Monfenera”  nel 51° Reggimento Fanteria “Sassari”. Il motto di noi  “Sassarini” era ed è: SA VIDA PRO SA PATRIA. Non c’è traduzione che renda con altrettanta forza, musicalità  e immediatezza tale motto.

Emilio Marsella mi ha portato copia del Libro nel mio studio a Milano. Dalle finestre dallo studio si vede la Madunina tuta d’ora e piscinina.  Sappiamo tutti che tale definizione è tratta dalla celeberrima canzone di Giovanni D’Anzi:

O mia bela Madunina che te brillet de lontan

tuta d’ora e piscinina, ti te dominet Milan

sota a ti se viv la vita, se sta mai coi man in man…

Lo ribadisco: non c’è traduzione che renda con altrettanta forza, musicalità e immediatezza ciò che rappresenta la Madonnina per chi vive a Milano.

Un  secondo punto fermo. Se  perdiamo la memoria delle tradizioni, cui è imprescindibilmente legato il dialetto, perdiamo tanto . . .  quasi tutto.

Nella prefazione al Libro trovate  un esempio riferito al periodo di  Carnevale che, come noto, precede la Quaresima. Ebbene, non penso di sbagliare  molto affermando che, ai giorni nostri, il Carnevale e la Quaresima sono scaduti alla condizione di pure espressioni nominali. Fino a qualche anno fa non era così! Non mi stancherò mai di ripeterlo: le tradizioni sono un dono immenso dei nostri avi su cui occorre puntare per assicurare un futuro a noi e ai nostri figli, avendo presente ciò che diceva un grande compositore e direttore d’orchestra austriaco, Gustav Mahler: “Tradizione non è culto delle ceneri, ma custodia del fuoco”.

Sono più che convinto che se si affievolisce la vitalità del dialetto . . . la conseguenza è una ed una sola: la scomparsa di un bagaglio di saggezza unico al mondo: la nostra identità culturale. Favorendo l’affermazione, in esclusiva, di un idioma sintetico. . . . stiamo distruggendo l’originalità delle nostre radici storiche e culturali. Nel libro biblico dei “Proverbi” si legge che “I detti popolari valgono a conferire al fanciullo avvedutezza e al giovane sapere e intelligenza. Il saggio che li ascolta diventerà più saggio e l’intenditore possederà di che governarsi”.

Mettendo per un attimo il berretto da economista, mi permetto di sottolineare che rinunciare alla nostra identità culturale ha come conseguenza immediata il venir meno di un  “vantaggio competitivo”. E allora . . . . grazie di cuore a coloro che si impegnano per la salvaguardia dei dialetti, tra cui Emilio Marsella.

Mi avvicino alle conclusioni, rivelandovi un segreto: che cos’è il dialetto per noi.

Un terzo  ed ultimo punto fermo.  Il dialetto è  un’esplosione di gioia. Ho fatto gli studi universitari a Siena. Eravamo in tanti di Martina Franca. Ebbene,  c’era un mio amico che studiava a Firenze: appena poteva, correva a Siena…. per poter parlare in dialetto con noi. Ho lavorato in una multinazionale americana. Mi dicevano i miei insegnanti di inglese: il segreto per poter parlare bene la lingua inglese….è pensare in inglese; mai pensare in italiano e poi tradurre! Non ho mai avuto il coraggio di confessare ai miei insegnanti che pensavo in dialetto, traducevo in italiano e, quindi, traducevo in inglese. La mia fortuna era che, avendo il dialetto nel DNA, riuscivo ad essere veloce….non mi facevo scoprire.

I miei genitori hanno messo al mondo due figli: mia sorella, che ha sei anni più di me e il sottoscritto. Sapete come mi chiamano? Mi chiamano:  u peccinne.

Un famoso slogan pubblicitario di qualche anno fa recitava: “Una telefonata. . . . allunga la vita”. A me fa molto. . . molto di più. Se telefono da Milano o Chicago a Martina Franca, quando mio padre comunica a mia madre che al telefono c’è  u peccinne,io, che ho più di cinquant’anni e  peso più di  novanta chili, grazie alla magia del dialetto, riesco a viaggiare nel tempo e nello spazio, tornando  .  . .  bambino . . .  a Martina Franca . . . con i miei genitori.

Sia lode e gloria al dialetto, a tutti i dialetti! Sia lode e gloria a Emilio Marsella che, con “Parlava la lingua dell’orto” suscita una nostalgia  che prende il cuore e lo riempie, allo stesso tempo….  di malinconia per il tempo che fu e le persone a noi care …. di amore, tanto amore, verso la nostra terra d’origine.

La Fondazione Terra d'Otranto, senza fini di lucro, si è costituita il 4 aprile 2011, ottenendo il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia - con relativa iscrizione al Registro delle Persone Giuridiche, al n° 330 - in data 15 marzo 2012 ai sensi dell'art. 4 del DPR 10 febbraio 2000, n° 361.

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