Preistoria/ A Nardò e dintorni sarebbe nato l’uomo moderno

di Biagio Valerio

Baia di Uluzzo (Nardò-Lecce), nella foto (portadimare.it) l’ingresso della grotta del Cavallo segnalata dalla freccia

Due denti potrebbero riscrivere la storia dell’uomo così come la conosciamo e testimoniare che la zona ionico-salentina sia stata davvero la culla dell’Homo sapiens sapiens. A Nardò e dintorni, insomma, sarebbe nato l’uomo moderno e ciò è successo molto prima di quanto si pensasse: oltre 40mila anni fa. Lo dicono i fossili umani ritrovati in Italia, a Portoselvaggio.

I resti sono stati analizzati da un gruppo internazionale di ricercatori, tra cui alcuni italiani, e i dati pubblicati sull’ultimo numero di Nature. Si tratta di due molari ritrovati della Grotta del cavallo e, inizialmente, classificati come appartenenti ad un uomo di Neanderthal.

E’ stato Stefano Benazzi, ricercatore all’Università di Vienna, ad utilizzare nuove e raffinate tecniche e datarli a circa 44mila anni fa: sono questi i resti di uomo moderno più antichi d’Europa.

Le datazioni rivelano che la diffusione dei primi uomini moderni sia avvenuta prima di quanto ipotizzato finora e che i nostri progenitori hanno coesistito con i Neanderthal, sicuramente nel meridione d’Italia, per molte migliaia di anni.

i denti che hanno consentito la scoperta (per gentile concessione di portadimare.it)

I denti da latte ritrovati nella Grotta del Cavallo sono stati sempre associati alla cultura detta Uluzziana – toponimo coniato dal professore Arturo Palma di Cesnola, dell’università di Siena, negli anni Sessanta – della quale si

Quei due denti ritrovati a Portoselvaggio (Nardò) sono i resti di uomo moderno più antichi d’Europa

Stefano Benazzi

di Biagio Valerio

E’ un giovane ricercatore italiano del dipartimento di Antropologia all’università di Vienna, il 34enne Stefano Benazzi, a riscrivere la storia dell’uomo moderno. Che avrebbe mosso i suoi primi passi nel Salento e, precisamente, nell’area di Portoselvaggio. Lì, oltre 40mila anni fa, i primi uomini della specie Sapiens sapiens, quella che avrebbe conquistato il mondo affermandosi su tutti gli altri mammiferi, cacciavano nelle praterie di quella che sarebbe diventata, millenni dopo, la baia di Uluzzo.

La particolarità di questa scoperta, legata all’indagine di due molari da latte ritrovati durante le campagne di scavo degli anni Sessanta nella Grotta del cavallo, è che l’Homo sapiens avrebbe convissuto, nello stesso spazio fisico, con gli esemplari della specie dell’uomo di Neanderthal che, secondo gli studiosi, si è estinta misteriosamente forse proprio per la concorrenza del suo “collega” più evoluto.

L’uomo moderno è nato molto prima di quanto si pensasse, dunque, oltre 40mila anni fa. Lo testimoniano i fossili umani ritrovati in Italia, nella Grotta del Cavallo, resti che sono stati analizzati da un gruppo internazionale di ricercatori, tra cui alcuni italiani, e i dati pubblicati sull’ultimo numero di Nature. Benazzi ha utilizzato raffinate tecniche di datazione facendo fermare l’orologio del tempo a 44mila anni fa: quei due denti ritrovati a Portoselvaggio sono i resti di uomo moderno più antichi d’Europa.

Intorno a quei denti, però, gravita un mistero. Ne delinea i confini Vittorio Marras che fa parte dello storico Gruppo speleologico neritino, che affiancò Arturo Palma di Cesnola e Edoardo Borzatti von Lowenstern

I denti decidui di Grotta del Cavallo i resti più antichi di uomo moderno in Europa?

I primi uomini moderni europei

Secondo i risultati di uno studio pubblicato su Nature, i membri della nostra specie (Homo sapiens) sarebbero arrivati in Europa alcuni millenni prima di quanto finora attestato. Il gruppo di ricerca, guidato dai ricercatori del Dipartimento di Antropologia dell’Università di Vienna, ha analizzato due denti decidui rinvenuti nella Grotta del Cavallo, una cavità preistorica della Puglia (prov. Lecce). Scoperti nel 1964, questi denti erano ritenuti neandertaliani dalla comunità scientifica, mentre sarebbero da attribuire a uomo anatomicamente moderno secondo i risultati di questa recente ricerca. Questa scoperta ha importanti implicazioni riguardanti le abilità cognitive dei neandertaliani e le possibili cause della loro estinzione. Nuove datazioni al radiocarbonio realizzate dall’Oxford Radiocarbon Accelerator Unit
dell’Università di Oxford, collocano i livelli di rinvenimento dei denti a ~45-43mila BP (data calibrata). I denti decidui di Grotta del Cavallo sono quindi i
resti più antichi di uomo moderno in Europa finora conosciuti.

La ricerca pubblicata su Nature è stata condotta dal Dr. Stefano Benazzi, ricercatore italiano presso il Dipartimento di Antropologia dell’Università di Vienna, Austria, con la collaborazione internazionale di 13 istituzioni europee, incluse anche l’Università di Pisa e l’Università di Siena. Questo studio si basa sulla rivalutazione di denti fossili rinvenuti nella Grotta del Cavallo scoperta nel 1960 e inizialmente studiata da Arturo Palma di Cesnola, Professore emerito dell’Università di  Siena.

Grotta del Cavallo, racchiude una serie stratigrafica di circa 7 m con più livelli di età paleolitica, che comprendono periodi di occupazione sia neandertaliana che di  uomo moderno. I due denti da latte oggetto della ricerca sono stati rinvenuti nei livelli archeologici dell’Uluzziano. La cultura uluzziana (nome che deriva dalla Baia di Uluzzo dove si apre la grotta) è diffusa in larga parte dell’Italia ed è stata rinvenuta anche in Grecia. Fra i suoi prodotti, accanto ai manufatti litici, sono presenti strumenti in osso e soprattutto oggetti ornamentali e pigmenti, elementi generalmente associati al comportamento simbolico dell’uomo moderno.

Uomo di Neanderthal

Sulla base di studi precedenti i denti uluzziani di Grotta del Cavallo erano
considerati neandertaliani dalla maggior parte degli studiosi; pertanto era
comunemente accettato dalla comunità scientifica che gli Uluzziani fossero
neandertaliani che però possedevano una cultura solitamente ritenuta tipica
dell’uomo anatomicamente moderno, e che, a seconda delle interpretazioni,
l’avessero sviluppata autonomamente o acquisita dall’uomo moderno attraverso un processo di acculturazione.

Il Dr. Benazzi e colleghi hanno potuto mettere a confronto modelli digitali 3D
(ottenuti da immagini ad alta risoluzione da microtomografia computerizzata –
µCT) dei due denti di Grotta del Cavallo con un ampio campione di denti
neandertaliani e di uomo moderno. Grazie a due metodi indipendenti, i
ricercatori hanno analizzato vari caratteri della struttura interna ed esterna
dei denti, in particolare lo spessore dello smalto e il contorno generale delle
corone dentarie. I risultati hanno dimostrato che i due denti sono attribuibili
a uomo moderno anziché a neandertaliani. Il Dr. Benazzi osserva: “I fossili
umani sono molto rari e ancora di più lo sono i denti decidui. Questo studio è
stato realizzato grazie alla collaborazione di numerose istituzioni europee che
hanno messo a nostra disposizione i fossili umani. La rivalutazione dei denti
di Grotta del Cavallo è stata possibile grazie all’uso di tecniche innovative
sviluppate nel corso dell’ultimo decennio che fanno capo alla branca
dell’Antropologia chiamata Virtual Anthropology.”

I livelli uluzziani sono stati recentemente ridatati dalla Dr. Katerina Douka, dell’Università di Oxford, Gran Bretagna, dato che le valutazioni cronologiche precedenti erano affette da contaminazione recente. Essendo i denti fossili di Grotta del Cavallo troppo piccoli per essere datati direttamente, Douka ha
utilizzato un nuovo approccio al radiocarbonio per datare le conchiglie utilizzate come ornamento e rinvenute negli stessi strati archeologici dei denti. I risultati dimostrano che questi reperti risalgono a circa 45-43mila anni fa (data calibrata).

“Queste nuove datazioni”, riassume Benazzi, “fanno dei due denti di Grotta del
Cavallo i più antichi reperti europei di uomo moderno finora conosciuti. Questa  scoperta retrodata l’arrivo dei membri della nostra specie nel continente  europeo e indica che la coesistenza di neandertaliani e uomini moderni sia avvenuta per alcune migliaia di anni. Inoltre, sulla base di queste evidenze fossili abbiamo dimostrato che gli uomini anatomicamente moderni, e non i neandertaliani, hanno prodotto la cultura uluzziana. Ciò ha importanti implicazioni per la nostra comprensione delle abilità cognitive dei neanderaliani e dello sviluppo del comportamento umano moderno: gli elementi innovativi propri della cultura uluzziana non sarebbero quindi riconducibili ai neandertaliani ed è perciò ancora da dimostrare che questi umani avessero sviluppato negli ultimi millenni prima della loro scomparsa una cultura simile  a quella dell’uomo anotomicamente moderno. La nostra scoperta dà indicazioni anche sulle modalità di popolamento del continente europeo. È plausibile supporre che gruppi umani provenienti dall’Africa e passanti per il Vicino Oriente, si siano spostati anche lungo una via mediterranea, con ingresso in Italia facilitato dalla regressione marina dell’ultimo periodo glaciale”.

 

Note dell’editore

*”The Early dispersal of modern humans in Europe and implications for
Neanderthal behaviour” di Stefano Benazzi et al. sarà pubblicato su Nature il
02 novembre 2011, 18:00 London time (GMT) / 14:00 US Eastern Time. DOI 10.1038
/nature10617

*La ricerca è stata finanziata da: NSF 01-120 Hominid Grant 2007, A.E.R.S.
Dental Medicine Organisations GmbH FA547013, Fondation Fyssen, DFG INST 37/706-
1 FUGG.

*L’Oxford Radiocarbon Accelerator Unit è finanziato in parte dal Natural
Environment Research Council (NERC). Una parte di questo progetto è stata
finanziata grazie a una borsa NERC–NRCF. Vedi : http://www.nerc.ac.uk/

Dr. Stefano Benazzi è un ricercatore (post-doctoral fellow) presso il
Dipartimento di Antropologia dell’Università di Vienna.

Cinzia Fornai è candidata PhD presso il Dipartimento di Antropologia
dell’Università di Vienna.

Dr. Katerina Douka è una ricercatrice (post-doctoral fellow) al Research
Laboratory for Archaeology and History of Art, School of Archaeology
dell’Università di Oxford.

Torre Squillace verso il recupero

di Valentina Rosafio

Risale al 3 agosto scorso l’inizio dei lavori dati in consegna all’impresa Edilgamma di Lecce, che scongiureranno l’imminente pericolo di crollo della torre cinquecentesca localmente detta Scianuri, collocata sul litorale ionico tra Sant’Isidoro e Porto Cesareo.

I continui crolli con perdite di veri e propri pezzi dalla parte superiore hanno decretato uno situazione di abbandono che più volte è stata lamentata da cittadini, associazioni culturali e ambientaliste e denunciata in alcune lettere di sollecitazione da Marcello Gaballo, medico neretino già ispettore onorario per i monumenti di Nardò, che ha scritto alle autorità competenti (dal sindaco Antonio Vaglio, al Ministro dei Beni e Attività Culturali, al Presidente dell’Area Marina Protetta Porto Cesareo, al Presidente della Provincia e al Presidente della Regione), portando avanti la causa di una torre bellissima ma rimasta per lungo tempo abbandonata a se stessa e proprio dal tempo, come pure dalle frequenti e abbondanti piogge degli ultimi periodi, consumata, degradata, erosa.

La torre che si erge silenziosa sulla litoranea di Nardò, risale al 1567 e fu completata nel 1570 da Pensino Tarantino, maestro copertinese. Tuttavia è nel corso degli anni che assunse la connotazione che avrebbe dovuto mantenere oggi se non fosse stata abbandonata al degrado, e cioè un complesso a pianta quadrata con conformazione tronco piramidale al cui interno furono costruite scale mobili e una scala esterna in pietra aggiunta nel 1640.

Torre Squillace fa parte del complesso delle torri Fiume, S. Caterina, dell’Alto, Uluzzo, Inserraglio, S. Isidoro, Cesarea, Chianca, Lapillo, Colimena, tutte costruite per difendere il territorio dai continui attacchi e saccheggiamenti di barbari e corsari che approdavano con facilità sulle nostre coste.
Alcune di esse sono oggi perfettamente conservate e valorizzate, luoghi utilizzati per iniziative ed esposizioni artistiche.

Nel 1707 Torre Squillace divenne una prigione per 16 turchi “naufragati lungo la costa, per osservare la rigorosa quarantena prevista per scongiurare la peste” come attestano i numerosi documenti pervenuti.
Nell’800 passò in custodia alle guardie doganali (1820) , per poi essere affidata all’Amministrazione della Guerra e della Marina (1829). Nel 1940 l’Esercito vi aprì una postazione di artiglieria, rimasta in azione fino all’armistizio del 1949.

Sottoposta a vincolo dal Ministero nel 1986, grazie alle continue attività e alle segnalazioni del circolo culturale Nardò Nostra, che ne ha mantenuto viva la storia attraverso una mostra e una pubblicazione, la torre com’è oggi, ingabbiata dall’impalcatura per evitare ulteriori cedimenti, è in attesa che le venga restituito lo splendore e la fierezza d’un tempo.

(pubblicato su “Lo Scirocco”, settembre, anno 2 numero 1)

Torre Sant’Isidoro e torre Uluzzo sulla costa di Nardò

Le torri di S. Isidoro e Uluzzo come la mitica fenice?

 

di Armando Polito

È intuitivo (ma non mancano testimonianze letterarie e archeologiche) che fin da tempi antichissimi nelle zone costiere ci fosse un sistema di vigilanza per controllare eventuali attacchi provenienti dal mare. Non è difficile, perciò, immaginare che anche le nostre coste, prima della sistematica operazione voluta nel Regno dal governo spagnolo nel corso del XVI° secolo, ne fossero fornite.

Solo in epoca relativamente recente il progresso tecnologico (non disgiunto da appetiti di natura speculativa…) ha realizzato nuove strutture di servizio ex novo e, pensando alle autostrade,  tutto ciò ha comportato l’abbandono dei percorsi viari precedenti.

In passato, invece, quando si era felicemente costretti più ad assecondare la natura che a violentarla, per lo più le vie non erano altro che il rifacimento o l’ammodernamento di antichi percorsi; lo stesso dev’essere successo per il sistema difensivo costiero e non è da escludere che alcune (non tutte) delle nuove torri siano sorte sulle rovine (naturali o indotte) delle antiche, per le quali, evidentemente, felice era stata la scelta del luogo più adatto per le funzioni alle quali dovevano assolvere.

È quanto potrebbe essere successo per le torri di San Isidoro e di Uluzzo nel territorio di Nardò.

S. ISIDORO

La prima attestazione del toponimo risale al 1443 [Angela Frascadore, Le pergamene del monastero di S. Chiara di Nardò (1292-1508), Società di storia patria per la Puglia, Bari, 1981 pg. 117]: …massariam unam, nominatam Sancti Nicolai Pedi Roghina,   que est  prope  maritimam in Sancto Ysidero… (…una masseria chiamata  San Nicola Pedo Roghina, che si trova vicino al mare in Sant’Isidoro…)] e, più avanti nello stesso documento (pg. 120):…usque ad locum qui vocatur Salparea et vadit per massariam Sancti Ysideri, inclusive, usque ad turrim Sancti Ysideri, que est fundata  et constructa super territorio dicti pheudi, et deinde currit per viam que dicitur Carbasio, usque ad clausorium olivarum Carbasii, inclusive, et massariam Nicolai Cursari, que fuit Iohannis de Thoma de Neritono…(…fino al luogo che si chiama Sarparea e procede attraverso la masseria di Sant’Isidoro, comprendendola, fino alla torre di Sant’Isidoro che è costruita sul territorio di detto feudo1, e  poi  corre attraverso  la  via chiamata Carbasio, fino all’oliveto di Carbasio, comprendendolo, e alla masseria di Nicola Cursaro, che fu di Giovanni Toma di Nardò…).

La seconda attestazione è del 1500 [Centonze-De Lorenzis-Caputo, Visite pastorali in diocesi di Nardò (1452-1501), Congedo editore, Galatina, pg. 206: Item in territorio Neritoni, in loco nominato Sancto Nicola Pedironcha2, chesura una de herbagio cum puteo parietibus clausa, in loco est nominato Sancto Ysidero (Parimenti in territorio di Nardò, in località chiamata San Nicola Pedo Roghina, un luogo recintato a pascolo con pozzo, chiuso da pareti, in località chiamata Sant’Isidoro).

La terza testimonianza è quella lasciataci da Antonio De Ferrariis detto il Galateo, nel suo De situ Iapygiae pubblicato a Basilea nel 15583: Inde divi Isidori Turris Neritonorum emporium… (Successivamente la Torre del divino Isidoro, emporio dei Neritini…).

Sappiamo che la torre attuale è la ricostruzione dalle fondamenta, iniziata intorno al 1622, della vecchia che era entrata in funzione nel 1569; la notizia dell’esistenza di una torre già nel 1443 e la testimonianza del Galateo che ho riportato alla fine (potrebbe per motivi cronologici riferirsi tanto alla torre originaria quanto alla sua prima ricostruzione)  fanno pensare che quella attuale costituisca in realtà almeno una seconda ricostruzione. Da notare che il documento riportato è  lo stesso  in cui si parla in modo che non lascia assolutamente adito a dubbi, circa una possibile confusione con questa torre, di un’altra torre, che io identificherei con quella della quale mi accingo a parlare.

 

ULÚZZU

 

La più antica testimonianza dell’esistenza della torre4 potrebbe essere fornita dallo stesso documento del 1443 già preso in esame (Angela Frascadore, op. cit. pg. 118): …item clausorium unum, nominatum de la Torre, in quo ad  presens  est  quedam turris diruta, iuxta clausorium Nicolai Viglante, viam puplicam et alios confines…(…parimenti una zona recintata detta della Torre, nella quale al presente c’è una certa torre diroccata, confinante con la zona recintata di Nicola Viglante, la via pubblica ed altri confini…) e dopo qualche rigo nello stesso documento (op. cit., stessa pagina): …item clausorium  unum  magnum, nominatum de li Viglanti, ortorum quinquaginta, parum plus vel minus, iuxta clausorium Loysii Viglante, iuxta viam qua itur maritimam et alios confines…(…parimenti una grande zona recintata, chiamata dei Viglanti, più o meno di 50 orti, confinante con la zona recintata di Luigi Viglante, con la via che corre lungo il mare ed altri confini…) e, più avanti, sempre nello stesso documento (op. cit., pg. 120): …item clausorium unum terrarum, situm ut supra, iuxta clausorium nominatum de la Torre et alios confines…(…parimenti una zona recintata di terre, sita come sopra1, confinante con la zona recintata detta della Torre e con altri confini).  

L’attuale torre di Uluzzo, dunque, entrata in funzione nel 1568, potrebbe essere la ricostruzione di una preeesistente già diruta nel 1443.

E non mi meraviglierei più di tanto se nuovi documenti autorizzassero a ipotizzare per le due nostre torri, a ritroso nel tempo (non necessariamente ogni cinquecento anni, come avveniva per la fenice), ascendenze aragonesi, angioine, normanne, bizantine, romane, greche, preistoriche…

Una comunicazione di servizio: un’araba fenice (Uluzzo) probabilmente è condannata a non risorgere più dalle sue ceneri, ma questa è un’altra storia (Pompei insegna)…

__________

1 Si tratta del feudo di Ignano citato in una parte precedente a quella del documento riportata.

2 Da notare quale deformazione ha assunto il toponimo, in poco più di cinquanta anni,  rispetto al precedente Sancti Nicolai Pedi Roghina.

3 Cito da La Giapigia e vari opuscoli, Lecce, Tipografia Garibaldi, 1867, vol. I, pag. 29.

4 L’attuale struttura risale alla seconda metà del XVI secolo, il nome attuale al 1957; i nomi precedenti erano stati: Del capo delle vedove (1569), Crustimi (1601), Crustamo (1611), Crostomo (1613), Crustano (1648), Cristemo (1657), Crustomo (1777), Cristomo (1800).

Sapiens e noi

di Mauro Marino

Il primo Homo sapiens europeo è salentino, pardon… pugliese, no anzi, italiano. Era molto piccolo e  non era ancora allenato ai distinguo “regionalisti” apparteneva alla Natura, era sua intima cosa nella bellezza di Uluzzo che chissà com’era in quel remoto tempo, 43 – 45mila anni fa.

Certo la Grotta del Cavallo davanti non c’aveva il mare. Una foresta forse, oh!, che foresta… o forse una palude?

I resti del pargolo, due dentini attorniati da conchiglie, vennero trovati negli anni Sessanta del Novecento, e in prima battuta vennero attribuiti all’estinto Neanderthal e per cui datati ancora più indietro. Oggi finalmente è tutto chiaro l’Uomo Moderno, il Sapiens più antico che “conosciamo”   in Europa, viveva lì, a due passi da Nardò. È Storia, una delle tante che fanno unico questo territorio, luogo di transiti, d’arrivi e partenze…

Anche dall’altra parte, dov’è Badisco, le tracce dell’Uomo ci portano a Millenni fa, ma son cose dimenticate, invisibili e preda dell’incuria. Ma che fa, le notizie durano il tempo che durano e si è sempre pronti a strillare per poi farsi muti.

Grande pompa s’è consumata in questi giorni, locandine e paginoni che inneggiano alla primogenitura e alla pubblicazione sull’autorevole rivista britannica “Nature” della ricerca guidata da Thomas Higham dell’Università di Oxford e da Stefano Benazzi dell’Università di Vienna..

Poi, battuta la news, finito lo sturbo, tutto cadrà nel dimenticatoio e nenche un pannello avvertirà che lì, due denti da latte, hanno dato la prova che un gradino dell’evoluzione della nostra “dannata” specie è passato da lì… ma chissà da quante altre parti dimenticando di far ritrovare i dentini…

Ciò che preoccupa è la modalità ormai di “moda” nel Salento di “sparare” le notizie “salentocentriche”, con un enfasi che è roba da psichiatria.

Modo “barocco” che innalza facciate e poi immediatamente dopo dimentica di nutrire la necessaria operatività per valorizzare la “ricchezza” che il territorio ha custodito. Citavo prima Badisco e la Grotta dei Cervi, che non ha alcuna “evidenza”, ma l’elenco è lungo, interminabile se ci mettiamo a guardare. È come se il tanto osannato marketing territoriale si fermasse alle parole e alla prima scrematura di denari, poi nulla diventa cultura, educazione, pratica e semenza di crescita. Usurare soltanto questo lo stile. Consumare, tanto che poi di noi, non ritroveranno neanche i dentini!

Note storiche su torre Squillace, detta Scianuri, sul litorale di Nardò (Lecce)

 

di Marcello Gaballo

torre Squillace (ph M. Gaballo)

Sul finire del XVI secolo la città di Nardò è un cantiere aperto e si registra il rifiorire di ogni attività edile pubblica e privata, civile e religiosa. I documenti già attestano la presenza di decine e decine di complessi masserizi, specie nelle vicinanze della foresta dell’Arneo, rinomato luogo di caccia per cervi e cinghiali per ricchi proprietari e cortigiani al servizio della celebre famiglia dei duchi d’Acquaviva d’Aragona, che aveva scelto di dimorare in città.

Ma la tranquillità dei luoghi viene turbata in questo quarto di secolo dalle continue scorrerie di orde di barbari e corsari, che dal mare possono sbarcare in un qualsiasi punto della estesissima costa, in particolar modo nel nostro distretto, costellato da numerosissimi insediamenti produttivi fortificati e non.

In obbedienza a quanto promulgato a Napoli nel 1563 e 1567, ci si preoccupa di difendere il pingue territorio con la fortificazione della costa, ricorrendo a collaudati sistemi di avvistamento come le torri, alcune delle quali anche adatte a fronteggiare sparuti manipoli di pirati assetati e famelici e perciò bisognosi di far provvista di acqua e viveri.

In tutto il regno sorgono le torri, più rade nei tratti di scogliera alta ed impervia, più ravvicinate in tratti di costa bassa, come nel tratto ionico di nostro interesse.

torre Squillace nel corso dell’ultimo restauro del 2009 (ph M. Gaballo)

L’incremento maggiore si ha sotto il governo dei vicerè don Pedro da Toledo e don Pedro Afan de Ribera (1559-1571).  L’ordine di realizzarle, promulgato dalla Regia Camera di Napoli attraverso il suo presidente Alfonso de Salazar, avviene nel 1563, indirizzato ai regi ingegneri, che devono perciò erigerle su tutta la costa del regno, con il contributo delle universitas che distano meno di 12 miglia dal mare. Alcuni mastri giungono da Napoli nella nostra provincia, altri si formavano in loco, sino a diventare essi stessi i principali referenti della Regia Camera, come sono stati i neritini Vincenzo ed Angelo Spalletta, padre e figlio.

Furono essi i più abili costruttori, realizzando poderose torri a pianta quadrata, che dall’ architetto Faglia, massimo studioso del sistema torriero del Regno, sono classificate come torri “della serie di Nardò” (Fiume, S. Caterina, dell’Alto, Uluzzo, Inserraglio, S. Isidoro, Squillace, Cesarea, Chianca, Lapillo, Colimena).

La peculiarità di questa serie, oltre la pianta, è data dalla scala esterna, spesso aggiunta successivamente, la conformazione troncopiramidale, la presenza di caditoie (una o due per lato ed in corrispondenza delle aperture), la cornice toriforme marcapiano che divide la parete verticale da quella a scarpa, i beccatelli in leggero sbalzo, la cisterna nel piano inferiore e la zona abitabile in quello rialzato, la scala interna ricavata nel notevole spessore murario, la guardiola posta sulla terrazza.

Ad ogni torre era assegnato almeno un caporale e un cavallaro, entrambi stipendiati dall’università locale, ed ognuna di esse disponeva di un armamentario (un documento notarile elenca un  mascolo di ferro, uno scopettone, uno tiro di brunzo con le rote ferrate accavallato, con palle settanta di ferro).

La torre allora denominata Scianuri fu iniziata in località San Giorgio, in corrispondenza del porto omonimo, negli ultimi mesi del 1567, ma i lavori restarono fermi per oltre un anno a causa delle difficoltà finanziarie della competente università di Copertino. Risulta completata nel 1570, ad opera del mastro copertinese Pensino Tarantino, avendo richiesto circa ottomila ducati per la sua realizzazione. Sei anni dopo viene dotata di scale mobili e vengono completati gli infissi, registrandosi ulteriori spese sostenute ancora dai copertinesi, che nel frattempo avevano anche provveduto a retribuire i cavallari ad essa deputati.

Nel 1640 viene dotata della scala esterna in pietra, che ancora può vedersi, pur nel suo deplorevole stato.

Tralasciamo ogni altra notizia certa e documentata nel corso dei secoli, ricordando solo che la nostra torre nel 1707 ospita nelle sue prigioni sedici turchi, naufragati lungo la costa, per osservare la rigorosa quarantena prevista per scongiurare la peste.

Da un sopralluogo del 1746 viene attestato che non abbisogna di alcuna manutenzione, per essersi conservata molto bene.

lo stato di degrado di torre Squillace che ha sollecitato l’intervento di recupero (ph M. Gaballo)

Nel secolo successivo viene data in custodia alle guardie doganali (1820), quindi all’Amministrazione della  Guerra e della Marina  (1829). Nel 1940 i soldati dell’Esercito vi installano una postazione di artiglieria, rimasta attiva fino all’armistizio del 1949.

La torre, con quella di S. Caterina e del Fiume, è stata vincolata dal Ministero nel 1986, grazie alle pressanti segnalazioni del circolo culturale Nardò Nostra, che se occupò con una mostra itinerante e con una pubblicazione.

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