Lucio Battisti, Mogol e Torre Squillace…

la spiaggetta di Torre Squillace in inverno

di Giuseppe Tarantino

Davanti al mare “chiaro e trasparente” di Nardò, Lucio Battisti e Mogol crearono “La canzone del sole”. Si aggiunge un dato più certo alla leggenda che lega Lucio Battisti al mare e alle coste di Nardò: la leggenda, che tale rimane, vuole che la famosa “Acqua azzurra, acqua chiara” sia stata scritta dal duo più importante della musica leggera italiana ispirandosi alle acque cristalline della baia di Torre Squillace, nell’estate di oltre quarant’anni fa (il 1967 o il 1968).

Ma sotto il sole dell’allora incontaminata località neritina sullo Jonio, Lucio Battisti e Giulio Rapetti in arte Mogol (ospiti del loro amico copertinese Adriano Pappalardo) avrebbero creato un altro capolavoro: “La Canzone del sole”. Lo rivela Maurizio Leuzzi, il “patron” del Premio Battisti, la manifestazione-tributo al cantautore che si tiene a Nardò da dieci anni. E la fonte che Leuzzi cita è di quelle che “più autorevoli non si può”: proprio Mogol.

Maurizio Leuzzi l’ha inseguito per anni con l’intenzione di invitarlo ad una delle edizioni del Premio Battisti. L’inseguimento è finito sabato 7 novembre, a Lecce, in occasione del “Concerto per la vita”, dedicato proprio a Lucio Battisti, organizzato in favore dei bambini della Nigeria dall’associazione “For life”, che si è tenuto al Politeama Greco e del quale Giulio Rapetti è stato testimonial. A partecipare alla serata erano stati invitati anche i membri dell’Associazione culturale musicale “Lucio Battisti” di Nardò che non si sono fatti sfuggire l’occasione di consegnare un Premio Battisti “fuori stagione”. Il presidente Maurizio Lezzi e il vicepresidente Luca Rizzello, hanno infatti consegnato a Mogol una maiolica dipinta a mano, opera dell’artista neritino Marcello Malandugno, anche lui presente alla serata.

Inevitabilmente il discorso è presto scivolato sul rapporto con la terra neritina e la genesi di alcuni indimenticabili brani del duo Battisti-Mogol. Il paroliere milanese avrebbe lasciato alla leggenda il luogo della creazione di “Acqua azzurra” ed avrebbe, invece, indicato la spiaggia de “Li Cianuri” (Torre Squillace, appunto) come probabile luogo “di nascita” di quello che sarebbe diventato uno dei brani più celebri nella storia della musica italiana: “La canzone del sole”.

Il sole del Salento, quindi, avrebbe ispirato la musica e il testo (di cui rimane impresso in particolar modo l’incipit “Le bionde trecce, gli occhi azzurri e poi le tue calzette rosse” e l’inciso “Oh mare nero, oh mare nero, oh mare ne..”) del brano che usci nel novembre 1971 sul lato A di un 45 giri che sul retro conteneva un’altra hit di Battisti, “Anche per te”.

da sinistra Rizzello – Leuzzi (presidente dell’Associazione) – Mogol (con il Premio Battisti)- il pittore Malandugno

Le tonnare del litorale neritino fra XVII e XX secolo

di Salvatore Muci e Marcello Gaballo

Tra tutti i sistemi di pesca quello dei tonni è risultato sempre tra i più redditizi e perciò più praticato mediante l’ installazione di impianti, per l’ appunto detti tonnare, sistemate nei punti in cui veniva segnalato il passaggio di questi pesci “corridori”.

Tali impianti di reti fisse[1], verticalmente tese lungo la costa, spesso lunghe diverse centinaia di metri e in corrispondenza di fondali profondi anche oltre i 25 metri, comportavano investimenti in denaro di non poco conto, certamente non possibili al povero marinaio. Divenne dunque prerogativa di duchi e baroni, o perlomeno di ricchi proprietari, sino a rappresentare speciali meriti o concessioni regie alle città, tra cui, nel nostro circondario, la fidelis Gallipoli.

Già nel 1490 nel mare di pertinenza del feudo di Nardò, presso il porto della Culumena[2], si praticava la pesca del tonno ad opera di pescatori tarantini[3], con strumenti appositi. Essi, oltre le tonnine, vi pescavano sardelle, palamide, modoli, inzurri, alalonge e vope. Per tale pescato ogni tredici ne pagavano il valore di uno al baglivo, mentre al gabelliere versavano i 15 tarì mensili per la sosta della barca[4].

La città di Nardò non poteva in quel tempo possedere una tonnara, in virtù di un antico privilegio ottenuto dalla vicina città di Gallipoli sin dal 1327 da Roberto D’Angiò[5], riconfermato nel 1526 da Carlo V[6], e da un decreto della Regia Camera consegnato al Sindaco dell’Università di Gallipoli, Leonardo D’Elia, il 15 luglio 1628.

Bartolomeo Ravenna ribadiva nelle sue Memorie Istoriche della città di Gallipoli che solo la città di Gallipoli, nel tratto di mare tra S.Maria di Leuca e Taranto, poteva tenere il privilegio di una tonnara, e coi tonni ed altre specie

Torre Squillace verso il recupero

di Valentina Rosafio

Risale al 3 agosto scorso l’inizio dei lavori dati in consegna all’impresa Edilgamma di Lecce, che scongiureranno l’imminente pericolo di crollo della torre cinquecentesca localmente detta Scianuri, collocata sul litorale ionico tra Sant’Isidoro e Porto Cesareo.

I continui crolli con perdite di veri e propri pezzi dalla parte superiore hanno decretato uno situazione di abbandono che più volte è stata lamentata da cittadini, associazioni culturali e ambientaliste e denunciata in alcune lettere di sollecitazione da Marcello Gaballo, medico neretino già ispettore onorario per i monumenti di Nardò, che ha scritto alle autorità competenti (dal sindaco Antonio Vaglio, al Ministro dei Beni e Attività Culturali, al Presidente dell’Area Marina Protetta Porto Cesareo, al Presidente della Provincia e al Presidente della Regione), portando avanti la causa di una torre bellissima ma rimasta per lungo tempo abbandonata a se stessa e proprio dal tempo, come pure dalle frequenti e abbondanti piogge degli ultimi periodi, consumata, degradata, erosa.

La torre che si erge silenziosa sulla litoranea di Nardò, risale al 1567 e fu completata nel 1570 da Pensino Tarantino, maestro copertinese. Tuttavia è nel corso degli anni che assunse la connotazione che avrebbe dovuto mantenere oggi se non fosse stata abbandonata al degrado, e cioè un complesso a pianta quadrata con conformazione tronco piramidale al cui interno furono costruite scale mobili e una scala esterna in pietra aggiunta nel 1640.

Torre Squillace fa parte del complesso delle torri Fiume, S. Caterina, dell’Alto, Uluzzo, Inserraglio, S. Isidoro, Cesarea, Chianca, Lapillo, Colimena, tutte costruite per difendere il territorio dai continui attacchi e saccheggiamenti di barbari e corsari che approdavano con facilità sulle nostre coste.
Alcune di esse sono oggi perfettamente conservate e valorizzate, luoghi utilizzati per iniziative ed esposizioni artistiche.

Nel 1707 Torre Squillace divenne una prigione per 16 turchi “naufragati lungo la costa, per osservare la rigorosa quarantena prevista per scongiurare la peste” come attestano i numerosi documenti pervenuti.
Nell’800 passò in custodia alle guardie doganali (1820) , per poi essere affidata all’Amministrazione della Guerra e della Marina (1829). Nel 1940 l’Esercito vi aprì una postazione di artiglieria, rimasta in azione fino all’armistizio del 1949.

Sottoposta a vincolo dal Ministero nel 1986, grazie alle continue attività e alle segnalazioni del circolo culturale Nardò Nostra, che ne ha mantenuto viva la storia attraverso una mostra e una pubblicazione, la torre com’è oggi, ingabbiata dall’impalcatura per evitare ulteriori cedimenti, è in attesa che le venga restituito lo splendore e la fierezza d’un tempo.

(pubblicato su “Lo Scirocco”, settembre, anno 2 numero 1)

Ecco a voi Torre Squillace! finalmente salva!

ph Stefania Bianco

di Marcello Gaballo

È con grande gioia che annunciamo il completamento dei lavori per salvare la tanto amata torre Squillace, che qualche anno fa l’incuria del tempo e degli uomini stava condannando alla scomparsa.

ph Stefania Bianco

Molti ricorderanno i pressanti appelli rivolti ai Ministeri, alla Capitaneria, ai  comuni competenti, alla Provincia, alla Regione, alla Soprintendenza. Sembravano caduti nel vuoto e invece, anche con una certa solerzia,  forse spaventati dal “rumore” sollevato in ogni ambito, si intervenne a più riprese, fino al completamento dei lavori che ci hanno restituito in questi giorni la bella torre, vanto della torri costiere a pianta quadrata della serie di Nardò.

Grazie a chi ha ascoltato la nostra motivata preoccupazione, grazie a chi è intervenuto nelle sedi competenti, grazie alla ditta che ha eseguito i lavori, ma soprattutto grazie a quanti hanno sostenuto con noi la battaglia con il tam-tam inaspettato su tutto il mondo del web e attraverso la carta stampata.

ph Maria Aurora Trentadue

L’amica Stefania Bianco ha fotografato per noi lo stato attuale e volentieri pubblichiamo le sue foto, ringraziandola per aver vigilato quotidianamente, fino alla rimozione delle coperture di protezione e delle impalcature.

Finisce qui? no certamente, perchè ora bisognerà ripulire l’area circostante e l’incantevole spiaggetta che tra poco sarà presa d’assalto da residenti e turisti.

lato mare (ph Maria Aurora Trentadue)
ph Maria Aurora Trentadue
ph Maria Aurora Trentadue
ph Maria Aurora Trentadue

 

la torre con le impalcature poi rimosse

La nostra torre, denominata Scianuri, fu iniziata in località San Giorgio, in corrispondenza del porto omonimo, negli ultimi mesi del 1567, ma i lavori restarono fermi per oltre un anno a causa delle difficoltà finanziarie della competente università di Copertino. Risulta completata nel 1570, ad opera del mastro copertinese Pensino Tarantino, avendo richiesto circa ottomila ducati per la sua realizzazione. Sei anni dopo viene dotata di scale mobili e vengono completati gli infissi, registrandosi ulteriori spese sostenute ancora dai copertinesi, che nel frattempo avevano anche provveduto a retribuire i cavallari ad essa deputati. Nel 1640 viene dotata della scala esterna in pietra, che ancora può vedersi, pur nel suo deplorevole stato.

Rimando ai diversi link per conoscere tutte le vicende della torre, comprese quelle storiche.

 

http://www.lecceprima.it/cronaca/torre-squillace-a-pezzi-appello-urgente-per-salvarla.html

http://www.belpaeseweb.it/articolo.asp?di=Gaballo%3A+%22Torre+Squillace+rischia+di+crollare%22&rubrica=Nard%F2&sezione=Comuni&id_sezione=3&id_rub=71&id=3148

http://tblog.iltaccoditalia.net/fotoprotesta/2009/07/21/torre-squillace-a-rischio-crollo/

http://www.lecceprima.it/cronaca/sos-per-torre-squillace-via-all-operazione-recupero.html

Nardò. Armando bacchetta due suoi ex allievi

Come se non bastasse la nostra cacca…

di Armando Polito

Sono stati entrambi, anche se in tempi diversi, miei alunni e, per quanto sto per dire, non vorrei fungere da capro espiatorio…

Non potevo, però, io, per quanto abituato, forse, solo allo studio delle parole e del loro etimo, dopo aver espresso il mio sdegno per la triste fine riservata ai nostri ulivi monumentali o ai poco saggi saggi petroliferi lungo le nostre coste (altro che parole!), non potevo non dire la mia sulla cacca (altro che parole!) di Porto Cesareo che promette, come se non bastasse la nostra, di garantirci un destino di merda.

Onestamente, se Marcello Risi e Giuseppe Mellone fossero ancora miei alunni, il primo, in termini di valutazione,  non lo sarebbe solo cronologicamente.   È

Ecco a voi la scilla, alias cipuddhàzzu

di Armando Polito

 

 

Nome italiano: scilla

nome scientifico: scilla maritima

famiglia: Liliaceae

nome dialettale: cipuddhàzzu

Etimologie: scilla dal latino scilla(m), dal greco skilla; maritima=marittima, con riferimento alla sua preferenza per l’ambiente costiero; Liliaceae è forma aggettivale da lìlium=giglio.

Il nome dialettale cipuddhàzzu, corrispondente formalmente all’italiano cipollaccio (che, però, indica il lampascione) è da cipòddha, corrispondente all’italiano cipolla, dal latino cepulla(m)1, diminutivo di cepa. il suffisso –azzu (in italiano –accio) ha, di regola, la duplice valenza dispregiativa (mumintàzzu/momentaccio) o accrescitiva (catenaccio/catinàzzu)2. Voglio augurarmi che nel nostro caso sia prevalente quest’ultima (con riferimento alle dimensioni superiori a quelle di una cipolla di media grandezza) e non la prima, probabilmente con essa convivente nell’immaginario collettivo, anche perché il nostro bulbo (al quale certamente, quando lo incontriamo, dedichiamo appena uno sguardo fugace) certamente non lo merita. Basta leggere cosa di lui scriveva Plinio nel I° secolo d. C.: “Dalle piante che nascono nei giardini si ricava il vino dalla radice dell’asparago, dalla cunila3, dall’origano, dal seme del sedano, dall’abrotono, dalla menta selvatica, dalla ruta, dalla nepitella, dal serpillo, dal marrobbio. Mettono due fascetti in un orcio pieno di mosto, un sestario4 di mosto cotto e mezza coppa di acqua marina. Col mosto cotto si fa aggiungendone due denari4 di mosto, allo stesso modo con la radice della scilla6”; “Si dice che se il fico viene piantato nella scilla -questa è un bulbo- rapidissimamente fruttifica e non è soggetto all’inverminamento, difetto da cui sono immuni anche gli altri alberi da frutto piantati allo stesso modo7”; “In verità nobilissima è la scilla, sebbene nata per i medicamenti e per rinforzare l’aceto. Non c’è bulbo più grande e che abbia maggior forza. Due sono le varietà della medicinale, il maschio dalle foglie bianche, la femmina dalle foglie nere.  Ma la terza varietà è un cibo gradevole, si chiama Epimedio, dalle foglie piccole e meno aspro. Hanno tutte molto seme; tuttavia crescono abbastanza celermente con i bulbilli nati attorno e, perché crescano, le foglie, che hanno ampie, si sotterrano; così i bulbilli ne assumono le sostanze nutritive. Nascono spontaneamente numerosissime nelle isole Baleari e ad Ibiza e per tutta la Spagna. Il filosofo Pitagora scrisse un libro su di loro, compendiandone le proprietà medicamentose di cui parlerò nel prossimo libro8”; “ Tra le scille con proprietà medicinali la bianca è il maschio, la nera la femmina;  la più bianca è la migliore. Tolta a questa la scorza secca, fatta a fette la parte verde restante, si pongono queste su un panno a piccola distanza l’una dall’altra. Poi i pezzi seccati vengono sospesi in un orcio pieno di aceto quanto più forte possibile in modo che non tocchino nessuna parte del vaso. Si fa questo quarantotto giorni prima del solstizio. Poi il vaso otturato con gesso viene posto sotto le tegole perché ricevano il sole dell’intera giornata. Dopo quel numero di giorni si tira fuori il vaso, si estrae la scilla e si cola l’aceto. Questo rischiara molto la vista, è salutare per lo stomaco, per i dolori al fianco assunto a digiuno ogni due giorni. Ma è tanto forte che assumendolo con troppa avidità per un momento sembra che uno sia morto. Giova pure alle gengive e ai denti anche solo masticandola. Assunta con aceto e miele elimina le tenie e gli altri parassiti del corpo. Messa fresca sotto la lingua fa che gli idropici non sentano sete. Si cucina in diversi modi: in una pentola che si mette nel forno spalmata di grasso o di fango o a pezzi in tegame. E cruda viene seccata, poi si taglia a pezzi e si cuoce nell’aceto, quando serve contro i morsi dei serpenti. Quando è arrostita si netta e la sua parte centrale viene cotta di nuovo in acqua. Così cotta viene somministrata agli idropici, per stimolare la diuresi bevuta nella dose di tre oboli9 con miele ed aceto, allo stesso modo ai sofferenti di milza e ai sofferenti di stomaco, se non avvertono i sintomi dell’ulcera, che abbiano problemi di digestione, per le coliche, per i sofferenti di bile, per la tosse cronica che toglie il respiro. In soluzione con le foglie per quattro giorni combatte la scrofolosi, cotta in olio ad empiastro la forfora e le ulcere che emettono liquido. Si cuoce pure nel miele per cibo, soprattutto per favorire la digestione. Così purifica anche l’intestino. Cotta in olio e mista ad acquaragia sana le screpolature dei piedi. Il suo seme viene applicato con miele nel caso di dolore dei fianchi. Pitagora tramanda che la scilla sospesa anche sulla porta è efficace a tenere lontani i malefici10”. “L’aceto di scilla quanto più è invecchiato tanto più è utile. Giova, oltre a quanto abbiamo detto, ai cibi inaciditi perché li rende più gradevoli al gusto; parimenti a quelli che vomitano a digiuno perché dà insensibilità alla gola e allo stomaco. Elimina l’alitosi, cicatrizza le gengive, rende saldi i denti, dà un colorito migliore. Gargarizzandolo elimina la durezza di orecchi e apre le vie dell’udito. In pari tempo acuisce la vista. È straordinariamente utile agli epilettici, ai biliosi, contro le vertigini, i restringimenti della matrice, gli urti, le cadute e gli ematomi che ne conseguono, i nervi ammalati, le malattie dei reni, da evitare in caso di ulcera11”; “Le rane cotte con la scilla curano la dissenteria, come dice Nicerato12”.

Basta e avanza per ricrederci sul conto del cipuddhàzzu. Vale pure la pena ricordare che è utile (anche se non efficace come un diserbante …) contro l’orobanche: basta ridurla in poltiglia, aggiungere acqua e lasciarvi i semi a bagno per almeno 36 ore.

Ma non è finita. Esso ci ha lasciato il ricordo degli antichi fasti anche nella toponomastica se una delle torri di avvistamento (Squillace13) deve il nome proprio alla notevole presenza in zona di questo bulbo14.

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1 Attestato solo nel De re coquinaria di Apicio (probabilmente I° secolo d. C.).

2 Nel dialetto, poi, può assumere addirittura tre valori e questo non è sintomo di ambiguità ma di maggiore creatività (proprio come avviene nella poesia); per esempio, fimminàzza, a seconda del contesto, nel dialetto neretino può indicare una donna prosperosa (valore accrescitivo) o  che sa il fatto suo (valore migliorativo) o che sa troppo il fatto suo…(valore dispregiativo). E poi, quale valore attribuire, per esempio, a sangunàzzu (sanguinaccio)? Per me, che non lo gusto, sarebbe fin troppo facile optare per il peggiorativo, per un patito sarebbe il contrario. Il fatto è che il suffisso –àccio/-àzzu deriva dal quello aggettivale latino –àceu(m) che di per sé non aveva valore positivo o negativo. Comunque, a beneficio dei buongustai, a costo di darmi con la zappa sui piedi, riporto le parole di Plinio (I° secolo d. C.) a proposito del sanguìculus, che può essere considerato l’antenato del nostro sanguinaccio:  (Naturalis historia, XXVIII, 58) Utuntur ad utrumque vitium et coagulo haedi in vino myrtite fabae magnitudine poto et sanguine eiusdem in cibum formato, quem sanguiculum vocant (Si servono per l’uno e l’altro problema [debolezza di stomaco e coliche] anche del caglio di capretto del peso di una fava  bevuto in vino al mirto e del sangue dello stesso addensato in cibo, che chiamano sanguiculus).

3 Varietà di origano.

4 Circa mezzo litro.

5 Circa 30 g.

6 Naturalis historia, XIV,19, 4: Ex his quae in hortis gignuntur fit vinum e radice asparagi, cunila, origano, api semine, habrotono, mentastro, ruta, nepeta, serpyllo, marruvio. manipulos binos condunt in cadum musti et sapae sextarium et aquae marinae heminam. E napis fit duum denariorum pondere in sextarios binos musti addito, item e scillae radice.

 

7 Op. cit., XVII, 87:Ficus si in scilla -bulborum hoc genus est- seratur, ocissime ferre traditur pomum neque vermiculationi obnoxium, quo vitio carent et reliqua poma similiter sata.

 

8Op. cit., XIX, 93-94: Proxima hinc est bulborum natura, quos Cato in primis serendos praecipit celebrans Megaricos. verum nobilissima est scilla, quamquam medicamini nata exacuendoque aceto. Nec ulli amplitudo maior, sicuti nec vis asperior. Duo genera medicae, masculae albis foliis, feminae nigris. Set tertium genus est cibis gratum, Epimedion vocatur, angustius folio ac minus asperum. Seminis plurimum omnibus; celerius tamen proveniunt satae bulbis circa latera natis et, ut crescant, folia, quae sunt his ampla, deflexa circa obruuntur; ita sucum omnem in se trahunt capita. Sponte nascuntur copiosissimae in Baliaribus Ebusoque insulis ac per Hispanias. Unum de eis volumen condidit Pythagoras philosophus, colligens medicas vires, quas proximo reddemus libro.

9 Circa 2 g.

10 Op. cit., XX, 37: Scillarum in medicina alba est quae masculus et femina nigra; quae candidissima fuerit, utilissima erit. Huic aridis tunicis direptis quod reliquum e vivo est consectum suspenditur lino modicis intervallis. Postea arida frusta in cadum aceti quam asperrimi pendentia inmerguntur, ita ne ulla parte vas contingant.  Hoc fit ante solstitium, diebus XLVIIII. Gypso deinde oblitus cadus ponitur sub tegulis totius diei solem accipientibus. Post eum numerum dierum tollitur vas, scilla eximitur, acetum transfunditur. Hoc clariorem oculorum aciem facit, salutare est stomachi, laterum doloribus ieiunis parum sumptum binis diebus. Sed tanta vis est, ut avidius haustum exstinctae animae momento aliquo speciem praebeat. Prodest et gingivis et dentibus vel per se commanducata. Taenias et reliqua ventris animalia pellit ex aceto et melle sumpta. Linguae quoque recens subiecta praestat, ne hydropici sitiant. coquitur pluribus modis: in olla, quae coiciatur in clibanum aut furnum, vel adipe aut luto inlita, vel frustatim in patinis. Et cruda siccatur, deinde conciditur coquiturque in aceto, cum serpentium ictibus inponitur. Tosta quoque purgatur et medium eius iterum in aqua coquitur. Usus sic coctae ad hydropicos, ad urinam ciendam tribus obolis cum melle et aceto potae, item splenicos et stomachicos, si non sentiant ulcus, quibus innatet cibus, ad tormina, regios morbos, tussim veterem cum suspirio. Discutit et foliis strumas quadrinis diebus soluta, furfures capitis et ulcera manantia inlita ex oleo cocta. Coquitur et in melle cibi gratia, maxime uti concoctionem faciat. Sic et interiora purgat. Rimas pedum sanat in oleo cocta et mixta resinae. semen eius lumborum dolori ex melle inponitur. Pythagoras scillam in limine quoque ianuae suspensam contra malorum medicamentorum introitum pollere tradit.

11 Op. cit., XXIII, 28 Acetum scillinum inveteratum magis probatur. Prodest super ea, quae diximus, acescentibus cibis, gustatu enim discutit poenam eam; item iis qui ieiuni vomant, callum enim faucium facit ac stomachi. Odorem oris tollit, gingivas adstringit, dentes firmat, colorem meliorem praestat. Tarditatem quoque aurium gargarizatione purgat et transitum auditus aperit. Oculorum aciem obiter axacuit. Comitialibus, melancholicis, vertigini, volvarum strangulationibus, percussis aut praecipitatis et ob id sanguine conglobato, nervis infirmis, renium vitiis perquam utile, cavendum exulceratis.

12 Op. cit., XXXII, 31: Dysintericis medentur ranae cum scilla decoctae ita, ut tradit Niceratus.

13 Squillàci o Scianùri all’origine. L’attuale denominazione risale al 1777.

14 La supposizione nasce dal fatto che parecchi toponimi sono legati ad una caratteristica del sito, quale può essere, una specie animale [per esempio, la torre di S. Caterina nel 1601 si chiamava Scorzòne (un serpente), ma potrebbe anche darsi che il nome sia stato dato per il fatto che la costa in quel tratto ne rievocava la forma] l’abbondanza di una specie vegetale (per esempio, torre Uluzzo (asfodelo), che nel 1601 si chiamava Crustimi, probabile deformazione del greco krethmon o krethmòn =finocchio marino; torre Inserraglio potrebbe essere deformazione di saracchio. Il nostro caso è ancora più problematico per la terminazione del nome, che non esclude, a mio avviso, un rapporto con il greco skulon=spoglia, preda (riferimento alle incursioni saracene?), mentre non mi sentirei (voglio esagerare!) di trascurare pure il latino squilla=cicala di mare.

Note storiche su torre Squillace, detta Scianuri, sul litorale di Nardò (Lecce)

 

di Marcello Gaballo

torre Squillace (ph M. Gaballo)

Sul finire del XVI secolo la città di Nardò è un cantiere aperto e si registra il rifiorire di ogni attività edile pubblica e privata, civile e religiosa. I documenti già attestano la presenza di decine e decine di complessi masserizi, specie nelle vicinanze della foresta dell’Arneo, rinomato luogo di caccia per cervi e cinghiali per ricchi proprietari e cortigiani al servizio della celebre famiglia dei duchi d’Acquaviva d’Aragona, che aveva scelto di dimorare in città.

Ma la tranquillità dei luoghi viene turbata in questo quarto di secolo dalle continue scorrerie di orde di barbari e corsari, che dal mare possono sbarcare in un qualsiasi punto della estesissima costa, in particolar modo nel nostro distretto, costellato da numerosissimi insediamenti produttivi fortificati e non.

In obbedienza a quanto promulgato a Napoli nel 1563 e 1567, ci si preoccupa di difendere il pingue territorio con la fortificazione della costa, ricorrendo a collaudati sistemi di avvistamento come le torri, alcune delle quali anche adatte a fronteggiare sparuti manipoli di pirati assetati e famelici e perciò bisognosi di far provvista di acqua e viveri.

In tutto il regno sorgono le torri, più rade nei tratti di scogliera alta ed impervia, più ravvicinate in tratti di costa bassa, come nel tratto ionico di nostro interesse.

torre Squillace nel corso dell’ultimo restauro del 2009 (ph M. Gaballo)

L’incremento maggiore si ha sotto il governo dei vicerè don Pedro da Toledo e don Pedro Afan de Ribera (1559-1571).  L’ordine di realizzarle, promulgato dalla Regia Camera di Napoli attraverso il suo presidente Alfonso de Salazar, avviene nel 1563, indirizzato ai regi ingegneri, che devono perciò erigerle su tutta la costa del regno, con il contributo delle universitas che distano meno di 12 miglia dal mare. Alcuni mastri giungono da Napoli nella nostra provincia, altri si formavano in loco, sino a diventare essi stessi i principali referenti della Regia Camera, come sono stati i neritini Vincenzo ed Angelo Spalletta, padre e figlio.

Furono essi i più abili costruttori, realizzando poderose torri a pianta quadrata, che dall’ architetto Faglia, massimo studioso del sistema torriero del Regno, sono classificate come torri “della serie di Nardò” (Fiume, S. Caterina, dell’Alto, Uluzzo, Inserraglio, S. Isidoro, Squillace, Cesarea, Chianca, Lapillo, Colimena).

La peculiarità di questa serie, oltre la pianta, è data dalla scala esterna, spesso aggiunta successivamente, la conformazione troncopiramidale, la presenza di caditoie (una o due per lato ed in corrispondenza delle aperture), la cornice toriforme marcapiano che divide la parete verticale da quella a scarpa, i beccatelli in leggero sbalzo, la cisterna nel piano inferiore e la zona abitabile in quello rialzato, la scala interna ricavata nel notevole spessore murario, la guardiola posta sulla terrazza.

Ad ogni torre era assegnato almeno un caporale e un cavallaro, entrambi stipendiati dall’università locale, ed ognuna di esse disponeva di un armamentario (un documento notarile elenca un  mascolo di ferro, uno scopettone, uno tiro di brunzo con le rote ferrate accavallato, con palle settanta di ferro).

La torre allora denominata Scianuri fu iniziata in località San Giorgio, in corrispondenza del porto omonimo, negli ultimi mesi del 1567, ma i lavori restarono fermi per oltre un anno a causa delle difficoltà finanziarie della competente università di Copertino. Risulta completata nel 1570, ad opera del mastro copertinese Pensino Tarantino, avendo richiesto circa ottomila ducati per la sua realizzazione. Sei anni dopo viene dotata di scale mobili e vengono completati gli infissi, registrandosi ulteriori spese sostenute ancora dai copertinesi, che nel frattempo avevano anche provveduto a retribuire i cavallari ad essa deputati.

Nel 1640 viene dotata della scala esterna in pietra, che ancora può vedersi, pur nel suo deplorevole stato.

Tralasciamo ogni altra notizia certa e documentata nel corso dei secoli, ricordando solo che la nostra torre nel 1707 ospita nelle sue prigioni sedici turchi, naufragati lungo la costa, per osservare la rigorosa quarantena prevista per scongiurare la peste.

Da un sopralluogo del 1746 viene attestato che non abbisogna di alcuna manutenzione, per essersi conservata molto bene.

lo stato di degrado di torre Squillace che ha sollecitato l’intervento di recupero (ph M. Gaballo)

Nel secolo successivo viene data in custodia alle guardie doganali (1820), quindi all’Amministrazione della  Guerra e della Marina  (1829). Nel 1940 i soldati dell’Esercito vi installano una postazione di artiglieria, rimasta attiva fino all’armistizio del 1949.

La torre, con quella di S. Caterina e del Fiume, è stata vincolata dal Ministero nel 1986, grazie alle pressanti segnalazioni del circolo culturale Nardò Nostra, che se occupò con una mostra itinerante e con una pubblicazione.

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Marcello Gaballo
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