Torre Colimena, Wikipedia ed altro …

di Armando Polito

 

Credo che Wikipedia sia più consultata della versione on line della Treccani. È questo un altro segno di quella globalizzazione culturale resa possibile dalla rete e le cui conseguenze epocali sono state delineate nel recente post Tra globale e locale: riflessioni su diritti e mutamenti partendo da Rodotà (https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/11/tra-globale-e-locale-riflessioni-su-diritti-e-mutamenti-partendo-da-rodota/) a firma di Leonardo Gatto. Così, può sembrare paradossale, tanta parte di conoscenza di realtà locali, prima  immeritatamente e superficialmente bollata spesso come manifestazione di  provincialismo, ha trovato nella rete il suo veicolo di diffusione e discussione (oltre che di aggiornamento e integrazione continui) e Wikipedia è diventato un contenitore globale, mentre le enciclopedie tradizionali anche nella loro versione digitale  rischiano di diventare non solo statiche ma, in un certo senso, locali. Se, però, alcune smagliature possono anche comparire sulla Treccani (mi limito a risegnalarne una che è ancora lì a far bella mostra di sé all’intero globo: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/05/26/lettera-aperta-a-massimo-bray-titolare-del-mibac1/), il rischio in Wikipedia è di gran lunga più spinto, perché ho l’impressione che poco efficace sia, sul piano scientifico,  il controllo della validità  di certe schede. Non è la prima volta che faccio osservazioni del genere (non aggiungo altri links per non obbligare il volenteroso di turno  a consumare un’intera giornata per leggere fino in fondo questo post …) e questa volta sono incappato in rete in Colimena, il nome della torre costiera in territorio di Manduria in provincia di Taranto.

Relativamente all’etimo del toponimo ecco quanto si legge in http://it.wikipedia.org/wiki/Torre_Colimena

Il significato del nome di questa località è ancora piuttosto incerto.

Tuttavia, l’etimologia del nome è di evidente derivazione ellenica, risalente al periodo della Magna Grecia.

Probabilmente il nome Colimena è dovuto alla contrazione di καλή λιμένων (kalì limènon, buoni porti), oppure da κολλημένα (kollimèna, attaccati), in quanto la baia di Torre Colimena e l’attuale Salina dei Monaci apparivano agli occhi dei navigatori come due sicuri porti attaccati, attigui.

O, ancora, il nome potrebbe essere la contrazione di κολύμπι μέρη (kolympi mèri, luoghi per nuotare).

Altri, invece, ritengono che il nome derivi dal latino columna (colonna) in quanto, sul luogo, sono state reperite diverse colonne risalenti al periodo romano.

Pur mantenendo la sua inequivocabile origine greca, il nome Colimena è ricorrente anche nella letteratura spagnola come nome proprio femminile che si rifà, secondo alcune altre fonti, presumibilmente al nome della ninfa Colimena, una nereide marina della mitologia greca.

Direi che le cose vanno male già dall’inizio con quella derivazione ellenica risalente al periodo della Magna Grecia, in cui l’ambiguità di quel risalente serve solo a giustificare tutte le locuzioni subito dopo messe in campo, che sono neogreche e che servono solo a bypassare le anomalie di ordine fonetico riguardanti l’evoluzione vocalica.  Nonostante questa contraddizione iniziale che da sola basterebbe a smontare tutta la costruzione, passo ora ad esaminare le varie ipotesi facendo preliminarmente notare come non risultano citati i riferimenti alla fonte, neppure laddove questa viene genericamente messa in campo (debbo pensare che quando neppure genericamente si parla di fonte il padre dell’etimo sia lo stesso autore della scheda?).

1) καλή λιμένων (kalì limènon) In greco classico sarebbe stato καλοί λιμένεϛ (leggi calòi limènes). Facile notare come Colimena rispetto alla locuzione neogreca come a quella classica presenta una –o– che deriverebbe (e come?) da –α-(leggi –a-), nonché la –a che deriverebbe (e come?) da –ω(ν) [leggi -o(n)].

2)  κολλημένα (kollimèna) Qui il vocalismo sarebbe compatibile ma risulterebbe molto strano lo scempiamento λλ(leggi –ll-)>l di fronte alla tendenza alla geminazione caratteristica del nostro dialetto. In greco classico è  κολλωμένα (leggi collomèna) e rispetto a colimena bisognerebbe giustificare lo stesso presunto scempiamento di prima e il vocalismo –ω– (leggi –o-)>-i-.

3) κολύμπι μέρη (kolympi mèri) La presunta trafila sarebbe: κολύμπι μέρη>κολύμμι μέρη  (assimilazione μπ->-μμ-; leggi coliùmmi meri)>κολύμμι μένη (leggi coliùmmi meni). Peccato, però, che bisognerebbe giustificare nel primo componente lo scempiamento μμ(leggimm-)>m- e nel secondo il passaggio -ρ->-ν-. In greco classico la locuzione sarebbe stata κολύμβῳ (leggi coliùmbo) μέρη e anche per questa valgono le stesse incongruenze appena rilevate per la neogreca.

4) columna Sarebbe interessante conoscere il nome degli altri che hanno formulato l’ipotesi etimologica che l’anonimo autore della scheda riporta dopo quelle che ritengo essere le sue. Intanto non sono al corrente di ritrovamento di colonne romane in loco e, oltretutto, se il toponimo fosse legato al latino columna, sarebbe stato culonna (forma unica per tutto il Salento) e non certo colimèna che supporrebbe l’inserimento di una –e– eufonica secondo la trafila: columna>columèna>colimena. Se così fosse stato colonna in salentino sarebbe stato non culonna ma columèna.

5) Pur mantenendo la sua inequivocabile origine greca, il nome Colimena è ricorrente anche nella letteratura spagnola come nome proprio femminile che si rifà, secondo alcune altre fonti, presumibilmente al nome della ninfa Colimena, una nereide marina della mitologia greca.

Siamo alla botta finale con la consueta genericità di secondo alcune altre fonti e il presunto rifacimento della voce spagnola alla nereide Colimena. Lasciando da parte la letteratura spagnola e guardando in casa nostra, dico che nessun autore ha mai attestato l’esistenza di Colimena ma che questa presunta ninfa diventa l’emblema di quel pressappochismo interessato (dunque, non sempre legato all’ignoranza) che non perdono nemmeno agli artisti. Le cose stanno così: si prende il nome di Climene [attestato, in riferimento non sempre alla stessa divinità,  nella forma greca Κλυμένη (leggi Cliumène) nell’Iliade (XVII, 47), nell’Odissea (XI, 326), in Esiodo (VIII-VII secolo a. C.), Theogonia, 351, nello Pseudo-Apollodoro, Bibliotheca (compilazione del I-II secolo), II, 1, 5; nella forma latina Clymene in Igino (II secolo d. C.), Fabulae, praefatio, VIII], si aggiunge una –o-, si cambia la terminazione da –e in –a e il gioco è fatto. Ecco scodellata la ninfa Colimena pronta, addirittura, a diventare protagonista di uno spettacolo, la cui recensione dal titolo Sal Salina Salento a firma di Paolo Vincenti chiunque abbia interesse potrà leggere in https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/12/05/sal-sal-ina-sal-ento/.

Sarebbe stato preferibile che il nome della nostra gente non fosse derivato dal sale ma che ne avessimo conservato in testa un pizzico in più …

Tornando al nostro etimo:  come uscire dal pantano? Io credo che, senza considerare il Rohlfs un evangelista, chi affronta una questione etimologica riferita al salentino non possa prescindere, laddove essa esista, dalla proposta avanzata dallo studioso tedesco e almeno citarla, poi confutarla, se si è in grado.

Io nel mio piccolo mi limito alla prima azione: dal greco κωλυμένος=scostato. Poi, illudendomi per un istante di essere meno piccolo, mi avventuro ad aggiungere una correzione ed una glossa. Κωλυμένος (leggi coliumènos) nelle intenzioni del Rohlfs sarebbe dovuto essere il participio presente mediopassivo maschile del verbo κωλύω (leggi coliùo)=dividere. La forma corretta, però, è κωλυόμενος (leggi coliuòmenos). A questo punto qualcuno dirà che, per l’accento, al nostro toponimo è più vicino κωλυμένος di κωλυόμενος. Osservazione ineccepibile e, giacché ci siamo, faccio notare pure che se il nostro toponimo fosse derivato da κωλυόμενος sarebbe stato Coliòmeno, se, per assurdo (visto che, come ho detto, non esiste) da κωλυμένος sarebbe stato Colimèno.

Per risolvere il problema dobbiamo considerare non il maschile ma il femminile singolare del participio presente di κωλύω, che è κωλυομένη (leggi coliuomène). Da questo a Colimèna (attraverso *Coliomèna) il passaggio è immediato e la terminazione in -a del nostro toponimo (mentre la voce greca termina in –η) potrebbe riferirsi ad una forma dorica *κωλυομένα.

Da escludere una derivazione dal neutro plurale dello stesso participio che è κωλυόμενα  (leggi coliuòmena) e avrebbe dato Colìmena (attraverso *Coliòmena).

Non escluderei, invece, κεκωλυμένη (leggi kekoliumène), nominativo femminile del participio perfetto mediopassivo dello stesso verbo; in questo caso, però, dovrei supporre l’aferesi di κε-, caratteristica del raddoppiamento tipica del perfetto, intesa quasi come inutile ridondanza sillabica.

Dopo aver fatto notare come in etimologia anche un accento ha la sua importanza e che il κωλυμένος del Rohlfs va corretto in κωλυομένη o in (κε)κωλυμένη, sul piano semantico la nostra voce, che alla lettera significherebbe impedita, potrebbe contenere un riferimento alla pericolosità (malaria?) e/o difficoltà di accesso (bosco, palude?) alla zona. Se è così, il luogo avrebbe prestato il suo nome alla torre e non viceversa.

E al fascino dei paraggi della torre e delle sue creature (troppo facile ambientarvi qualsiasi rappresentazione …) vi lascio grazie alle foto che, come le due precedenti, ha realizzato appositamente per me Corrado Notario, al quale va il mio ringraziamento.

 

 

 

 

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SAL SAL INA SAL ENTO

ph The Doc, da Wikipedia
ph The Doc, da Wikipedia

di Paolo Vincenti

 

Il video  “SAL  SAL INA  SAL ENTO, il mito della Poesia Visiva”, a cura di Salvatore Luperto, è un interessante progetto multimediale che vede la luce nel nostro Salento patria artistica e letteraria di collaborazioni e sinergie stimolanti quanto creative.

In questo video infatti interagiscono artisti e promotori culturali salentini con artisti nazionali ed internazionali, quali gli esponenti della poesia visiva.

Tutto si lega insieme. Infatti Salvatore Luperto, anima di questo progetto, è impegnato sul campo della riscoperta e valorizzazione delle arti verbo-visive ormai da decenni, e forse il coronamento dei suoi sforzi, oltreché la rappresentazione plastica del suo impegno militante, è rappresentato dal “MACMA” di Matino ( di cui abbiamo parlato a suo tempo), vale a dire il Museo di Arte Contemporanea ( dedicato al pittore Luigi Gabrieli), e di cui Luperto è direttore.

Questo museo è il primo in Puglia ad accogliere importanti autori della Poesia Visiva, tra cui Eugenio Miccini, Lamberto Pignotti, Michele Perfetti, Adriano Spatola, Mirella Bentivoglio, Lucia Marcucci, Emilio Isgrò, Franco Vaccari, Luciano Caruso, Martino Oberto,William Xerra, ecc.

Chiunque sia interessato alla poesia verbo-visiva dovrebbe vistare la mostra del “Macma”, allocato nel bellissimo Palazzo Marchesale Del Tufo di Matino e consultare il prezioso catalogo che la accompagna, “Di segni poetici  La collezione di poesia visiva del Museo Arte Contemporanea Matino” , edito da Del Grifo (2011), curato dallo stesso Luperto e da Anna Panareo.

Il videoSAL  SAL INA  SAL ENTO”, curato da  Salvatore Luperto, e con la regia di Giovanni Giangrande, l’interpretazione di Liliana Ebalginelli, la grafica video di Rodolfo Stigliano e le musiche di Biagio Putignano, è sponsorizzato dalla Banca Popolare Pugliese, e viene presentato da Lamberto Pignotti, nel booklet inserito nel cofanetto.

Realizzato in occasione del Cinquantenario dalla nascita della Poesia Visiva, vuole essere un omaggio dovuto ma sentito da parte dei suoi ideatori ad un fenomeno culturale che, a partire dal “Gruppo Settanta”, nato nel 1963 da alcuni giovani intellettuali provocatori come Miccini, Pignotti, Perfetti, Marcucci e Malquori, si diffuse a partire dai primi anni Sessanta anche in Puglia e specificamente nel Salento, dove diede vita ai gruppi di avanguardie come, solo per citare alcuni, Gramma di Giovanni Corallo, Salvatore Fanciano e Bruno Leo, nel 1970, Ghen di  Francesco Saverio Dodaro nel 1976, e il Laboratorio di Poesia di Novoli  di Enzo Miglietta, nel 1980.

Il sale del titolo, oltre a richiamare il toponimo Salento rimanda al sale, che è quello presente nella suggestiva location in cui si è deciso di ambientare il cortometraggio: la salina di Torre Colimena, frazione di Manduria in provincia di Taranto.

Una bellissima e suggestiva performance di  Liliana Ebalginelli, autrice anche (insieme a Salvatore Luperto) della sceneggiatura e dei testi, che ella mirabilmente interpreta in questo scenario, ci fa entrare in un’atmosfera irreale, come metafisica, mentre le riprese sapientemente danno al paesaggio brullo ma significativo della salina un aspetto quasi lunare.

La Elbaginelli interpreta la ninfa Colimena, una delle cinquanta nereidi, secondo la mitologia greca, la quale, approdata in questa stupenda baia diviene la custode della Salina dei Monaci e scorge, sparse al sole, diverse opere di poesia visiva e si interroga sui loro significati. Ella ricerca il “sal” ovvero lo spirito di queste opere della sperimentazione verbo -visuale e si rivolge ai Manes, gli spiriti dei defunti nella religione romana, per dare delle spiegazioni sul contenuto delle varie opere.

La performance artistica è magistralmente accompagnata dalle musiche tratte da varie opere del maestro Putignano, come “Resonare”, “Da un manoscritto di Qumran” “Frammenti di Parmenide”, “Oscillum”, “Come luce sottile”, “Tra le voci dell’alba”.

Il video è stato presentato nel maggio 2013 dal noto critico Claudio Cerritelli presso l’Accademia di Brera di Milano, poi nella Biblioteca Comunale di Tuglie (Le), all’Accademia BB.AA di Roma, ed è  inserito nei programmi delle iniziative culturali (in luoghi istituzionali e non) delle città di Firenze e di Palermo. Infine, in questi giorni,  presso la Primo Piano LivinGallery, con la mostra PAPER,dal 19 ottobre al 13 novembre.

I capricci della storia (in margine ad una ricerca d’archivio sulla Salina dei Monaci)

Salina dei Monaci

di Nicola Morrone

Giovedi’ 18 Luglio scorso si è svolta, presso i cortili del Torrione di Avetrana , la  presentazione al pubblico  dell’interessante  volume di P. Scarciglia e L. Schiavoni, intitolato “Cronologia commentata intorno alla questione di Torre Columena”.

Il libro è edito per conto dell’Associazione “Terra della Vetrana”, che ha curato l’evento in tutti i suoi aspetti (compreso il gradito aperitivo finale). In una fresca serata di Luglio, dunque, nella cornice particolarmente suggestiva del fortilizio medievale, Scarciglia e Schiavoni hanno proposto al folto pubblico intervenuto i risultati della loro indagine d’archivio sulla “vexata quaestio” del possesso legittimo delle terre site attualmente nella marina di Manduria, tra Specchiarica e Torre Colimena. Siamo stati invitati a prendere parte all’incontro proprio dagli amici dell’Associazione “Terra della Vetrana “, Pietro Scarciglia, Luigi Schiavoni e Paola Addabbo. Invito accolto con grande piacere, dal momento che la stessa benemerita Associazione  ci aveva invitati , lo scorso 21 Aprile, a tenere una conferenza su “Culto e Iconografia di San Biagio di Sebaste” nell’altrettanto significativo  contesto  della  Chiesa Matrice di Avetrana , ospiti del padrone di casa, il gentilissimo Don Giovanni Di Mauro, parroco della stessa chiesa.

Orbene, questa  meticolosa ricerca d’archivio , si inserisce a pieno titolo nell’ambito della piu’ classica pubblicistica di storia locale salentina. Lo scopo delle  87 pagine del volumetto (distribuito tra l’altro a un prezzo estrememente conveniente, che dovrebbe facilitarne una  più capillare diffusione, almeno presso la popolazione avetranese) è quello di portare il maggior numero di prove documentarie a sostegno della tesi secondo la quale le terre inglobanti la Salina dei Monaci e la Torre Colimena, attualmente ricadenti in territorio di Manduria, sono appartenute in passato, all’opposto, al “tenimento” di Avetrana, rientrando a tutti gli effetti nella sua giurisdizione, se non da sempre, almeno per buona parte della loro storia documentata.

La ricerca si inserisce  in un filone di lavori consimili prodotti dai ricercatori di Avetrana nel  tempo (si ricorda qui soltanto il volume di M.Spinosa-B.Pezzarossa-P.Scarciglia dal titolo “Relazione per la rideterminazione del territorio di Avetrana, Taranto 1995) e si avvale, in particolare, di un ricco apparato documentario, in gran parte inedito, oltre che della riproduzione fotografica (sempre utile ) di molti dei documenti citati.

Come è noto, la “vis polemica” degli amici avetranesi in relazione al problema  è stata rinfocolata dall’affermazione di uno  storico locale manduriano, il quale ha sostenuto anni orsono, in un articolo giornalistico, che il territorio oggetto di indagine, era  “da sempre” appartenuto alle pertinenze di Casalnuovo- Manduria .L’affermazione non è veritiera, dal momento che la fascia territoriale che va da Specchiarica alla Columena non ha storicamente avuto un proprietario fisso. Il territorio in questione, invece, è rientrato, nelle varie epoche per le quali è possibile documentarne la storia (cioe’ dalla fine del sec. XI alla fine del sec.XIX), nelle pertinenze di vari proprietari.

Per la Torre anticorsara della Columena,  è stata dimostrata , con questo volume, l’appartenenza al” tenimento”  di Avetrana nel sec. XVI, dal momento che un  documento (riportato anche in copia fotografica) prova che il comune di Avetrana pagava il personale in servizio alla torre .La  Salina dei Monaci, invece, che di quella disputata fascia territoriale rappresenta un po’ il fulcro (per essere stata  fonte di ricchezza, nel corso dei secoli, oltre che per Manduria e Avetrana,  anche per comunità  vicine, come Gallipoli) dopo essere stata donata alla fine del sec. XI dai Re normanni ai monaci benedettini del Monastero di San Lorenzo d’Aversa (CE) è stata verosimilmente  proprietà  del comune di Casalnuovo (Manduria), per poi passare al demanio regio al tempo degli Aragonesi (sec. XV) e poi di Carlo V, e quindi rientrare fino all’800 , come hanno ampiamente dimostrato con la loro ricerca Scarciglia e Schiavoni, nel “tenimento” di Avetrana.

Come gli amici avetranesi si sono preoccupati di portare le prove a sostegno dell’appartenenza storica ad Avetrana, così noi, in questa sede, vogliamo riassumere i documenti certi che, integrati a quelli citati nel volume ,  riconducono in qualche modo la Salina al territorio di  Manduria –Casalnuovo, ripromettendoci di produrre in futuro più ampi riferimenti documentari relativi alla questione.

Siamo costretti purtroppo, in questo caso, a partire da un documento “fantasma”, cioè un documento citato con estrema precisione da storici locali manduriani del passato, che pur dovette esistere, ma che nessuno si è mai preoccupato di produrre concretamente, e che costituisce, a nostro avviso, l’elemento che per eccellenza proverebbe il possesso della Salina da parte di Casalnuovo-Manduria, almeno alla metà del sec. XV. Si tratta di un diploma, datato in Lecce 8 Dicembre 1463, in cui sono elencate le modalità di cessione delle saline di Casalnuovo al demanio regio, cioè alla Corona Aragonese, probabilmente, come suppone lo Jacovelli, per facilitare l’approvazione da parte del sovrano dei capitoli dell’Universita’, cioe’ dei diritti e delle consuetudini comunali.

Tale documento, citato dagli storici locali Saracino, Ferrari e Da Lama, al punto tale da precisarne con esattezza la data cronica e quella  topica,  a nostro avviso dovette pur esistere, anche se non si è purtroppo conservato nel  Libro Rosso della città di Lecce, che a quella data registra uno sconfortante vuoto . Si spera che, in futuro, prima o poi il documento possa saltare fuori, per dare definitivamente forza di prova alle citazioni degli anzidetti storici locali.

Allo stato attuale, comunque, si può con certezza affermare che a cavallo tra i secc. XV e XVI , e precisamente tra il 1498 e il 1526, le Saline furono di proprietà regia, prima aragonese e poi  vicereale (al tempo di Carlo V). Cio’ si può sostenere sulla base di  quattro documenti, ben noti agli studiosi, e cioè tre facenti parte del Libro Rosso di Gallipoli, e uno pertinente al Libro Rosso di Lecce, entrambi liberamente consultabili rispettivamente nella Biblioteca Comunale di Gallipoli e nell’Archivio Storico del Comune di Lecce.

Il documento del Libro Rosso di Lecce  è datato  Napoli , 27 Gennaio 1498; quelli confluiti nel Libro Rosso di Gallipoli datano invece da Castiglione,  4 e 6 Settembre 1503, e da Granada, 23 Giugno 1526.Quest’ultimo diploma, emesso da Carlo V, è stato  riportato  anche da Bartolomeo  Ravenna nel suo volume “Memorie Istoriche della Citta’ di Gallipoli”, Napoli 1836, alla pag.282. Tutti e quattro i documenti sono citati dalla studiosa Michela Pastore , che nel suo contributo ”Fonti per la storia di Puglia : regesti dei Libri Rossi e delle pergamene di Gallipoli, Taranto, Lecce, Castellaneta e Laterza” , uscito in “Studi Chiarelli”, II, pp.153-295, ne ha fornito appunto i regesti, cioe’ la sintesi del contenuto.Ci ripromettiamo di riprodurne in copia i passi relativi alla  Salina, in  essi  denominata  appunto sempre “di Casalnuovo”. Ma perchè i documenti citati denotano con  l’espressione ”di  Casalnuovo”, una struttura che ricadeva già da tempo nel demanio regio? Riteniamo che ciò sia accaduto proprio perchè, pur possesso ormai del Re , le Saline ricadevano topograficamente, anche se non più  giuridicamente, appunto nel “tenimento” di Casalnuovo-Manduria.

In conclusione, il lavoro di Scarciglia- Schiavoni è sicuramente ben condotto, ma in realtà una completa seriazione cronologica delle vicende che hanno interessato la zona compresa tra Specchiarica e Torre Columena deve ancora essere prodotta. Molti punti restano oscuri. Quando, e perchè le Saline passarono dai Monaci Benedettini d’Aversa all’Università di Casalnuovo? E quando, e perchè, le Saline, dopo essere state  possesso del Re, entrarono nella disponibilità dell’Università di Avetrana? E soprattutto, quando, e con che modalità, la zona in questione passò definitivamente a Manduria?

E’a  quest’ultimo interrogativo che, soprattutto, preme dare una risposta  agli amici avetranesi, e a loro facciamo i nostri migliori auguri per una sua  definitiva risoluzione.

Nell’incontro, infine, si è tornato a parlare anche, e in termini piuttosto decisi, della proposta di rideterminazione dei confini del territorio di Avetrana, legittimata, secondo i ricercatori, proprio dai dati documentari .Come abbiamo affermato quella sera, ribadiamo in questa sede che, a nostro avviso, non ci pare corretto , ne’ utile, utilizzare una ricostruzione storica pur documentata come quella realizzata dagli amici avetranesi allo scopo di far tornare il Comune di Avetrana in possesso  della zona rivierasca. I problemi attuali di quella fascia territoriale , causati senza dubbio (lo diciamo da manduriani) dalla storica indifferenza  del nostro Comune in materia di politiche turistiche, da avviare immediatamente sui 18 Km di costa relativa, vanno risolti con spirito di collaborazione, piuttosto che di contrapposizione, quand’anche essa si fondi su dati storicamente inoppugnabili.

 

Torre Squillace verso il recupero

di Valentina Rosafio

Risale al 3 agosto scorso l’inizio dei lavori dati in consegna all’impresa Edilgamma di Lecce, che scongiureranno l’imminente pericolo di crollo della torre cinquecentesca localmente detta Scianuri, collocata sul litorale ionico tra Sant’Isidoro e Porto Cesareo.

I continui crolli con perdite di veri e propri pezzi dalla parte superiore hanno decretato uno situazione di abbandono che più volte è stata lamentata da cittadini, associazioni culturali e ambientaliste e denunciata in alcune lettere di sollecitazione da Marcello Gaballo, medico neretino già ispettore onorario per i monumenti di Nardò, che ha scritto alle autorità competenti (dal sindaco Antonio Vaglio, al Ministro dei Beni e Attività Culturali, al Presidente dell’Area Marina Protetta Porto Cesareo, al Presidente della Provincia e al Presidente della Regione), portando avanti la causa di una torre bellissima ma rimasta per lungo tempo abbandonata a se stessa e proprio dal tempo, come pure dalle frequenti e abbondanti piogge degli ultimi periodi, consumata, degradata, erosa.

La torre che si erge silenziosa sulla litoranea di Nardò, risale al 1567 e fu completata nel 1570 da Pensino Tarantino, maestro copertinese. Tuttavia è nel corso degli anni che assunse la connotazione che avrebbe dovuto mantenere oggi se non fosse stata abbandonata al degrado, e cioè un complesso a pianta quadrata con conformazione tronco piramidale al cui interno furono costruite scale mobili e una scala esterna in pietra aggiunta nel 1640.

Torre Squillace fa parte del complesso delle torri Fiume, S. Caterina, dell’Alto, Uluzzo, Inserraglio, S. Isidoro, Cesarea, Chianca, Lapillo, Colimena, tutte costruite per difendere il territorio dai continui attacchi e saccheggiamenti di barbari e corsari che approdavano con facilità sulle nostre coste.
Alcune di esse sono oggi perfettamente conservate e valorizzate, luoghi utilizzati per iniziative ed esposizioni artistiche.

Nel 1707 Torre Squillace divenne una prigione per 16 turchi “naufragati lungo la costa, per osservare la rigorosa quarantena prevista per scongiurare la peste” come attestano i numerosi documenti pervenuti.
Nell’800 passò in custodia alle guardie doganali (1820) , per poi essere affidata all’Amministrazione della Guerra e della Marina (1829). Nel 1940 l’Esercito vi aprì una postazione di artiglieria, rimasta in azione fino all’armistizio del 1949.

Sottoposta a vincolo dal Ministero nel 1986, grazie alle continue attività e alle segnalazioni del circolo culturale Nardò Nostra, che ne ha mantenuto viva la storia attraverso una mostra e una pubblicazione, la torre com’è oggi, ingabbiata dall’impalcatura per evitare ulteriori cedimenti, è in attesa che le venga restituito lo splendore e la fierezza d’un tempo.

(pubblicato su “Lo Scirocco”, settembre, anno 2 numero 1)

Note storiche su torre Squillace, detta Scianuri, sul litorale di Nardò (Lecce)

 

di Marcello Gaballo

torre Squillace (ph M. Gaballo)

Sul finire del XVI secolo la città di Nardò è un cantiere aperto e si registra il rifiorire di ogni attività edile pubblica e privata, civile e religiosa. I documenti già attestano la presenza di decine e decine di complessi masserizi, specie nelle vicinanze della foresta dell’Arneo, rinomato luogo di caccia per cervi e cinghiali per ricchi proprietari e cortigiani al servizio della celebre famiglia dei duchi d’Acquaviva d’Aragona, che aveva scelto di dimorare in città.

Ma la tranquillità dei luoghi viene turbata in questo quarto di secolo dalle continue scorrerie di orde di barbari e corsari, che dal mare possono sbarcare in un qualsiasi punto della estesissima costa, in particolar modo nel nostro distretto, costellato da numerosissimi insediamenti produttivi fortificati e non.

In obbedienza a quanto promulgato a Napoli nel 1563 e 1567, ci si preoccupa di difendere il pingue territorio con la fortificazione della costa, ricorrendo a collaudati sistemi di avvistamento come le torri, alcune delle quali anche adatte a fronteggiare sparuti manipoli di pirati assetati e famelici e perciò bisognosi di far provvista di acqua e viveri.

In tutto il regno sorgono le torri, più rade nei tratti di scogliera alta ed impervia, più ravvicinate in tratti di costa bassa, come nel tratto ionico di nostro interesse.

torre Squillace nel corso dell’ultimo restauro del 2009 (ph M. Gaballo)

L’incremento maggiore si ha sotto il governo dei vicerè don Pedro da Toledo e don Pedro Afan de Ribera (1559-1571).  L’ordine di realizzarle, promulgato dalla Regia Camera di Napoli attraverso il suo presidente Alfonso de Salazar, avviene nel 1563, indirizzato ai regi ingegneri, che devono perciò erigerle su tutta la costa del regno, con il contributo delle universitas che distano meno di 12 miglia dal mare. Alcuni mastri giungono da Napoli nella nostra provincia, altri si formavano in loco, sino a diventare essi stessi i principali referenti della Regia Camera, come sono stati i neritini Vincenzo ed Angelo Spalletta, padre e figlio.

Furono essi i più abili costruttori, realizzando poderose torri a pianta quadrata, che dall’ architetto Faglia, massimo studioso del sistema torriero del Regno, sono classificate come torri “della serie di Nardò” (Fiume, S. Caterina, dell’Alto, Uluzzo, Inserraglio, S. Isidoro, Squillace, Cesarea, Chianca, Lapillo, Colimena).

La peculiarità di questa serie, oltre la pianta, è data dalla scala esterna, spesso aggiunta successivamente, la conformazione troncopiramidale, la presenza di caditoie (una o due per lato ed in corrispondenza delle aperture), la cornice toriforme marcapiano che divide la parete verticale da quella a scarpa, i beccatelli in leggero sbalzo, la cisterna nel piano inferiore e la zona abitabile in quello rialzato, la scala interna ricavata nel notevole spessore murario, la guardiola posta sulla terrazza.

Ad ogni torre era assegnato almeno un caporale e un cavallaro, entrambi stipendiati dall’università locale, ed ognuna di esse disponeva di un armamentario (un documento notarile elenca un  mascolo di ferro, uno scopettone, uno tiro di brunzo con le rote ferrate accavallato, con palle settanta di ferro).

La torre allora denominata Scianuri fu iniziata in località San Giorgio, in corrispondenza del porto omonimo, negli ultimi mesi del 1567, ma i lavori restarono fermi per oltre un anno a causa delle difficoltà finanziarie della competente università di Copertino. Risulta completata nel 1570, ad opera del mastro copertinese Pensino Tarantino, avendo richiesto circa ottomila ducati per la sua realizzazione. Sei anni dopo viene dotata di scale mobili e vengono completati gli infissi, registrandosi ulteriori spese sostenute ancora dai copertinesi, che nel frattempo avevano anche provveduto a retribuire i cavallari ad essa deputati.

Nel 1640 viene dotata della scala esterna in pietra, che ancora può vedersi, pur nel suo deplorevole stato.

Tralasciamo ogni altra notizia certa e documentata nel corso dei secoli, ricordando solo che la nostra torre nel 1707 ospita nelle sue prigioni sedici turchi, naufragati lungo la costa, per osservare la rigorosa quarantena prevista per scongiurare la peste.

Da un sopralluogo del 1746 viene attestato che non abbisogna di alcuna manutenzione, per essersi conservata molto bene.

lo stato di degrado di torre Squillace che ha sollecitato l’intervento di recupero (ph M. Gaballo)

Nel secolo successivo viene data in custodia alle guardie doganali (1820), quindi all’Amministrazione della  Guerra e della Marina  (1829). Nel 1940 i soldati dell’Esercito vi installano una postazione di artiglieria, rimasta attiva fino all’armistizio del 1949.

La torre, con quella di S. Caterina e del Fiume, è stata vincolata dal Ministero nel 1986, grazie alle pressanti segnalazioni del circolo culturale Nardò Nostra, che se occupò con una mostra itinerante e con una pubblicazione.

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