Diario del Salento – I pomodori secchi

 

di Tommaso Esposito

Tommaso Esposito gira il Salento. Ecco le sue suggestioni


E’ un miope incapace di stupore chi nel cibo scorge oggi solo il frutto della tecnica che ha sostituito antichi attrezzi da lavoro o della scienza che ha inventato mutazioni genetiche.”
E. Bianchi, Il pane di ieri, p.37.

Ritorno da Gemini frazione di Ugento dove incontro un amico.
Un gelato non degno di nota.
Rientro e mi trovo lungo la strada per Alliste, l’antica Kallistos, “La Bellissima” in griko.
E se passo per Felline? No, sarò al “Mulino di Alcantara” un’altra sera.
Bene. La rossa campagna argillosa mi fa compagnia.
Cosa fanno laggiù?
Nooo, son pomodori stesi al sole.

Sant’Isidoro, Salento. Niente Viagra, qui si mangiano i chiavatoni!

di Tommaso Esposito

Stamattina al mercato dei frutti di mare a Sant’Isidoro.
Sul banco tra le vongole, le fasolare, le cozze pelose e quelle tarantine ce n’è una zuppiera ripiena a disposizione dei clienti che ne prendono e ne mangiano liberamente con un po’ di limone.
Che son questi?
Pete de capra. Chiavatoni. Assaggiali son buoni!”
Piede di capra? Chiavatoni?
“Si, chiavatoni.”
“Son mussoli di scoglio” mi sussurra qualcuno all’orecchio.
Una rapida istantanea carrellata su net con l’iPhone e ne so di più.

“Mollusco allo stato vivo, pescato a mano o con attrezzi strascicanti lungo il litorale costiero e scoglioso.
Vien detto anche Arca Noae perchè ha la conchiglia con le valve ruvide di forma bizzarra che ricorda le imbarcazioni primitive.
Si presenta bruno con striature bianco – rossastre. Ha sapore delicato, di mare.
La pesca del “mussolo” avviene solamente a mano tra le rocce degli scogli

Villaggio Tramonti, Salento. Cose duci per buongiorno: le pittèddhe

di Tommaso Esposito

Il giro lo faccio di mattina presto, ma oggi è domenica e le botteghe di Nardò son chiuse.
Sarà la domenica del villaggio.
Passo al market per i panini da preparare.
Qui son freschi anche oggi e non mi mancano i pomodori comprati ieri l’altro con i sanàpi.
Che son queste sul banco appena giunte?
Pittèddhe e mustazzuèli. Cose duci.”
Naturaliter, leggere -ddhe come –gge.
Uhm e chi le fa?
“Mia nonna. Cioè ce le porta il nostro fornaio, ma la ricetta è di mia nonna.”
E me la dai questa ricetta?
“Sine”

Villaggio Tramonti, Salento. Lu purpu di Enrico e la ricetta di papà

di Tommaso Esposito

Lo confesso: ho ancora il piacere che i miei pargoli più che ventenni stiano con me nel mio tempo salentino.
Eh già, questo posto gli piace e pure a me piace.
Enrico si diletta, tra un tuffo e l’altro, a pescare tra gli scogli.
E fa a gara con Tommaso, mio omonimo amico e suo maestro di pesca in apnea tentata, ah ah!
Devo dire, a mio dispetto però, che le immersioni son fruttifere.
Sarà il mare pescoso, ma questi qua ogni volta riemergono con la preda.
Oggi polpi di scoglio veraci.
Quelli con le due file di bottoni lungo le ‘ranfie.
All’opera dunque.
Affido la crudele pratica della battitura del polpo a loro.
Ho il cuore tenero e preferisco non guardare.
Penso a Napoli, però,  per questo cefalopode.
La ricetta salentina la lascio a Romualdo.
In verità Allan Bay direbbe che questo mio piatto è senza confini.

Ingredienti:

Polpi veraci pescati da Enrico nel mare di Porto Cesareo
Pomodorini maturi di Nardò
Aglio uno spicchio
Olive nere una manciata

Salento, la terra e il cielo si prendono per mano

di Tommaso Esposito

Eccomi quaggiù tra Porto Selvaggio e la Palude del Capitano, in questa parte del Salento dove da anni il tempo dell’ozio mi trascina prendendomi per il cuore e per la mente.

Ho con me un libricino del 1641, Della Dissimulazione onesta, recuperato su di una bancarella delle occasioni, scritto da Torquato Accetto un filosofo pugliese, (nacque a Trani e visse ad Andria, un po’ più a nord di dove mi trovo) riscoperto da Croce.

In esso si discetta della dissimulazione, materia ben nota ai politici di alto lignaggio e ai loro numerosi emuli di condominio. E si ritiene che: “La dissimulazione è una industria di non far veder le cose come sono. Si simula quello che non è, si dissimula quello che è.”

E si discetta pure dell’ozio: “Pitagora, sapendo parlare, insegnò di tacere; ed in questo esercizio è maggior fatica, ancorché paia d’esser ozio.”

Lo metto un po’ da parte in attesa che qualcuno taccia sapendo ben parlare e si dedichi così all’ozio sapiente.

Prendo l’altro libricino che con me avevo già portato l’anno passato e che ritrovo in fondo alla borsa del notebook.

Il pane di ieri di Enzo Bianchi, il priore della comunità monastica di Bose.

Prende spunto padre Bianchi dal proverbio che la mamma gli ripeteva: “ el pan ed sèira, l’è bon admàn, il pane di ieri è buono domani” perché “le grosse pagnotte che venivano conservate per più tempo non si prestavano a essere mangiate fresche, ma davano il meglio del loro gusto un paio di giorni dopo essere uscite dal forno.” Ma il proverbio va oltre e allude al fatto che “il nutrimento solido che ci viene dal passato è buono anche per il futuro”

Nascono così le tante storie del tempo che fu quando “il cibo, a ben guardare, oltre che un nutrimento necessario è anche qualcosa di cui si deve aver cura. La tavola è luogo di incontro e di festa e la cucina è un mondo in cui si intrecciano natura e cultura. Preparare il ragù può diventare allora un momento di meditazione e la bagna cauda un vero e proprio rito in cui gli ingredienti che lo compongono rappresentano uno scambio di terre, di genti, di culture.”

Ecco, ho deciso: Il pane di ieri sarà quest’anno il breviario che scandirà il tempo della mia sosta salentina.

Mi accolgono un mare cupo e un cielo uggioso.

Ma poi un sole deciso squarcia le nubi e illumina i fiori e i cespugli dei capperi che crescono selvatici lungo i sentieri fino al mercato di Sant’Isidoro dove mi incontro con le cose buone di questa terra e di cui tenterò di farne un diario.

Torre Inserraglio, Salento. I sanàpi e una ricettina sciuè sciuè

I Sanàpi

di Tommaso Esposito

Beh ogni volta che li cerco il lunedì, mercoledì o venerdì tra i cesti dei venditori che si affollano sul lungomare di Sant’Isidoro per offrire i frutti degli orti salentini si ripropone la vexata quaestio: come li chiamate questa specie di broccoli di rapa?
“Sanàpi.”
“No sanapìddi.”
“None, sanapùddhi”, laddove il suffisso –ddhi leggasi più o meno -ggi.
E tutto dipende dalla frazione di Nardò in cui essi si raccolgono.
Mi è sempre piaciuto il loro sapore.
Anche se sono controtempo.
Il periodo migliore per gustarli, infatti, non andrebbe oltre maggio.
A crudo le foglie più tenere ricordano al naso e al palato sentori misti di rafano e rucola.
In padella a seconda dei tempi della cottura (ah, gli antropologi direbbero in senso diacronico) si va dalla torzella al friariello.
Talvolta ho ritrovato il sapore dei miei dimenticati  e cari vruoccoli rucoli acerrani.
Insomma mi piacciono.
E mi ha sempre intrigato, al pari delle più rare brassicacce campane, conoscerne l’origine.
Cosa difficilissima a farsi da queste parti soltanto con l’ausilio di net.
Ricordo, però, che il Penzig ritiene i sanàpi la sinapis alba, cioè la senape da cui si ricava la salsetta di senape.
Luigi Sada, grande gastronomo, pugliese invece fa cenno alla Sinapis erucoides, quella selvatica che più si avvicina alla rucola.
Anche la Sinapis nigra, la più piccante, viene evocata.
Qualche chef salentino si limita a dire: “Son broccoletti amarognoli”.
Eh già, vogliamo cavarcela così?
Mi aspetto, invece, che qualche dotto salentino al riguardo mi dia i suoi graditi

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