Voglia di cozze piccinne…

di Tommaso Coletta

Da qualche anno ho nel “cassetto” queste immagini da me riprese nel periodo di giugno a ridosso della fascia dunale nel posto dove sono solito andare a mare e cioè tra le località di Torre Pali e Pescoluse (versante ionico del Capo di Leuca, per chi non fosse pratico).

Fresco frequentatore di questo spazio web, mi era venuta una mezza idea ti utilizzarle a corredo di qualche breve nota riguardo l’impiego dell’animaletto in questione nella cucina salentina.

Cercando materiale nel web ho scoperto che l’argomento era già stato ampiamente trattato da Massimo Vaglio in due precedenti articoli. Quindi ho dovuto prendere atto di essere arrivato tardi e comunque gli articoli sono talmente accurati ed esaurienti che non saprei cosa altro aggiungere se non il fatto che anch’io sono goloso di questo piatto e che non perdo occasione – almeno quando in estate torno al paese per le ferie – di farmi una mangiata di cozze piccinne, chiaramente dopo aver provveduto personalmente a farmi un giro per le stradine di campagna alle prime luci dell’alba (quando c’è un po’ di muttura) a raccogliere le cozze.

Comunque non volevo perdere l’occasione e il piacere di condividere queste immagini con gli altri spigolatori. Le foto tecnicamente non sono niente di particolare, ma il contesto è veramente unico !!!

E’ risaputo che le cozze piccinne sono attaccate, in particolare d’estate, sui muri, sugli arbusti, sulle pale di fico d’india, sulle stoppie, ecc. ma così fittamente concentrate non ne avevo mai viste. Eppure non è l’unico sostegno presente in zona; perché sono tutte concentrate su quella pianta rinsecchita?

Forse qualche spigolatore più scientifico potrà dare una risposta, avanti con le spiegazioni!

L’arte di intrecciare il giunco ad Acquarica del Capo (II parte)

di Tommaso Coletta

La raccolta

Che il giunco sia un’erba palustre dovrebbe essere noto un po’ a tutti, se non altro per averlo notato sulle dune o nei terreni a ridosso delle nostre spiagge. La pianta è formata da steli filiformi più o meno sottili, alti da un metro a un metro e mezzo, allo stato vegetativo di colore verde.

La raccolta, essendo un lavoro molto duro e all’epoca anche pericoloso per via della malaria, è stata da sempre riservata agli uomini. Questi, nel periodo estivo, partivano di notte, in bicicletta o con i traìni, per recarsi alli paduli che, se andava bene, erano situati nelle vicine attuali marine di Torre Mozza o Lido Marini, ma il più delle volte la destinazione era per i paduli molto più estesi e quindi abbondanti di materia prima, situati ad Avetrana, Laghi Alimini, Le Cesine. Quindi si trattava di fare dei viaggi da 100-150 km. considerando poi che al ritorno, dopo ore e ore di duro lavoro sotto il sole, portavano sulla bicicletta un carico fino a un quintale di paleddhu, si comprende benissimo la fatica bestiale di questi uomini.

Cestinaie all'opera, tratta dal libro “Acquarica del Capo, percorsi nel territorio e nella memoria
Cestinaie all’opera, foto tratta dal libro “Acquarica del Capo, percorsi nel territorio e nella memoria”

A tal proposito riporto un aneddoto che spesso mi raccontava mio padre il quale durante il ritorno da uno di questi viaggi in bicicletta, di notte, dovendo affrontare una lunga salita, staccò la dinamo dalla ruota per rendere meno faticosa la pedalata. Caso volle che quasi al culmine della salita fu fermato dai Carabinieri che gli contestarono il fatto di procedere sulla strada a luci spente e che pertanto dovevano fargli la multa. Mio padre cercò di chiarire i motivi della sua trasgressione spiegando che lui normalmente viaggiava con i fanali accesi ma che, dovendo affrontare la salita con un quintale di paleddhu sul portapacchi e stanco com’era, aveva fatto la furbata di disinserire la dinamo. I Carabinieri compresero la situazione (bontà loro) e lasciarono andare mio padre con la raccomandazione di riaccendere i fanalini una volta finita la salita !

Oggi i pochi che ancora si dedicano a questa attività utilizzano (e vorrei vedere!) quanto meno il mitico Apu. Le operazioni di raccolta potevano durare giorni e anche settimane; la raccolta vera e propria – in rapporto alla qualità del materiale, più o meno fine – poteva avvenire a mano, per estirpazione, oppure a taglio con l’ausilio di appositi falcetti. Per chi volesse approfondire lo specifico argomento, suggerisco il sito

http://www.bpp.it/apulia/html/archivio/2005/I/art/R05I151.htm

La bollitura e l’essiccazione

Arrivati al paese con la bicicletta o il traìnu, si procedeva a scaricare il raccolto, si slegavano i grossi fasci facendone dei mazzetti più piccoli che venivano poi immersi in un grande recipiente pieno d’acqua dove bollivano per circa un quarto d’ora. Quindi si toglievano e venivano adagiati per terra dove lentamente raffreddavano. Successivamente, in genere l’indomani, si riprendeva il tutto e lo si stendeva su un terreno oppure sulla terrazza (liama) dove lo si lasciava per una quindicina di giorni fino a che, da verde che era, lu paleddhu diventava color paglia. A questo punto si raccoglieva in fasci più grossi e veniva conservato in un luogo asciutto.

Cestinaie alla Fiera dell’Artigianato che si tenne a Lecce nel 1956 (foto tratta dal libro “Acquarica del Capo, percorsi nel territorio e nella memoria). La prima ragazza a sinistra è la madre dell’Autore, di 19 anni d’età

La zolfatura

Man mano che serviva lu paleddhu per lavorare i cestini, si doveva procedere prima alla zolfatura dello stesso, allo scopo di ingiallire e rendere più malleabile il filo.

Per prima cosa occorreva far rinvenire nuovamente, tramite immersione in acqua di circa mezz’ora, lu paleddhu secco quindi, dopo averlo sgocciolarlo, se ne facevano dei mazzetti che venivano disposti lungo le pareti della “stufa” (una sorta di minuscolo stanzino di circa un metro). Intanto, in un recipiente metallico, in genere una vecchia pentola, si mettevano i carboni ardenti sui quali veniva versato lo zolfo.

Devo confessare che questa operazione mi affascinava moltissimo. Se ero presente durante queste fasi, dovevo per forza essere io a buttare lo zolfo sulle braci: subito si innescava una modesta fiammata, poi si sviluppava un fumogeno e tutta l’aria era infestata dal forte odore pungente dello zolfo.

Il recipiente così fumante lo si metteva al centro della stufa, quindi si chiudeva lo sportello di legno avendo cura di sigillare tutte le fessure intorno con stracci umidi. Si lasciava così fino all’indomani, a questo punto lu paleddhu era pronto ad essere lavorato.

Per piccole quantità di paleddhu, al posto della stufa, si utilizzava, con lo stesso procedimento, un grande recipiente di terracotta lu cofunu, (sorta di grande vaso utilizzato anticamente anche per il bucato).

Il processo di zolfatura poteva essere ripetuto anche sugli articoli già realizzati e finiti per renderli ancor di più di un bel colore giallo paglierino.

Cartolina di Aquarica con vedute e i caratteristici cestini

La tintura

Il processo di tintura non è fondamentale all’interno del ciclo di trasformazione, infatti lo scopo di questa procedura è quello di disporre di fili di paleddhu colorato in maniera da abbellire con motivi ornamentali di colore diverso i vari articoli di cestineria. Si arrivava perfino a inserire dei caratteri in modo da comporre un nome, una dedica e altro.

Con lo stesso procedimento che le nostre nonne adottavano in passato per tingere di nero i pochi capi di vestiario a disposizione in occasione di lutti, si coloravano i fili di paleddhu. In un pentolone pieno d’acqua bollente si versava una bustina dell’apposita polverina colorante, rossa, verde, viola; la si scioglieva e poi si immergeva un piccolo mazzo di paleddhu già secco che, dopo una quindicina di minuti di bollitura, era diventato del colore desiderato. Quindi si toglieva dall’acqua e lo si stendeva ad asciugare per poi essere utilizzato nella lavorazione.

Ho raccontato i miei ricordi legati alla lavorazione del paleddhu, ho descritto le principali fasi del ciclo di produzione, non mi resta che riportare alcuni cenni storici tratti dalla pubblicazione realizzata dagli alunni dell’Istituto Comprensivo Statale di Acquarica del Capo edita nell’anno 2001 da PrintLeader editrice di Tricase; il volume ha per titolo “Acquarica del Capo, percorsi nel territorio e nella memoria”.

Non si sa quando gli Acquaricesi abbiano scoperto il giunco e iniziato a lavorarlo. La prime notizie documentate ci sono fornite da G. Arditi, nel 1879. L’autore scrive che le donne acquaricesi, oltre che collaborare con gli uomini ai lavori agricoli, si dedicano anche “all’industria speciale di tessere sporte, cestini e fiscelle di giunco (iuncus et fusus), che chiamano volgarmente Pileddu”.

Il giunco palustre, raccolto nelle paludi dell’Avetrana e in quelle di Ugento e Acaja, opportunamente trattato, veniva lavorato per ottenere “quelle utili e svariate fatture, alcune delle quali meritarono di stare all’Esposizione mondiale di Vienna nel 1873”.

Cosimo De Giorgi nel 1882 conferma la notizia dell’esposizione dei cestini acquaricesi a Vienna dove, aggiunge l’autore, “meritarono un premio”.

Successivamente i cestini furono esposti alla Mostra Nazionale di Torino, in seguito alla quale si ebbero numerose commissioni. La mancanza nel paese di un opificio organizzato non consentì tuttavia un’adeguata risposta.

Una Casa londinese, che aveva ammirato i cestini nell’esposizione di Vienna, manifestò il suo interesse inviando un suo rappresentante in Acquarica. Questi, “raggruppando quelle poche lavoratrici del giunco in un solo centro, giunse a far rifiorire questa industria del panieraio. E i prodotti furono spediti in Inghilterra ed in Germania, e per tutto furono accolti con favore, anche per la tenuità del loro prezzo”.

Sul finire dell’800 l’industria decadde; continuò tuttavia la lavorazione del giunco a conduzione familiare. I cestini prodotti dalle spurtare (cestinaie) di Acquarica erano molto usati nella vita quotidiana della civiltà contadina del tempo ed erano venduti nei mercati paesani di tutto il Basso Salento da piccoli commercianti del luogo. Periodicamente arrivavano in paese anche rivenditori delle province di Bari e di Brindisi per ritirare i cestini ordinati.

Spesso, per le precarie condizioni i vita della maggior parte della popolazione e la limitata circolazione del denaro, i cestini venivano barattati con prodotti alimentari (legumi, formaggio, farina, olio, vino, taralli,…).

Nella prima metà del ‘900, il commercio dei cestini cominciò a rifiorire. A partire dal 1926 nacquero e si svilupparono piccoli opifici per iniziativa di alcuni imprenditori, come Vito Palese ed Eugenio Zonno col figlio Salvatore. Questi chiamavano a lavorare, presso le proprie abitazioni, le cestinaie, in gruppi di 15- 20. La giornata lavorativa iniziava alle 7 del mattino e terminava la sera.

Quando si dovevano preparare spedizioni urgenti, si lavorava anche la notte per terminare i cestini e apporre le etichette sui prodotti da imballare. Questi venivano spediti oltre i confini salentini (Bari, Rimini, Riccione, Milano, Firenze) e all’estero (Inghilterra, Svizzera e perfino in America).

Gli stessi imprenditori, durante l’estate, si recavano personalmente a Rimini e a Riccione per vendere lungo le spiagge borse e cestini vari, paglie e scarpe. Alcuni cestini venivano spediti all’isola d’Elba presso l’Istituto di pena dove i carcerati li usavano per portarsi il pranzo quando andavano a lavorare fuori dalle carceri. I lavori più belli, esposti presso le fiere nazionali e internazionali, ottennero vari riconoscimenti e venivano richiesti, su ordinazione, da commercianti del Nord Italia.

A partire dagli anni ’60, la lavorazione del giunco cominciò a subire un lento e graduale declino. Le cause di tale declino sono molteplici:

Prima fra tutte l’avvento dei materiali plastici che duravano di più ma soprattutto costavano meno, poi il ridursi dei territori paludosi via via bonificati, ed infine il fenomeno massiccio dell’emigrazione che a partire dagli anni ’50 ha spinto molti acquaricesi alla ricerca di un lavoro più redditizio nel nord Italia e all’estero.

Cestini Acquarica esposti Ecomuseo della civiltà palustre Villanova di Bagnacavallo

informazioni finali

Il 27 dicembre 2008 ad Acquarica del Capo è stato inaugurato il Museo del Giunco Palustre, per valorizzare un’arte che è peculiare della storia sociale ed economica di questo paese.

Il museo ospita una sezione dedicata alle varie fasi del ciclo di trasformazione, dalla raccolta al prodotto finale. Inoltre si possono apprezzare numerosi manufatti in giunco realizzati dalle spurtare di Acquarica che ancora oggi continuano ad intrecciare lu paleddhu. Di particolare interesse è poi la presenza del Presepe di Giunco, e di varie foto storiche di lavoratrici del giunco.

I prodotti delle spurtare di Acquarica possono essere ammirati anche all’ Ecomuseo della Civiltà Palustre di Villanova di Bagnacavallo in provincia di Ravenna (vedi mia foto 2) dove, oltre a innumerevoli oggetti di produzione locale realizzati con materiale derivato dalla vegetazione palustre, sono presenti analoghe testimonianze di varie civiltà provenienti da tutti i continenti.

 

La prima parte può leggersi cliccando il link in basso:

 https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/10/08/larte-di-intrecciare-il-giunco-ad-acquarica-del-capo-patria-delle-sporte/

L’arte di intrecciare il giunco ad Acquarica del Capo, patria delle sporte

Fische, fiscareddhe, sporte e spurteddhe: ovvero l’arte di intrecciare il giunco (paleddhu) ad Acquarica del Capo

di Tommaso Coletta

ph Paolo Giuri

Cogliendo l’occasione dell’articolo di Armando Polito “N’era nna fiata la fesca… ecc.” e incoraggiato dall’appassionato invito di Marcello Gaballo, proverò a far venire a galla i miei ricordi d’infanzia per raccontare qualcosa sulla lavorazione del giunco e come questa caratterizzava la vita stessa del mio paese Acquarica del Capo, patria delle sporte.

Durante la mia infanzia, primi anni ’60, in quasi tutte le case del mio paese c’era la presenza di una donna giovane o anziana, mamma o nonna, che seduta per terra, su una vecchia coperta o un sacco di iuta, intrecciava lu paleddhu per realizzare una fisca, una sporta, un cestino. Gran parte delle donne acquaricesi infatti, oltre a seguire le faccende di casa, contribuivano all’economia domestica attraverso la produzione e la vendita di vari manufatti di paleddhu.

Si rimaneva incantati a seguire quelle dita che così velocemente spostavano i fili di paleddhu a sinistra e a destra, sopra e sotto intrecciandoli strettamente fra loro. Via via che si andava avanti ad intrecciare, i fili di paleddhu che si stavano lavorando diventavano sempre più corti e quindi occorreva inserirne degli altri, in maniera da costituire un continuum, un filo senza fine. Per far questo, la mano scartava di lato, prendeva un nuovo filo di paleddhu dal mazzetto posto a fianco lungo le gambe e veniva inserito nelle maglie in lavorazione e così si procedeva fino alla fine.

La tipologia di intreccio non era sempre la medesima ma variava, oltre che in funzione del tipo di prodotto che si voleva realizzare, anche in base allo stadio di lavorazione: il fondo, i fianchi, l’orlo finale. Inoltre, e questo succedeva specialmente per i prodotti di fattura più fine, non destinati all’uso quotidiano, ognuna di queste artiste, in base alla propria fantasia e maestria, creava l’articolo ricorrendo alla combinazione di diversi stili di intreccio, oppure inserendo dei fili di paleddhu colorati (di cui dirò dopo) e, a volte, impreziosendo il prodotto finale con nastri e passamanerie varie.

Terminata la fase di lavorazione che definiremo “grezza”, giusto per

La Fondazione Terra d'Otranto, senza fini di lucro, si è costituita il 4 aprile 2011, ottenendo il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia - con relativa iscrizione al Registro delle Persone Giuridiche, al n° 330 - in data 15 marzo 2012 ai sensi dell'art. 4 del DPR 10 febbraio 2000, n° 361.

C.F. 91024610759
Conto corrente postale 1003008339
IBAN: IT30G0760116000001003008339

Webdesigner: Andrea Greco

www.fondazioneterradotranto.it è un sito web con aggiornamenti periodici, non a scopo di lucro, non rientrante nella categoria di Prodotto Editoriale secondo la Legge n.62 del 7 marzo 2001. Tutti i contenuti appartengono ai relativi proprietari. Qualora voleste richiedere la rimozione di un contenuto a voi appartenente siete pregati di contattarci: fondazionetdo@gmail.com.

Dati personali raccolti per le seguenti finalità ed utilizzando i seguenti servizi:
Gestione contatti e invio di messaggi
MailChimp
Dati Personali: cognome, email e nome
Interazione con social network e piattaforme esterne
Pulsante Mi Piace e widget sociali di Facebook
Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo
Servizi di piattaforma e hosting
WordPress.com
Dati Personali: varie tipologie di Dati secondo quanto specificato dalla privacy policy del servizio
Statistica
Wordpress Stat
Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo
Informazioni di contatto
Titolare del Trattamento dei Dati
Marcello Gaballo
Indirizzo email del Titolare: marcellogaballo@gmail.com

error: Contenuto protetto!