Ruggero Flores: templare pirata e ammiraglio brindisino (I parte)

Immagine di Ruggero Flores da Brindisi, in Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli ornata dei loro rispettivi ritratti compilato da diversi letterati nazionali
Napoli, 1819 Presso Niccola Gervasi 22

 

di Gianfranco Perri

 

Era trascorso giusto un secolo dai tempi in cui Margarito da Brindisi – il famoso arcipirata divenuto poi grande ammiraglio – scorrazzava in lungo e in largo nei mari mediterranei con le sue flotte sempre vincitrici incutendo timore e rispetto, quando ecco apparire un altro brindisino che sembra voler ricalcare sugli stessi scenari quelle rocambolesche gesta marinare. Si tratta di Ruggero Flores e per lui, il pirata e poi il grande ammiraglio furono preceduti nientemeno che dal templare.

Ruggero de Flor nacque a Brindisi nel 1267, ultimo figlio di un militare tedesco che si crede fosse stato un falconiere dell’imperatore svevo Federico II re di Sicilia, Riccardo Blum – latinizzato in Flor e poi in Flores – e di una ricca dama dell’alta società brindisina. Riccardo, combattendo dalla parte dei ghibellini, nel 1268 trovò la morte nella battaglia di Tagliacozzo, quella in cui Corradino di Svevia, ultimo dinasta degli Hohenstaufen, fu sconfitto e poi fatto decapitare dall’angioino Carlo I, nuovo re di Sicilia.

A seguito di quegli eventi, che in varie regioni del regno erano stati preceduti da una lunga e aspra guerra civile, i beni della famiglia Blum, così come quelli di tante altre famiglie brindisine del partito ghibellino, vennero interamente confiscati lasciando la madre di Ruggero in povertà e costretta ad alloggiarsi con i figli in una umile casa nei pressi del porto.

Tutto ciò d’accordo al racconto che ne fa nelle sue cronache catalane Ramòn Muntaner, che fu per molti anni compagno d’armi e luogotenente di Ruggero, unica fonte disponibile per il primo periodo della vita di Ruggero Flores. Una fonte forse non sempre del tutto affidabile – perlomeno non proprio sulla veridicità di tutti i dettagli di quello che racconta – spesso incline a corredare di una certa coloritura fantastica e leggendaria la vita dei vari personaggi narrati.

Quando Ruggero aveva circa otto anni, il templare frate Vassayl nativo di Marsiglia e comandante di marina dell’Ordine del Tempio, mentre svernava nel porto di Brindisi per stivare la propria nave e farla riarmare nel rinnovato arsenale brindisino, notò il vispo ragazzino che evidentemente gironzolava tutt’intorno e intuitone le potenziali qualità se lo fece affidare dalla madre per introdurlo all’Ordine e al mestiere marinaro.

Certo è comunque, che Ruggero fece una carriera velocissima: solo quindicenne venne considerato uno dei migliori mozzi della flotta e quando anni dopo prese il manto di frate-converso, era già un esperto navigante, probabilmente il migliore dell’intera marineria templare, tant’è che appena ventenne gli fu affidato il comando del Falcone del Tempio, la più bella e moderna nave della flotta templare, acquistata dai Genovesi ed impiegata nelle rotte del commercio mediterraneo e nel trasporto di pellegrini in Terrasanta.

Ruggero de Flor, al comando di quella sua nave si trovava nei pressi di San Giovanni d’Acri – l’attuale Akko in Israele – nella primavera del 1291, mentre dal 5 aprile era in corso l’assedio poi culminato il 18 maggio con la caduta della città nelle mani degli assedianti Mamelucchi. Nel corso dell’evacuazione che seguì all’assedio e alla conquista musulmana, la Falcone del Tempio di Ruggero riuscì audacemente ad imbarcare numerosi facoltosi profughi civili cristiani che con i tanti beni recuperati furono condotti in salvo. Alcuni degli evacuati si fermarono a Cipro e gli altri proseguirono fino a Mont-Pélerin in Francia.

Quel viaggio dovette certamente fruttare ingenti guadagni per le arche del Tempio, ma presto si sparsero pesanti dicerie rispetto al capitano della nave, Ruggero, il quale fu finalmente e formalmente accusato dai gerarchi templari di aver trattenuto illegalmente per sé buona parte di quei guadagni, tradendo in tal modo il Tempio. I detrattori del giovane e prestigioso capitano brindisino – molti dei quali probabilmente non del tutto esenti da una qualche dose di invidia nei suoi confronti – ebbero la meglio sui difensori e convinsero della veridicità delle loro accuse il gran maestro Jacques de Molay, il quale espulse Ruggero dall’Ordine e ne predispose la cattura.

A quel punto a Ruggero de Flor non restò altro che levare le ancore, e con il Falcone del Tempio si diresse a Marsiglia. Poi, senza l’abito templare, ricomparve a Genova dove comprò a messer Ticino Doria – a detta di Muntaner R. grazie al denaro prestatogli da amici – una galera, l’Olivetta, allestita la quale pensò bene dirigersi a Sud e prestare i suoi servizi di capitano marinaro di ventura nel regno angioino ‘di Napoli’ del re Carlo II d’Angiò, ormai privato della Sicilia, che dopo la rivolta dei Vespri del 1282 era passata agli Aragonesi.

Dipinto raffigurante la galea Olivetta capitanata da Ruggero Flores

 

E proprio nell’aragonese Sicilia, sul finire del 1300, finì per approdare da rinomato corsaro il condottiero di mare Ruggero Flores per porsi al servizio del re Federico III in permanente conflitto – nella ventennale guerra dei Vespri – contro gli Angioini di Napoli.

Nella primavera del 1301, con una flottiglia di cinque navi, condusse una fruttuosa spedizione contro gli Angioini sulle coste della Puglia, nella quale riuscì ad impadronirsi ripetutamente di navi cariche di granaglie che, predate, furono impiegate per soccorrere diverse città della Sicilia colpite dalla carestia, ovvero vendute per pagare le guarnigioni aragonesi dislocate in Sicilia e in Calabria. Quindi, non disdegnò nuove azioni di più franca pirateria, che condusse principalmente lungo le coste della Provenza delle Baleari e della Catalogna, appartenenti tutte al regno d’Aragona dell’antagonista re Giacomo II.

Poi, alla fine dell’estate di quello stesso 1301, al comando di dieci galee, prese parte alle operazioni condotte per la liberazione di Messina assediata dalla potente flotta angioina di Ruggero Lauria e dall’esercito di Roberto, principe d’Angiò. Liberazione per la cui riuscita risultò fondamentale il contributo di Ruggero de Flor.

Tutti quei considerevoli successi ottenuti sul mare dall’ormai famoso condottiero brindisino, indussero Federico III a nominarlo viceammiraglio della flotta siciliana e a conferirgli la signoria sui castelli di Tripi e Licata, nonché le entrate dell’isola di Malta.

Poi, quando finalmente la guerra dei Vespri giunse al termine con la pace di Caltabellotta del 31 agosto 1302, che formalizzò il teoricamente ‘temporale’ riconoscimento della Sicilia agli Aragonesi, il corsaro Ruggero de Flor restò senza una formale occupazione e l’inquieto ed ancor giovane condottiero di mare cominciò a volgere il suo sguardo verso altri lidi.

D’altra parte, le sue turbolenti milizie catalane, con gli almogavari parcheggiati senza occupazione in Sicilia, costituivano un potenziale problema per il re Federico III e questi vide subito di buon occhio l’idea prospettatagli da Ruggero Flor di ‘prestarle’ all’imperatore d’Oriente Andronico II Paleologo, il quale si era mostrato interessato al loro ingaggio per combattere la crescente avanzata dei Turchi che erano riusciti a sottomettere quasi tutta l’Asia minore e a ridurre il dominio bizantino a una sottile fascia costiera tra Nicea ed Efeso.

«Gli Almogavari erano soldati della Corona d’Aragona reclutati prevalentemente in Navarra Aragona e Catalogna, che nel trascorso dei secoli XIII e XIV operarono su vari fronti iberici ed europei e la cui origine – nonché lo stesso nome – ebbe certamente qualcosa di arabo. Fanti leggeri senza corazza, indossavano corte braghe di cuoio molto spesso ed erano armati con due pesanti giavellotti un grosso coltello ed una spada corta. Erano soldati di professione, al servizio di chi era disposto alla loro remunerazione, praticamente milizie mercenarie. Quando in seguito ai Vespri siciliani il re Pietro III d’Aragona appoggiò la rivolta e mosse guerra a Carlo I d’Angiò, gli almogàveres formarono l’elemento più efficace del suo esercito. La disciplina e la ferocia, unite all’abilità con cui lanciavano i loro giavellotti contro i cavalli, li resero formidabili contro la cavalleria pesante sulla quale riportarono sistematiche vittorie.»

Ruggero de Flor colse al balzo quella ghiotta occasione, e nella primavera del 1303 stipulò accordi con l’imperatore che previdero: per le truppe della sua ‘Grande Compagnia Catalana’ riorganizzata ad hoc, quattro mesi di stipendio anticipato e per se, il titolo di megadux – megaduce, comandante della flotta – nonché la mano della nipote dell’imperatore e figlia dello zar bulgaro Ivan Asen, Maria. All’inizio di agosto il fiammante megadux prese il largo con ben 36 navi e circa 6000 almogavari alla volta di Costantinopoli, dove fu ricevuto con grandi onori e dove fu fastosamente celebrato il matrimonio convenuto.

(1. continua)

Lecce. Trasformazioni e ampliamenti del convento di Santa Maria del Tempio

di Giovanna Falco

 

Come tutti i leccesi appassionati di storia locale, attendo la relazione degli scavi archeologici preventivi nell’area dell’ex Caserma Massa (eseguiti sotto la direzione dello staff composto da esperti di Archeologia Classica del Prof. Francesco D’Andria), per apprendere la natura dei cunicoli riportati alla luce, il tipo di reperti che hanno custodito per tanto tempo e da quale area del sito proviene il capitello fotografato dall’esterno del cantiere da più persone tra fine marzo e inizio di aprile, probabile testimonianza della fase architettonica più antica di questo ex edificio.

Riscuotono un certo fascino le gallerie sotterranee voltate a botte emerse dal sottosuolo, attorniate dai vari piani di calpestio dell’immobile, testimonianza delle varie trasformazioni cui è stato sottoposto tra il 1432 e i primi decenni del Novecento. Com’è possibile definirle non rilevanti? Non sono forse state realizzate antecedentemente e/o in contemporanea di tante glorie monumentali presenti in città?

Purtroppo non vi è più l’alzato dell’edificio, ma la peculiarità di questo sito sta proprio nel fatto che l’area è sgombera di strutture sovrastanti ed è ubicata fuori dal perimetro storico della città: è un interessantissimo percorso a vista di storia dell’architettura.

Cunicoli del convento emersi nei recenti lavori

Le dicerie che sono circolate in città, attorno a quest’area, sono dovute al fatto che molte persone non conoscono la storia del convento di Santa Maria del Tempio, più noto come ex Caserma Massa. Finalmente sabato 2 luglio 2012 Valerio Terragno ha pubblicato su il Paese Nuovo una bella sintesi delle sue vicende storiche, fugando dunque qualsiasi leggenda metropolitana.

L’ex convento di Santa Maria del Tempio – poi Caserma Massa – attuale ginepraio di cunicoli, è stata una grande e gloriosa struttura, le cui vicende costruttive possono essere sintetizzate in quattro fasi principali legate alla sua storia, magistralmente raccontata da padre Benigno Francesco Perrone nel primo volume di I Conventi della Serafica Riforma di S. Nicolò in Puglia (1590 – 1835) (Congedo Editore Galatina 1981).

Stratificazioni del piano di calpestio

Fondato nel 1432 come convento dell’Osservanza della Vicaria di Bosnia dipendente da Santa Caterina in Galatina, assorbita nel 1514 dalla Provincia minoritica di San Nicolò (diventata già nel 1446 Vicaria di San Nicolò di Puglia), nel 1591 passa ai padri della Serafica Riforma di San Nicolò in Puglia, diventandone nello spazio di alcuni decenni la casa provinciale più grande. Allontanati i frati una prima volta nel 1811, costoro tornarono nel 1822 per abbandonare il convento definitivamente il 14 settembre 1864. Concesso al comando distrettuale nel 1872, in seguito l’immobile fu adibito a sede della Caserma del Tempio, dedicata nel 1905 a Oronzo Massa. L’1 febbraio 1971 l’edificio è stato demolito.

È preliminare a queste quattro fasi e alla nascita della fondazione monastica, l’inventario dei beni posseduti a Lecce dai Templari stilato nel 1308, recentemente analizzato da Salvatore Fiori nel suo I Templari in Terra d’Otranto. Tracce e testimonianze nell’architettura del Basso Salento (Edizioni Federico Capone, Torino 2010). Ebbene, l’area dov’è sorto il convento era il Feudum Domus Templi, una delle proprietà più importanti dell’ordine cavalleresco nel basso Salento. Il feudo era prospiciente un importante asse viario (attuale via San Lazzaro), che conduceva all’Ospedale di San Lazzaro nei cui pressi s’incanalava la strada verso l’entroterra salentino.

Alla soppressione dei Templari, avvenuta nel 1310, probabilmente il feudo diventò di dominio dei conti di Lecce: nel 1634 Giulio Cesare Infantino in Lecce Sacra, confidando nella tradizione, attribuisce ai conti la proprietà di un’antichissima cappella ubicata in uno dei fertili giardini di pertinenza del convento (da non confondere con la chiesa ipogea di Santa Lucia, l’attuale misero buco pieno di erbacce occultato da un muro, situata di fronte all’area in questione).

Non si conoscono ancora documenti che si riferiscono al passaggio di proprietà a Nuzzo Drimi: costui nel 1432 volle erigere nel suo podere una piccola chiesa e conventino, che dedicò alla Presentazione della Vergine al Tempio e affidò ai francescani dell’Osservanza della Vicaria di Bosnia, gli stessi frati che gestivano il monumentale complesso di Santa Caterina in Galatina fondato dai principi di Taranto.

Giovanni Antonio Orsini del Balzo, erede universale di Drimi, volle donare al convento leccese una teca d’oro, ottenuta dalla fusione di una sua collana, dove fu custodita la reliquia di un chiodo della Croce. L’Orsini del Balzo, inoltre, nel 1449 presentò a Nicolò V una petizione affinché intercedesse presso il vescovo di Lecce, per far sì che nella chiesa extraurbana fosse sepolto il cavaliere gerosolimitano Giacomo da Monteroni. Nel 1440 il convento fu ingrandito grazie alle elemosine offerte dai leccesi. Il complesso monastico, all’epoca, era costituito da un convento la cui area è stata inglobata dall’infermeria seicentesca e da una piccola e bassa chiesa che custodiva una miracolosa immagine della Vergine molto venerata.

Un secondo e più significativo ampliamento fu voluto a partire dal 1508 da padre Riccardo Maremonti, ministro della Provincia di S. Nicolò in Puglia dal 1515, nonché architetto che progettò un quadriportico sul lato nord della chiesa medievale. Costui fece abbattere l’antico convento e tra il 1508 e il 1517, realizzò il lato sud e l’ala est su cui si affacciavano le cucine e le officine. Il portico era formato da sei archi ogivali per lato, sostenuti da possenti colonne sormontate da capitelli decorati da quattro semplici volute (così come si può riscontrare nelle fotografie pubblicate nel libro di Perrone). Maremonti che realizzò, così come ha già illustrato Terragno, anche la sacrestia, il refettorio, e, al primo piano, un corridoio su cui si aprivano dodici stanze, volle ornare i gradini delle scale e le soglie delle stanze con un materiale di pavimentazione duro, adoperato in seguito come modello per lastricare le strade di Lecce.

Subentrati nel 1591 i padri della Serafica Riforma di San Nicolò in Puglia, costoro vollero apportare nuove modifiche allo stabile, dettate dalla necessità di accogliere un maggior numeri di frati e novizi, oltre agli ammalati provenienti da altri conventi. La grande infermeria, menzionata nel 1634 da Infantino, era allineata al prospetto della chiesa ed era dotata di refettorio, cucina, dispensa, farmacia e un numero cospicuo di celle per gli ammalati e di un piccolo chiostro. Prima del 1641 furono completati i due bracci mancanti del portico, realizzati secondo lo stile di Maremonti. Al piano superiore furono costruite nuove celle per i frati e fu aggiunto il corridoio sul lato nord, così da arrivare a ospitare fino a settanta religiosi. A fine secolo fu realizzata una grande biblioteca a uso dei novizi che si acculturarono in questi luoghi. Risale a questa fase l’ingrandimento della chiesetta medievale, essendo state aggiungente le cappelle laterali; la nuova chiesa comprendeva tredici altari e un coro superiore.

Il convento di Santa Maria del Tempio diventò la più grande struttura di tutta la provincia francescana. L’edificio è rimasto sostanzialmente immutato sino alla soppressione del 1864, e nell’inventario redatto per l’occasione, sono elencati i vari vani dello stabile.

materiale emerso durante i lavori

Adibito nel1872 a caserma, nell’edificio furono apportate profonde modifiche dettate dalla nuova destinazione d’uso con le relative esigenze funzionali.

in primo piano uno dei capitelli emersi durante gli scavi

Libri/ I Templari nella Puglia medievale

Vito Ricci, I Templari nella Puglia medievale, Edizioni Dal Sud, 2009.

In tempi di riscoperte o approfondimenti storici sull’Ordine dei Templari, non si può non segnalare l’opera di ricerca ed analisi certosina che ha compiuto Vito Ricci con la pubblicazione I Templari nella Puglia medievale (Edizioni dal Sud, pp. 144, euro 12). Un lavoro ancor più meritorio perché realizzato non da un medievista di professione (Ricci lavora nella Direzione analisi statistica dell’Università di Bari), ma da un appassionato e studioso competente che produce indagini di tutto rispetto come questa, tesa a indagare sulla presenza dell’Ordine Templare in Puglia.
Lungi, peraltro, da qualsiasi indulgenza nei confronti delle recenti suggestioni letterarie e cinematografiche sui Templari (si pensi a Il pendolo di Foucalt di Eco, allo Spielberg di Indiana Jones o ai recenti boom commerciali di Dan Brown), Ricci parte dagli aspetti storici sull’origine dei cavalieri cristiani rossocrociati – intorno al 1118 – per poi disegnare i loro insediamenti in Puglia, e la conseguente interazione con la dimensione sociale, politica, religiosa ed economica del territorio.
La Puglia, inoltre, grazie all’importanza strategica e commerciale dei suoi

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