Il latte di calce nell’edilizia salentina

venditore ambulante di calce (archivio Ezio Sanapo)

 

di Mario Colomba

La calce, sotto forma di pasta untuosa, che veniva utilizzata per la produzione del latte di calce,  proveniva da una lunga stagionatura attraverso la quale  acquistava  maggiore consistenza e corposità.

Il latte di calce più o meno denso a seconda della percentuale di acqua, lungamente agitato e filtrato, , veniva usato nella scialbaltura, nella imbiancatura o  nella tinteggiatura.

Queste lavorazioni venivano praticate da due categorie di lavoratori del settore: gli imbianchini e i pittori edili.

La scialbatura e l’imbiancatura venivano praticate dagli imbianchini che applicavano il latte di calce o su superfici rustiche delle murature (scialbatura) o sulle superfici intonacate (imbiancatura), utilizzando pennelli rotondi costituiti più frequentemente da fibra vegetale e, abbastanza raramente da crine animale. Per raggiungere altezze elevate anche di alcuni metri, senza l’uso di scale,  il manico del pennello veniva legato ad una canna o ad una pertica con un sistema particolare, atto a  consentire piccole rotazioni intorno al fulcro, in modo che il pennello si disponesse  sempre in posizione ortogonale rispetto alla superficie del muro, durante i movimenti alternativi, verso l’alto o verso il basso, che venivano impressi dall’imbianchino. L’operazione veniva ripetuta più volte (due o tre mani) ed il risultato finale  era una imbiancatura, che aveva più funzione igienica che decorativa, caratterizzata da evidenti striature dovute alla stesura non uniforme del latte di calce.

I pittori edili eseguivano lavori più raffinati di tinteggiatura con l’uso di pennelli a mano (spatole) e quindi con  interventi sulle superfici più diretti, che permettevano di raggiungere una maggiore cura dei particolari ed una perfetta uniformità nella distribuzione superficiale  della soluzione di calce, il più delle volte colorata.

La coloritura del latte di calce veniva ottenuta con l’aggiunta di pigmenti in polvere (terre minerali) disponibili nelle tinte base che, opportunamente mescolate, producevano tutte le gradazioni di colore richieste.

 

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Libri| L’arte del costruire a Nardò e dintorni – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

L’arte del costruire nel Salento. Gli arnesi del mestiere – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

Maestri e maestranze nel cantiere edile a Nardò e nel Salento. La produzione edilizia – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

L’arte del costruire nel Salento. Strutture murarie di copertura: archi e volte – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

Cantiere edile (fondazioneterradotranto.it)

Arte del costruire e riutilizzo presso il popolo salentino – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

Reclutamento di manodopera e approvvigionamento di materiale edilizio nelle costruzioni del Salento – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

L’arte del costruire nel Salento. Il cemento e il conglomerato cementizio – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

L’arte del costruire nel Salento. Le coperture “alla margherita” – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

L’arte del costruire nel Salento. La malta – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

L’intonaco nell’edilizia salentina – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

L’arte del costruire nel Salento. La malta

di Mario Colomba

 

L’attività lavorativa iniziava all’età di circa 12 anni ed il primo impiego era quello di addetto principalmente alla preparazione delle malte che rappresentava l’attività di esclusiva competenza dei garzoni.

Era in’operazione importantissima che influiva non solo  sulla qualità delle murature e sulla produttività ma anche sulla fatica fisica del muratore; infatti, la presenza nella malta di qualche sassolino sfuggito alla cernita della tufina obbligava il muratore a rialzare il concio malfermo,  per rimuoverlo dopo averlo allettato,  con perdita di tempo e sforzo fisico supplementare.

L’impasto doveva essere omogeneo e per questo era necessario un lavoro impegnativo col ruèzzulu per stemperare completamente la calce in pasta, a volte, anche abbastanza indurita da lunga stagionatura.

venditore ambulante di calce (archivio Ezio Sanapo)

 

La malta non doveva essere né troppo grassa per evitare le fessurazioni (spaccature) né troppo magra per evitare che mancasse l’adesione nella stuccatura dei comenti.

IL neofita, che spesso veniva affidato al maestro direttamente dal padre con la raccomandazione di avviarlo alla conoscenza del mestiere, si trovava già dal primo giorno a rispettare una gerarchia precostituita tra i garzoni; infatti ce n’era uno,  un po’ più grande di età,  che aveva la responsabilità di non far mancare mai la malta ai muratori che la richiedevano (conza vagliò!) e che ordinava, agli altri due o tre garzoni  della squadra,  di reperire la tufina dai banchi degli squadratori, di setacciarla, di stemperare il grassello di calce al centro di un conetto di tufina setacciata, di impastare la malta e di portarla, a richiamo, con l’uso di caldarine metalliche troncoconiche, fornite di due asole (maniche), della capacità di circa l. 11.

Con l’aiuto di un altro garzone, l’addetto al trasporto si caricava sulla spalla, nuda d’estate, la caldarina e,  tenendosela in equilibrio con una mano,  provvedeva a raggiungere la postazione del muratore anche inerpicandosi su scale a pioli,  su cui si reggeva facendo scorrere la mano libera lungo il montante della scala e mai sui pioli ( la mano alla sciosca!,  gli urlava il maestro).

Un’altra incombenza dei garzoni era quella di raccogliere i ferri del mestiere a fine giornata lavorativa, al tramonto del sole e spesso anche oltre, di lavarli e riporli al sicuro .

Raramente si procedeva all’approvvigionamento di tufina direttamente dalle cave di tufo se non nei cantieri di dimensioni rilevanti.

 

I detriti e la tufina provenienti dalla squadratura dei conci venivano setacciati dai  garzoni per procedere alla confezione della malta comune.

Per questo, l’altezza del concio veniva squadrata a cm. 24,5 per produrre una maggiore quantità di tufina e per avere l’altezza di cm. 25 dei filari della muratura comprendendovi la malta di allettamento.

Per poter setacciare la tufina, questa doveva essere asciutta e quindi era cura dei garzoni riporla al coperto perché eventuali piogge notturne non ne impedissero l’utilizzo la mattina successiva.

La malta comune era costituita da un impasto di calce spenta allo stato pastoso e tufina che, a secondo degli impieghi (per muratura o per intonaci, ecc.), comprendeva sei calderine di tufo e due di calce oppure quattro calderine di tufo e due di calce. A volte, in mancanza di tufina, si utilizzava la ”rena”, cioè la sabbia  che veniva raccolta sui margini delle strade dove si depositava trasportata dalle acque pluviali e, più raramente, anche il terreno vegetale  sabbioso detto bolo.

L’impasto con acqua veniva ottenuto disponendo la tufina in forma di cono tronco (mureddha) e praticandovi al centro un vuoto in cui veniva versata la pasta di calce nel numero di caldarine proporzionale a quelle di tufina secondo l’impiego; successivamente, con l’aggiunta  dell’acqua necessaria e con l’uso di uno strumento costituito da una specie di zappa con bordo quadro a spigoli arrotondati, munita di un lungo manico, detta ruèzzulu, veniva stemperata la calce e quindi amalgamata man mano  con la tufina circostante  formando la malta.

Una variante della malta comune era costituita dalla malta grossa, utilizzata normalmente per  i massetti di sottofondo dei pavimenti.

L’operazione della setacciatura veniva effettuata con l’uso di un pannello di rete metallica avente fori dell’ordine di circa un centimetro (rezza), munito di telaio perimetrale, disposto in posizione leggermente inclinata rispetto alla verticale, contro il quale veniva scagliata per mezzo della pala, la tutina proveniente dalla cava o dai banchi degli squadratori. Il passante veniva successivanemte setacciato col setaccio a mano (riquadro di assi di legno delle dimensioni di circa cm 50 di lato,  di larghezza di circa cm. 10 – farnaru – con applicazione di rete metallica) che aveva fori quadrati con lato da uno (sitella) a più millimetri,  a secondo del tipo di malta che si doveva confezionare ( per la muratura,  per gli intonaci o  per lo stucco degli intonaci).

Lo scarto più grossolano della setacciatura, costituiva la fricciame, utilizzata nei riempimenti e nella predisposizione dei letti a pendio dei lastrici solari; i detriti tufacei passanti dalla rezza ma non dal farnaro costituivano i pipirielli,  che venivano utilizzati, scagliandoli con violenza sull’intonaco fresco,  quando bisognava aumentarne lo spessore con passaggi successivi per pareggiare mancanze della muratura,  specialmente per il lato posteriore di murature ad una testa.

Una varietà di malta povera era costituita da calce impastata col terreno sabbioso (bolo); la malta  che ne derivava assumeva un  colore rossastro e veniva utilizzata specialmente per il primo strato di intonaci di case rustiche o di campagna e per la posa in opera di pavimenti in pietra.

Un’altra  varietà di malta povera era costituita da un impasto di terra con detriti di calce spenta (ne dirò a proposito dello spegnimento  della calce) detta “murtieri” che veniva utilizzata per spianare il nucleo di riempimento dei muri a due teste (muraglie) o nella “carica” delle volte a squadro  ma anche nella posa in opera di pavimentazioni in basolato.

La malta di cocciopesto, dotata di notevoli caratteristiche idrauliche aveva specifiche applicazioni e veniva utilizzata soprattutto nell’intonaco stagno delle cisterne, nella stilatura dei comenti dei lastrici solari in chianche di pietra di Cursi, ed in tanti altri casi in cui era richiesta la caratteristica di impermeabilità. Questa malta era ottenuta aggiungendo agli ingredienti soliti dei frammenti di coccio provenienti dalla frantumazione sistematica di embrici di terracotta (pizzulame).

 

 

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Cantiere edile (fondazioneterradotranto.it)

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Reclutamento di manodopera e approvvigionamento di materiale edilizio nelle costruzioni del Salento – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

L’arte del costruire nel Salento. Il cemento e il conglomerato cementizio – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

L’arte del costruire nel Salento. Le coperture “alla margherita” – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

L’arte del costruire nel Salento. Il cemento e il conglomerato cementizio – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotrant

 

L’arte del costruire nel Salento. Preparazione del conglomerato

di Mario Colomba

 

Per alcuni decenni, fino all’inizio degli anni ’50, la preparazione del conglomerato veniva eseguita a mano, senza uso di mezzi meccanici, con una serie di operazioni successive,  nel rispetto delle norme di cui al D.L. n.2229/1939

Nell’ambito del cantiere e, se era di piccole dimensioni, sulla pubblica via, si sceglieva un’area possibilmente pavimentata su cui si disponevano in piccoli cumuli, accostati ed allineati,  i contenuti del numero di calderine di breccia necessarie per la formazione di ciascun metro cubo di conglomerato (che era formato per regolamento da mc. 0,800 di breccia, mc. 0,400 di sabbia di frantoio e q.li 3,00 di cemento); quindi,  orientativamente: 70 calderine di breccia disposte in un rettangolo 7×10. sulla massa così predisposta, dopo averla spianata, si disponevano 35 calderine di sabbia e, dopo aver spianato il tutto, si spandeva uniformemente il cemento proveniente dal numero di sacchi di carta,  da kg. 50 cad., necessari per il dosaggio del 3% di cemento.

Solo dopo alcuni anni si capì che  era più agevole per i paleggiatori disporre la sabbia al primo strato, prima della breccia.

Ai lati della massa così costituita si disponevano, in posizione contrapposta, 2 o 4 paleggiatori che provvedevano a rivoltare il tutto e ad omogeneizzarlo a secco.

Successivamente, con le stesse modalità e con l’aggiunta di piccole quantità di acqua che veniva versata progressivamente (nella misura massima di 120 l x mc.), prima si inumidiva e poi si rendeva pastosa la massa, sempre rivoltandola continuamente con l’uso della pala,  che così assumeva la consistenza e la caratteristica di conglomerato,  pronto per essere trasportato in piano o in alto,  con l’impiego delle calderine,  e versato nel sito di impiego. Risultava difficile e faticoso limitare la quantità di acqua di impasto nella dimensione prescritta. Frequentemente, sia per facilitare la lavorazione che la messa in opera , si aumentava anche del 50% provocando una più intensa evaporazione nella fase di presa del legante con conseguente insorgenza di micro lesioni all’interno del manufatto,  pregiudizievoli per la lunga conservazione.

Il getto del conglomerato,  altrimenti detto calcestruzzo di cemento, comportava la preventiva bagnatura del sito di impiego e delle casseforme per evitare la perdita troppo rapida di umidità con pregiudizio della presa e indurimento del cemento.  Successivamente mediante continua pilonatura, con l’impiego di pestelli o altri attrezzi manuali, veniva favorita la costipazione dell’impasto e la maggiore adesione della malta ai ferri di armatura ed alle casseforme per evitare quelle discontinuità che si manifestavano in superficie con i nidi di ghiaia.

La resistenza finale del calcestruzzo era spesso influenzata da un inadeguato assortimento granulometrico degli inerti. Infatti, la breccia che veniva usata inizialmente era caratterizzata da granuli delle dimensioni di circa 3 cm. con la quale la percentuale di sabbia prescritta dal regolamento con il corrispondente dosaggio di cemento era sufficiente a costituire la quantità di malta necessaria per avviluppare i granuli di breccia. Però, con l’introduzione di sezioni resistenti sempre più limitate ed il conseguente ravvicinamento dei ferri delle armature metalliche,  si manifestò l’esigenza di una scelta granulometrica più sottile. Per conseguenza, la minore dimensione dei granuli di breccia esigeva una maggiore quantità di malta cementizia e quindi di sabbia. Tuttavia, la disponibilità di sabbia era molto limitata poiché proveniva dalla produzione di breccia con l’uso di frantoi a ganasce accoppiati a vagli rotanti che selezionavano limitate percentuali di sabbia rispetto al volume di breccia di  diversa granulometria prodotto.

Per questo spesso si riscontra la presenza di conglomerati fortemente alveolati o confezionati con l’impiego di sabbia di mare,  con evidenti influenze negative sulla resistenza e durevolezza del prodotto finito.

Solo negli anni ’60 il problema venne superato con l’introduzione di mulini che producevano sabbia in abbondanza dalla triturazione della breccia.

L’impiego progressivamente sempre più diffuso del conglomerato portò allo sviluppo di una tecnologia relativa sia al confezionamento che alla messa in opera di armature metalliche, casseforme, puntellamenti, ecc . e di maestranze di nuova generazione, che non avevano nulla in comune con quelle generate dall’arte muraria,  costituite soprattutto da  carpentieri e ferraioli.

All’inizio, il carpentiere era anche ferraiolo ma successivamente una più decisa specializzazione portò alla formazione di competenze distinte. Il carpentiere omogeneo con il mestiere del falegname, era abile soprattutto nell’impiego delle assi di legno per la formazione di casserature,  di forma sempre più ricercata e complessa,  che fossero in grado di sostenere sia  il peso del conglomerato che la spinta orizzontale che, nel caso delle travi,  poteva deformare le sponde verticali.
 Per le armature metalliche si usavano tondini in ferro omogeneo lisci che , nei vari diametri, venivano tagliati con l’impiego di cesoie a mano, piegati alle estremità per la formazione degli uncini (ganci) o nelle varie sagome richieste per staffe e ferri piegati e messi in opera con legature in filo di ferro cotto. Non esistevano i tondini di acciaio ad aderenza migliorata.

Le coperture piane, che ebbero una discreta diffusione agli inizi del ‘900 nel nostro territorio,  furono realizzate con travi in acciaio a doppio T disposte parallelamente con interasse di circa 65 cm.

Le estremità delle travi venivano incastrate nella muratura e gli interspazi venivano coperti con fette di  tufo della sezione di cm. 25×12, ricavate dalla divisione in due parti di conci di tufo delle dimensioni di cm. 63x30x25 (pizzotti).

La scarsa coibentazione, l’accoppiamento con lastrici solari facilmente fessurabili a causa delle notevoli dilatazioni termiche dell’acciaio che provocavano frequentemente anche vistose fessurazioni delle murature portanti, la frequente formazione di ruggine, ecc. ne determinarono il disuso, favorito pure  dall’adozione di una nuova tipologia di coperture piane che prevedeva l’impiego del conglomerato cementizio.

(continua)

 

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L’arte del costruire nel Salento. Il cemento e il conglomerato cementizio

Continuiamo la serie dei saggi scritti dall’ingegnere Mario Colomba, che ha lasciato questo mondo oggi 6 agosto 2021. I suoi scritti, pietre miliari per la conoscenza dell’edilizia nel Salento, continueranno ad essere pubblicati su questo spazio, per tenere vivo il suo ricordo e il suo sapere

 

di Mario Colomba

 

L’uso del cemento come materiale da costruzione nelle sue varie applicazioni, dal cemento armato ai vari tipi di malta, rappresenta l’inizio di un cambiamento epocale nella pratica costruttiva,  non solo dal punto di vista tecnologico ma anche e soprattutto per l’introduzione di una diversa mentalità. Si affermano nuove e diverse abilità personali che non riguardano più la corrispondenza con il manufatto, la capacità creativa o la ricerca della perfezione dei particolari. Prevale l’interesse della produzione e dell’economia di scala in cui l’individuo non rappresenta più il riferimento principale. E’ l’affermazione di un nuovo ambiente di lavoro in cui tutto è già programmato, in cui non si tollerano più margini di tempo impiegato per inventare o soltanto per riflettere.

Ogni addetto si deve limitare a svolgere,  nel minor tempo possibile e  comunque non superiore a certi standards codificati,  le operazioni che gli vengono affidate senza aggiungere nulla di suo.

Col passare del tempo, man mano che prendono piede le nuove pratiche costruttive, si perdono le conoscenze delle nozioni tradizionali trasmesse oralmente. Di conseguenza,  viene meno il rispetto personale per i depositari della conoscenza delle tecniche e tecnologie ormai desuete. Si verifica così una profonda modificazione dell’ambiente di lavoro. La divulgazione di elaborati progettuali (disegni e schede tecniche) esige un  minimo di conoscenze che di fatto determina una discriminazione, emarginando chi, per difetto di istruzione o difficoltà di apprendimento, non è più in grado di aggiornarsi e di adeguarsi alle esigenze della produzione e della produttività.

In un sistema produttivo come  quello delle costruzioni si verifica un cambiamento radicale che si manifesta prepotentemente, stimolato da una imponente domanda. Localmente però l’abbandono  dei vecchi sistemi costruttivi presenta una certa viscosità. Vi è riluttanza, per esempio nella realizzazione di edifici a struttura intelaiata. ad abbandonare l’impiego della pietra di tufo per l’esecuzione di tramezzature o murature di tompagno o nell’adoperare materiali alternativi  alle chianche di Cursi per le pavimentazioni solari. Si vanno conservando tuttora, anche per salvaguardare numerosi posti di lavoro,  tecniche,  materiali e tecnologie che mal si adattano alla coesistenza con strutture intelaiate elastiche.

Il progressivo contemporaneo sviluppo della meccanizzazione, provoca la nascita di specializzazioni del tutto nuove e fortemente settorializzate,   in deciso contrasto con le eclettiche capacità degli addetti tradizionali di qualifica più elevata (cucchiare) che erano in grado non solo di realizzare murature  ma anche di mettere in opera pavimentazioni o intonacare pareti.

Già negli anni ’30 si registrano da noi le prime applicazioni del cemento come nuovo materiale da costruzione. Però, è solo nel dopoguerra che si diffonde progressivamente l’uso del cemento portland , prodotto negli stabilimenti di Monopoli o Modugno dalla Italcementi.

L’uso più diffuso si riscontra, inizialmente,  per la confezione della malta cementizia e della malta bastarda, che si utilizzano sia per la posa in opera che per la fabbricazione di pavimentazioni nelle diverse tipologie (pavimenti in cemento e graniglia levigati a mano, mattonelle in pastina di cemento per pavimenti decorati, marmette in cemento e scaglie di marmo, ecc.) con limitati impieghi nel conglomerato cementizio per strutture in c.a. semplici (architravi, cordoli, ecc.) fino all’impiego più esteso  nella realizzazione delle coperture piane (“alla margherita”).

(continua)

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Cantiere edile (fondazioneterradotranto.it)

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L’arte del costruire nel Salento. I materiali da costruzione

L’arte del costruire nel Salento. I materiali da costruzione

 

L’arte del costruire nel Salento. La squadratura dei conci di tufo

 

di Mario Colomba

Nel Medio Evo, era diffusa la convinzione che la capacità di lavorare la pietra da taglio fosse un dono divino. Per questo agli scalpellini era consentito uno speciale status socio-politico di particolare privilegio che, per esempio consentiva loro di spostarsi con notevole libertà anche nell’attraversamento di frontiere di stati diversi.

In effetti, specialmente agli occhi dei non addetti, aveva qualcosa di magico il risultato finale di un concio ben squadrato, realizzato partendo da quello abbastanza irregolare e quasi informe proveniente dalla cava.

La squadratura dei conci di tufo, insieme allo spegnimento della calce viva in zolle, costituiva l’operazione preliminare per l’avviamento del cantiere.

I conci di tufo provenienti dalle cave, venivano lavorati dagli squadratori (‘mmannare) che agivano solitamente in coppia. il numero minimo di due (in coppia affiatata che chiacchierando, anche di fatti personali, riuscivano a superare meglio la monotonia ripetitiva del lavoro) era necessario per l’aiuto reciproco che si prestavano nel caricare e scaricare i conci dal banco.

I conci lavorati da ciascun squadratore dovevano essere accatastati in un piliere separato; ciò, per due ordini di motivi:

      • perché il maestro potesse controllare la produttività del singolo;
      • perché le abitudini personali nel taglio dell’assetto del concio (lieve sottosquadro di alcuni mm.) dovevano essere note al muratore (la cucchiara ) che ne teneva conto nell’effettuarne la messa in opera.

     

  • Già nell’osservare l’esecuzione di questa operazione preliminare (predisposizione del banco) fatta dallo squadratore avventizio, l’occhio esperto del maestro riusciva a ricavare utili informazioni sulla capacità professionale del soggetto. Così come, il maestro difficilmente sbagliava nell’individuare l’abilità di una cucchiara o di una ‘mmannara osservando semplicemente il modo di impugnare i ferri del mestiere. La predisposizione del banco poteva già essere un’operazione discriminatoria nel senso che, uno squadratore che non era in grado di assicurare la necessaria stabilità del banco, che doveva essere ben fermo e non subire spostamenti sotto i colpi della mannaia, non era in grado di ottenere la precisione e la qualità del risultato richiesti. I conci, scaricati in cantiere dal tràino, venivano squadrati, scelti e selezionati in base alle caratteristiche della pietra ed alla tipologia di lavorazione (purpitagno, curescia, cantone, tuttuno, ecc.) e accatastati in pilieri separati, prima di essere utilizzati per la posa in opera. Per contenere al massimo la fatica e lo sforzo fisico, lo squadratore trasportava il concio grezzo, prelevandolo dalla massa scaricata dal traino proveniente dalla cava, facendolo rotolare in posizione quasi verticale, sugli spigoli della testa, per poi sollevarlo solo in prossimità del banco, sul quale veniva collocato per la lavorazione. da dove, quando era squadrato, veniva prelevato, col suo aiuto, dal manovale che lo portava sulla linea.
  • Preliminarmente, nel concio da cm. 20 di spessore disposto orizzontalmente sul banco, veniva regolarizzata, disponendola in posizione verticale, la migliore delle due superfici maggiori (minori, nei conci da cm. 30 di spessore) che diventava la faccia (la facce), cioè la superficie di riferimento. in questa operazione veniva usata con destrezza la parte lunga dello squadro metallico, impugnato con la mano sinistra, per definire l’entità e la posizione delle irregolarità da eliminare con l’uso della mannara. Successivamente, si disponeva la faccia in piano, rivolta verso l’alto e si procedeva, con l’uso dello squadro, a tagliare ad angolo retto, prima l’assetto e poi l’altra faccia parallela, detta taglia, con una staggia (tagghia) della dimensione di 25 cm. la faccia posteriore detta “dietro” (tretu) veniva tagliata per metà rivolgendo verso l’alto, prima l’assetto (assiettu) e poi, per l’altra metà, la taglia (tagghia), senza l’uso dello squadro; si aveva così il concio “perpedagno“  (purpitagno).

  • Nel caso di impiego nella costruzione di muraglie, cioè di muri a doppio paramento, i conci non venivano squadrati sulla faccia posteriore e venivano detti dialettalmente “curescie” (cioè cinture). Per queste si impiegavano i conci di spessore insufficiente per essere lavorati a “perpedagno”, mentre per il nucleo centrale di murature a notevole spessore, a più di due teste, si impiegavano i conci “cacciati a tagghia” cioè lavorati solo per definirne l’altezza (la taglia) poiché le facce non erano viste.
    La squadratura del concio avveniva con l’uso della mannaia, dello quadro metallico e della tagghia e con le seguenti modalità:
    Nei cantieri più importanti c’era un numero rilevante di squadratori che fornivano direttamente alla cucchiara i   conci squadrati da murare o i pezzi speciali.
    Il concio da squadrare veniva disposto orizzontalmente in bilico sulla testa del concio di banco e parzialmente a sbalzo di qualche centimetro per consentirne il taglio con la mannaia fino al bordo inferiore.
    Il banco (in dialetto ancu – da cui ncaddhrarescaddhrare cioè mettere o togliere dal banco) era costituito da un concio di tufo disposto in piedi, in posizione verticale e, quando il suolo lo permetteva, parzialmente infisso nel suolo per alcuni centimetri. Generalmente, se disponibile, era costituito da un “pizzotto”, affiancato alla base da un secondo concio più corto, disposto disteso (sul lato sinistro) per aumentare la stabilità del primo e su cui venivano saltuariamente appoggiati gli attrezzi che di volta in volta non venivano utilizzati nel corso della lavorazione (il metro, la tagghia, lo squadro metallico ).Prima di iniziare l’operazione della squadratura del concio, veniva posta particolare cura nella predisposizione del banco sul quale doveva essere appoggiato il concio da squadrare.
  • Altre tipologie particolari erano rappresentate da:- i “cantoni” cioè i conci angolari, scelti tra i più integri, nei quali, una delle teste veniva lavorata con l’uso dello squadro sia in verticale che in orizzontale.
  • – Le legature (tuttuni o legatore) di lunghezza pari allo spessore delle murature a doppio paramento, che venivano tagliate a misura e lavorate solo sulle teste e sugli assetti ma non sulle facce.
  • – i riattati o riatticati, perimetrali ai vani finestra, analoghi ai precedenti ma sagomati con mazzetta e battuta, con o senza sguincio e, a volte con risalto di
  • cornice sporgente.

La qualità della muratura era fortemente condizionata dalla precisione della squadratura dei conci. L’integrità degli spigoli condizionava la larghezza della stilatura e rasatura dei comenti che doveva essere quanto più stretta possibile, mentre il parallelismo degli assetti ne condizionava l’elegante linearità orizzontale senza ondeggiamenti.

Le pietre di lamia o di gliama tonde e quadre erano i conci utilizzati per la costruzione delle volte murarie. le p.d.l. tonde o quelle quadre erano, normalmente, ottenute segando per metà i pezzotti dello spessore di cm.30. Questa operazione si otteneva con l’uso del “sirracchiu” che veniva azionato da due persone disposte di fronte che generavano il movimento alternativo dell’attrezzo, partendo dalla testa del pezzotto disposto in posizione verticale.

Le p.d.l. tonde, che venivano impiegate nella realizzazione della calotta della volta, venivano lavorate sulla faccia asportando longitudinalmente un piccolo spessore di materiale crescente da zero, in corrispondenza del bordo della testa, fino a cm 1,5 al centro del concio, lasciando inalterato il profilo rettangolare delle teste.

Le p.d.l. quadre, che venivano utilizzate nella costruzione delle “formate” delle volte, venivano lavorate sulla faccia asportando trasversalmente un piccolo spessore di materiale crescente da zero fino a cm 1,5 al centro del concio, perciò lasciando inalterato il profilo degli assetti laterali.

Le appese, che venivano preparate da squadratori esperti che le montavano a secco, a piè d’opera, per verificarne preventivamente la perfetta stereotomia e gli incastri con gli incroci delle murature perimetrali dei vani da coprire.

Particolare abilità e qualificazione era richiesta poi dalle lavorazioni speciali per la realizzazione di conci scorniciati o addirittura scolpiti con tutte le difficoltà portate da una pietra – l’arenaria – non sempre omogenea come la pietra leccese e, talvolta, con la presenza di catene – strati di calcare duro e compatto all’interno del concio – che spesso ne provocavano la irreparabile rottura.

immagine tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/File:Manduria-

 

C’era comunque, alla base di tutto, un lavoro di squadra, una sinergia, che consentiva spesso senza l’uso del linguaggio la realizzazione di manufatti di pregio semplicemente ripetendo con cura e diligenza gesti e operazioni le cui modalità erano state tramandate da secoli praticamente senza alcuna variazione.

I pochi termini, generalmente dialettali, che venivano impiegati erano sufficienti per trasmettere le informazioni necessarie al conseguimento del risultato. Basta citare per questo, l’uso della mezza croce; sorta di falso squadro costituito da due vergelle di ferro (25X3) della lunghezza di circa 30-35 cm. incernierati ad una estremità, che veniva adoperata per segnare sulla faccia della p.d.l. rivolta verso l’alto, la traccia dell’inclinazione del taglio cioè serviva per determinare il verso del taglio delle teste sinistre o destre delle p.d.l. tonde; il comando era “a nnanzi” (avanti, davanti a sè) per le destre e “fore” (fuori, all’esterno) per le sinistre. Comando che veniva dato oralmente al manovale il quale, scendendo dall’impalcatura di servizio posta all’altezza delle appese, portava fisicamente la mezza croce, impostata dal muratore, allo squadratore che la riportava sul concio da sagomare, cioè per modellare la testa della p.d.l.. secondo il comando ricevuto.

L’attaccamento diretto al risultato finale era molto diffuso specialmente da parte dello squadratore che intravedeva nel concio che stava squadrando, unica fonte del suo reddito, le sue stesse personali possibilità di sopravvivenza ed anche per questo ci metteva, con la dovuta sollecitudine richiesta dalla produttività, tutta la cura e la precisione di cui era capace attirando l’attenzione del maestro che ne valutava la capacità e la produttività. La delicatezza, con cui il concio squadrato veniva accatastato nel piliere personale per evitare “sgrugnature” degli spigoli, rappresentava una sorta di affettuoso distacco, come il commiato da una propria creatura che viene considerata con spirito di compiacimento e come attestato della propria abilità.

Non era infrequente che venisse verificato da parte dei committenti più esigenti, perfino l’integrità interna del singolo concio squadrato che, se percosso con un sasso non emetteva un suono metallico ma un tonfo sordo, rivelava la presenza di fratture interne e quindi era da scartare.

 

Per le parti precedenti vedi qui:

L’arte del costruire nel Salento. I materiali da costruzione

Reclutamento di manodopera e approvvigionamento di materiale edilizio nelle costruzioni del Salento

 

di Mario Colomba

L’approvvigionamento dei materiali

La piazza principale del paese era fisicamente suddivisa in due parti a livello differenziato. la presenza di un piano sopraelevato di un gradino che raccordava la “colonna” con il Sedile, sede storica del Circolo cittadino, limitava la parte semideserta che era di esclusiva pertinenza del Circolo per il passeggio dei soci.

La zona più estesa, ma a quota inferiore, compresa tra l’ex Pretura e l’imbocco di via Duomo, era gremita di persone. vi stazionavano i fattori, i caporali e i numerosi braccianti agricoli alla ricerca di un ingaggio e per ricevere le disposizioni necessarie allo svolgimento delle lavorazioni da eseguire il giorno successivo.

l’area più ristretta, nei pressi dell’imbocco di Corso V. Emanuele II, costituiva il luogo d’incontro degli operatori delle altre attività produttive, degli artigiani, dei trasportatori, ed in genere dei fornitori di materiali da costruzione (conci di tufo, tufina, calce in zolle, acqua, ecc. ) In quel luogo, in un arco di tempo limitato a poche ore, venivano assegnati da parte dei maestri, gli ordinativi della fornitura, presso i vari cantieri, dei materiali necessari. Operazioni che, in caso di pioggia, si svolgevano nel locale del vicino bar. 

 

Il trasporto

I conci prodotti venivano trasportati dalla cava fino al luogo di impiego a mezzo di carri (traìno) a due ruote, senza sponde, trainati da uno o, raramente, due cavalli (valenzino).

I conci venivano disposti sul pianale di carico del carro (littera) con modalità costante; generalmente tutto il pianale veniva ricoperto con due strati sovrapposti di conci. Il carico, compreso il peso del conducente (trainieri), veniva equilibrato rispetto all’asse delle ruote per non gravare eccessivamente sulla schiena dell’animale.

L’unità di misura del carico era il viaggio, che corrispondeva a 6 conci da 20 cm o a 4 conci da 30 cm di spessore.

L’andatura dei cavalli era al passo e, per questo, il materiale prevalentemente usato proveniva da luoghi distanti non più di 3-6 km. (una o due ore) dal luogo di impiego. Le cave di tufi erano ubicate nella zona di Torremozza, Tagliate, Corillo, Mondonuovo, ecc.

Un materiale di particolare pregio era la Carparina di Nardò– pietra di colore paglierino e di modesto peso specifico unito a notevole resistenza meccanica; veniva cavata solo da alcuni strati del banco di cava e solo in determinate località.

Anche per il notevole costo del trasporto, l’uso della pietra leccese proveniente dalle cave di Cursi o del carparo delle cave di Gallipoli-Alezio, era limitato a circostanze particolari imposte da motivi statici o decorativi ed alle lastre usate per le pavimentazioni solari (chianche).

 

da piazzasalento.it

 

Economia della produzione

La caratteristica principale era il riciclaggio di tutti i materiali di scarto: non si buttava niente.

Nel corso del processo costruttivo c’era sempre la possibilità di impiegare i materiali provvisoriamente scartati, tanto che, alla chiusura di un cantiere, spesso, si doveva sgomberare solo l’attrezzatura.

Tutto ciò dipendeva molto dalla diffusa sensibilità al risparmio che coinvolgeva tutti gli addetti, convinti della maggiore incidenza del costo dei materiali nell’economia generale, rispetto a quello della mano d’opera, relativamente a più buon mercato.

Per dare poi un’idea della sinergia che doveva esistere tra il muratore che metteva in opera i conci e lo squadratore che li preparava, cito ad esempio un particolare:

Il muratore, nel mettere in opera i conci di un filare, stendeva preliminarmente con la cazzuola uno strato di malta; tale strato, di spessore longitudinalmente costante, aveva trasversalmente, (per la conformazione della cazzuola con cui inevitabilmente si esercitava una maggiore pressione con la punta che assottigliava di più la malta stesa) uno spessore maggiore sul lato interno rispetto alla posizione del muratore.

Per evitare il fuori piombo della faccia del concio determinato dalla disuniformità trasversale dello strato di malta, era opportuno che la superficie dell’assetto del concio venisse tagliata leggermente “sottosquadro” di qualche millimetro, corrispondente al maggiore spessore della malta che risultava stesa verso l’interno.

Questo accorgimento era importante perché evitava al muratore la produzione di sforzi supplementari necessari per risollevare il concio già “assettato” tutte le volte che era obbligato a   ridurre lo spessore eccessivo della malta sul bordo interno dell’assetto, velocizzando contemporaneamente la posa in opera del concio e quindi migliorando la produttività. In effetti, tutte le “astuzie” che venivano adoperate tendevano ad un unico superiore scopo: realizzare manufatti il più possibile perfetti, anche perché la perfezione pagava. Per esempio, la regola di realizzare corsi di muratura senza ondeggiamenti tornava utile non solo perché denotava una migliore qualità, ma anche perché rendeva più facile la costruzione del corso successivo. Infatti, la presenza di una ingobbatura del profilo orizzontale del corso in corrispondenza del giunto verticale tra due conci, a causa del naturale sfalsamento, provocava instabilità del concio superiore che “ballava”, ruotando sul punto di contatto che o doveva essere spianato o produceva un eccesso di pressione con pericolo di frattura del concio.

L’eliminazione del difetto comportava uno sforzo fisico supplementare che, se ripetuto durante la giornata lavorativa provocava un affaticamento che comprometteva la quantità della produzione.

 

Qui le parti precedenti dello stesso Autore:

Libri| L’arte del costruire a Nardò e dintorni

L’arte del costruire nel Salento. Gli arnesi del mestiere

Maestri e maestranze nel cantiere edile a Nardò e nel Salento. La produzione edilizia

L’arte del costruire nel Salento. Strutture murarie di copertura: archi e volte

Maestri e maestranze nel cantiere edile a Nardò e nel Salento

L’arte del costruire. Il cantiere edile a Nardò e nel Salento

Arte del costruire e riutilizzo presso il popolo salentino

L’arte del costruire nel Salento. I materiali da costruzione

Arte del costruire e riutilizzo presso il popolo salentino

Venerdì 16 marzo, alle ore 18.30, presso la libreria “I Volatori” a Nardò, si presenterà il volume di Mario Colomba: Le pratiche dell’arte del costruire nel territorio di Nardò e dintorni. Appunti di viaggio nel mondo dei fabbricatori e degli artigiani nella metà del ’900, già sommariamente presentato

Libri| L’arte del costruire a Nardò e dintorni

Mario Colomba Copertina

Per gentile concessione dell’Autore pubblichiamo uno dei capitoli del libro

L’ambiente di lavoro

di Mario Colomba

Sotto l’aspetto strettamente meccanico, in tutte le attività produttive, vi era un continuo confronto tra la forza di gravità e la forza fisica generata dall’uomo o dagli animali. L’unico aiuto tecnologico era rappresentato dall’uso delle sole macchine semplici conosciute da tempi immemorabili: la leva, la carrucola, il verricello ed il piano inclinato.

Nell’ambiente di lavoro, le varie attività erano regolate dall’esercizio della forza fisica dell’uomo, sapientemente sfruttata, senza superare i limiti delle facoltà fisiche individuali, in equilibrio con l’ambiente naturale e sociale, in una parola con il contesto.

Ma vediamo com’era questo ambiente di lavoro.

Operando una sorta di retrospettiva, il primo aspetto che viene spontaneo osservare è il perfetto equilibrio tra le varie attività umane e l’ambiente naturale.

Una prova di questo equilibrio era, per esempio, la pressoché assenza di rifiuti. Principalmente, si evitavano gli sprechi nell’impiego di tutte le risorse disponibili, come peraltro avveniva nell’ambiente familiare anche per le risorse alimentari. I consumi erano contenuti all’indispensabile. Tutto o quasi veniva riutilizzato: in agricoltura, gli scarti vegetali e i prodotti di risulta delle potature e della rimonda come combustibile, le deiezioni degli animali (e non solo), come concime; si utilizzavano come matite per i muratori gli elettrodi di grafite dell’arco voltaico consumati, che venivano scartati dalle cabine di proiezione dei cinematografi; nell’edilizia, i conci di tufo (cuzzetti) provenienti da demolizioni venivano recuperati, i detriti tufacei ed i conci frantumati venivano impiegati per i riempimenti e per i nuclei delle murature a due teste (muraglie); anche i fabbricati semidiroccati da eventi sismici, nella ricostruzione, non venivano rasi completamente al suolo (come si userebbe oggi con l’uso di mezzi meccanici) ma si conservavano anche i brandelli di murature ancora perfettamente integre, previa rimozione anche di capitelli o pezzi scorniciati se sgrugnati, che venivano sbrigativamente rottamati nella convinzione di essere in grado di riprodurli integralmente ex novo con le stesse ed anche migliori caratteristiche di qualità.

In una sorta di economia circolare ante litteram si tendeva al riuso di tutti i materiali. C’è stato un periodo negli anni ’50, all’inizio dello sviluppo del cemento armato, in cui si raddrizzavano i chiodi usati dai carpentieri per riutilizzarli. Naturalmente, ciò dipendeva anche dal basso costo della mano d’opera rispetto a quello dei materiali.

cantiere Mario Colomba

Spesso, in fase costruttiva, si decideva la dimensione di un vano- porta o vano-finestra in base a quella di un infisso recuperato.

Nel reimpiego di materiali e nella tendenza al risparmio dominava l’arte di arrangiarsi da cui era profondamente caratterizzata la vita quotidiana.

Un esempio particolarmente evidente del diverso rapporto con le risorse ambientali è costituito dalla gestione delle canne.

Prima che si affermassero i nuovi prodotti utilizzati in edilizia per strutture leggere di separazione o di coibentazione, il materiale più usato era l’incannicciato, sia per strutture leggere di contropareti o di divisione che per coibentazione, come nel caso dei tetti. In tal modo e con il loro impiego in agricoltura per la realizzazione di “cannizzi”, utilizzati per deporvi generi alimentari da essiccare al sole o per la fabbricazione delle scope, le canne, che crescevano naturalmente lungo i corsi d’acqua ed i canali di scolo dei campi, venivano periodicamente tagliate ed utilizzate. Ora, invece, bisogna procedere continuamente al taglio ed alla distruzione di queste piante, che vengono ritenute infestanti e che, in mancanza di interventi continui di rimozione, contribuiscono in maniera significativa a contrastare il naturale deflusso delle acque nei canali di scolo dei campi, esaltando quei fenomeni alluvionali ed inondazioni cui il nostro territorio è periodicamente soggetto.

Influiva nelle scelte dei materiali da costruzione anche un altro fattore: quello dei trasporti.

Il prevalente mezzo di trasporto per la movimentazione di merci e materiali era il carro a due ruote trainato da un cavallo o due (valenzino). La velocità di percorrenza del cavallo al passo, era di circa 5 km/h e perciò si utilizzavano normalmente materiali o merci provenienti da siti di riferimento raggiungibili in una o due ore (quelli che definiremmo oggi a km zero), salvo casi particolari. Per evitare perdite di tempo ed il costo del trasporto, a volte, si preferiva interrare sul posto materiali considerati di scarto.

 

A tal proposito mi piace ricordare un evento di cui sono stato testimone in occasione dei lavori di ristrutturazione del Seminario vescovile (quello antico, ubicato in piazza Pio XI , di fronte alla basilica cattedrale).

L’attuale atrio interno circondato dal quadriportico era un piazzale in terra battuta, caratterizzato dalla presenza di qualche albero di mandarino, dal quale si accedeva ai locali interni di piano terra (cappella, refettorio, ecc.) ed a quelli di primo piano attraverso una scala scoperta, a staffa di cavallo, costituita da due rampe curve convergenti al primo pianerottolo scoperto sul cui parapetto era eretta la statua di S. Filippo Neri.

Nel corso dei lavori di ristrutturazione, poiché la scala andava demolita e la statua andava rimossa, per evitare onerosi costi di trasporto, i gradini monolitici, in pietra di Trani o Apricena, finemente bocciardati, vennero riutilizzati sul posto per la costruzione del marciapiede esterno sulla facciata prospiciente piazza PIO XI e la statua di S. Filippo Neri venne letteralmente precipitata (nell’operazione si staccò la testa) e affossata in una buca capiente, scavata al piede del parapetto su cui era collocata in precedenza.

Prima dell’affermarsi dell’uso delle macchine termiche ed elettriche, ogni attività umana era orientata al superamento delle forze della natura (principalmente la forza di gravità) e così, nel corso dei secoli, non era mancato il ricorso a geniali innovazioni tecnologiche che, dall’invenzione della ruota, avevano caratterizzato l’impegno delle intelligenze a creare dispositivi ed utensili per contenere gli sforzi fisici e rendere possibile ciò che naturalmente non lo era.

Antichi sistemi di copertura per le abitazioni salentine

Nardò nel 1732

di Fabrizio Suppressa

 

I motivi di una così diffusa tecnica di copertura sono da ricercarsi esclusivamente nell’esiguo costo dei materiali impiegati, rispetto alle ben più costose e complesse volte in muratura; ma ciò non significava affatto che tale tecnica sia stata in passato appannaggio delle architetture più semplici e povere. Sovente, anche i palazzi nobiliari possedevano all’ultimo piano tali coperture, anche se mascherate da alti frontoni, come ad esempio Palazzo Castriota a Melpignano, Palazzo Rescio a Copertino o tanti altri esempi, riconoscibili ai giorni nostri per l’ultimo piano a “cielo aperto”.

Anche la campagna non era da meno; nel libro dei conti della masseria S. Chiara in agro di Nardò, leggiamo infatti che nel 1684 si ebbe modo di rifare l’acconcio delle capanne, e per tale scopo venne chiamato un mastro dalla vicina città di Veglie[1]. Le capanne, ovvero gli elementi pertinenziali, quali abitazioni e magazzini, non erano i soli elementi realizzati con tali semplici tecniche costruttive. In alcuni casi, anche la torre, l’elemento fortificato al centro di ogni complesso masserizio, possedeva alla sua sommità due falde inclinate, anche se ciò comprometteva un’abile manovra di difesa piombante. Per rimanere in ambito neretino, questo è il caso della masseria Nucci; dove purtroppo dobbiamo constatare l’introduzione durante i lavori di ristrutturazione di tegole non appartenenti alla nostra tradizione costruttiva, stese al di sopra di una vistosa soletta in cemento armato su di una torre del XV sec. Un ultimo esempio è una particolare architettura spontanea nata dalla fusione degli elementi tipici di città e campagna: la caseddhra. Una costruzione a secco a pianta rettangolare con una stretta somiglianza all’immagine dei nostri trulli, ma al contrario di questi ultimi, non coperta da una falsa cupola bensì da un tetto formato da una rustica struttura di legno, canne e tegole.

caseddhra
Caseddhra (dis. F. Suppressa)

 

Le caratteristiche di deperibilità e fragilità dei materiali impiegati erano tali che ciclicamente si doveva provvedere allo smontaggio e alla ricostruzione del tetto. E’ difficile quindi trovare ai giorni nostri opere che abbiano più di cento anni. Forse l’unica eccezione è racchiusa all’interno delle mura del Santuario di San Giuseppe da Copertino; la costruzione eretta dal maestro Adriano Preite nel 1754 conserva intatta l’umile stalletta dove nel 1603 il Santo venne alla luce.

La tecnologia, come già detto, era semplice e rapida. Un sistema di travi di legno chiamati murali poggiante sulle esili pareti di tufo, ospitava in senso ortogonale un assito di tavole su cui gravitava il manto di tegole. Solitamente a causa del costo più elevato, si ricorreva ad un “surrogato” delle tavole di legno, ovvero un cannizzo su cui veniva posta della malta (mista a paglia o pula di grano) per uno spessore di circa cinque centimetri. Nonostante la tecnica era ad uso di ambienti più umili, la copertura incannucciata garantiva un apprezzabile isolamento termico (le canne palustri e la malta mischiata con paglia, sono infatti materiali sostenibili impiegati oggi nella bioedilizia). In caso di ampia superficie da coprire, la struttura lignea diveniva molto più elaborata, l’Arditi nel suo “L’Architetto in Famiglia”, edito a Matino nel 1894, ci ricorda le varie parti dell’intelaiatura, che a seconda della funzione prendono il nome dialettale di monaco, braccia, razze, asinello e panconcelli.

Copertura Incannucciata
Copertura incannucciata, masseria Sarparea de’ Pandi (ph. F. Suppressa)

 

Altrettanto curioso è il termine dialettale usato per indicare la tegola, ovvero l’imbrice (irmice o ‘mbrice in alcune varianti). L’assonanza ricorda la parola embrice, tegola piatta diffusa nell’area tirrenica nella tradizionale copertura alla romana, eppure la nostra tegola dalla forma concava corrisponde alla parola italiana coppo. In soccorso interviene il Marciano (anch’egli abitava in una casa con tetto a capanna), che nel capitolo del suo libro dedicato al regno minerale ci scrive quanto segue:

“Si trova anche in questa Provincia la Rubrica Sinopia eccellentissima, e la fabbrile dell’una e dell’altra specie in abbondanza, e l’argilla, ovvero creta bianca, della quale si lavorano e fanno i tetti per coprire le case, che il volgo chiama imbrici, imitando l’etimologia ed il nome latino Imbrices, ab imbrium defensione, (..)”[2].

Tali laterizi venivano realizzati in centri urbani specializzati nelle produzioni ceramiche, come Cutrofiano, Grottaglie, Lucugnano e San Pietro in Lama; non a caso, quest’ultima località era conosciuta in passato anche con il nome di San Pietro degli èmbrici[

A fine Ottocento, con l’aumento dell’attività estrattiva dei materiali edilizi e il perfezionamento delle tecniche costruttiva inizia la rapida scomparsa dallo scenario urbano di questo tipo di copertura. Il cocciopesto, un impasto di malta e cocci finemente triturati, utilizzato per secoli per impermeabilizzare i terrazzi di edifici di notevole importanza, viene rapidamente sostituito dalla tecnica del lastrico composto da chianche in pietra di Cursi e cemento; tuttora abilità fiore all’occhiello delle maestranze salentine.


[1] Antonio Costantini, Le masserie fortificate del Salento meridionale, Galatina, 1984, p. 74

[2] Spero in una conferma Prof. Polito!

 

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