Maestri di scuola a Ruffano fra Ottocento e Novecento

di Paolo Vincenti

 

Come la vicina Taurisano[1], anche Ruffano vanta una serie di maestri elementari fra Ottocento e Novecento, esponenti di quella classe intellettuale che certo faticava a trarre fuori dall’analfabetismo la popolazione, assillata in quel torno di tempo da problematiche più urgenti come la miseria, la mancanza di lavoro e l’alta mortalità per malattia. In questa sede, non ci soffermeremo sul loro ruolo di insegnanti e sulle problematiche connesse all’esercizio della professione,[2] ma piuttosto sulla loro produzione letteraria, nei due secoli presi in esame.

Il primo maestro di cui ci occupiamo è Alfonso Mellusi (1826-1907), biografato da Aldo de Bernart nel bel saggio Un maestro di scuola nella Ruffano ottocentesca –Alfonso Mellusi-[3].  Originario di Ginosa ma proveniente da Alessano, aveva studiato presso il Seminario di Ugento e poi aveva perfezionato la formazione presso il Convento dei Cappuccini di Ruffano. Divenuto sacerdote, fu il primo maestro di scuola a vita (oggi si direbbe insegnante di ruolo) non solo a Ruffano ma nel Salento. “Sacerdote filosofo”, lo definisce de Bernart, “direttore di un corso per la formazione di maestri elementari”,[4] autore nel 1868 di un Catechismo religioso comparato con la storia sacra[5] che de Bernart pubblica in versione integrale nel succitato volume. Si tratta di un’opera sulla didattica dell’insegnamento della religione cattolica, che diede al maestro Mellusi grande prestigio e notorietà, tanto che nel 1900 il Re Umberto I lo nominò Cavaliere della Corona d’Italia.

Ma Ruffano negli stessi anni si dimostrava all’avanguardia anche sotto l’aspetto della parità di genere e dell’emancipazione femminile. Occorre ricordare almeno due nomi di maestre donne a cavallo fra Ottocento e Novecento: Marina Marzo e Angiola Guindani.[6]

Altro maestro di cui ci occupiamo è Carmelo Arnisi (1859-1909).  Oltre ad essere ricordato da Ermanno Inguscionella sua opera La civica amministrazione di Ruffano-Profilo storico[7], è stato al centro di una pubblicazione del 2003, a cura della Pro Loco di Ruffano: Carmelo Arnisi – Un maestro poeta dell’Ottocento, un pregevole volume con tre saggi, di Aldo de Bernart, Ermanno Inguscio e Luigi Scorrano, sulla vita e le opere del poeta ruffanese, fino ad allora quasi sconosciuto, nonostante a lui sia a Ruffano intitolata una strada[8].

Nel libro, pubblicato con il patrocinio dell’Amministrazione Comunale di Ruffano, Cosimo Conallo, nell’Introduzione, sottolineava come fosse ormai tempo di riscoprire la figura di questo poeta ruffanese, intorno al quale non era mai stato fatto uno studio organico. Nel primo saggio, L’Arnisi e il suo tempo, Aldo de Bernart fa uno spaccato della società, della politica, dell’arte scultorea, pittorica ed architettonica del tempo in cui visse l’Arnisi, e parla delle sue fonti di ispirazione, delle sue frequentazioni con i maggiori protagonisti della cultura salentina dell’epoca, fra i quali il grande Cosimo De Giorgi, con cui egli era in corrispondenza, ed anche con gli esponenti della nobiltà locale, come le famiglie ruffanesi Castriota-Scanderbeg, Pizzolante -Leuzzi, Villani- Licci. <<Ispirandosi alla poesia di Luigi Marti […] che aveva cantato la “Verde Apulia”, l’Arnisi cantò la “Verde Ruffano”, in particolare S.Maria della Serra dove soleva recarsi, pellegrino di fede e d’amore…>>.[9] Il secondo saggio, Carmelo Arnisi (1859-1909) L’uomo il poeta, a cura di Ermanno Inguscio, ripercorre le tappe fondamentali della vita del poeta, la cui salute fu minata fin dalla giovane età da una persistente forma di tosse convulsa; l’infanzia serena trascorsa a Ruffano, presso la casa di Vigna La Corte prima e Casa Quarta, in Via Pisanelli, dopo, il suo lavoro di maestro elementare, l’amore per la cultura, la collaborazione con alcuni giornali dell’epoca, come “Il Corriere meridionale”, diretto da Nicola Bernardini, e la “Cronaca letteraria”, diretta da Giuseppe Petraglione; gli inverni a Ruffano e le estati trascorse a Leuca, ospite nelle ville delle famiglie Daniele, Castriota, Fuortes. Sempre ben disposto nei confronti degli amici, fra i quali il segretario comunale Donato Marti, era invece tagliente e fortemente sarcastico nei confronti degli usurai, che egli definì “vampiri sociali”, degli operatori di banca, “illustri parassiti”, e degli ipocriti. Morì, nel luglio del 1909, spossato da una forma grave di polmonite, a soli 49 anni. Alla sua morte, il giornalista e scrittore Pietro Marti traccia un elogio funebre sul giornale “La Democrazia”.[10] Nel terzo saggio, Sui versi di Carmelo Arnisi, Luigi Scorrano fa una attenta analisi dell’opera “Versi”, unica inedita dell’Arnisi, e dei manoscritti lasciati dal poeta e non pubblicati. Viene fuori il ritratto di un autore che si può ascrivere al filone della poesia sentimentale dell’Ottocento, influenzato da Leopardi, D’Annunzio, Pascoli, Carducci, dei quali trascrive molte poesie. La produzione dell’Arnisi è caratterizzata da toni intimistici, i temi sono gioie familiari, amore deluso, spesso tristezza e ripiegamento su se stesso; è costante, nelle sue liriche, la presenza della morte. Nell’opera non data alle stampe, che il curatore chiama “Versi 2”, per distinguerla da quella a stampa, indicata come “Versi 1”, compaiono altri motivi e fonti di ispirazione, come la natura, l’amor di patria, l’attenzione al sociale, gli scherzi nei confronti degli amici, la filiale devozione per la terra natale, Ruffano. Anche se non vi è una vera e propria connotazione locale nell’opera dell’Arnisi, che voleva evitare la dimensione municipalistica di una caratterizzazione estremamente tipicizzata, emerge comunque la salentinità del poeta e il suo attaccamento al borgo natìo. È stato il maestro Vincenzo Vetruccio il primo a riscoprire Carmelo Arnisi dal momento che, come giustamente rivendica in una sua pubblicazione autoprodotta[11], fu lui che ritrovò il manoscritto dell’Arnisi, Versi, inedito, lo fotocopiò e ne donò una copia al prof. Cosimo Conallo, all’epoca Presidente della Pro Loco, il quale si fece poi promotore della pubblicazione, affidandone l’incarico agli studiosi de Bernart, Inguscio e Scorrano. Nel quadernetto, Vetruccio riporta molte interessanti notizie biografiche e foto sull’Arnisi e sulla Ruffano del tempo in cui visse l’insegnante.

Ed eccoci a Pietro Marti (1863- 1933), il nome più altisonante fra gli intellettuali a cui Ruffano abbia dato i natali.[12]

Dalle svariate fonti in nostro possesso sappiamo che Pietro Marti nasce in una poverissima famiglia ruffanese, ma riesce tuttavia a studiare, tra mille sacrifici, ed a diplomarsi maestro elementare, attività che svolge a Ruffano, nei primi anni. Marti non aveva un carattere facile. Ben presto, i suoi rapporti con l’amministrazione comunale di Ruffano si fecero tesi ed egli, dopo ricorsi e sentenze del Consiglio di Stato, fu mandato ad insegnare a Comacchio. In realtà i motivi del suo esonero furono le arbitrarie assenze dal posto di lavoro. Oltre alle lettere, la sua grande passione è l’arte e l’amore per la sua terra, che lo studioso manifesta in vari modi, nella sua sfaccettata e multiforme attività. Spirito libero, brillante e poliedrico, si dà al giornalismo, fondando e dirigendo molte testate, fra le quali “La Voce del Salento”, “Arte e Storia”, “La Democrazia”, ecc. Il nome di Marti è anche legato alla nascita ed alla diffusione del Futurismo pugliese.  Nel febbraio del 1909, infatti, veniva pubblicato sul prestigioso giornale francese “Le Figarò” il Manifesto del Futurismo, la corrente letteraria fondata da Filippo Tommaso Marinetti. Sulla “Democrazia”, settimanale fondato e diretto da Pietro Marti, il 13 marzo 1909, vale a dire a meno di un mese di distanza dall’apparizione del manifesto Le futurisme sul “Figaro”, veniva pubblicato il “Manifesto politico dei Futuristi”. Ancora, dopo un periodo di parziale oblio del futurismo leccese, nel 1930, a smuovere le acque fu “La Voce del Salento”, nuovo settimanale fondato e diretto da Marti, con un articolo, a firma di Modoni, fortemente critico nei confronti dell’arte futurista. Questo articolo innescò l’effetto contrario rispetto a quello desiderato dal suo autore; vi fu infatti una levata di scudi, da parte degli esponenti del futurismo, in difesa del movimento. Lo stesso Marti, con lo pseudonimo di Ellenio, pur chiamandosi fuori dalla rissa che si era scatenata, esprimeva forti perplessità sulla concezione futurista dell’arte. E tuttavia, da intellettuale aperto e illuminato, pur non in sintonia con le idee dei giovani futuristi, accettava di pubblicare qualsiasi intervento. Si ritrovò così a dare spazio ad un gruppo di giovani artisti leccesi, che si chiamerà “Futurblocco”, capeggiato dall’allora poco più che adolescente Vittorio Bodini, nipote dello stesso Marti, il quale ricorderà sempre il nonno in pagine di grande affetto. Molti i meriti di Marti nell’arte. Da vero talent scout, fece conoscere al grande pubblico i giovani artisti salentini, con l’allestimento di Biennali d’arte a Lecce. Fu Regio Ispettore ai Monumenti della Provincia di Lecce, dal 1923 al 1929, e Direttore della Biblioteca provinciale “Nicola Bernardini” fino alla morte. Oltre ad una biografia di Antonio Bortone, in cui Marti dimostra la propria ammirazione per lo scultore ruffanese,[13] scrisse diverse opere di carattere storico, artistico e letterario. Fra queste, una la dedica proprio al filosofo taurisanese Giulio Cesare Vanini. Al martire di Tolosa, Marti si sentiva molto vicino per indole e temperamento e ne sposava idealmente la causa. Il libro è Giulio Cesare Vanini del 1907.[14] Marti, nel suo elogio del filosofo, definito il “precursore del trasformismo scientifico”, seguendo le parole di Bodini[15], passa in rassegna tutti gli studiosi che avevano severamente contestato il Vanini e quelli che invece lo avevano difeso. Si sofferma lungamente sulle vicende biografiche di Vanini, sulle numerose tappe del suo lungo peregrinare e soprattutto sulle sue opere, approfondendo il pensiero del filosofo, che inquadra nel contesto storico in cui visse e operò. Porta illustri esempi di filosofi del Cinquecento, Seicento, Settecento, per esaltare l’eroismo di Vanini, e tuttavia non si sottrae a quella visione che erroneamente lo considerava un martire della repressione cristiana se non un Giordano Bruno minore. Da citare anche l’opera Nelle terre di Antonio Galateo, [16]che faceva riferimento al grande autore del De situ Iapigiae, l’erudito del Cinquecento Antonio De Ferraris, di Galatone.

In tutto, si conservano circa 40 opere di Marti presso la Biblioteca provinciale di Lecce, che gli costarono molti anni di paziente ricerca, agevolata sicuramente dal suo incarico di Direttore della Biblioteca provinciale, nella quale egli profuse grandissimo impegno e amore per la nobile cultura di cui si sentiva paladino. Per questo, esaminò un numero impressionante di documenti e svolse ricerche sul campo per tutto il corso della sua carriera. Pietro Marti muore il 18 luglio 1933; a lui a Ruffano, è anche intitolata una via.   

 

Note

[1] Si rinvia a Francesco De Paola, Stefano Ciurlia, L’istruzione elementare nella Taurisano del Novecento: esperienza, memoria, immagini, in Aa. Vv., Humanitas et Civitas. Studi in memoria di Luigi Crudo, a cura di Giuseppe Caramuscio e Francesco De Paola, Società di Storia Patria-Sezione di Lecce, “Quaderni de l’Idomeneo”, Galatina, Edipan, 2010, pp.123-184.

[2] Si veda Aldo de Bernart, Il maestro di scuola nel Salento Borbonico, Tipografia di Matino, 1965.

[3] Aldo de Bernart, Un maestro di scuola nella Ruffano ottocentesca –Alfonso Mellusi, Galatina, Congedo, 1990.

[4] Aldo de Bernart, Carmelo Arnisi e il suo tempo, in Aldo de Bernart, Ermanno Inguscio e Luigi Scorrano, Carmelo Arnisi Un maestro poeta dell’Ottocento, Galatina, Congedo, 2003, p17.

[5] Alfonso Mellusi, Catechismo religioso comparato con la storia sacra, Lecce, Tip. Gaetano Campanella, 1868.

[6] Aldo de Bernart, Un maestro di scuola nella Ruffano ottocentesca –Alfonso Mellusi cit., p.10.

[7] Ermanno Inguscio, La civica amministrazione di Ruffano-Profilo storico, Galatina, Congedo,1999, pp.176-179 ed anche Idem, Amici e mecenati in alcune liriche del poeta Carmelo Arnisi (1859-1909), in “Note di Storia e Cultura Salentina”, Società Storia Patria sezione Maglie, n. XII, Lecce, Argo, 2000, pp.193-203.

[8] Aldo de Bernart, Ermanno Inguscio e Luigi Scorrano, Carmelo Arnisi – Un maestro poeta dell’Ottocento, Galatina, Congedo, 2003.

[9] Aldo de Bernart, Carmelo Arnisi e il suo tempo, in op.cit., p.19.

[10] Pietro Marti, Lutto nell’arte, in “La Democrazia”, n.27, Lecce, 11 luglio 1909, riportato da Ermanno Inguscio nel suo saggio Carmelo Arnisi (1859-1909) L’uomo il poeta, in Carmelo Arnisi – Un maestro poeta dell’Ottocento cit., p.38, nel quale riporta anche il necrologio dell’Arnisi scritto sul “Corriere Meridionale” dell’8 luglio 1909: Ivi, p.29.

[11] Vincenzo Vetruccio, Carmelo Arnisi (Maestro-poeta/ 1859-1909), s.d..

[12] Sulla figura dell’erudito Pietro Marti (1863-1933), storico, giornalista, conferenziere, illustre concittadino di Ruffano, esiste una cospicua bibliografia. Tra gli altri:

Carlo Villani, Scrittori ed artisti pugliesi antichi, moderni e contemporanei, Trani, Vallecchi, 1904, p.578 (nuova edizione Napoli, Morano, 1920, pp-137-138);  Domenico Giusto, Dizionario bio-bibliografico degli scrittori pugliesi (dalla Rivoluzione Francese alla rivoluzione fascista), Bari, Società Editrice Tipografica, 1929, pp.187-188;  Aldo de Bernart, Nel I centenario della nascita di Pietro Marti, in “La Zagaglia”, Lecce, n. 21, 1964, pp.63-64;  Pasquale Sorrenti, Repertorio bibliografico degli scrittori pugliesi contemporanei, Bari, Savarese, 1976, pp.375-376; Ermanno Inguscio, La civica amministrazione di Ruffano (1861-1999). Profilo storico, Galatina, Congedo, 1999, pp.174-175; Paolo Vincenti, Pietro Marti da Ruffano, in “NuovAlba”, dicembre 2005, Parabita, 2005, pp-17-18; Aldo de Bernart, In margine alla figura di Pietro Marti,  in “NuovAlba”, aprile 2006, Parabita, 2006, p.15;  Ermanno Inguscio, Vanini nel pensiero di Pietro Marti, in “Note di Storia e Cultura Salentina”, Società Storia Patria Puglia sezione di Maglie, n. XX, Lecce, Argo, 2009, pp.137-148;Idem, Pietro Marti direttore di giornali, in “Terra di Leuca. Rivista bimensile d’informazione, storia, cultura e politica”, Tricase, Iride Edizioni, a. VII, n. 39, 2010, p. 6; Idem, L’attività giornalistica di Pietro Marti, in “Note di Storia e Cultura Salentina”, Società Storia Patria Puglia sezione di Maglie, n. XXI, Lecce, Argo, 2010-2011, pp.227-234; Idem, Il giornalista Pietro Marti, in “Terra di Leuca. Rivista bimensile d’informazione, storia, cultura e politica”, Tricase, Iride Edizioni, a.VIII, n.40, 2011, p.7; Idem, Liborio Romano e le ragioni del Sud nel periodo postunitario. Il contributo di Pietro Marti sul patriota salentino, in “Risorgimento e Mezzogiorno. Rassegna di studi storici”, n.43-44, dicembre 2011, Bari, Levante, 2011, pp.147-161; Idem, Pietro Marti e la cultura salentina. Apologia di Liborio Romano, in “Note di Storia e Cultura Salentina”, Società Storia Patria Puglia sezione di Maglie, n. XXII, Lecce, Grifo,2012, pp.164-185; Aldo de Bernart, Cenni sulla figura di Pietro Marti da Ruffano, Memorabilia n.35, Ruffano, Tip. Inguscio e De Vitis,2012; Ermanno Inguscio, Pietro Marti, il giornalista, il conferenziere, il polemista, in “Note di Storia e Cultura Salentina”, Società Storia Patria Puglia sezione di Maglie, n. XXIII, Lecce, Argo, 2013, pp.40-58; Idem, Pietro Marti (1863-1933) Cultura e giornalismo in Terra d’Otranto, a cura di Marcello Gaballo, Fondazione Terra D’Otranto, Nardò, Tip. Biesse, 2013.

[13] Pietro Marti, Antonio Bortone e la sua opera, Lecce, 1931.

[14] Pietro Marti, Giulio Cesare Vanini, Lecce, Editrice Leccese, 1907; su quest’opera si sofferma Ermanno Inguscio in Vanini nel pensiero di Pietro Marti, contenuto nel suo libro Pietro Marti (1863-1933) Cultura e giornalismo in Terra d’Otranto, a cura di Marcello Gaballo, Fondazione Terra D’Otranto, Nardò, Tip. Biesse, 2013, pp.123-134.

[15] Vittorio Bodini, In memoria di Pietro Marti. La vita e l’opera, in “La Voce del Salento”, n,11, Lecce, 18 maggio 1933, p.1.

[16] Pietro Marti, Nelle terre di Antonio Galateo, Lecce, 1930.

Taurisano e gli stemmi dei Montano

di Luciano Antonazzo

Nel 2016 in un articolo su Presenza Taurisanese[1] attribuii lo stemma scolpito sulla finestra del palazzo di via Isonzo in Taurisano, ai Montano (o Montani) di Terni, in base alla sua somiglianza con quello di detta famiglia riportato in disegno dallo Spreti nella sua Enciclopedia Storico-Nobiliare e blasonato “d’azzurro alla pianta di rosa al naturale fiorita di tre pezzi di rosso, nodrita sulla vetta di un monte all’italiana di tre cime, di argento, movente dalla punta”.

Stemma su finestra del palazzo di via Isonzo a Taurisano (ph. R. Rocca)

 

Stemma dei Montano di Terni in Enciclopedia Storico Nobiliare Italiana di V. Spreti (vol. 8)

 

Mi fu ribattuto che, stante la data 1578 riportata su detta finestra, lo stemma non poteva appartenere ai Montano, che sono attestati a Taurisano solo dalla seconda o terza decade del 1600[2] e ciò nonostante che, come si è già avuto modo di rilevare, da un atto del notaio di L. De Magistris di Casarano del 12 settembre 1594, risultino come taurisanesi i chierici Annibale e Francesco Antonio Montano.

Che non si trattasse di un refuso del notaio lo confermano due distinti atti del 1599 di un altro notaio, Antonio Romano di Montesardo, nei quali come testimone è menzionato il “cl. Anibal Montanus  terrae Taurisanii[3].

È senz’altro vero che essi sono attestati in Taurisano solo nell’ultimo decennio del ‘500, ma è molto probabile che se ci fossero pervenuti documenti anteriori qualche loro traccia si sarebbe comunque trovata, se non altro tra le carte attinenti al clero di Taurisano. Mi è stato ribattuto anche che “lo stemma dei Montano di Terni non risulta creato” e che rimane “complessa la questione” sulla loro origine nobiliare, “tutta da dimostrare”[4].

Torno sull’argomento per cercare di approfondire il discorso e dimostrare che quanto meno alcuni dei Montano presenti nel Salento, erano originari del ternano.

I Montano (o Montani) sono attestati sin dal Medioevo in diverse regioni d’Italia e le varie famiglie si fregiarono tutte di uno stemma proprio, come i Montano di Genova, Milano, Bologna, Pesaro, Terni, Spoleto, ecc.

Per rimanere ai Montano di Terni (e dell’Umbria in genere), alcune vicende delle loro fortune sono ampiamente esposte in un saggio di Filippo Orsini e Nadia Bagnarini[5], mentre dei loro stemmi si tratta in “Araldica di Terni” di Luigi Lanzi[6].  In questo manoscritto del 1902 (ca), l’autore ripropone, disegnandole con propria mano, le diverse armi civiche, vescovili e gentilizie di Terni, desunte da raccolte custodite presso il Municipio di Terni (Raccolta I e II), l’Archivio di Stato di Roma e presso privati, nonché da affreschi e monumenti presenti in diverse chiese [7].

A corredo degli stemmi egli riporta dei cenni genealogici tratti da un quadernetto compilato nel 1640 dal cap. Francesco Simonetta, al quale viene ascritta anche la Raccolta Municipale I.

Nel documento del Lanzi ritroviamo che lo stemma (partito o meno), raffigurante tre monti con fiori, viene alzato da diverse famiglie, mentre quello raffigurante tre monti (o un monte a tre cime) con tre steli con altrettante rose rosse partenti dalla cima centrale lo troviamo attribuito sia ai Montano che ai Nicoletti, altra antica famiglia che, diramatasi in diverse regioni d’Italia, è attestata in Terni dal XIII secolo. E proprio per la loro assoluta somiglianza, in diverse occasioni l’autore mostra delle titubanze per l’attribuzione dell’arma all’una o all’altra delle due famiglie, preferendo nel dubbio attribuirla ai Nicoletti (che quest’arma però adottarono solo verso il 1600[8]), come evidenziato dai due stemmi che si riportano.

 

 

Gli stemmi delle famiglie Montano e Nicoletti, che dal Lanzi sono dati per certi e che sono riportati assieme a pagina 69 del suo opuscolo[9] (v. sotto), sono entrambi stati tratti dalla Raccolta Cittadini che, compilata nel 1851, a dire dello stesso Lanzi, non era molto affidabile in quanto le armi non sempre erano disegnate con  sufficiente chiarezza e i motti che le accompagnavano erano spesso incompleti o errati.

Le figure dei due stemmi   sono del tutto simili. L’unica differenza riscontrabile è costituita dallo   smalto dello scudo: d’azzurro il primo, d’oro il secondo.

 

Lo stemma dei Montano è riprodotto partito con quello dei Leoni, come specificato dalla didascalia Montanus-Leo[10] che accompagnava l’originale e nella cui blasonatura i tre monti risultano “di verde”, mentre lo Spreti li dice “d’argento”.

Ma, come per quello identico adottato dai Nicoletti[11],  quello su riportato dei Montano doveva appartenere ad un ramo secondario della famiglia dato che nella stessa raccolta del Lanzi si trova un altro loro stemma recante al posto dei tre steli con rose rosse, tre stelle in capo, sempre su fondo azzurro (st. n. 266). Peculiarità di questo stemma è che nel documento originale, dal quale è tratto, è corredato dell’iscrizione “Montanus – Tantum”, quasi a significare che lo stemma era proprio dei Montano, senza commistione con quello di altre famiglie.

 

Questo stemma ha certamente attinenza con quello che, alquanto stilizzato e schematizzato (st. n. 308), il Lanzi attribuisce dubitativamente ai Nicoletti, ma che è da attribuirsi anch’esso ai Montano. In quest’ultimo, troncato, al posto dei tre monti sembrano potersi individuare tre foglie di un quadrifoglio, mentre al posto delle tre stelle presenta le corolle di tre fiori rossi. Questi due ultimi stemmi sono presenti nella chiesa madre di Tricase intitolata alla Natività della Vergine.

Quello con tre monti e tre stelle in capo, si rinviene sulla tela dell’altare della Madonna del Carmine nella chiesa madre di Tricase[13] intitolata alla Natività della Vergine, ed in modo identico è replicato sulla tela di Santa Domenica posta sul fastigio e sulle due tele ovali raffiguranti Santa Apollonia e Santa Lucia. Quello più stilizzato, si trova scolpito sui fusti delle due colonne anteriori che sorreggono l’altare[12].

Tricase – chiesa della Natività della Vergine

 

Altare della Madonna del Carmine – Stemmi della famiglia Montano

 

Questo altare fu eretto nella seconda metà del ‘700 dai Montano e precisamente da Raffaele e dalla figlia Maria Domenica, in sostituzione di quello sotto lo stesso titolo che, come compatroni con i Papini, possedevano nell’antica parrocchiale.

Dalla disamina e dal confronto degli stemmi su esposti si può ragionevolmente sostenere che i Montano di Tricase[14] erano originari di Terni (o comunque dell’Umbria) e che un ramo della stessa famiglia si fregiava di uno stemma con gli stessi tre monti ma con tre rose rosse, il tutto sempre su campo azzurro.

Agli esponenti di quest’ultima, ribadisco, doveva appartenere lo stemma scolpito come un fregio sulla finestra del palazzo di via Isonzo a Taurisano, che si è ipotizzato potesse essere stata la dimora della famiglia del filosofo Giulio Cesare Vanini.

Certamente il manufatto esula dai canoni classici della rappresentazione di un’arma (a cominciare dalla sua sagoma), ma che si tratta di uno stemma lo confermano i dodici fori presenti ai lati degli steli delle rose esterne (6 per parte). Si tratta di bisanti[15] la cui rappresentazione simboleggia la ricchezza e la generosità della famiglia titolare dello stemma.

Questi elementi, che non compaiono nell’arma riprodotta dal Lanzi, con molta probabilità furono aggiunti dai titolari per sottolineare il grado di agiatezza a cui erano pervenuti nel Salento.

 

Si è sostenuto anche che detto stemma non corrisponde alla presunta arma dei Montano poiché alla base dello stesso non vi sarebbero raffigurati tre monti (o un monte a tre cime), ma una quarta rosa[16], scambiando per questa la parte inferiore del manufatto che, come è evidente, risulta fratturato all’altezza delle due cime laterali. Ad indurre in errore è stato verosimilmente il fregio alla base del monte centrale. Potrebbe effettivamente richiamare le rose sovrastanti, ma in realtà si tratta della parte finale superstite delle due spirali che fungevano da cornice esterna.

La conferma si ha dal confronto di  detto stemma con quello della   famiglia Montana di San Gemini (Tr) che riproduco in disegno da quello esistente in detta cittadina, scolpito su pietra con sottostante l’iscrizione MONTANA[17].

Purtroppo, non si è in grado di appurare quale grado di parentela  eventualmente intercorresse tra i Montano di Tricase e i Montano di Taurisano e né, allo stato dei fatti, si può stabilire se sia gli uni e gli altri avessero avuto qualche legame con i Montano documentati a Montesardo fin dalla fine del XV secolo[18], o con  i Montano di Salve, dei quali ci è pervenuto il complesso residenziale sovrastato da una torre di difesa circolare[19].

Si ritiene, a proposito di questi ultimi, che in un primo tempo eressero la torre recante la data 1562, apponendo al di sotto di una caditoia uno stemma in altorilievo; stranamente però sullo scudo non compare alcun simbolo: forse non vi fu raffigurato alcunché per cause che non conosciamo o forse le figure appostevi furono rimosse.

Si ritiene ancora che alla stessa torre venne addossata la loro abitazione nel 1617, data che si trova scolpita sulla trabeazione di una finestra al primo piano; ma forse il loro primo nucleo abitativo venne realizzato un secolo prima. Lo fa ipotizzare una possibile lettura dell’iscrizione presente al di sopra del portone di   accesso all’antica abitazione che recita:

OMNEȜ CREDE DIEȜ TIBI DILUXISSE

SUPREMUM              S • M • I D • I 7 •[20]

Per tentare di interpretare l’ultima parte dell’iscrizione azzardo l’ipotesi che (sottintendendo “A”), la “S” e la “M” stessero per “SALUTIS MUNDI”[21] e che “I” e “D” stessero rispettivamente per i numeri romani “1” e “500”, sicché l’insieme potrebbe leggersi “(nell’anno) della salvezza del mondo 1517”. La stessa interpretazione sarebbe da darsi alle lettere “S” ed “M” che si trovano incise nello scudetto sull’orlo della torre in corrispondenza del millesimo “1562”[22].

da Salentoacolori.it

 

 

Note

[1] L. ANTONAZZO, L’antica finestra con stemma ed iscrizione in via Isonzo a Taurisano, Presenza Taurisanese, anno XXXIV, n. 4, Aprile 2016.

[2] F. DE PAOLA, Noterella sulla vexata quaestiodella casa di Vanini, in “Presenza taurisanese”, anno XXIV, n. 6/7, giugno-luglio 2016, p.6; F. P. RAIMONDI (a cura), Taurisano e il monumento a Giulio Cesare Vanini, Taurisano – Edizioni Odigitria MMLXVII, p. 174.

[3] ARCHIVIO DI STATO di LECCE (ASLe), Sez. Not., not. A. Romano, 63/1, protocolli del 21 aprile 1599, cc. 27v – 28v.

[4]F. P. RAIMONDI (a cura), Taurisano e il monumento a Giulio Cesare Vanini, … cit. p. 174.

[5] F. ORSINO – N. BAGNARINI, I Montani, Storia Genealogico-Documentaria di una Nobile famiglia Umbra XVI e XX Secolo, in https://www.academia.edu

[6] Reperibile in: http://www.bctdigitale.comune.terni.it  Per gli stemmi di detta raccolta qui riprodotti, si ringrazia la Biblioteca Comunale di Terni per l’autorizzazione alla loro pubblicazione.

[7] Il Lanzi precisa che nel 1564, con la repressione cruenta della rivolta popolare da parte delle truppe di Pio IV, Terni fu sottomessa al papato e venne soppresso il Consiglio di Credenza costituito da 24 nobili e 24 popolani, o banderari. Andarono così perse tutte le tracce del passato comprese le bandiere del popolo e il novero dei nobili che avevano fino ad allora avuto il diritto a governare la città. Riferisce ancora che dette due classi avevano lentamente nel tempo ripreso il loro posto, ma che nel 1798 un Proclama al Popolo Ternano della Repubblica Romana imponeva ai cittadini di abolire ogni tipo di stemma e livrea di Ordini Cavallereschi di cui si era fregiata fino ad allora l’Aristocrazia. Lamenta quindi l’autore che l’ordine fu eseguito pedissequamente sicché vennero distrutti tutti gli stemmi e dato alle fiamme il Libro d’oro della città.

[8] Quella dei Nicoletti era un’altra antica e nobile famiglia diramatasi in diverse regioni d’Italia. A Terni è attestata dal XIII secolo e riguardo la sua origine risulta dalle note genealogiche del capitano Simonetta che capostipite ne era stato tale Leonardo di Mazzarone, vissuto nel XIV secolo.  Da Leonardo, dice il Simmonetta, “nacque Nicoletto auttore del cognome moderno padre di Leonardo juniore che cresciuto di condittione e di ricchezza generò, perché augmentar la dovesse Xforo (Cristoforo) che dalla milizia che haveva in gioventù professata, ridottossi in patria ad avantaggiar la sua famiglia, la costituì di ricchezze superiore ad ogni altra. Ma li suoi figli e nipoti, divenuti fatiosi et adescati da Camporeali, furno di sommo giovamento ai Ghibellini. Portorno in perpetuo nome gentilizio il paterno nome di Ser Xforo che fu in uso per 150 anni, riassumendo prima del 1600 i loro pronipoti quello di Nicoletto che pur oggi continuano”.

[9] Sono riportati anche tra le “Armi Gentilizie dei Benefattori” della Congregazione di Carità di Terni. (V.: L. LANZI, Congregazione di Carità – Araldica, 1890, in http://www.bctdigitale.comune.terni.it)

[10] Alla famiglia Montano – Leoni apparteneva il palazzo eretto nel 1584 dalla famiglia Fazioli ed oggi sede della Fondazione della Cassa di Risparmio di Terni e Narni. Alla stessa famiglia apparteneva dal 1600 il palazzo Mazzancolli, eretto poco dopo la metà del XV secolo da Ettore, Uditore della Camera Apostolica.

[11]Il Lanzi, a proposito dell’arma dei Nicoletti, riferì che accanto alla sua riproduzione nella Raccolta Cittadini leggeva: “Vi è piccola differenza tra li due stemmi di detta famiglia, proveniente dal medesimo stipite; il ms. accenna il campo dai monti in giù bianco, nei fiori d’oro e sopra azzurro”. Precisò quindi a sua volta che nella R.A.S (Raccolta Archivio di Stato) si trovava invece l’indicazione: “rose bianche, monti verdi, campo turchino- ed è accompagnato dal seguente distico: Turba minutato divi decorata Barensis – De patronali nomine lecta sinit ”. Anteriormente sembra che l’esametro dicesse così: Turba sub hoc signo minutato Barensis”. Uno stemma dei Nicoletti con rose bianche su campo turchino, in decusse su quello dei Camporeali, è riportato dal Lanzi che lo copiò da un dipinto sul soffitto della sala maggiore di un loro antico palazzo, mentre si rifà in parte alla seconda blasonatura quello stilizzato sopra descritto con le tre corolle di fiori che egli desunse dalla Raccolta Municipale I e dubitativamente attribuì ai Nicoletti. Riferisce il Lanzi che ad accompagnare questo scudo vi era un motto corroso di cui si leggevano soltanto le parole “…. ET PARVA ……(BA)RENSIS”. Dai succitati motti che accompagnavano gli stemmi, si ha la conferma che i Nicoletti di Terni discendevano dai de Cristofaro di Corato o Giovinazzo (Ba), dove sono attestati tra il XII ed il XV secolo. (V.: G. RECCIA, STORIA DELLA FAMIGLIA de CRISTOFARO alias de RECCIAprofili di ricerca genealogica e di storia locale – Istituto di Storia Atellana, 2010, 99 e ss.).

[12] Le due colonne posteriori recano lo stemma dei Pisanelli ai quali nel 1786 passò l’altare dopo il matrimonio di Maria Domenica     Montano con Vincenzo Pisanelli.

[13] Stemma tratto da Guida di Tricase, di M. PELUSO-V. PELUSO, Congedo Editore, Galatina 2008, p. 168.

[14] A Tricase i Montano sono attestati già nel 1455 (V.: E. MORCIANO, Famiglie, devozioni e carità a Tricase in età moderna, Congedo Editore, Galatina 2006, p. 51) e nel corso del XVII secolo risultano possessori di diversi terreni in diverse località.

[15] Il bisante era una moneta d’oro dell’Impero bizantino che verosimilmente comparve nelle armi con la presa di Costantinopoli da parte dei Crociati. Negli stemmi i bisanti vengono rappresentati con figure tonde e piatte senza impronta, mentre se sono colorati prendono il nome di torte. I bisanti erano di forma concava-convessa (ed erano detti scifati) e perciò negli stemmi scolpiti, quando non sono in bassorilievo, vengono raffigurati con dei fori circolari. Il loro significato simbolico varia a seconda degli autori, ma per la maggior parte di essi i bisanti denotano ricchezza, generosità e liberalità.

[16] F. P. RAIMONDI (a cura), Taurisano e il monumento a Giulio Cesare Vanini, … cit., p. 174.

[17] Tratto da: F. ORSINO – N. BAGNARINI, I Montani, Storia Genealogico-Documentaria …, cit., p. 128. Nel testo è precisato che questo stemma, che si trova anche nella chiesa di S. Nicolò in Sangemini, è identico a quello che si trova nell’angolo inferiore sinistro della tela del 1632 raffigurante l’Annunciazione esistente presso l’Oratorio della Santissima Annunziata di Portaria, frazione di Acquasparta (Tn). Identico stemma si trova inoltre sulla porta della cappella privata (dedicata alla Madonna del Carmine) del castello di Arrone, da dove i Montano si diramarono a Piediluco e Terni. Ed ancora detto stemma, che viene blasonato dallo Spreti: “d’azzurro alla fascia d’oro accompagnata in capo da una stella a sei raggi d’argento, e da un monte a tre cime dello stesso, movente dalla punta”, è identico anche a quello dei Montano di Spoleto che, assieme a tutti i Montano dell’Umbria, potrebbero essere stati originari dell’antica Carsulae. (V. F. ORSINO – N. BAGNARINI, I Montano …, cit.).

[18] Tra i Montano che si distinsero in Montesardo nella seconda metà del XVI secolo sono da annoverare l’ U.I.D Pompeo Montano e Vespasiano Montano.

[19] Tra i Montano che si distinsero in Salve a cavallo tra il XVI e il XVII secolo è da menzionare il notaio Francesco Montano

[20] L’intera struttura è stata restaurata ma al di sopra della “E” di “DIE” non è stato evidenziato quel segno a forma di “3” (richiamante una “M” come per “OMNEȜ ”) che il lapicida aveva apposto, riportando esattamente il motto di Orazio Flacco Quinto che tradotto recita: “Pensa che ogni giorno che sorge per te sia l’ultimo”.

[21] Salus mundi (Salvatore del mondo) era definito il Cristo e l’espressione “salutis mundi” equivaleva a “A N. C.” (A nativitate Christi = dalla nascita di Cristo),“A.D” (Anno Domini= nell’anno del Signore) e a “A.R.S.” (Anno Reiparatae Salutis = nell’anno della riconquistata salvezza).

[22]Le immagini relative all’abitazione dei Montano in Salve, sono disponibili sul sito https://www.salentoacolory.it

Ugo Orlando da Taurisano alias Mastro Scarpa. Poesie

Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna

 Ugo Orlando

Antonio Di Seclì, Ugo Orlando. Poesie

in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno V, nn° 6-7, 2018, pp. 215-219.

 

ITALIANO

Il taurisanese Ugo Orlando è stato, per molti anni, colpevolmente escluso dal novero dei principali poeti dialettali salentini. Facendo riferimento all’antologia Ugo Orlando. Poesie, curata nel 2016 dallo stesso Di Seclì con Antonio Resta per le Edizioni del Grifo, l’autore ripercorre in questo saggio la vita e le opere di Mastro Scarpa (pseudonimo del poeta) focalizzando, accanto alle principali esperienze biografiche, le diverse fasi temporali dell’attività poetica ed i nuclei semantici della sua produzione: il paese natale, l’esistenza umana, la Chiesa e la sua morale, se stesso. Un percorso lungo sessanta anni, fortemente condizionato dalle esperienze di vita (il lavoro, la famiglia in primis), dal contesto geografico (Taurisano) e dalle letture (dagli autori ottocenteschi ai vangeli).

 

ENGLISH

The Taurisanese Ugo Orlando has been, for a lot of years, guiltily excluded from the group of principal Salentini dialectal poets. To mention the anthology Ugo Orlando. Poesie, edited in 2016 by Di Seclì himself with Antonio Resta for Edizioni del Grifo, the author in this essay goes along the Mastro Scarpa’s (poet’s pen-name) work and life again focusing, beside the principal biographic experiences, the different temporal phases of the poetic activity and the semantic kernel of his production: the native town, the human being, the Church and its morality, he himself. A sixty-year period, greatly conditioned by life experiences (work, family in primis), by the geographical context (Taurisano), by the readings (from nineteenth-century authors to Gospels).

 

Keyword

Antonio Di Seclì, Ugo Orlando, Mastro Scarpa, Poesia, Taurisano

I graffiti di palmento Curtivecchi

palmento (1)

 

di Aldo Conte

 

Al centro di un altopiano, tra Taurisano e Specchia, vi è Masseria Curtivecchi, poco a sud della stessa vi è un antico tratturo. Dove oggi regna il religioso e silenzioso asfodelo, cento anni fa uomini e contadini percorrevano queste strade con le loro voci e i carichi di uva appena raccolta venivano portati al palmento.

Questo è una piccola costruzione quadrangolare, rustica, umile. Dal lato opposto alla porta di ingresso, una apertura a finestra dà direttamente su una vasca intonacata che occupa quasi metà del vano. Sul fondo della vasca, nel lato che guarda la finestra, un buco immette in una piccola cisterna sottostante. Sul lato destro, infine, una rientranza del muro accoglieva uno di quei torchi detti “alla calabrese”.

Sulle due mura laterali, per tutta la lunghezza del vano, si  riconoscono i grigi segni di una rara letteratura.

Poche scritte sono ancora leggibili e mi sembrano interessanti e meritevoli di essere strappate all’oblio a cui sono altrimenti condannate.

Riporto la trascrizione delle epigrafi di più facile lettura, per le altre si attendono ulteriori studi.

 palmento (2)

L’amore è quell’umore

che dagli occhi passa al cuore

e per maggior sollazzo

dal cuore passa

al C…..    (alcune lettere cancellate ma che si intuiscono facilmente)

——————–palmento (3)——

 

Viva il pretore

abbasso la legge

viva chi scrive

 

Settembre palmento (4)

1896 Sono stato in questo parmento

palmento (5)

 

Appello per due chiese abbandonate a Taurisano

 

Taurisano, Oratorio don Bosco, Ruderi della chiesa di san Donato
Taurisano, Oratorio don Bosco, Ruderi della chiesa di san Donato

di Stefano Cortese

 

All’interno dell’oratorio di san Giovanni Bosco a Taurisano (Lecce), in fondo a destra, si notano i ruderi di un’antica chiesetta dedicata a san Donato, probabilmente edificio di culto non di un insediamento specifico, ma punto di riferimento per un popolamento sparso[1].

Oggi è del tutto scomparsa la facciata dell’edificio, mentre rimangono in piedi parte dei muri perimetrali e soprattutto la zona absidale, elemento che ci consente di datare l’impianto originario della fabbrica. L’abside, infatti, si presenta di forma semicircolare all’interno e poligonale all’esterno, proprio come nelle chiese costruite intorno al VI secolo, di chiara derivazione costantinopolitana (tra tutte, la chiesa del monastero di san Giovanni in Studion o Studios, edificata nel 463 a Costantinopoli). Per avere un esempio, basta percorrere qualche chilometro e notare l’abside rettangolare, decisamente aggettante, di santa Maria della Croce (conosciuta come Casaranello) a Casarano, oppure, per un confronto più aderente, la chiesa di santa Eufemia a Specchia, sul sito dell’antico insediamento romano di Grassano. Con quest’ultima, grazie all’ausilio di vecchie foto, possiamo riscontrare altre analogie, tra cui la copertura a doppia falda con embrici e il fronte molto affine (forse leggermente più dilatato a Specchia), caratterizzato dalla bifora con colonnetta al centro, sopra la porta di ingresso. Le differenze sembrano minime: il portale lunettato e le dimensioni generali leggermente ridotte a Taurisano, tanto che nell’abside è presente una finestra con arco a tutto sesto (arco identico alla bifora in facciata). Possiamo supporre che anche l’interno dovesse essere simile, con la variante che in pieno medioevo la chiesa di santa Eufemia da navata unica divenne a tre navate, con l’aggiunta di quattro serie di triplici arcate[2]. Altro elemento peculiare è il reimpiego di materiale di spoglio proveniente da edifici antichi, adoperato nell’inquadramento del portale sino ai grandi blocchi perimetrali.

Taurisano, Oratorio don Bosco, Ruderi della chiesa di san Donato
Taurisano, Oratorio don Bosco, Ruderi della chiesa di san Donato

Nella piccola chiesa di Taurisano, pur essendo andata distrutta la facciata, sono ancora visibili dei grandi conci che costituiscono i cantonali della struttura, qui collocati per evidenti fini statici; è chiara, tuttavia, l’irregolarità della tessitura muraria, come in numerosi edifici di culto coevi (solo Casaranello pare avesse conci cavati ad hoc e non di reimpiego), mentre solo nella zona absidale il tessuto murario si rende più regolare ed uniforme.

Non può mancare un cenno su quanto è dipinto nell’abside taurisanese e soprattutto sull’iscrizione che corre sotto il catino della chiesa paleocristiana, in ogivale maiuscola di color rosso, non esegetica di un santo campito, bensì del committente; Marina Falla Castelfranchi[3] la segnala, confrontandola con i soli due casi analoghi in Italia. Probabilmente la datazione dell’iscrizione di Taurisano va dal XII al XIII secolo, lo stesso periodo cui può farsi risalire la figura del possibile committente, che appare di dimensioni ridotte, in ginocchio, con le braccia sollevate verso l’alto.

Taurisano, vico Risorgimento, Ruderi della chiesa di san Nicola di Mira, particolare copertura
Taurisano, vico Risorgimento, Ruderi della chiesa di san Nicola di Mira, particolare copertura

Una più facile lettura consente l’ultimo strato campito, delimitato da cornice floreale, che nella parte più alta mostra l’Eterno Padre, assiso su nubi, che regge con la mano sinistra il globo; a destra del Padre si intravede un santo con mitra e pastorale, riproducente con molta probabilità il titolare san Donato. Più in basso è visibile, su di uno strato presumibilmente cinquecentesco, una chiesa, forse residuo iconografico di una Madonna di Costantinopoli o di Loreto; altri due strati sono visibili in prossimità della finestra absidale, su cui si intravedono alcune lettere.

Taurisano, vico Risorgimento, Ruderi della chiesa di san Nicola di Mira, affresco dell'Annunciazione
Taurisano, vico Risorgimento, Ruderi della chiesa di san Nicola di Mira, affresco dell’Annunciazione

Le tracce degli affreschi documentano l’importanza nel corso dei secoli dell’edificio, fortemente tenuto in considerazione dalla popolazione locale che qui eseguiva le inumazioni dei morti per pestilenza o altre malattie infettive[4].

L’augurio è che si intervenga quanto prima per consolidare i ruderi, magari favorendo scavi sistematici che consentano di conoscerne la storia.

Sempre nel centro storico di Taurisano, nel vico Risorgimento, Salvatore Rocca[5] ha riportato l’esistenza dell’ex edificio sacro intitolato a san Nicola, segnalando le condizioni deplorevoli. L’esterno presenta una copertura a due falde coperte da coppi, mentre l’interno custodisce delle pitture sotto l’intonaco. È riconoscibile la Vergine che indossa il maphorion, col capo reclinato in prossimità dell’apertura originaria, probabilmente un’Annunciazione da ascrivere al XIV secolo; a sinistra della Vergine infatti, leggermente più in basso, si intravede un altro nimbo, che fa pensare all’Arcangelo. Situazioni similari si sono ritrovate in edifici coevi come la cripta di sant’Antonio Abate a Nardò, quella di san Marco a Ruffano e il santuario di santa Maria della Lizza ad Alezio. Altre tracce pittoriche sono visibili in prossimità dell’abside, forse un santo vescovo. La cappella, di proprietà privata, è stata interessata di recente dal parziale crollo della copertura.

 

Pubblicato su Il delfino e la mezzaluna n°2.

 



[1] P. ARTHUR (et alii), La chiesa di Santa Maria della Strada, Taurisano (Lecce). Scavi 2004, in «Archeologia medievale», a. XXXII, 2005, p. 173.

[2] G. BERTELLI, Santa Eufemia a Specchia, in «Puglia Preromanica», 2004, pp. 276-277.

[3] M. FALLA CASTELFRANCHI, La pittura bizantina in Italia meridionale e in Sicilia (secoli IX-XI), in «Historie et culture dans l’Italie byzantine: acquis et nouvelles recherches», a cura di A. Jacob, J. M. Martin e G. Noyè, Roma 2006, p. 212.

[4] S. A. ROCCA, Il cimitero di Taurisano, Taurisano, 2009, p. 12.

 

[5] ID., Le cappelle di san Nicola di Bari e la presenza dei Francescani in Taurisano, Taurisano, 2011.

Francesco Politi (1907-2002), illustre figlio della nostra terra

 

di Paolo Vincenti

 

Francesco Politi (1907-2002), nato a Taurisano, germanista, docente universitario, fu saggista, autore di numerosi contributi, in particolare sulla letteratura tedesca e sulla letteratura inglese.  Fu poeta e promotore culturale all’estero, soprattutto in Germania. Come italianista, pubblicò diversi studi su Dante, Bandello, Ariosto, Goldoni, Carducci, Pirandello, e numerose traduzioni. Sterminata la sua produzione, peraltro non raccolta mai in bibliografia. Lunghissima la sua collaborazione con le pagine di  “Presenza Taurisanese”, mensile di  politica, cultura e attualità diretto da Gigi Montonato.

“Presenza Taurisanese” dedicò allo studioso, subito dopo la morte, avvenuta a Roma, una plaquette con numerose e qualificate testimonianze e poi, nel 2007, in occasione del centenario della nascita, un volume intitolato “In memoria”, con saggi di Donato Valli e Mario Marti e postfazione di Gigi Montonato.

Questo libro, con il ricordo dei figli, Marco e Alessandro, raccoglieva testi e traduzioni del professore ed  è la più completa testimonianza su una personalità davvero poliedrica come quella di Francesco Politi, medaglia d’oro (insieme all’altro illustre taurisanese Antonio Corsano, storico della filosofia), targa d’argento e attestato di civica benemerenza del Comune di Taurisano.  Politi , da poeta ( “beato  tra i poeti” come dice Donato Valli), scriveva anche in dialetto salentino con assoluta libertà metrica e linguistica, e quindi riusciva sorprendentemente  a passare dai classici latini, come Orazio o Lucrezio, alla lingua materna (o paterna), il cosiddetto “rusciaru”: anzi, compose addirittura un’antologia,  “Poeti del mondo in dialetto salentino”,  in cui rielaborava i più grandi e importanti autori della letteratura antica e moderna in dialetto (raccogliendo le traduzioni apparse su “Brogliaccio salentino”).

Nel suo ventennale sodalizio con “Presenza Taurisanese”, dal 1985 fino alla morte, in effetti, Politi esplicò sulle pagine della rivista le sue molteplici attività creative e culturali, soprattutto di traduttore e poeta. Ed ora, in allegato al numero di aprile 2013 della rivista, Gigi Montonato dedica  all’amico scomparso  un’altra pubblicazione, da lui curata,  “Pirandello narratore e altri studi di italianistica”, uscita per le “Edizioni di Presenza”.

I testi qui riproposti, come spiega Montonato, risalgono agli anni tedeschi di Marburg Lahn e Monaco di Baviera, l’ultimo periodo trascorso in Germania da Politi prima di tornare in Italia per insegnare Letteratura Tedesca e Filologia Germanica all’Università di Lecce e riallacciare quindi quel cordone ombelicale mai reciso con la sua piccola patria, il taurisanese “borgo natìo  (forse perché “I più grandi uomini sono sempre legati al loro secolo da una debolezza” si potrebbe dire con Goethe).

Si trovano nel presente opuscolo  studi su Pirandello, su Aldo Palazzeschi, su Quasimodo e contributi di linguistica. Per avere uno spettro più completo della carriera di un illustre figlio della nostra terra ma cittadino del mondo,  studioso di grande caratura, uomo di alto sentire.

 

La fortuna filosofica di Vanini: l’ateo e il credente

di Luca Calabrese

Ettore Ferrari, Giulio Cesare Vanini (1889), ph Giovanni Dall’Orto

Giulio Cesare Vanini nacque a Taurisano il 18 gennaio 1585. Il Vanini entrò nell’ordine carmelitano col nome di frà Gabriele, in seguito si trasferì a Padova per studiare teologia. In Veneto entrò in contatto con il cristianesimo irenico e latitudinario di Paolo Sarpi. Dopo svariati viaggi attraverso l’Italia e la Germania, nel 1612, fugge in Inghilterra, dove abiura alla fede cattolica, abbracciando l’anglicanesimo. Dopo due anni tenta di riprendere i contatti con la Chiesa cattolica, tentando la fuga, ma le autorità religiose inglesi lo rinchiudono in una prigione nella torre del Palazzo di Lambeth, da dove riuscirà a fuggire grazie alla  connivenza dell’ambasciatore spagnolo a Londra.

Da questo momento inizia il peregrinare del Vanini, che teme la ferrea intransigenza dell’Inquisizione. Nel 1615 pubblica a Lione l’Amphiteatrum aeternae providentiae e nel 1616, a Parigi, il De admirandis naturae reginae deaeque mortalium arcanis. Dopo un breve periodo trascorso a Tolosa, venne processato dall’Inquisizione nel 1618, condannato per eresia e ateismo e, l’anno seguente, mandato al rogo.

Influenzato dall’aristotelismo di Averroè, di P. Pomponazzi e di G. Cardano, Vanini contesta la religione rivelata, facendosi promotore  di una concezione della divinità immanente alla natura. Nella sua filosofia i dogmi della religione rivelata vanno riconsiderati alla luce della ragione, mentre i miracoli, lungi dall’essere fenomeni straordinari, hanno una spiegazione naturale.

La Scuola d’Atene (particolare)

Questa visione materialistica e razionalistica della natura conduce Vanini ad un determinismo universale, in cui si nega che il mondo abbia avuto origine per creazione e allo stesso tempo si proclama la materialità dello spirito e la mortalità dell’anima umana.

A dominare l’intero corso della ‹‹fortuna›› del Vanini è l’identità di significato tra ‹‹vanianesimo›› e ‹‹ateismo esemplare››, che accompagnerà l’eretico autore dell’Amphiteatrum e del De admirandis, fin dal crudele rogo di Tolosa. La documentazione scritta redatta per le Annales de l’Hotel de Ville, gli imputa l’offensiva intenzione di creare dei proseliti, cioè di insegnare l’ateismo. La sua morte incarna la fine del perfetto filosofo, lontano dai conforti religiosi, irrisorio nei confronti dell’assurda credenza nell’immortalità dell’anima, saldo nel credere alla funzione catartica e

L’ Università di Taurisano negli archivi dell’antica Terra d’Otranto

De Paola Francesco, L’ Università di Taurisano negli archivi dell’antica Terra d’Otranto (sec. XIII – XVI), Casarano (Lecce), Carra Editrice, 2006.

Questo lavoro affronta gli stessi temi già presenti nel testo precedente, ma allarga la sua indagine estendendola alle Numerazioni dei Fuochi del 1522, 1532, 1561, 1574, 1586, 1596 e alle informazioni per aggravii di fuochi dell’Università nel 1561, offrendo così una grande messe di notizie sulla vita del casale di Taurisano nel ‘500.
Il lettore vi potrà trovare, inoltre, i documenti di epoca angioina attestante la presenza del casale e dei suoi signori nell’antica Terra d’Otranto e in altre località del Regno di Napoli; il problema storico, quello della data di edificazione e quello della lettura dei simboli dell’antica chiesa di S. Maria della Strada; e, infine, note sul sistema fiscale, la qualità delle abitazioni, le strutture del quotidiano e il costo della vita in quest’angolo di Terra d’Otranto nel Cinquecento.

Vanini e il primo Seicento anglo-veneto

De Paola Francesco

Vanini e il primo Seicento anglo-veneto : ricerca su alcuni personaggi e movimenti politici, religiosi e filosofici e sugli anni anglo-veneti di G. C. Vanini ricostruiti con l’ausilio di documenti inediti e non, Cutrofiano, Toraldo & Panico, 1979.

 

Una dettagliata ricostruzione della fuga di Vanini in Inghilterra, con la descrizione dei suoi retroscena e del progetto politico – religioso sarpiano che ne era a monte, con l’indicazione delle personalità della politica e della cultura coinvolte, con i contributi dati da Marc’Antonio De Dominis ed altri protagonisti.

Effettuato in seguito alla concessione di due incarichi conferiti nel 1974 e nel 1977 dal Consiglio Nazionale delle Ricerche su proposta del Prof. Mario Dal Pra dell’Università degli Studi di Milano, questo lavoro sul filosofo Giulio Cesare Vanini, cui piacque dichiararsi cittadino del centro salentino di Taurisano, fornisce nuovi particolari sugli avvenimenti della sua vita e getta nuova luce sulle sue relazioni con alcuni personaggi come Paolo Sarpi, Fulgenzio Micanzio, Antonio Foscarini, Giovan Francesco Biondi, Giovanni Maria Genocchi, William Bedell, Thomas Horne, Sir Henry Wotton, Sir Dudley Carleton, Ascanio Bagliano, Gerolamo Moravo, Giulio Muscorno ed altri protagonisti della scena politico-culturale anglo-veneta nei primi anni del Seicento e a cui egli afferma di essersi collegato.

Nell’opera vengono altresì noti nuovi particolari sulle ragioni e sui modi della sua fuga a Londra e sulla sua permanenza in questa città.

Inoltre, con un’indagine a largo raggio, il lavoro presenta una vasta documentazione su alcuni movimenti religiosi e filosofici e progetti politici che caratterizzarono quel periodo in Venezia e in Inghilterra, cui il carmelitano di Taurisano, almeno formalmente, aderì. Vi trovano ospitalità, quindi, accenni alle lotte tra il partito dei “vecchi” e quello dei “giovani” in Venezia; i rapporti con la Francia e i Gallicani; la figura dell’ambasciatore veneto a Londra, Antonio Foscarini, e la sua tragica fine; il ruolo centrale di Paolo Sarpi e le sue relazioni con il mondo protestante; l’azione diplomatica di Francesco di Castro in Venezia durante l’Interdetto lanciato dalla Santa Sede e che Vanini invocò quale suo protettore; un poema latino inedito di Giovanni Maria Genocchi, compagno di Vanini nella sua fuga in Inghilterra, contro la Chiesa di Roma; e infine un sermone inedito contro la stessa Chiesa Romana pronunciato dall’arcivescovo di Spalato, da poco transfuga nella protestante Inghilterra.

La cappella di santa Caterina nella chiesa dei Francescani Neri di Specchia

 

di Stefano Cortese

Il complesso dei Francescani Neri a Specchia Preti, fondato secondo la tradizione da san Francesco reduce dall’oriente[1], presenta ancora oggi -oltre ai locali del convento e un frantoio ipogeo con i suoi torchi alla calabrese- una chiesa conventuale che custodisce pregevoli altari e frammenti decorativi bassomedievali.

In prossimità del lato destro dell’ingresso nel 1532 Antonio Mariglia fa costruire una cappella a pianta quadrata e coperta da una volta a crociera, espediente che ricorre -sia per la posizione che per la tecnica costruttiva- nella cappella dei Tolomei nel convento di santa Maria la Nova a Racale, collocabile qualche decennio prima[2]. Un altro confronto per l’ubicazione della cappella e datazione può essere effettuato con la cappella dell’Annunciazione nel santuario della Madonna della Strada a Taurisano[3], dove anche le tematiche affrescate sembrano essere di gusto francescano.

Il ciclo decorativo della cappella di Specchia risulta essere complesso: lo sguardo viene catalizzato dall’episodio frontale, ovvero Gesù con la croce che incontra

Libri/ Taurisano negli ultimi anni del Fascismo e nei primi della Repubblica

di Paolo Vincenti

Qualche tempo fa, l’Associazione culturale “Odigitria” ha pubblicato Il contesto sociale-politico a Taurisano negli ultimi anni del Fascismo e nei primi della Repubblica, di Salvatore Antonio Rocca, con Prefazione di Maurizio Nocera e Presentazione di Antonio Ciurlia.

Questo libro, patrocinato dall’Amministrazione comunale  e dall’ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia) di Lecce, fa luce su un periodo buio e tempestoso per Taurisano e per tutta l’Italia, vale a dire il settennio 1944-1951, l’età a cavallo fra la fine della dittatura fascista e l’inizio dell’età repubblicana.

Il libro si apre con la massima latina Omnia tempus habent, omnia tempus habet e viene riportato il testo della bellissima canzone “La storia”,di Francesco De Gregori. L’autore prende in considerazione un periodo storico particolarmente travagliato e denso di fenomeni sociali che sono tutti da analizzare. Una grave crisi economica, la povertà dilagante, la risoluzione della annosa “questione meridionale”che, per certi aspetti, perdura ancor oggi, la difficile opera di ricostruzione, sono i problemi che si trovavano sul tappeto

Libri/ La civica Università di Taurisano nel 600

De Paola Francesco, La civica Università di Taurisano nei Registri del ‘600 dell’antica Terra d’Otranto, Casarano (Lecce), Carra Editrice, 2005.

Questo lavoro propone al lettore le Numerazioni dei Fuochi dell’antico casale di Taurisano del 1632 e 1643.

Tra la documentazione relativa alla vita delle comunità dell’ex Regno di Napoli nel ‘500 e nel ‘600, le Numerazioni dei Fuochi, su cui essenzialmente si basa questo lavoro, erano i periodici censimenti della popolazione che le massime autorità di Napoli facevano effettuare da funzionari appositamente inviate nei territori da loro governati, al fine di stabilire l’identità e la quantità degli abitanti, sulla base delle quali fissare poi le quote fiscali dovute dalle singole Università alle autorità centrali.

Dalla lettura di esse e dai registri dei numeratori emerge una grande ricchezza di notizie ed il lettore vi potrà rinvenire tutti i nomi degli abitanti, la loro età, la composizione delle loro famiglie; note su alcuni mestieri o professione; sulla struttura della popolazione per sesso, età e stato civile; notizie sui costumi e sull’ordinamento sociale del tempo; sui servizi disponibili e sulle attività praticate nella Universitas civium, nella comunità; sulla mobilità della popolazione; cenni sulle fonti e sulla distribuzione della ricchezza tra gli addetti all’agricoltura, tra gli artigiani e i praticanti di alcune professioni; sulle strutture del quotidiano e sulla qualità e lo snodarsi della vita; sui prezzi d’acquisto di alcuni beni primari e sulla loro diffusione sul territorio; su alcuni tragici episodi del tempo, quali l’imperversare della peste e gli assalti dei Turchi sulle nostre terre; sui luoghi di culto, sul tipo di rito religioso praticato, greco o latino / greco e latino, e sul loro avvicendarsi; sui rappresentanti delle autorità civili e religiose nel corso del secoli XVI, XVII e XVIII; notizie sulla vita del padre, dei fratelli e del nipote del filosofo Giulio Cesare Vanini; ed altri elementi di confronto o semplice curiosità, che il lettore potrà facilmente ricercare e trovare al fine di ricostruirsi uno spaccato di vita di epoca tardo-medievale e moderna, semplice e posta nell’antica Terra d’Otranto.

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