Stufato di tartufi

di Armando Polito

L’archivio della Fondazione Terra d’Otranto non sarà, magari, I deipnosofisti1 di Ateneo di Naucrati (II-III secolo d. C) e neppure il Convivium2 dantesco, ma stimola l’appetito (sempre, come nei modelli appena citati, quello della mente…e non solo). Ispirato, perciò, dal bel recentissimo post di Massimo (ormai, per antonomasia, possiamo fare a meno del cognome) I tartufi del Salento, ho sentito il bisogno di non mancare all’ideale banchetto.

bianchetto (tuber albidum)

Comincio dall’etimologia e già mi pare di sentire un nutrito coro di no, per favore, ancora!  Non siamo nella tragedia greca, in cui al coro era affidato il compito di recare ferali notizie o di esprimere riprovazione nei confronti di qualcosa o di qualcuno; perciò continuo imperterrito, anche perché ho in serbo qualcosa che potrebbe far ricredere, se non tutto, parte di quel nutrito coro (convinto dal titolo che si trattasse di una ricetta e non della solita rottura in omaggio al significato traslato di stufato) almeno sull’utilità di conoscere la storia di una singola parola, non fosse altro che per guardare con un sorriso ironico, unica consolazione forse rimastaci, alla realtà che ci circonda.

Se cerco in qualsiasi dizionario l’etimo di tartufo trovo registrato pressappoco quest’etimo: probabilmente da un latino *territùfer, composto di terra=terra e *tufer variante italica di tuber=fungo.

Si tratta della riesumazione, sia pure fatta con le pinze, di un etimo la cui paternità spetta a Nicola Ignarra, un letterato napoletano del XVIII secolo, che credette di ravvisare nel tartufo il terrae tuber attestato da Petronio (I secolo d. C.), Satyricon, XV: Vix me teneo et sum natura caldus: ciceris ius cum cepi, matrem meam dupondii non facio. Recte! Videbo te in publicum, mus, imo terrae tuber (A stento mi trattengo e sono caldo di natura: quando ho preso il brodo di ceci3 non ho rispetto [alla lettera: non stimo due assi] nemmeno per mia madre. Bene! Guarderò te in pubblico come si guarda un topo, un tubero di terra [per l’Ignarra è il tartufo] in profondità).

Se il terrae tuber petroniano è veramente il tartufo, c’è da concludere che esso non aveva grande considerazione nel mondo romano, altrimenti non sarebbe stato usato come termine di paragone (alla pari, addirittura, col topo) in un insulto.

Il probabilmente che accompagna l’etimo corrente potrebbe essere a mio avviso ridimensionato, se non cancellato, secondo il ragionamento che segue.

Nel dialetto siciliano accanto a tartùffu c’è tiritùffulu (quest’ultima voce l’ho sentita nella forma tiritùfulu  anche a Nardò;  essa manca per tutto il Salento nel vocabolario del Rohlfs e può darsi che sia d’importazione relativamente recente; tuttavia nel Brindisino mi risulta che il tartufo di mare è chiamato tiratùfulu).

Bisognerebbe scoprire quale fra tartùffu (che sembra la trascrizione della voce italiana) e tiritùfulu è nato per primo e, se per tartufo si tratta del XV secolo, per tiritùffulu  (come per tutte le voci dialettali) è pressoché impossibile stabilire la data di nascita, e l’attestazione scritta più datata che son riuscito a trovare è il lemma tiritùffulu (con rinvio a tartùffu) presente in Michele Pasqualino, Vocabolario siciliano etimologico, italiano e latino, Reale Stamperia, Palermo, 1790.

Comunque, per quello che le mie osservazioni possono valere: tiritùffulu sembra presentare a prima vista  un suffisso diminutivo, il che indurrebbe a pensare che sia figlio di tartuffu con un’evoluzione fonetica (-a->-i-) strana, che supporrebbe una forma precedente *tirtùffu passata poi a *tiritùffu con l’epentesi di una vocale uguale a quella più vicina (-i-) come in cancarèna da cancrena. Oppure in tiritùffuluulu non è suffisso diminutivo ma solo regolarizzazione della desinenza attraverso una trafila che ha registrato (partendo dal latino) i seguenti passaggi: *terraetùber>*terretùber>*territùber>*teritùber>*tiritùber>*tiritùfer>*tiritùffer>*titituffèru>*tiritùffelu>*tiritùffulu (con passaggio –e->-u– per influsso della precedente –u-. Inutile dire che questa seconda ipotesi porterebbe acqua al mulino dell’Ignarra e farebbe morire (per annegamento…) il probabilmente compagno inseparabile dell’etimo fin qui proposto.

Come già altre volte è successo di fronte a una difficoltà, mi rifugio nel sicuro riportando la testimonianza di Plinio (I secolo d. C): E poiché abbiamo cominciato dai miracoli delle cose seguiremo il loro ordine, in cima al quale si colloca il fatto che qualcosa possa nascere o vivere senza alcuna radice. È il caso di quelli che si chiamano tartufi (tùbera), circondati da ogni parte dalla terra, senza barbetta alcuna né pelo capillare; il luogo in cui nascono non rigonfia4 né si fende né essi fanno un tutt’uno con la terra. Sono rinchiusi da una corteccia, sicché non si può dire del tutto che siano terra né altro se non callo di terra. Nascono in luoghi secchi, sabbiosi e pieni di sterpi. Superano spesso la grandezza d’una mela cotogna e possono giungere anche al peso di una libbra5.  Sono di due tipi: arenosi nemici dei denti e non. Si distinguono anche per il colore, rosso e nero e bianco all’interno. I più pregiati sono quelli africani. Se crescano per loro natura o sia dovuto a difetto della terra (altro non si può prendere in considerazione) il fatto che assumono subito la forma di una palla della grandezza destinata a mantenersi in futuro e se vivano o no credo che non possa essere facilmente compreso. Si discute pure se marciscano come il legno. Abbiamo saputo che pochi anni fa al pretore Larzio Licinio in servizio a Cartagena in Spagna è accaduto che mentre mordeva un tartufo (tuber) un denario rimasto imprigionato dentro gli ruppe i denti anteriori: per questo è evidente che inglobano in loro la natura della terra. Ciò lo si deduce da quelle cose che nascono ma non si possono seminare. Simile al tartufo è quello che nella provincia della Cirenaica chiamano misi, unico per soavità di odore e di sapore ma più carnoso; e quello che in Tracia si chiama iton6 e quello che in Grecia si chiama geranio7. Sui tartufi si dice in particolare che nascono quando ci sono le piogge autunnali e frequenti tuoni e che nascono soprattutto da questi; che non durano più di un anno e che in primavera sono tenerissimi. In alcuni luoghi sono portati dall’acqua, sicché a Mitilene dicono che non nascono se i fiumi traboccando non portano il seme da Tiari. È questo il luogo dove nascono nella più grande quantità. I più pregiati dell’Asia si trovano intorno a Lampsaco e Alopeconneso, quelli della Grecia intorno a Elide.8

Per chi volesse fare un controllo prima di inventarsi un nuovo mestiere: Mitilene si trova nell’isola di Lesbo (Egeo settentrionale), che è la patria di Saffo, forse la più grande poetessa greca, oggi, forse inconsapevolmente, parzialmente note l’una (l’isola) e l’altra (la poetessa) per due aggettivi, lesbico e saffico. La presenza di resti di case tardo-romane autorizza a supporre, oltre a quella connessa con l’importazione, anche una fruizione straniera in loco.

Lampsaco era una città della Misia, sull’Ellesponto. Secondo la testimonianza di Cicerone e di altri il culto privilegiato era quello di Priapo, come già per Saffo probabilmente noto solo per il sostantivo derivato, priapismo. Comunque, tenendo conto, per chi non lo sapesse, che Priapo era il dio della potenza sessuale e della fertilità e senza trascurare gli apporti di Saffo, l’autore dell’ipotetico controllo farebbe, se tanto mi dà tanto,  nnu iàggiu e ddo’ sirizzi (un viaggio e due servizi): ricerca di tartufi e “turismo sessuale”. Una raccomandazione: alla partenza farsi un bel brodo di ceci…

Alopeconneso è un’isola nel Mar di Marmara e, secondo me, non conviene andarci, perché probabilmente si rischierebbe la rabbia, sempre che siano sopravvissute le volpi che le hanno dato il nome (alòpex=volpe e nesos=isola).

Elide era una regione del Peloponneso nonché il nome della città che di quella regione era la capitale; che taccagni questi Greci rispetto a noi che ci inventiamo, naturalmente in nome della democrazia e per conto (intendi bene: tramite un conto che sarà pagato dai) dei soliti fessi,  pure rappresentanze suburbane…!

Avrei voluto  chiudere con un sorriso possibilmente non ironico, cioé dolce, ma neppure questa volta l’argomento o il mio temperamento mi hanno consentito di farlo:  penso a Le Tartuffe ou l’imposteur di Molière (XVII secolo; in basso il frontespizio dell’edizione del 1682), personaggio al quale è debitore l’uso traslato del nostro vocabolo per bollare chi ostenta falsa bontà e devozione religiosa; e penso che truffa (anche nel suo significato obsoleto di bagattella) quasi concordemente è fatto derivare probabilmente (ancora!) dal francese truffe, dall’antico provenzale trufa=tartufo, dal latino tardo tùfera, che è dal classico tuber da cui siamo partiti.

Però, nonostante questi “precedenti”, che carriera brillante ha avuto il nostro tubero che oggi gode di un’altissima quotazione, superando di gran lunga il fratello lampascione che non aveva avuto un esordio brillante neppure lui!

______

1 Alla lettera: I saggi a banchetto. L’opera è molto importante perché contiene citazioni da altri autori (frammenti) di cui nulla ci è pervenuto.

2 Alle lettera: Banchetto.

3 Galeno (II-III secolo d. C.) attesta che alcuni somministravano il brodo di ceci agli stalloni perché provocava il coito e generava sperma, opinione confermata, questa volta a vantaggio degli umani,  da Ezio (VI secolo d. C.), il quale dice che il brodo di ceci non solo genera calore ma incrementa  la produzione di sperma. Debbo pensare alla somiglianza di forma con l’organo a ciò deputato e ad un adattamento ante litteram, con significato diverso, del principio dell’omeopatia similia a similibus curentur (ciò che somiglia ad una cosa da quella sia curato)?

4 Gonfiarsi nell’originale latino è espresso con extubèrare, composto da ex con valore intensivo e tuber. Tuber (=e il suo diminutivo tubèrculum con l’aggettivo tuberòsus, da cui, rispettivamente, l’italiano tubercolo e tuberosa) in latino ha come significato di base quello di escrescenza, poi tumore, nodo (del legno), tartufo; per questo viene associato da alcuni a tumor che significa gonfiore, tumore, collera, superbia, ampollosità, dal verbo tumère=gonfiarsi, a sua volta connesso col greco thymòs=soffio vitale, anima, animo, mente, al quale alcuni riportano anche il latino fumus=fumo.

5 Poco più di 300 grammi.

6 Attestato in Teofrasto (III secolo a. C.), fr. 167,  ma come nome di un fungo.

7 Attestato nella forma gheràneion in Teofrasto (Historia plantarum, I, 6, 9), che usa anche il sinonimo ydnon (Historia plantarum, I, 6, 5); quest’ultima voce è usata anche da Dioscoride (I secolo d. C.), De materia medica, II, 145.

8 Naturalis historia, XIX, 11-13: Et quoniam e miraculis rerum coepimus, sequemur eorum ordinem, in quibus vel maximum est, aliquid nasci aut vivere sine ulla radice. Tubera haec vocantur, undique terra circumdata, nullibus fibris nixa, aut saltem capillamentis, nec utique extuberante loco in quo gignuntur, aut rimas agente: neque ipsa terrae cohaerent. Cortice etiam includuntur. ut plane nec terram esse possimus dicere, nec aliud quam terrae callum. Siccis haec fere et sabilosis locis, frutectosisque nascuntur. Excedunt saepe magnitudinem mali cotonei, etiam librali pomdere. Duo eorum genera: arenosa dentibus inimica, et altera sincera. Distinguuntur et colore, rufo, nigroque, et intus candido: laudatissima Africae. Crescant, anne vitium id terrae (neque enim aliud intelligi potest) ea protinus globetur magnitudine, qua futurum est; et vivantne, an non, haud facile arbitror intelligi posse. Putrescendi enim ratio communis est lis cum ligno. Lartio Licinio praetorio viro jura reddenti in Hispania Carthagine, paucis his annis scimus accidisse, mordenti tuber, ut deprehensus intus denarius primos dentes inflecteret: quo manifestum erit, terrae naturam in se globari. Quod certum est ex iis quae nascantur, et seri non possint. Simile est et quod in Cyrenaica provincia vocant misy, praecipuum suavitate odoris ac saporis, sed carnosius: et quod in Thracia iton, et quod in Graecia geranion. De tuberibus haec traduntur peculiariter: quum fuerint ombres autumnales ac tonitrus crebra, tunc nasci, et maxime e tonitribus; nec ultra annum durare, tenerissima autem verno esse. Quibusdam locis accepta riguis feruntur, sicut Mitylenis negant nasci nisi exundatione fluminum invecto semine ab Tiaris. Est autem is locus in quo plurima naascuntur. Asiae nobilissima circa Lampsacum et Alopeconnesum, Graeciae vero circa Elin.

 

Il post di Massimo Vaglio può leggersi cliccando il link in basso:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/11/21/proprio-vero-ecco-i-tartufi-del-salento/

I tartufi del Salento

 

di Massimo Vaglio

Facile dire Salento, certamente molto più difficile trovare una sua puntuale ed esaustiva descrizione, persino nello spazio della più ampia e valida delle guide. Tante sono, infatti, le emergenze, la varietà di ambienti, di usi e tradizioni, che rendono unico e sorprendente come pochi altri, questa estrema propaggine italica. Una terra, che non finisce mai di sorprendere, e non solo il visitatore, ma anche i suoi stessi abitanti, e persino i più profondi conoscitori.

Anche, il più esigente dei gourmet  trova qui un’infinita, varia e talvolta inaspettata platea di prodotti con cui soddisfare la sua  passione. Naturale, che i protagonisti della gastronomia locale siano in prevalenza i tipici prodotti mediterranei, ma le sorprese non mancano e non di rado si incontrano prodotti e piatti di matrice nettamente più nordica e continentale, retaggio di antichi scambi e contaminazioni.

Un popolo ricco di storia quindi, che con intelligenza ha saputo fare tesoro anche delle più umili e neglette risorse locali, ma che, quando ne ha avuto la possibilità con altrettanta intelligenza e grande apertura mentale ha saputo approfittare delle novità portate dai dominatori oppure di quelle risorse inaspettatamente arrivate dai nuovi continenti.

Un caso fa però eccezione ed è quello dei tartufi, un prodotto, che almeno da qualche secolo era caduto completamente nell’oblio, fino ad una sua recentissima, e come vedremo, quasi casuale, riscoperta.

Questi pregiatissimi funghi ipogei, massima e preziosa delizia dei i gourmet dell’Italia Centro-Settentrionale, sono da tempo praticamente ignorati, dalla stragrande maggioranza dei meridionali. Tuttora, nonostante le notizie viaggino veloci come non mai, non sono molti i salentini che sanno della loro esistenza nei boschi nostrani, anche se è da rilevare, che molti di quelli che spinti dalla curiosità, hanno iniziato a degustarli, ne sono rimasti conquistati, e sono divenuti degli assidui consumatori. D’altronde, non è una novità, gli uomini, apprezzano solo quello conoscono e conoscono solo quello che gli è stato insegnato.

Ma il tartufo è stato sempre estraneo alla gastronomia salentina? Molto probabilmente, in passato, ossia prima della pressoché totale distruzione delle foreste primigenie che ricoprivano ampissimi tratti del suo territorio, i tartufi dovevano essere un prodotto molto abbondante, apprezzato e  fatto oggetto di regolare raccolta.

Questa supposizione scaturisce dal fatto che i tartufi sono ben presenti nel Cuoco Galante, Napoli 1778, pregevole ricettario del salentino Vincenzo Corrado, ove compaiono come ingrediente di numerosi piatti, di salse e persino in arditi accostamenti con il pesce. Ciò attesta con certezza il loro gradimento almeno fra i ceti dominanti dell’epoca. La raccolta, con molta probabilità, com’era in uso a quel tempo, veniva effettuata nelle leccete dai guardiani di maiali che, nei periodi canonici, seguivano a vista i maiali, e appena questi, avendo annusato la presenza dei ghiotti tuberi, tentavano di scavarli con il coriaceo grugno, lesti li scacciavano e se ne impossessavano.

tuber albidum

La raccolta dei tartufi terminò ineluttabilmente quando venne pressoché completata la totale distruzione delle foreste, distrutto l’habitat. I tartufi sparirono anche dalle mense e sopraggiunse un lunghissimo oblio. Questa secolare assenza li ha allontanati completamente dalla cultura gastronomica salentina, almeno se si escludono le Terfezie degli pseudo tartufi appartenenti al genere Terfezia, quasi inodori e dal gusto dolciastro, che essendo delle specie semi epigee, sino a qualche decennio addietro venivano sporadicamente raccolti da qualche raccoglitore e sovente destinati, quasi a titolo di curiosità a fanciulle e bambini che li consumavano crudi.

Nel dopoguerra, un po’ per lenire il problema della disoccupazione, un po’ per cercare di rimediare a qualche guasto ambientale, si dette luogo alle cosiddette campagne silvane, ovvero a delle campagne di rimboschimento, che furono realizzate prevalentemente con pini d’Aleppo e pini domestici, è stato così, che in alcune centinaia di ettari rimboschiti si è ricreato un ambiente idoneo allo sviluppo dei tartufi delle specie: Tuber aestivum, noto come Scorzone e del ben più pregiato, Tuber albidum = Tuber borchii, comunemente appellato Bianchetto. Questi sono stati scoperti qualche decennio addietro da cercatori professionisti di oltre regione che con bravissimi cani al seguito hanno svolto per diversi anni con estrema circospezione delle proficue campagne di raccolta. Il segreto, mantenuto ben stretto, pare che nei primi anni abbia procurato favolosi guadagni, grazie alla copiosa raccolta in questi boschi ancora vergini, di pregevoli tartufi che, grazie alla loro ottima qualità, venivano regolarmente commercializzati nelle più importanti piazze italiane, il più delle volte, come tartufi di Alba spuntando, ottime quotazioni. Parallelamente, qualcuno dei tanti salentini trapiantati al Nord ha imparato lì la tecnica di raccolta e una volta tornato ha fatto la loro inaspettata quanto gradita scoperta.

tuber aestivum (da www.naturamediterraneo.com)

Il caso più significativo è quello di Giuseppe Lolli di Corigliano d’Otranto, titolare del primo tesserino di autorizzazione alla ricerca e raccolta dei tartufi, rilasciato dalla Provincia di Lecce, per il quale la passione per la raccolta e la trasformazioni dei tartufi è divenuta già da un po’ di anni un’attività prevalente e ricca di soddisfazioni.

Nella zona di Corigliano d’Otranto, come un po’ in tutto il Magliese, insistono infatti, diversi relitti d’antiche foreste primigenie miracolosamente scampate alla distruzione, habitat ideale alla proliferazione del pregiato Bianchetto, ma si cominciano anche a mettere a dimora delle tartufaie ossia dei boschetti appositamente costituiti con piante  micorizzate con spore di tartufo. Da qui l’idea dello stesso Lolli di tipicizzare questa produzione e richiedendo l’attribuzione di un marchio d’origine per il tartufo di Corigliano d’Otranto, un progetto che per la sua esemplare sostenibilità ambientale non possiamo fare a meno di augurarci che trovi attenti e validi interlocutori.

Pappardelle al tartufo

500 gdi pappardelle,150 gdi Scorzone (tartufo estivo),80 gd’olio extravergine d’oliva, sale.

Lessate le pappardelle in abbondante acqua salata. Nel frattempo pulite i tartufi, frullateli con l’olio e regolate di sale. Scolate le pappardelle al dente e conditele con il frullato di tartufo. Mescolate e servitele caldissime, guarnendo il piatto con ciuffetti di prezzemolo.

Linguine stuzzicanti

500 gdi linguine, 4-5 tartufi della varietà Scorzone,50 gd’olio extravergine d’oliva, 1 spicchio d’aglio, 4 alici sotto sale, sale, pepe bianco.

Dissalate sotto l’acqua corrente le acciughe e diliscatele. Frullate o grattugiate diligentemente i tartufi. In una casseruola fate sciogliere i filetti di acciuga, aggiungete lo spicchio d’aglio finemente tritato e senza che soffrigga i tartufi. Scolate le linguine lessate al dente, unitele al condimento, mescolate accuratamente il tutto e servite in piatti singoli completando con una spolverata di pepe.

Sagne ‘ncannulate alla carbonara mediterranea e tartufo

500 gdi sagne ‘ncannulate,400 gdi ricotta fresca di pecora,100 gdi tartufo della varietà Scorzone,80 gdi caciocavallo podolico stagionato,50 gd’olio extravergine d’oliva, 12 pomodori secchi, 1 mazzetto di basilico fresco, 1 spicchio d’aglio, sale, pepe nero.

Versate l’olio in un’ampia padella, unite una metà dei pomodori secchi e lo spicchio d’aglio schiacciato che eliminerete appena questo accenna ad imbrunire. Unite quindi la ricotta, stemperatela con un po’ d’acqua calda ed aggiungete i restanti pomodori secchi e  le foglie di basilico trinciate grossolanamente. Versate nella padella le sagne ‘ncannulate lessate al dente, cospargetele con il caciocavallo grattugiato, pepate, mescolatele diligentemente e servitele in piatti singoli cospargendo abbondantemente con i tartufi grattugiati e guarnendo con qualche foglia di basilico fresco.

Risotto classico al tartufo

500 gdi riso Carnaroli o Vialone Nano,60 g di tartufo Bianchetto salentino, 1 cipolla, 2 costole di sedano,40 gdi burro, 4 cucchiai di panna da cucina,60 gdi grana grattugiato, 1 bicchiere di vino bianco secco,1 ldi brodo, sale, pepe nero.

Tritate la cipolla e le coste di sedano e fateli appassire in una casseruola con il burro, unite il riso e lasciatelo tostare, mescolando per due minuti, bagnate con il vino e fatelo evaporare a fiamma vivace. Abbassate la fiamma e portate a cottura il risotto versando il brodo bollente, solo quando il precedente sarà stato assorbito completamente. Quando il riso avrà raggiunto il grado di cottura desiderato, spegnete il fuoco, incorporate il grana grattugiato, la panna e regolate di sale se necessario. Suddividete il riso nei piatti individuali e cospargetelo con il tartufo tagliate a lamelle utilizzando l’apposito utensile: Spolverate con pepe macinato al momento e servite.

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