Luigi Chiriatti, il più grande erede culturale salentino di Ernesto De Martino

 

di Romualdo Rossetti

Dopo una lunga malattia che ne aveva fiaccato il fisico ma non certo lo spirito, ha terminato la sua avventura terrena giovedì 25 maggio 2023, all’eta di settant’anni, con il coraggio e la serenità che lo ha sempre contraddistinto, Luigi Chiriatti.

Autore, tarantologo di fama nazionale e internazionale, musicista-cantore, fondatore della casa editrice Kurumuny, nonché direttore artistico del festival “Notte della Taranta” del quale dal 2015 era diventato co-direttore artistico insieme al compianto Daniele Durante, deceduto nel giugno 2021.

Già presidente dell’associazione culturale “Ernesto De Martino – Salento” era divenuto anche direttore scientifico dell’Istituto “Diego Carpitella” e dal 2003 al 2009 e nel 2014 e direttore artistico del festival “Canti di Passione”.

Nato a Martano da padre artigiano e madre contadina, saggiò fin dalla più tenera età da entrambi i genitori, dal padre “muratore girovago” la diversità e la complessità culturale del territorio salentino e dalla madre contadina quel complesso sapienziale mitico rituale intriso di magismo. Frequentò con profitto le scuole medie presso il seminario Arcivescovile di Otranto e poi il liceo classico Capece di Maglie, successivamente quello di Lecce. Dopo il diploma s’iscrisse alla facoltà di Filosofia che lo invogliò verso l’indagine etnografica sul territorio salentino nella quale potette approfondire gli studi sui canti alla stisa, sugli scazzamurreddhi o sciacuddhi, sulle opere malefiche delle striare e soprattutto sulle tarantate e i tarantuni.

Kurumuny, il podere dei nonni, dove una variegata umanità di quasi venti anime aveva dato vita ad una colonia culturale e sociale autonoma, si trasformò nel suo punto cardinale tanto che più tardi lo avrebbe scelto come nome per la sua casa editrice. A Kurumuny vivevano le prefiche di Martano e alcuni dei grandi cantori che erano stati contattati dall’antropologia audiovisiva nazionale e internazionale dell’epoca. Vi era anche chi per mestiere incideva le mammelle delle donne afflitte da mastite o operava per slegare i vermi che affliggevano i più piccoli. Fu lì che apprese anche l’arte di raccogliere i funghi, passione che lo avrebbe accompagnato fino alla fine dei suoi giorni. A Kurumuny era presente anche sua zia Pascalina che durante i mesi di fine primavera ed estivi suonava un enorme tamburo che serviva tanto a divertire e donare un momento ludico quanto per cercare di alleviare le sofferenze delle donne pizzicate dalle tarante.

Delle tarantate conobbe le storie che le donne gli raccontarono in prima persona e che amplificarono il suo interesse per il misterioso fenomeno coreutico-musicale, soprattutto quando suo padre lo accompagnava a visitare la cappella di San Paolo a Galatina durante la festa dei Santi Pietro e Paolo. Fu partendo proprio da Kurumuny, durante i suoi studi universitari, che cominciò a prendere in considerazione l’idea di approfondire, tramite una ricerca sul campo, la storia del tarantismo salentino del suo tempo, una ricerca che potesse divenire una prosecuzione di quella intrapresa da Ernesto De Martino negli anni ‘60.

Partecipò in prima a due terapie domiciliari molto differenti fra loro: una suonata e una sonante. Una taranta “ballerina” sensibile alle note dell’armonica e una taranta “sorda” in cui la donna si auto-induceva la trance tramite una nenia. Contemporaneamente cominciò a documentare negli anni settanta la giornata delle tarantate a Galatina, luogo di culto per eccellenza delle spose di San Paolo; in un primo momento con una macchina fotografica con obiettivo fisso di 50mm (Ferrania) e successivamente con macchine da presa.

Fu quello il periodo del suo primo incontro con Gigi Stifani, il “dottore delle tarantate”, musico e terapeuta neretino che tramite il suo violino e la sua presenza costante sul territorio aveva curato decine e decine di donne in preda alle problematiche della morsicatura della taranta. Gigi Stifani gli raccontò del fatto che a suo dire le donne risultavano essere più soggette al morso perché avevano nel sangue “una gradazione in meno” rispetto all’uomo. Il neretino gli disse di credere nell’intercessione del santo di Tarso e ai suoi miracoli così come gli confidò di essere consapevole del suo importante ruolo di “guida sciamanica” nel rituale di liberazione dalle afflizioni del tarantismo. Tutte quelle storie, tutti quei racconti, tutte quelle dicerie delle comari del paese unitamente alle teorie dei medici, dei sacerdoti, costituirono il corpus della sua tesi di laurea dibattuta nel 1978 presso l’insegnamento di Sociologia dell’Università di Lecce perché nessuna altra cattedra “filosofica” avrebbe mai accettato una tesi sul tarantismo in quanto considerato ancora, crocianamente parlando, un argomento tabù di scarso interesse culturale, una specie di infimo fenomeno da baraccone non degno di nota. Nel 1977, prima di laurearsi, aveva inciso con il Canzoniere Grecanico Salentino il disco “Canti di terra d’Otranto e della Grecìa salentina”, fondando successivamente diversi gruppi di riproposizione e recupero delle tradizioni musicali popolari come il famoso Canzoniere di terra d’Otranto e Aramirè.

Considerevoli furono le sue ricerche sul tarantismo pugliese vissute pienamente all’interno della più ortodossa interpretazione gramsciano-demartiniana che supportò con altri importanti spunti ermeneutici.

Memorabili rimangono alcune sue opere di antropologia culturale come il saggio “Morso d’amore. Viaggio nel tarantismo Salentino”, edito nel 1995 da Capone Editore e successivamente dalle Edizioni Kurumuny, dove presentò la sua inchiesta sul tarantismo in collaborazione con le registe Annabella Miscuglio, Maria Grazia Belmonte, Ronny Daoupulo, ricerca finalizzata alla realizzazione di un documentario dallo stesso titolo uscito nelle sale cinematografiche nel 1981. Nel saggio l’autore si soffermò a raccontare con una scrittura avvincente ma anche molto intima la propria esperienza di libero ricercatore, nato e cresciuto nei luoghi in cui quella cultura ancora si manifestava seppur sempre con minore vigore.

Si offrì, quindi, ai propri lettori in veste di protagonista di una ricerca volta a ritroso nel tempo e costituita da simboli e luoghi “magico-rituali” da lui frequentati e vissuti in gioventù. Altra sua memorabile fatica fu il saggio storico locale Terra Rossa d’Arneo edito da Kurumuny nel 2017 dove indagò l’imponente movimento di lotta per la terra, culminato nelle occupazioni delle terre d’Arneo del ‘49-51.

In quasi cinquant’anni di ricerca sul campo riuscì a realizzare un autorevole archivio di etnomusicologia e tarantismo con più di 1600 documenti di vario genere tra video, interviste, fotografie e materiale sonoro. Numerose sono state le sue collaborazioni culturali che lo portarono a conoscere personaggi di primo piano della ricerca etnologica ed etnografica come Vittoria De Palma, seconda moglie di Ernesto De Martino, della quale raccolse inedite testimonianze di vita.

Lascia la moglie Marisa Palermo, i figli Salvatore, Anna, Giovanni, Francesca, Fabio e Paolo. Al figlio Giovanni e alla nuora Alessandra Avantaggiato e agli alti figli spetta ora l’onere e l’onore di portare avanti le Edizioni Kurumuny nel solco da lui creato.

 

Si hortum in bibliotheca habes, deerit nihil

Marcus Tullius Cicero,  Epistola ad familiares

 

 

Intervista a una tarantata

Tarantate, di Luigi Caiuli

 

 

Intervista alla sig.ra Domenica di Minervino di Lecce analisi antropologica inerente La sua esperienza di tarantata

 

a cura di Romualdo Rossetti

 

Buongiorno signora! Potrebbe raccontarci di quando venne morsa dalla tarantola?

Se può avvicinarsi e alzare la voce, per cortesia, perché da questo orecchio non sento molto!

 

Certo! Dicevo …può parlarci di quando venne morsa dalla tarantola?

Si… certo!

 

Per prima cosa può dirci come si chiama, quanti anni ha e dove è nata?

Mi chiamo ….. Domenica e sono nata a Minervino di Lecce il 29.12.1929.

 

Bene! A che età è stata morsa dalla tarantola?

Da giovane, prima di sposarmi!

 

Si ricorda in che anno è accaduto?

L’anno preciso non me lo ricordo però è stato due, tre anni prima che mi sposassi…io mi sono sposata nel 1956, quindi sarà stato nel 1954, 1953…credo!

 

Può raccontarci cosa successe? Se si stanca può fermarsi quando vuole!

Si…certo! Ero andata insieme a tutta la mia famiglia presso un fondo che mio padre possedeva a Minervino e che si chiamava “I Madrigali”, che poi è stato diviso alla sua morte tra i miei fratelli, e stavamo tutti impegnati per la mietitura. Quel giorno era venuta anche mia madre, poverina, nonostante soffrisse di dolori reumatici. Verso mezzogiorno mentre ci stavamo preparando a mangiare qualcosa ebbi l’esigenza di andare in bagno e così mi allontanai e mi inginocchiai dietro un piccolo muro di pietre a secco per non essere vista dagli altri. Quando mi alzai mi accorsi che da sotto un ginocchio era scappata via una taranta, di quelle che hanno il colore rosso e nero. Quando la vidi mi spaventai e dissi dentro di me; “Mamma mia na taranta era, Santu Paulu meu! Speriamo che non mi abbia morso!”. Dolori da pizzicatura non ne avevo sentiti…però, rimasi col dubbio. Mi alzai e raggiunsi gli altri ma poco dopo venni colta da brividi di freddo, un freddo che aumentavano sempre di più… ma un freddo… un freddo… un freddo che ti entrava nelle ossa…

 

Si ricorda in che periodo accadde?

Si che mi ricordo il periodo… il giorno preciso no… ma il periodo me lo ricordo! Era nella prima decina di giugno, intorno all’8, 9 … giorno più, giorno meno. Faceva un caldo che spaccava le pietre ma io sentivo sempre più freddo…sempre più freddo. Tremavo dal freddo. Poi cominciai a sentirmi male… accusavo nausea e poi dolori alle ossa e alle parti delle donne. Erano dei dolori che andavano e venivano ma che si facevano sempre più forti… sempre più forti, tanto forti che non resistetti più e dissi a mio fratello Orlando di accompagnarmi a casa con la bicicletta. Così facemmo! Durante il percorso verso casa venni presa da dolori talmente forti che per reggermi mi aggrappano al collo di mio fratello tanto forte che gli faci male, poverino! Nonostante tutto arrivammo a casa e mi coricai, ma i dolori non passavano… aumentavano!

 

Una volta arrivati a casa che successe?

Successe che mio fratello scappò a chiamare il medico. Nel frattempo mia madre e i miei altri fratelli rientrarono anche loro a casa. Ben presto si sparse la notizia che non stavo bene e cominciarono a venire le vicine per vedere come mi sentivo. La casa di mio padre aveva un lungo cortile che si riempì di gente. In quell’epoca ci si voleva bene, non era come adesso che ognuno pensa ai fatti suoi e con i vicini nemmeno ci si saluta, allora, ai miei tempi era diverso… ci si aiutava.

 

Lei si sentì un pochino meglio una volta arrivata a casa e distesasi a letto?

Macché… non trovavo pace! Non riuscivo a trovare una posizione a letto che mi desse sollievo. Me ne fregavo che ero in vestaglia corta. Quando venivano quei dolori tanto forti non ci pensavo a chi c’era in casa. Facevo “piedi-capitali”, un po’ mettevo la testa sul cuscino un po’ la mettevo dove si mettono i piedi, ma niente, i dolori non terminavano. Ad un certo punto entra mio zio Ottaviano, il fratello di mio padre, per vedere come stavo. Vedendomi sofferente mi chiese: “Ma che ti è capitato nipote mia?” E io gli risposi stizzita: “Lasciami stare zio, che tu non puoi capire… questi sono i dolori del partorire!” Allora tutte le donne presenti nella stanza capirono la causa del mio malessere… la taranta aveva parlato tramite me e si era presentata. Era una “taranta de partu”. Subito dopo giunse mio fratello dicendo di non essere riuscito a trovare il medico perché gli avevano detto che era  dovuto andare fuori paese per una visita… ma tanto ormai non serviva più il dottore. Tutte mi dicevano che l’unica soluzione era andare a Galatina a chiedere la grazia a San Paolo perché si trattava di taranta. Fu così che i miei si organizzarono per farmi andare a Galatina. Era già pomeriggio inoltrato.

 

Che cosa accadde allora?

I miei fratelli preoccupati cercarono subito un’automobile affinché arrivassi presto a Galatina, la trovarono pure ma adesso non ricordo il motivo per il quale non andammo… forse non si misero d’accordo per il costo del viaggio… non ricordo… in quell’epoca nel mio paese c’era solo un’automobile a disposizione di un autista che la utilizzava per accompagnare le persone che avevano bisogni urgenti. Sta di fatto che quella volta fallì il tentativo di utilizzare un’automobile per raggiungere Galatina, né potevo chiedere ai miei fratelli di accompagnarmi in bicicletta perché era notte ma soprattutto perché i forti dolori non mi consentivano si stare seduta sul tubo della bicicletta da uomo non so come si chiama… ma ci siamo capiti! Allora scegliemmo di andare in biroccio e così  partimmo. Mi accompagnò mio fratello Orlando. Mia madre rimase a Minervino perché non si sentiva molto bene in quei giorni. Mio fratello Orlando era scettico riguardo il morso della taranta e questa cosa mi infastidiva molto perché non mi credeva. Mentre passammo per i vari paesi io mi vergognavo molto del mio stato ma soprattutto del fatto che le persone mi potessero vedere così tanto sofferente. Pensi che quando venivo presa dai dolori per non gridare troppo mi tenevo stretta ad un aggeggio che era legato al biroccio proprio come fanno le donne gravide quando stanno per partorire. La mia, come ho detto prima, era una “taranta de partu”!

 

Ci può spiegare meglio questo dettaglio? Che significa la parola “taranta de partu”?

Deve sapere che dalle nostre parti si è sempre detto che le tarante prima di essere dei ragni erano delle persone come noi, che facevano tutti i mestieri che facciamo noi e tutte le azioni che facciamo noi; solo che erano troppo orgogliose e avevano offeso Dio col loro modo di fare, quindi il Signore per punizione le aveva trasformate in tarante, in ragni. Durante la loro trasformazione continuarono a fare ciò che stavano facendo … c’era chi ballava mentre venne trasformata e se ti mordeva una di quella ti costringeva a ballare, c’era chi cantava e una volta diventato ragno se ti mordeva ti obbligava a cantare, c’era chi dormiva e se ti mordeva come ragno ti faceva dormire e via dicendo. La mia era stata una persona che stava per partorire e aveva le doglie mentre venne tramutata in taranta quindi il suo morso mi aveva dato tutti i dolori del parto… le doglie diciamo.

 

Come fa a sapere con certezza che i suoi erano dolori simili alle doglie del parto e non invece qualcos’altro?

Figlio mio… come facevo a sapere che erano dolori da parto? Perché stavo morendo di doglie proprio come le donne prene quando devono partorire! Solo io so cosa ho passato… gli altri non possono minimamente immaginare! E poi, tutte le persone che erano venute a casa mia e che avevano partorito e mi avevano vista in quello stato subito avevano capito che si trattava di quello… di taranta partoriente. Lo compresi pure io, dopo maritata, quando mi capitò di assistere parenti o vicine di casa che stavano partorendo! I miei dolori e il mio comportamento era stato simile al loro! Io non ho avuto figli ma i dolori del parto li ho subiti. All’epoca, deve sapere che solo le donne maritate potevano assistere a un parto… se una donna non era sposata non poteva assistere anche se era grande d’età, questo, per una questione di pudore. Chi non aveva conosciuto il marito non poteva assistere a una nascita…all’epoca era così… e all’epoca tutte partorivano in casa con l’aiuto della mammana… a volte manco il dottore c’era, veniva chiamato solo in casi gravi.

 

Una volta giunti a Galatina che cosa accadde?

Arrivammo che era già sera e la cappella di san Paolo era chiusa. Non c’era nessuno. Per prima cosa cercammo il sagrestano perché avevamo saputo che era lui che custodiva le chiavi della cappella. Quando venne e aprì la porta per prima cosa mi disse che dovevo bere l’acqua del “pozzo di San Paolo”. Raccolse con un vecchio secchio l’acqua del pozzo e me la porse in una specie di boccale unto. Appena la bevvi sentii che era acqua grossa che faticavo a ingoiare. Lui mi disse che dovevo sforzarmi a bere altrimenti il santo non mi avrebbe fatto la grazia. Bevvi a forza quell’acqua, prima piano poi a piccoli sorsi. Mamma mia che brutto sapore aveva quell’acqua amara! Era acqua grossa! Ne bevvi poca! Dopo un poco vomitai…vomitai il veleno, una volta… due volte e sul pavimento, proprio dove vomitavo si era formata tanta schiumazza segno del veleno che avevo messo fuori. Notai che col vomito i dolori piano piano stavano scomparendo. Dopo poco tempo mi sentii meglio. Dissi a quel punto a mio fratello Orlando e al padrone del biroccio che potevamo ritornare a Minervino. Avevo bevuto l’acqua del pozzo, i dolori erano scomparsi… potevo ritenermi soddisfatta… san Paolo mi aveva fatta la grazia…pensavo!

 

Poi cosa accadde?

Una volta arrivati a Minervino i parenti si tranquillizzarono nel vedermi rimessa. Raccontai loro come erano andati i fatti poi loro fecero ritorno alle loro case. Vidi mia madre molto preoccupata ma non ne compresi la ragione. Appena rimanemmo soli in casa i dolori ritornarono più forti di prima. Mi sentii persa… San Paolo non mi aveva fatta la grazia, questo comportava il fatto che sarei dovuta ritornare a Galatina per chiedere ancora la grazia al santo. Mi si avvicinò mia madre e mi disse che nonostante non si sentisse affatto bene quella volta mi avrebbe accompagnata lei. Seppi dopo, da mia sorella Nina che quando ero partita con mio fratello Orlando, la prima volta, loro due si erano appisolate sul letto matrimoniale di mia madre perché mio padre era ritornato al campo a terminare la raccolta delle spighe e per sorvegliare i covoni affinché non li rubassero. Mia madre una volta appisolata si era messa a mugolare nel sonno e a agitarsi tanto da svegliarsi di soprassalto. Tutta sudata e pallida come un cencio aveva detto a mia sorella che aveva visto in sogno san Paolo che l’aveva ammonita dicendole che se non mi avesse accompagnata lei a Galatina, in quanto madre, non mi avrebbe fatto la grazia. Una volta svegliata era rimasta molto turbata da quel sogno e aveva intuito che pur apparendole in buono stato di salute non ero guarita. Lei già lo sapeva perché san Paolo glielo aveva detto in sogno.

 

Antidotum Tarantulae. Dal Magnes sive de magnetica arte (1644) del P. Atanasio Kircher

 

Dunque ritornaste a Galatina?

Si.

 

Ci racconti. Allora, della sua seconda visita al Santo!

Partimmo di mattina presto che era ancora buio sempre con lo stesso proprietario del biroccio. Quella volta mia madre si sedette accanto a me. Mio fratello Orlando rimase a casa perché doveva aiutare mio padre. Durante il tragitto quando venivo assalita dai dolori mi aggrappavo a mia madre e lei mi consolava. Nuovamente dovemmo passare per i paesi e quella cosa mi diede ancora molto fastidio. Non volevo mi vedessero in quello stato. Giungemmo a Galatina in prima mattinata e quella volta trovammo la porta della cappella aperta e molte tarantate con i loro accompagnatori erano già entrate dentro o si erano fermate fuori. Quel giorno vidi tante altre tarante, chi stava seduta mezza appisolata, chi balbettava qualcosa che non riuscivo a comprendere, chi muoveva freneticamente la testa con i capelli scompigliati, chi cercava di arrampicarsi sull’altare. Io avevo sentito dire che alcune tarante, anche se vecchie, si muovevano come ragni e si arrampicavano dove per tutti gli altri uomini non era possibile arrivare.  Mi avevano anche raccontato che alcune di loro riuscivano a diventare sinuose come le sacare al punto da riuscire a passare tra i piedi delle sedie senza muoverle o che alcune riuscivano a rimanere in equilibrio su uno spazio così piccolo (mima lo spazio di un palmo) senza cadere per tanto tempo. Erano tutte cose che mi erano state raccontate da gente che era stata prima di me, gente di cui potevo fidarmi. Quel giorno ebbi, invece, modo di vedere una tarantata che aveva preso per il collo un signore che indossava una cravatta rossa e nera. Si gettarono in otto su di lei per trattenerla. Se non l’avessero fatto lo avrebbe soffocato con le sue mani. Le tarantate avevano una forza straordinaria, una forza che nemmeno si può immaginare. Quando entrai nella cappella notai un uomo che stava come se stesse dormendo e una donna, che seppi essere sua moglie, che di fronte la statua del santo nella teca gli diceva: “Ma perché non gliela fai la grazia? Perché? Perché non gliela fai?”. Senza dire una parola andai al pozzo mi feci passare il secchio e ingurgitai moltissima acqua, ma davvero tanta. Subito ripresi a vomitare, una… due… tre… quattro volte, finché non mi sentii del tutto liberata dal veleno. Mi sentì allora subito bene, talmente bene come se non mi fosse accaduto nulla. Fu allora che mi avvicinai alla signora che interrogava il santo e le dissi: “Signora mia, guarda la statua del santo… vedi cosa indica col dito? Indica il pozzo! Se non fai bere a tuo marito tanta acqua quello non ti sana!”

La donna mi guardò riconoscente e mi disse che era più di un anno che suo marito versava in quello stato… non dava più segni di vita… non moriva ma nemmeno campava più. Si sentiva disperata!

Dissi a mia madre che mi sentivo davvero bene e che volevo ritornare a casa ma prima di andare al biroccio volevo passare a rendere omaggio a San Paolo e San Pietro presso la chiesa madre che distava poco. Mentre parlavo con mia madre fui fermata da un signore distinto che mi intervistò. Mi disse di essere uno studioso delle tarantate e io gli raccontai cosa mi era accaduto. Dopo ci recammo in chiesa e ringraziammo san Paolo e anche san Pietro. Fu allora che notai che la statua di san Pietro era molto più preziosa di quella di san Paolo. Era a mezzobusto tutta d’argento… era bellissima. Anche quella di san Paolo era bellissima ma era di cartapesta. Dopo aver detto le preghiere ritornammo dal proprietario del biroccio e lo vedemmo litigare con un signore.

 

Cosa era accaduto?

Cosa era successo? Era successo che il padrone del biroccio aveva legato il cavallo davanti a uno studio fotografico ed era andato a farsi quattro passi per fumarsi una sigaretta. Al ritorno aveva saputo che il suo cavallo con un colpo di muso aveva mandato in frantumi la cornice di un quadro di san Paolo e ora il proprietario dello studio pretendeva che aggiustasse la cornice. Noi proponemmo di dargli dei soldi per il danno ma lui fu irremovibile… ci disse: “fin quando non aggiustate il quadro e non lo appendete dove stava di qua non ve ne andrete!”. Allora con la santa pazienza convincemmo l’uomo del biroccio ad andare a trovare un falegname e un vetraio. Così accadde. Dopo tanto tempo riuscimmo a riparare il danno e fare finalmente ritorno a casa. Fu una giornata stancante… molto stancante, tanto per me quanto per mia madre.

Il ballo della tarantata, olio su tela di Daniele Bianco

 

Si recò altre volte a Galatina a rendere omaggio a san Paolo in occasione della sua celebrazione il 29 Giugno?

Certo! Ci andai quell’anno e altre due volte da sposata. Quell’anno andai in bicicletta perché avevo recuperato tutte le forze e mi sentivo bene. Avevo superato Corigliano d’Otranto quando venni superata da un biroccio che portava una tarantata che si stava scalmanando. Quella si mise a gridare: “Haiiiiiiiiiiii…haiiiiiiiiiii” e quel grido mi fece di colpo perdere tutte le forze. Stavo quasi cadendo dalla bicicletta e mi misi subito a tremare. Mi fermai e lasciai che si allontanassero, poi ripresi a pedalare verso Galatina.

 

È vero che il santo vi lascia i segni della sua presenza in prossimità della sua festività?

Si è vero! Da quando venni morsicata nel periodo della sua celebrazione mi sento strana… stanca, svogliata… frastornata diciamo! Anche adesso mi capita, poi quando mi dicono che è la festa di San Paolo capisco la causa del mio malessere. È il santo che vuole che mi ricordi del suo intervento prodigioso e allora gli recito un Rosario con tutti i misteri, mai per rinfaccio. È stato san Paolo che mi ha guarita non i medici!

 

La ringrazio di tutto signora. La sua testimonianza è davvero molto importante. Grazie ancora!

Grazie a lei… che santu Paolo e lu Signore vi benedica e vi protegga!

 

Typus Tarantiacorum saltantium. Dalla Phonurgia nova del P. Kircher (1673)

 

Analisi antropologica della testimonianza

L’esperienza vissuta dalla Sig.ra Domenica di Minervino di Lecce intorno alla metà degli anni ’50, praticamente a ridosso della spedizione di ricerca di Ernesto De Martino a Galatina e nel Salento, proprio perché slegata dal comune aspetto coreutico-musicale presente nel fenomeno catartico del tarantismo, risulta essere particolarmente preziosa ai fini di un’accurata indagine antropologica e sociale. Nel racconto emerge una forte fede religiosa nella vita della signora fin dalla sua giovane età. La signora Domenica apparteneva a una numerosa famiglia contadina legata alla mezzadria, ma non solo, di discrete condizioni economiche. La signora non ha mai sofferto di disturbi di natura psicosomatica né psichiatrica, né si annoveravano casi psicopatologici in famiglia come risulta da accurata indagine. La signora e la sua famiglia di appartenenza godeva nella sua comunità di ottima stima, stima che è proseguita anche nel paese del marito divenuta comunità di residenza una volta sposata.

È presente in lei, come precedentemente accennato, un fortissimo attaccamento all’ambito religioso che rasenta l’affabulazione. Mi risulta che la signora sia stata educata fin dalla sua giovanissima età dalla sorella minore di suo padre, una “suora di casa” che impossibilitata per motivi di salute a esercitare in convento i doveri in una non meglio specificata congregazione religiosa venne dispensata dai voti ed esercitò nella sua abitazione la missione cristiana di accoglimento, custodia cura religiosa degli infanti di genitori entrambi lavoratori. Anche gli altri suoi familiari (fratelli, sorelle e genitori) risultano essere tutti dei cattolici credenti e praticanti tutte le funzioni religiose.

Dalla sua narrazione emergono numerosi spunti d’indagine e riflessione quali:

  • La presenza di un rimando mitologico riguardo l’origine del fenomeno del tarantismo (metamorfosi di uomini e donne in tarante per punizione divina) che richiama alla mente la vicenda mitica di Atena e della tessitrice Aracne, fatto questo che lascia supporre una presenza latente di una rimembranza etnica nel sottobosco rurale demologico salentino;
  • Il convincimento pre-ippocratico che la malattia provenga dalla sfera divina per cause occulte, il più delle volte per una manchevolezza volontaria o involontaria del malato ma anche di alcuni suoi familiari;
  • L’emergere di una tradizione sapienziale diagnostica di natura rurale laddove altre tarantate o testimoni di tarantate convincono il malato a lasciar perdere l’iter medico-scientifico e di rivolgersi unicamente a quello religioso;
  • Un continuum di una presenza asclepiea nella vicenda che vede nell’acqua il farmakon per certi versi omeopatico (acqua amara e disgustosa) con cui si ottiene la salute perduta. Non va trascurata la vicinanza geografica e culturale con la tarantata Filomena da Cerfignano che nell’opera La Terra del Rimorso di Ernesto De Martino viene fotografata da Franco Pinna mentre esegue il rito dell’incubatio onirica di sicuro rimando iatromantico asclepieo. Incubatio onirica che nel caso specifico della signora Domenica è presente nella vicenda del sogno premonitore della madre;
  • Non si esclude che l’intervistatore della signora Domenica possa essere stato lo psichiatra Giovanni Jervis in persona o qualche suo stretto collaboratore poiché in quel periodo il neurologo era presente in zona per approfondire autonomamente il fenomeno del tarantismo prima di fare parte, dal 1959 al 63 dell’equipe di Ernesto De Martino;
  • In ultimo l’appartenere alla “ciclicità dell’evento” anche da vecchia a dimostrazione che nella signora permangono indisturbati due modi vi vivere la storia, quello ciclico del ritorno di radice religiosa arcaica e contadina, presente nel riproporsi del tenue malessere in corrispondenza del giorno della celebrazione del santo; e quello lineare cristiano, proprio invece della vita quotidiana, che procede inesorabile, con i suoi avvenimenti profani, verso la fine dei giorni.
Galatina, il pozzo di San Paolo

Antiche cure e rituali del tarantismo presso il mare, le sorgenti e i corsi d’acqua


 

di Gianfranco Mele

Oggi l’immagine più popolare del tarantismo è quella del ballo al chiuso delle mura domestiche, essendo stata una delle due forme rituali più recenti (l’altra, come noto, instauratasi in una fase successiva, è quella del pellegrinaggio nella chiesa galatinese dedicata a S. Paolo, che giunge anche a sostituire del tutto il rituale musicale domiciliare). Ma non sempre è stato così: forme più antiche son descritte da vari autori del passato e hanno come scenario a volte le strade e i crocevia, altre volte, e ancor più anticamente, ambienti arborei e/o acquatici. Come vedremo, il rituale domiciliare ha poi conservato questi elementi introducendoli (sia pur in modo rimaneggiato) all’interno delle mura domestiche. In “La terra del rimorso”, nella parte della trattazione dedicata agli scenari e all’ambientazione del rito, il De Martino ha ampiamente descritto questi aspetti. In questo scritto ripercorreremo e descriveremo in particolare gli scenari legati all’ambiente acquatico (e ai suoi “surrogati” domiciliari) cercando, per quanto possibile, di risalire ai significati e alle motivazioni del rito in acqua o con la presenza dell’elemento acqua.

E’ lo stesso De Martino, a riferirci che lo studioso orietano Quinto Mario Corrado, nel suo De copia latini sermonis (1581) ricorda come i tarantati “ad aquam, ad fontes, ad ramum viridem, ad umbras, ad amaena omnia rapiuntur[1]

Sempre il De Martino, ci fa notare che

“Atanasio Kircher […] attesta che nel luogo destinato alla danza venivano spesso collocate conche colme d’acqua, addobbate con erbe e rami verdeggianti: e dall’acqua e dalle fronde i tarantati traevano grandissimo diletto, sino al punto di tuffarsi nella conca, e di guazzarvi a mò di anitre”[2]

 

Epifanio Ferdinando nel 1621 riferisce una serie di comportamenti dei tarantati, fra cui quelli di “giovani donne che si buttano nei pozzi” e di altri che “si lanciano in mare”;[3] i tarantati sembrano trovare conforto alla vista del mare e dell’acqua, traggono giovamento dall’immergervisi, manifestano desiderio ardente di bagnarsi nel mare, e gioia al solo sentir parlare di mare o di acqua. Epifanio si dà una spiegazione di questo comportamento, sostenendo che

il veleno della tarantola non agisce esso solo in tutto e per tutto, ma essendo la sua costituzione secca, [i tarantati] amano quello che è opposto al secco, cioè l’acqua. Infatti nei tarantati l’immaginazione non è alterata a tal punto, come in quelli che sono stati morsi da un cane rabbioso, i quali hanno l’idrofobia e perciò, rabbiosi, rifiutano quel rimedio che a loro potrebbe giovare[4] 

 

Ma, altra cosa importante, Epifanio è a conoscenza del fatto che già secondo Dioscoride l’acqua del mare sana le persone morse dai ragni (e lo cita), così come cita   il medico persiano Rasis (854-930) il quale raccomanda l’immersione in acqua del mare per le persone avvelenate dai ragni.[5]

I tarantati trovano sollievo dall’acqua in genere, non solo quella del mare ma anche quella di conche e pozzi:

Perché alcune fanciulle tarantate si lanciano nei pozzi, esibiscono le parti intime, si strappano i capelli e gridano? La causa deve ritenersi la stessa, ma più intensa: infatti, quanto più secca sarà la tarantola, più intensi diventeranno questi sintomi.[6]

 

Come le tarantole amano l’umidità, così secondo Epifanio la prediligono le persone che ne son state morse:

Perché alcuni gioiscono a sentire nominare il mare e i canti che fanno riferimento al mare? La causa risiede in quello che si è detto: in conseguenza della secchezza del temperamento, sembrano amare l’umidità sia le tarantole, sia le persone che sono state morse da esse. Noi conosciamo molti che non trovano sollievo se non si immergono nell’acqua delle conche o nei pozzi, legati ad una fune per non annegare.” [7]

 

Epifanio descrive anche i rimedi balneoterapici indicati dal Rasis:

Rasis ha prescritto molti rimedi utili, come il bagno in acqua calda, teriaca, succo di foglie di mora, vino puro, aglio, cumino, agnocasto, l’immersione nell’acqua del mare riscaldata, la sudorazione abbondante”.[8]

 

Cita poi il medico greco Rufo di Efeso (I sec.-II sec. d.C.):

Rufo raccomanda più di tutto la teriaca, il bagno e il vino vecchio”.[9]

 

Ancora, sui bagni:

Ezio, nel libro XIII, cap. 18 e Paolo, libro V, cap. 7, fra gli altri rimedi, lodano molto l’aglio, il vino e i bagni; ugualmente nel libro V, cap. 27.[10]

Anche il medico Giorgio Baglivi parla, nel 1696 (Dissertatio de anatome, morsu et effectibus tarantulae), della presenza dell’acqua nel rituale, e, in questo caso, di fosse scavate all’esterno, nel terreno, nelle quali i “malati” si immergevano. Nell’acqua, i tarantati immergevano anche fronde e rami verdi che poi si ponevano in testa. De Martino ne fornisce sunto:

… il medico dalmata Giorgio Baglivi, non manca di accennare ai pampini e ai rami fronzuti che i tarantati agitavano e immergevano nell’acqua, per adornarsene poi il capo; e accenna anche al ricorrente gesto che i tarantati eseguivano di immergere nell’acqua mani e capo. Non parla a dir vero di tino o conca apprestati al centro dell’ambiente, ma di un fosso scavato nel terreno, e colmato d’acqua, onde l’immergersi in esso richiama al Baglivi non già, come nel Kircher, l’immagine di anitre che starnazzano, ma quella di maiali che si voltolano nel fango”.[11]

 

Dei balli nell’acqua, e in questo caso nel mare, parla dettagliatamente anche il naturalista seicentesco Paolo Silvio Boccone, che scrive:

“Una delle forze, e fatiche incomprensibili, che hanno, e che ci assicura non esservi finzione, si è quella, che per un quarto d’hora, e più di seguito girano intorno, come un Arcolaio, con impeto, e furore; l’altra è di voler ballare in Mare, e però vi si gettano con violenza, e cecità tale, che gli astanti sono obbligati a legare i Pazienti alla poppa della Barca in mezzo alle acque, e li Sonatori di dentro suonano, e in quella forma resta satisfatta l’imaginazione depravata, e corrotta degl’Infermi.” [12] 

 

Il De Martino, proprio in riferimento a questi passi del Boccone, scrive:

“… il suicidio per eros precluso, l’impulso di morte per disperato amore, la corsa verso il mare per scomparire nelle onde trovavano orizzonte in un rito ch’era praticato a Taranto e a Brindisi: il tarantato in crisi, legato con una fune alla poppa di una barca, veniva fatto baccheggiare a suo agio nelle acque del mare, mentre i suonatori in barca cercavano di imporre al disperato il ritmo delle loro melodie[13]

 

Nel passo suddetto il De Martino non sembra sottolineare tanto il ruolo curativo dell’acqua, quanto il gesto disperato della corsa verso il mare, e rispetto al quale i parenti del tarantato si adoperavano a “limitare i danni” legandolo alla poppa o ricreando per lui il contesto acquatico in ambiente più “protetto”: rimarca questo aspetto quando in un passo successivo descrive la presenza delle conche d’acqua come surrogati casalinghi del mare, e, a seguire, parla, riprendendo i Kircher, dell’episodio di un cappuccino di Taranto il quale, morso dalla tarantola, corre con impeto verso il mare e là vi trova la morte:

C’è da chiedersi se la tradizionale conca colma d’acqua nella quale diguazzavano i tarantati non assolvesse almeno in dati casi la funzione di modesto surrogato casalingo in cui spegnere simbolicamente un ardore che nel suo cieco trasporto poteva sospingere a disperate fughe verso il mare e a pericolosi salti in acqua: come fu il caso di quel cappuccino di Taranto, cui i superiori avevano proibito di eseguire l’esorcismo musicale e che un giorno, irresistibilmente stimolato dal suo impulso di immersione, fuggì dal convento come folle e con tanto impeto si inoltrò nel mare da trovarvi non già refrigerio al suo male, ma miserabile morte per annegamento”.[14]

 

Eppure il De Martino, nel capitolo della sua trattazione intitolato “Tarantismo e cattolicesimo”, affronta il tema dell’acqua risanatrice e “miracolosa” del pozzo di San Paolo, ma evidentemente non la mette in stretta relazione con questi altri aspetti del rituale acquatico.

Laddove non era presente o non era immediatamente raggiungibile un ambiente acquatico (ed arboreo, altra caratteristica dell’ambientazione più antica del rito), questo veniva ricreato “artificialmente”, anche tra le mura domestiche: ancora una volta, è il De Martino a notarlo, riportando passi del De Phalangio Apulo di Ludovico Valletta (monaco della congregazione dei Celestini al convento di Lucera). Scrive il De Martino:

“Ludovico Valletta […] conferma che talora i tarantati gioivano «alla vista di limpide acque, e di fonti artificiali che con soave mormorio scorrevano in un tino apprestato alla bisogna», compiacendosi di verdi fronde spiccate di fresco dagli alberi e disseminate qua e là nell’ambiente destinato alla danza, e ciò «per rappresentare in qualche modo una selva».”[15]

 

Successivamente, il Valletta descrive le spese che le famiglie dei tarantati son costrette a sostenere per l’organizzazione dell’intero rituale di cura (compensi in denaro, regali e vitto per i musicisti; ingaggio di giovinette abbigliate in abiti nuziali con il compito di danzare con i tarantati; spese varie per l’arredo – compreso il fitto di armi da appendere alle pareti o l’ acquisto di drappi multicolori -), e fa riferimento anche alle spese per la ricostruzione dello scenario acquatico-arboreo:

E faccio grazia di molti altri sussidi e opportunità di cui si servono gli intossicati sia al fine di sollevare e rallegrare gli animi mesti durante la danza, sia perchè di queste cose hanno bisogno per qualche motivo: come, per esempio, fonti artificiali di limpida acqua congegnate in modo che l’acqua, raccolta, torna sempre di nuovo a versarsi: le quali fonti son ricoperte e circondate di verdi fronde, di fiori e di alberelli […]”[16]

 

Anche il Valletta descrive il rituale della sospensione al soffitto con una fune (pratica che ai tempi delle indagini sul campo di De Martino è già in disuso e della quale, come lui osserva, gli intervistati conservano solo il ricordo): al termine del dondolio con le mani strette alla fune, e ad essa aggrappata con tutto il corpo, la tarantata, sudata, si immergeva in acqua:

A motivo di questa agitazione e dell’incredibile fatica sopportata, tutto il corpo e soprattutto il volto della donna erano coperti di sudore copioso, finchè infiammata da così strenua agitazione correva anelante al gran tino colmo d’acqua apprestato a sua richiesta, e vi immergeva completamente il capo, onde trarre con l’acqua fredda qualche lenimento al dolore che l’avvampava”.[17]

illustrazione dal testo del Valletta

 

Il Serao fa riferimenti sia ai balli in mare che alla presenza dell’acqua nel rituale domiciliare. Riferendosi alla ricerca di Epifanio Ferdinando, scrive:

Cerca egli, verbigrazia, perchè i Tarantati si compiacciano di farsi seppellire fino al mento nella terra: perchè amino di cercar luoghi ermi , e desolati, e sogliano fin anche aggirarsi volentieri intorno a’ sepolcri, e cimiteri : perchè altri si gettino in mare; altri urlino; altri si avventino per mordere questo e quell’altro: perchè il sono delle campane loro ecciti passione, e mestizia: perchè cerchino di esser sospesi da una fune; o messi in una culla, e quivi dimenati, come si fa co’ fanciulli. Perchè le giovinette si sieno talora precipitate nei pozzi; perchè le medesime senza alcuno ritegno facciano altre sconcezze: si strappino i capelli: vogliano sentir le canzoni, in cui sia nominato il mare.[18]

 

In riferimento al rituale domiciliare, il Serao così descrive il ruolo e le funzioni dell’acqua:

Ben credo d’intendere, perchè vogliano che loro si pongano avanti degli specchi; e molto meglio e più facilmente perchè cerchino de tinelli, e de’ bacini pieni d’acqua; o almeno perchè i pietosi spettatori arrechino di questi ordigni in vicinanza de Tarantolati che danzano: poichè vanno essi di tanto in tanto a tuffar la testa nell’acqua, e ripigliano perciò lena, quando sono più trafelati e molli di sudore.”[19]

frontespizio del testo del Serao

 

Il Berkeley, nel suo “Diario di viaggio in Italia” (primi del ‘700), descrive tra le altre cose l’abitudine dei tarantati di gettarsi nel mare di Taranto:

“A Taranto vivono diverse famiglie nobili. Anche qui abbiamo assistito alla danza di un tarantato. […] Il console ci ha detto che tutti i ragni, ad eccezione di quelli con le zampe più lunghe, se ti mordono, provocano i tipici sintomi, benché non così forti come quelli dei ragni più grandi di campagna. Ha poi aggiunto che la tarantola provoca un forte dolore e un livido che si estende su tutta la zona circostante il morso ed anche oltre. Non credo che fingano, la danza è davvero faticosa. Inoltre, ha raccontato che i tarantati siano vittime di una pazzia febbrile e che a volte, conclusa la danza, si gettavano in mare e finivano per annegare se qualcuno non li avesse salvati. “[20]

 

Il leccese Nicola Caputi nel suo De tarantulae anatome et morsu, descrive gli scenari del rito e la presenza costante dell’acqua anche in ambito domiciliare:

“La camera da letto destinata al ballo dei tarantati sogliono adornare con rami verdeggianti cui adattano numerosi nastri e seriche fasce di sgargianti colori. Un consimile drappeggio dispongono per tutta la camera; e talora apprestano un tino, o una sorta di caldaia molto capace, colma d’acqua, e addobbata con pampini di vite e con verdi fronde di altri alberi; ovvero fanno sgorgare leggiadre fonticelle di limpida acqua, atte a sollevare lo spirito, e presso di queste i tarantati eseguono la danza, palesando di trarre da esse, come dal resto dello scenario, il massimo diletto. Quei drappi, quelle fronde e quei rivoli artificiali essi vanno contemplando, e si bagnano mani e capo al fonte: tolgono anche dal tino madidi fasci di pampini, e se ne cospargono il corpo interamente, oppure – quando il recipiente sia abbastanza capace – vi si immergono dentro, e così più facilmente sopportano la fatica della danza.”[21]

 

Questa la descrizione che il ricercatore ottocentesco Giovan Battista Gagliardo offre delle danze delle tarantate presso il podere Malvaseda nei pressi di Taranto:

“Succede al promontorio della Penna il podere Malvaseda nome di un’estinta famiglia Tarentina, il quale è innaffiato da’ varj canaletti di acqua perenne. Qui nelle belle giornate d’inverno concorrono i Tarentini per mangiarvi il pesce fresco, le ostriche, ed altre conchiglie.

Il vedere in quei giorni tutta questa campagna, la quale è piena di agrumi, e di ogni specie di alberi da frutto, popolata da famiglie sparse qua, e la, tutte intente a preparare il pranzo, e quindi sdrajate per terra divorarselo, ricordano le belle adunanze greche che terminavano colla danza, come finiscono anche le moderne. Dopo il pranzo unisconsi le varie compagnie e ballano al suono della chitarra la pizzica pizzica, ballo che esprime tutta la forza dell’entusiasmo, e di quel clima, che diede occasione ad Orazio di chiamarlo molle.

Concorrevano anche qui una volta le Tarantolate. Credevano quelle maniache, e facevano crederlo anche ai loro amanti, che senza rivoltarsi nell’acqua, ciò che dicevano Spupurare, non sarebbero guarite. Grazie alla filosofia, alla quale le femmine debbono ora la libertà che prima era loro negata, non vi sono più tarantolate né in Taranto, né nel resto della Provincia. “[22]

 

La ricercatrice inglese Janet Ross intraprende intorno al 1888 un viaggio in Italia: nella sua tappa pugliese è accompagnata dal manduriano Giacomo Lacaita. Assiste al ballo della “pizzica-pizzica” presso la masseria di Leucaspide a Statte (Taranto), e successivamente conosce un altro manduriano, Eugenio Arnò, al quale rivolge una serie di domande sul tarantismo.[23] La descrizione che Eugenio Arnò offre del tarantismo è molto particolare, come la stessa ricercatrice osserva, poiché l’ Arnò distingue fra “tarantismo secco” e “tarantismo umido”, indicando con quest’ultimo termine l’usanza di ballare presso sorgenti d’acqua. Vediamo, a seguire, uno stralcio del testo della Ross:

“Le informazioni che mi diede Don Eugenio, spettatore di centinaia di casi, differiscono da quelle avute da altri. Egli mi diceva: Esistono varie specie di quest’insetto che ha differenti colori, e vi sono due specie di tarantismo, quello umido e quello secco. Le donne, quando lavorano nei campi di grano, sono più soggette ad essere morsicate a causa delle poche vesti che portano addosso, durante il caldo eccessivo. Il male si annunzia con una febbre violenta, e la persona colpita di dimena furiosamente in tutti i versi gridando e lamentandosi. Allora subito si fanno venire dei musicanti, e se la musica che si suona non incontra la fantasia della tarantata (o tarantato, vale a dire la persona morsicata), la donna ( o l’uomo) si contorce e si lamenta più forte, gridando ”no, no, no questa canzone“. I musicanti allora cambiano immediatamente motivo, e il tamburello strepita e picchia furiosamente per indicare la differenza del tempo. Finalmente quando la tarantata trova la musica che fa per lei, si slancia d’un balzo e si mette a ballare freneticamente.

Se poi si tratta di ”tarantismo secco“, i parenti cercano il colore dell’insetto che l’ha morsicata, e le adornano le vesti e i polsi di nastri dello stesso colore dell’insetto, bianco o celeste, verde, rosso o giallo. Se nessun colore risponde a quello che si cerca, allora vien coperta da strisce di ogni colore, che svolazzano intorno a lei come essa balla, si dimena, si agita con le braccia per aria, da vera indemoniata. La funzione o cerimonia si comincia generalmente in casa; ma va a finire sempre per la strada, sia per il caldo, sia per la tanta gente che si raccoglie. Quando finalmente la “tarantata” si calma, vien messa in un letto caldo, dove dorme qualche volta sino a diciotto ore di seguito. Pel “tarantismo umido“, i musicanti vanno a sedere per lo più vicino ad un pozzo, dove la tarantata viene irresistibilmente attratta; e mentre la disgraziata balla, un numero straordinario di parenti e di amici la inondano d’acqua, per cui, diceva Don Eugenio, ”è incredibile la quantità d’acqua benedetta che viene consumata“. E ne parlava con vero dispiacere, perché in Puglia non è difficile il caso, che il bestiame muoia in estate per mancanza d’acqua. Pare che il “tarantismo umido” sia quello peggiore, perché talvolta la febbre si prolunga a sino a settantadue ore; ma in tutti e due i casi, fui assicurata che se i musicanti non sono chiamati, la febbre continua indefinitivamente, e viene qualche volta seguita da morte.[24]

 

Albero millenario Leucaspide (disegno Carlo Orsi) dal testo di Janet Ross

 

Antoine Laurent Castellan, riportando osservazioni sul tarantismo compiute durante un suo viaggio a Brindisi nel 1897, scrive:

Qui si crea l’opinione che i malati fuggano dalla società, cerchino l’acqua con avidità e ne approfittino anche se non sono osservati; si crede anche che a loro piaccia essere circondati da oggetti i cui colori sono molto vivaci.[25]

illustrazione dal testo di Antoine-Laurent Castellan Lettres sur l’ Italie (1819)

 

Sempre in un contesto di fine Ottocento, anche il manduriano Giuseppe Gigli riferisce della presenza di acqua durante i balli:

Alcuni usano ballare nelle case; altri nei crocicchi delle vie; alcuni vestiti a festa, altri quasi seminudi; alcuni tenendo in mano i fazzoletti, o simili adornamenti femminili, altri reggendo pesanti arnesi della casa. Uno dei più barbari balli è quello che taluni fanno nell’acqua. E non solamente nell’acqua si agitano per mezza persona, ma continuamente se ne versano con un catino sul capo e sulle spalle. E’ una cosa che muove a pietà, a sdegno per così orribile pregiudizio![26]

 

Esula dal tema di questo scritto l’occuparci in modo approfondito degli altri dettagli tipici dell’ambiente del rito domiciliare, tuttavia ne faremo un accenno, per completezza espositiva: come ci ricorda il De Martino, altri oggetti rituali sono le spade per il combattimento rappresentato durante la danza, gli specchi (nei quali i tarantati di tanto in tanto si contemplavano),[27] i nastri multicolori, i drappi, e fazzoletti, scialli, monili con i quali spesso le tarantate si adornavano.

Un ruolo particolare come abbiamo evidenziato più volte lo avevano anche le fronde e i rami degli alberi (una delle funzioni di questi addobbi posti nelle case dove si svolgeva il rito, era, secondo il De Martino, quella di ricostruire l’ambiente arboreo (insieme a quello acquatico), erbe varie, e/o, come riferisce Anna Caggiano a proposito dei tarantolati tarantini, vasi con piante vive. Nella descrizione della Caggiano, ritorna (e siamo già nel 1931) l’acqua:

tutte le comari offrono – in prestito s’intende – fazzoletti, scialli, sciarpe, sottane, tovaglie d’ogni colore, vasi di basilico, di cedrina, di menta, di ruta, specchi e gingilli ed infine un gran tino pieno d’acqua. L’ambiente viene così addobbato e quando tutto è pronto la morsicata, vestita di colori vistosi, sceglie a suo gusto nastri, fazzoletti, sciarpe, che le ricordano i colori della tarantola, e se ne adorna in attesa dei suonatori” [28]

 

Le piante poste a “decorazione” dell’ambiente del rito, secondo alcune interpretazioni fungevano anche da stimolo olfattivo, ai fini di una sorta di aromaterapia: è lo stesso De Martino a dedurlo e specificarlo,[29] anche se non specifica che molte di esse, e in particolare quelle che vengono nominate nel passo della Caggiano, nella medicina antica erano impiegate come rimedio specifico contro i veleni e contro i morsi di animali velenosi (ma affronteremo questo tema in altro scritto).

La “cura con l’acqua” (per i morsi delle tarantole, degli aracnidi e degli animali velenosi in genere) sia con l’acqua dolce che con l’acqua di mare, risale alla medicina antica (abbiamo già accennato a Dioscoride), e viene indicata come rimedio specifico sino ai tempi della letteratura medica ottocentesca, e difatti scrive nel 1859 il medico Achille Vergari:

“In certi luoghi la stufa secca forma l’unico mezzo curativo de tarantolati. I bagni d’acqua calda possono adempiere al la stessa indicazione. Si crede che l’acqua di mare sia meglio per più ragioni. […] Quando forti dolori vessano i tarantolati, conviene l’ uso dei bagni d’acqua calda, le stufe secche, e le vaporose. Quindi Mercuriale sull’avviso di Avicenna e di Aezio diceva, che gli avvelenati dalle tarantole con dolori deggiono essere posti ne bagni (Merc. de morbis venenosis. L. Il. C.V. p.39.)” [30]

 

Dunque i bagni nell’acqua (e spesso nell’acqua calda) costituiscono un rimedio e una usanza di tipo strettamente medico contro i veleni, sin dai tempi antichi, e si ritrovano, come abbiamo accennato e come vedremo più avanti, nelle prescrizioni di Dioscoride (I sec. d.C.), Rufo di Efeso (I – II sec. d.C.), Aezio (VI sec.), Avicenna (980-1037), Girolamo Mercuriale (1530-1606), Andrea Mattioli (1501-1578), Ambrogio Parco (XVI sec. anche costui) fino alla medicina ottocentesca.

La medicina popolare, come noto, è fortemente intrisa di conoscenze sia empiriche che nozionistiche, trasmesse e accumulate oralmente attraverso la tradizione, nei secoli, e provenienti, in genere, dalla medicina più antica. Ad una cura contro i veleni a base di balneazioni nota e praticata da millenni, si aggiunge, nel rituale del tarantismo, la musica come complemento, contenimento e rimedio ad uno stato di eccitazione motoria provocato dal veleno (reale o immaginario che fosse), che gradualmente va a soppiantare totalmente la cura balneare (della quale tuttavia restano residuati o reminiscenze simboliche inserite nel rito terapeutico domiciliare).

Come abbiamo anticipato, anche Dioscoride individua i bagni nell’acqua come rimedio contro i veleni. Nelle indicazioni del medico greco si ritrova, fra i vari rimedi, come indicazione per la cura degli avvelenamenti in genere, il bagno in acqua calda. Ma come vedremo più avanti, il Dioscoride indica proprio nei bagni dell’acqua di mare il rimedio specifico per punture di ragni e scorpioni.

La cura per i morsi di animali ritenuti velenosi tramite l’ acqua (in questo caso di sorgenti, aventi anche la caratteristica di essere “calde”) era praticata anche nella Sardegna di alcuni secoli fa. In un manoscritto anonimo (intitolato “Delle tarantole”) della fine del XVII secolo – inizi XVIII, edito da Crsec Galatina si legge:

La Tarantola solfuga, che nasce nell’ isola della Sardegna, ha pure di proprio li sovradetti sintomi, il nome di Serpente, ed il suo veleno ha per controveleno i medesimi medicamenti; afferma Giulio Salino, famosissimo ed antichissimo scrittore, nelle sue Istoriche descrizioni del Mondo, dove tratta dell’Isola di Sardegna: «la Sardegna è priva di serpenti, vi è soltanto, in vari luoghi nei campi della Sardegna, la “solfuga”, insetto molto piccolo privo di ali, simile ai ragni; è chiamata “sol fuga” poiché evita la luce e preferisce stare nelle miniere d’argento: si muove in modo poco visibile e, se uno senza vederla le si siede sopra, ne è morso»; e poco dopo, parlando del modo di curare questo veleno, soggiunge: «in alcuni posti vi sono sorgenti molto calde e salutari, che sono medicamentose: saldano le fratture ossee, annullano gli effetti del veleno della “solfuga” o quelli di punture di varie piante e animali».[31]

 

Lo stesso Epifanio aveva parlato della Solfuga e delle fonti di acqua risanatrice:

Quante sono le specie di ragni? Rispondo che noi troviamo 21 specie, infatti oltre le diciassette enumerate sopra, secondo le Storie delle Indie di Oucto, libro XV, cap. 3, c’è un’altra specie di tarantola che prospera a Ispaniola, isola del Nuovo Mondo, che è tanto grande da gareggiare col cancro gigante, della quale fino ad oggi non abbiamo nessuna conoscenza diretta. La diciannovesima è quella che secondo Solino e Isidoro, cap. 2, libro XI, si chiama solfuga e vive in Sardegna. È una specie di ragno e odia la luce, per questo di chiama solfuga; con il suo morso procura all’uomo un danno mortale, ma la natura o Dio Ottimo Massimo, per non lasciare niente senza uguale, ha prodotto lì delle fonti, la cui acqua bevuta da chi è stato morso funge da bezoartico[32]

 

La Solfuga o Solìfuga cui fanno riferimento questi autori, nonostante il nome generico e improprio, è da identificarsi nel Latrodectus tredigimguttatus, il ragno il cui morso sta probabilmente alle origini delle credenze sviluppatesi attorno alla “tarànta”, al suo veleno e ai sintomi del suo morso, e che ha un suo corrispettivo mitico-rituale nell’ Argia sarda.[33]

Tornando al ruolo dell’acqua, un cenno va fatto anche all’acqua del Fonte Pliniano manduriano, che, sembra di capire dalle parole di un altro medico, il Pasanisi, doveva essere utilizzata, almeno sino al Settecento, per la cura del tarantismo. Il Pasanisi ne accenna, tuttavia, per confutare l’idea che l’acqua del fonte mandurino possa contrastare gli effetti del veleno:

Può essere preservativo del tarantismo? Se il tarantismo, secondo il pensare di molti moderni, anche leccesi (fra gli autori leccesi è il cavalier Carducci nell’ annotazioni sopra il libro intitolato Delizie tarantine), non è effetto del morso velenoso della tarantola, ma un particolare morbo de’ pugliesi e del genere dei deliri melancolici, farebbe certamente un grande preservativo. Ma se poi sia effetto del veleno della Tarantola, come altri sostengono, sarebbe inutile fidarsi all’acqua di Manduria“. [34]

 

Nel Dioscoride del Mattioli si legge:

Dell’acqua marina. […] E’ veramente salutifera alle punture velenose, specialmente degli scorpioni, di quei ragni che si chiamano phalangi, e degli aspidi, i quali inducono tremore, e frigidità nelle membra: il che fa anchora entrandosi in essa calda”.[35]

 

Ancora, Il Mattioli cita Aezio, medico bizantino del VI secolo, scrivendo:

Dei segni universali dei morsi dei Phalangi, e parimenti della cura, scrisse complicatamente il medesimo Aezio nel luogo sopradetto, così dicendo. […] si causa frigidità nelle ginocchia, ne i lombi, nelle spalle: aggravasi alle volte tutto il corpo: i dolori punto non cessano, il sonno si perde, e fassi la faccia non poco pallida, e smarrita. In alcuni nasce nella verga non poco stimolo del coito, con prurito di testa, e di gambe: fanno gli occhi lacrimosi, torbidi, concavi: il ventre inegualmente si gonfia, e gonfiasi oltre a ciò tutta la persona, la faccia, e massimamente quelle parti, che sono intorno alla lingua, di modo che non poco impediscono la loquela. Sono alcuni pazienti, che non possono orinare, quantunque n’habbiano desiderio, se non con dolore: e quantunque pure orinino, fanno l’orina acquosa, nella quale si veggono alcune cose simili alle tele dei ragni: il che similmente si vede nei vomiti loro, e nelle feccie, che vanno del corpo. Messi i pazienti nell’acqua, s’alleggeriscono d’ogni dolore: ma come se ne vengono fuori, si dogliono non pco nelle parti vergognose, e lor tira la verga fuori di modo, come che ne i vecchi intervenga tutto il contrario perciocchè in loro quelle membra del tutto si rilassano. […] Giovano ne i morsi di tutti i continui bagni […]”.[36]

 

Successivamente il Mattioli parla anche della cura del “veleno delle tarantole” “con la musica dei suoni, e col lungo ballare[37] ma risultano particolarmente interessanti le citazioni di cui sopra, per capire come tutta la sintomatologia attribuita al morso e al veleno dei “falangi” non solo abbia un riscontro in quella che nel Salento è attribuita al morso della “tarantola” (nome generico dato a un non meglio identificato ragno: non è assolutamente detto che ci si riferisse alla Lycosa piuttosto che non al Latrodectus oppure a tutte le specie di ragni più o meno velenosi), ma soprattutto che sin dall’antichità i bagni e l’acqua (e in particolare l’acqua calda e l’acqua marina) sono considerati strumenti terapeutici al fine di contrastare gli effetti del veleno.

Continuando con le citazioni sugli elementi acquatici nel rito e nel ballo, facciamo alcuni cenni sulla presenza costante dell’acqua e del mare anche nelle canzoni: a parte i numerosi versi che parlano di malinconiche storie d’amore (in genere perduto) e d’attesa in cui son presenti mari, naufragi, partenze per mare, almeno due canti in particolare sembrano delineare o quantomeno rievocare il quadro del rituale acquatico. Uno è quello pervenutoci tramite il De Simone, l’altro ci perviene tramite il Kircher. Il primo:

Mariola Antonia! Mariola te lu mare!

Taranta Mariola pizzica le caruse tutte quante !

Pisce frittu e baccalà e recotta cu lu mele,

maccaruni de Simulà.

(nota del De Simone): “… la tarantata risponde, esclamando”:

Ohimme! Mueru! Canta! Canta!

 

Il canto “allu mari”, citato dal Kircher nel Magnes sive, è ripreso anche dal De Martino:

Allu mari mi portati,

se volete che mi sanati!

Allu mari, alla via!

Così m’ama la donna mia!

Allu mari, allu mari:

mentre campo t’aggio amari!

 

Come abbiamo già visto, Epifanio Ferdinando nel 1621 ci fa sapere che i tarantati amavano udire il nome del mare, e “canti che narravano episodi in cui aveva parte il mare[38] : “tarantati gaudent audire nomen maris, et cantilenas de mare mentionem facientes”.[39]

In conclusione, l’elemento acqua ricorre sin dall’antichità come cura specifica per i morsi di una serie di animali ritenuti velenosi, così come anche nelle forme e nei riti più antichi ascrivibili al tarantismo.

Il rituale dell’acqua non solo è, dunque, antichissimo e precedente, nella cura del tarantismo, a quello domiciliare (che tuttavia ne conserva elementi come la presenza di tinozze o bacinelle), ma ha evidentemente una origine e una motivazione prettamente “medica”: sin dall’antichità si ritiene che i bagni in acqua, e specie nell’acqua del mare, giovino e siano rimedio alle morsicature da aracnidi e altri animali velenosi o ritenuti tali.

Antidotum Tarantulae, dal Magnes sive de magnetica arte (1644)

 

NOTE

[1]
Q. Marii Corradi Uretani, De copia latini sermonis, libri quinque. Ad Camillum Palaeotum, cum eius ipsius vita & aliis, quae versa pagina indicabit, Venetiis, apud Franciscum Zilettum, Venezia, 1581, V, pag. 171; vedi anche Ernesto Ernesto De Martino, La Terra del Rimorso, Il saggiatore, Milano, 1961, pag. 127

[2]            Ernesto De Martino, op. cit., pag. 128; qui De Martino traduce e riassume da Athanasius Kircher, Magnes sive de Arte Magnetica opus tripartitum, Colonia, 1643 (1a ed. Roma 1641), pag. 759

[3]            Epifanio Ferdinando, Centum historiae, Venezia, 1621, storia LXXXI “De morsu tarantulae”, trad. da Silvana Arcuti, Epifanio Ferdinando e il morso della tarantola, Edizioni Pensa Multimedia, Lecce, 2002. Epifanio descrive anche altri comportamenti bizzarri, come quello dell’aggirarsi tra i sepolcri, del calarsi in una tomba e stendersi in un feretro in compagnia del defunto, ma anche di donne che mostrano i genitali, si strappano i capelli; riferisce di altri che cantano nenie, son tristi, desiderano essere dondolati in un letto pensile, altri che chiedono di essere ricoperti di terra fino al collo, altri che si rotolano per terra, altri che supplicano di essere frustati

[4]            Silvana Arcuti, Epifanio Ferdinando e il morso della tarantola, Edizioni Pensa Multimedia, Lecce, 2002, pag. 64

[5]    Ibidem

[6]    Ibidem

[7]    Ivi, pag. 65

[8]    Ibidem

[9]    Ibidem

[10]  Ibidem

[11]  Ernesto De Martino, op. cit., pag. 129; cita qui Giorgio Baglivi, Dissertatio de anatome morsu et effectibus tarantulae, in Opera Omnia, Venezia, 1754; Dissertatio VI, pag. 314. Il De Martino, citando il Baglivi ed Epifanio Ferdinando, evidenzia anche l’utilizzo dell’altalena nel tarantismo antico, e più in generale di funi di sospensione appese agli alberi (nel rito domiciliare appese al soffitto) ricollegandolo (come del resto fa il Kircher) all’imitazione del comportamento del ragno che sta appeso ai fili della ragnatela oscillante al vento. La pratica dell’altalena è ritenuta dal De Martino parte integrante e originatasi dal rito all’aperto (nel duplice scenario arboreo ed acquatico):“La pratica dell’altalena, come è evidente, è legata all’esorcismo all’aperto, presso alberi e fonti; nell’esorcismo a domicilio si cercava di imitare lo scenario vegetale e acquatico e l’altalena si tramutava in una fune sospesa al soffitto, alla quale i tarantati si reggevano nel corso della loro danza...” (De Martino, cit., pag. 129)

[12]  Paolo Boccone, Intorno la Tarantola della Puglia, in: Museo di Fisica e di Esperienze variato, e decorato di Osservazioni Naturali, Note Medicinali e Ragionamenti secondo i Princìpi de’ Moderni, Venezia, 1697, pag. 103

[13]  Ernesto De Martino, op. cit., pag. 145

[14]  Ernesto De Martino, op. cit., pag. 145. Qui il De Martino cita il Kircher, Magnes sive, pag. 768

[15]  Ernesto De Martino, op. cit., pag. 128; con citazione di Ludovico Valletta, De phalangio apulo, Napoli 1706, pp. 77 e sgg.

[16]  Ludovico Valletta, op. cit., pag. 92; cit. in Ernesto De Martino, op. cit., pag. 128

[17]  Ludovico Valletta, op. cit., pag. 76

[18]  Francesco Serao, Della Tarantola o sia Falangio di Puglia, Lezioni Accademiche, Napoli, 1742, pag. 156. Sul farsi seppellire nella terra, citato in questo passo, vedi anche paralleli con il rito dell’argia sarda (in De Martino, op. cit. pag. 196): “L’esorcismo è effettuato a suonatori e ballerini, mentre l’avvelenato viene sepolto sino al collo nel letame o in una fossa ricoperta poi di terra, oppure lasciato al suolo in preda alla crisi: in quest’ultimo caso può aver luogo o meno la sua partecipazione al ballo

[19]  Francesco Serao, op. cit., pp. 5-6

[20]  George Berkeley, Diario di viaggio in Italia (1717 – 1718), trad. it. a cura di Nicola Nesta, Ed. Digitali CISVA 2010, pp. 53-54

[21]  Nicola Caputi, De tarantulae anatome et morsu, Lecce, 1741, pag. 201

[22]  Giovanni Battista Gagliardo, Descrizione topografica di Taranto, pp. 64-65, Napoli, 1811

[23]  Janet Ross racconta di queste esperienze ella sua opera The Land of Manfred prince of Tarentum, edita a Londra nel 1889. Vi riporta anche i testi di tre canzoni popolari che ha raccolto: trascrive tre canzoni: Riccio Riccio, Larilà e La Gallipolina.

[24]          Janet Ross, La Terra di Manfredi ( La Puglia nell’800), trad. I. Capriati, Tip. Vecchi, Trani, 1899, pp. 138- 140

[25]          Antoine Laurent Castellan, Lettres sur l’ Italie, faisant suite aux lettres sur la morée, l’ Hellespont et Costantinople, Tomo I, Parigi, 1819, Lettre IX, pag. 82

[26]          Giuseppe Gigli, Il ballo della tarantola. In “Superstizioni, pregiudizi, credenze e fiabe popolari in Terra d’Otranto” Firenze 1893.

[27]  Nelle varie descrizioni e interpretazioni relative alla presenza degli specchi, questi oggetti vengono identificati come funzionali a una non meglio specificata auto-contemplazione, a volte specificamente interpretati come funzionali ad una sorta di auto-ammirazione narcisistica; da parte di alcuni autori si dice che nello specchio (e/o anche nell’acqua o nella bacinella d’acqua fungente da specchio) i tarantati “vedevano” la Tarantola che li aveva morsi, ma non è da escludersi una funzione dello specchio di tipo medico-diagnostico: nella antica medicina, difatti, lo specchio (e anche lo specchiarsi nell’acqua) era utilizzato per verificare il grado di avvelenamento e di malattia, e la compromissione delle facoltà del paziente. Nel Sesto Libro di Dioscoride del Mattioli, si legge: “Riferisce Avicenna, che quantunque temano i pazienti l’acqua, si può tenere nondimeno speranza di salute, pur che rimirando nello specchio, riconoscano se stessi. Il che dimostra, che si possa havere speranza di curare nel timor dell’acqua, quando il veleno non sia di tal forte confermato, che restino ancora i pazienti con qualche conoscimento” (Pietro Andrea Mattioli, I Discorsi di M. Pietro Andrea Matthioli, Sanese, Medico Cesareo, nelli sei libri di Pedacio Dioscoride Anazarbeo della materia Medicinale, Venezia, 1573, pag. 947)

[28]  Anna Caggiano, La danza dei tarantolati nei dintorni di Taranto, in Folklore italiano: archivio trimestrale per la raccolta e lo studio delle tradizioni popolari, VI, 1931, pag. 72

[29]  Ernesto De Martino, op. cit., pag. 131

[30]  Achille Vergari, Tarantismo o malattia prodotta dalle tarantole velenose, Napoli, stamperia Società Filomatica, 1859,   pp. 34-35. Il Vergari prosegue citando anch’egli l’uso delle funi, ma in riferimento al morso della tarantola in Dalmazia: “Assicurava il Fortis « che nel Contado di Traù in Dalmazia i contadini che nella stagione ardente agir deggiono in campagna, sono soggetti frequentemente al morso della tarantola, Pauk nell’ idioma illirico; e che il rimedio che usano per calmare a poco a poco, e far poi cessare del tutto i dolori dal veleno del pauk prodotti, si è il mettere gli ammalati a sedere sopra d’una fune non tesa, ben raccomandata tra due capi alle travi, e dondolarveli per cinque o sei ore (Michelangelo Manicone, Fisica appula, vol. V pag 81. )” (Vergari, cit., pag. 35)

[31]          AA.VV., Sulle Tracce della Taranta, Documenti inediti del Settecento, Crsec Galatina, Crsec San Cesario – Regione Puglia, 2000, pp. 57-58

[32]  Silvana Arcuti, Epifanio Fernando e il morso della tarantola, Pensa Multimedia, Lecce, 2002, pp. 43-44

[33]          Propriamente, con il termine Solifugae si intende, nella attuale classificazione, un ordine di aracnidi (peraltro non velenosi), e non già un genere e tantomeno una determinata specie. Tuttavia il Serao identifica, con una lunga dissertazione, la Solìfuga sarda con la “tarantola di Puglia” (Serao, op. cit., pp. 80-89); e Giovanni Spano, nel suo Vocabolario Sardu-Italianu (1851) riferisce che questo ragno è da identificarsi con la taràntola citata dal Berni nel suo Orlando innamorato (Francesco Berni Orlando innamorato, XLI, ottava 6, vv. 5-8; ottava 7, vv. 1-4 ), e, propriamente, con l’ Arza o Argia sarda ( Giovanni Spano, Vocabolario Sardu-Italianu, a cura di Giulio Paulis, Ilisso Edizioni, Nuoro, 2004, pag. 110 e pag. 119). L’ Argia sarda altro non è che il Latrodectus tredigimguttatus, volgarmente detto malmignatta o anche vedova nera mediterranea.

[34]  Salvatore Pasanisi, Saggio chimico – medico sull’acqua minerale di Manduria, Napoli, Stamperia Nicola Russo, 1790, pp. 32 – 33

[35]  Pietro Andrea Mattioli, I Discorsi di Pietro Andrea Mattioli nei Sei Libri di Pedacio Dioscoride Anarzabeo nella Materia medicinale, Venezia, 1573, V Libro, pag. 825

[36]  Pietro Andrea Mattioli op. cit. pag. 958-959

[37]  Pietro Andrea Mattioli op. cit. pag. 959

[38]  Ernesto De Martino, op. cit., pag. 145

[39]          Epifanio Ferdinando, Centum historie seu observationes, Venezia, 1621, pag. 258

Nardò. Uno spazio museale nel castello per Gigi Stifani, musicista delle tarantate

a cura dell’Amministrazione Comunale di Nardò

Sabato 16 febbraio, alle ore 16, sarà inaugurato in uno spazio al primo piano del castello Acquaviva d’Aragona un museo per preservare la memoria del maestro Luigi Stifani, per tutti Mesciu Gigi, il mitico violinista terapeuta che più d’ogni altro ha permesso di capire i rituali legati al tarantismo salentino, uno dei fenomeni più rilevanti della demo-antropologia italiana.

Sarà don Riccardo Personè a benedire i locali all’interno dei quali saranno conservati ed esposti tutti i beni riconducibili all’attività di Stifani: gli strumenti musicali (quelli utilizzati nei rituali terapeutici del tarantismo e durante le ricorrenze) i manoscritti, i documenti fotografici e sonori, oltre agli strumenti di lavoro adoperati nella sua bottega di barbiere.

Luigi Stifani, nato a Nardò nel 1914, barbiere-violinista, ma anche suonatore di chitarra e mandolino, con la sua orchestrina composta da suonatori esperti di rituali di tarantismo (tra cui l’abile suonatrice di tamburello Tora Marzo) “curò” – come annota personalmente nel suo diario – molte “tarantate”, precisamente 29 casi tra il 1928 e il 1972, inventando inoltre un suo sistema di notazione musicale fatto di sillabe e numeri, unico nel suo genere. Dopo la sua morte, avvenuta nel 2000 proprio il giorno della festività di San Paolo (il Santo protettore delle “tarantate”), la memoria di Stifani non ha mai smesso di tramandarsi.

Definito “l’ideologo della taranta”, Mesciu Gigi è stato un punto di riferimento importante degli ultimi settant’anni per molti studiosi di varie discipline, tra cui Annabella Rossi, Gianfranco Mingozzi, Ernesto De Martino, Georges Lapassade, Diego Carpitella, Roberto Leydi.

Per Giovanna, figlia di Stifani, nonché per gli altri fedeli sostenitori e testimoni affidabili dell’operato di Stifani, tra cui il suo discepolo Ruggiero Inchingolo (etnomusicologo e autore della biografia musicale del maestro) o l’amico Antonio Spano, si tratta di un traguardo importante e atteso, che mira a valorizzare la preziosa eredità artistica, musicale e letteraria del maestro.

Typus Tarantiacorum saltantium. Dalla Phonurgia nova del P. Kircher (1673)

Dopo l’inaugurazione, alle ore 17, nell’aula consiliare, si terrà il convegno dal titolo “Luigi Stifani e il tarantismo salentino”, che ospiterà docenti e ricercatori che hanno conosciuto e intervistato il maestro nella sua bottega a Nardò. L’introduzione sarà affidata a Luigi Chiriatti (ricercatore, esperto in tradizioni popolari del Salento, direttore artistico del Festival La Notte della Taranta) che illustrerà la figura del maestro Stifani e il ruolo assunto dalla città di Nardò nell’ambito del tarantismo salentino. A seguire, Ruggiero Inchingolo (musicista e depositario del sapere musicale di Stifani, già direttore del Festival Suoni dal Mediterraneo), Eugenio Imbriani (docente di Antropologia Culturale dell’Università del Salento), Gianfranco Salvatore (docente di Etnomusicologia dell’Università del Salento), Salvatore Colazzo (docente di Pedagogia sperimentale dell’Università del Salento), Gino L. DiMitri (già docente ricercatore in Storia della Scienza all’Università degli Studi di Bari e di Storia della Medicina all’Università di Ginevra), Salvatore Villani (etnomusicologo, Direttore Centro Studi Tradizioni pugliesi), Silvano Fracella (Direttore responsabile del pronto soccorso dell’Ospedale “Fazzi” di Lecce). A moderare il convegno sarà il giornalista Luigi Nanni.

Alle ore 21, nell’atrio del castello, per rendere omaggio a Mesciu Gigi si riuniranno sul palco per un concerto due gruppi noti nel panorama della musica tradizionale salentina: i Kardiamundi e i Nui Nisciunu con la partecipazione straordinaria di Ruggiero Inchingolo che per l’occasione suonerà le pizziche tarantate proprio con il violino di Stifani, per rievocare il sentimento e la memoria del suo maestro. Durante il concerto saranno ospitati quei suonatori “spontanei” che arriveranno con i loro strumenti per omaggiare il maestro (per informazioni è possibile contattare Giovanna Stifani al numero 339. 2428150).

Aracne, le tarantate e un falso mito

LA STORIA DI GINEVRA, UNA TARANTATA BRINDISINA DI FINE SETTECENTO, CONFUSA CON IL MITO DI ARACNE

 

di Gianfranco Mele

 

Come noto, il mito di Aracne raccontato da Ovidio ne Le Metamorfosi narra della sfida tra Athena ed Aracne sull’arte della tessitura. E’ proprio Aracne a lanciare la sfida, e ne pagherà le tragiche conseguenze: non solo ha osato sfidare la dea, ma la rabbia che suscita in Athena è nel fatto che le sue tele si mostrano addirittura superiori a quelle della dea stessa. L’ira che la fanciulla provocherà in Athena sarà tale da costringerla al tentativo di suicidarsi: non poteva reggere difatti il peso della rabbia divina. Ma la dea fermerà il tentativo di suicidio di Aracne e la trasformerà in ragno.[1]

Tavola di Gustavo Dorè per illustrare il mito di Aracne celebrato da Dante (Purgatorio, XII, 43-45); immagine tratta da http://www.worldofdante.org/pop_up_query.php?dbid=I301&show=more.

 

L’unica versione del mito alternativa a quella che ci racconta Ovidio, è quella che ci perviene dalla lettura di alcuni frammenti di un’opera di Nicandro, la Theriaca, nei commenti inseriti da uno scoliaste che secondo alcuni sarebbe da identificare in Teofilo Zenodoteo. In tale versione, si narra dell’incesto tra Aracne e suo fratello Falance; Athena punisce per questo motivo i due fratelli, trasformandoli in ragni.

Sul web (e non solo sul web, ma addirittura in alcuni scritti, accademici e non, di studiosi del tarantismo) circola una terza versione senza fonte alcuna (in alcuni casi viene addirittura riportata, con duplice errore, come la storia raccontata da Ovidio): narra (copio e incollo da uno dei tanti siti che riportano tale versione, a loro volta copiandosi e incollando a catena) di “una giovane ragazza, Arakne, la quale fu sedotta da un marinaio che, dopo la prima notte d’amore, partì e da allora ella visse in attesa del ritorno del suo amore. Una mattina la ragazza vide una barca avvicinarsi alla costa e fece il segnale convenuto con il suo marinaio. Dalla nave giunse la risposta: era tornato. Ma a pochi metri dal porto la barca fu affondata da Zeus, il quale voleva la fanciulla per sé, così coloro che erano a bordo perirono affogati. Arakne vide morire il suo amore dopo anni di attesa e si uccise. Così, alla morte della giovane, Zeus s’infuriò e la rimandò in terra per restituirle il torto ricevuto, non come ragazza ma come tarantola”.

In molti di questi siti, tale versione giunge ad essere l’unica citata, o, come si è detto, addirittura ad essere attribuita ad Ovidio e spacciata per quella del poeta latino.

La ritrovo in un blog dedicato alla pizzica, la ritrovo sulla pagina ufficiale del gruppo Zimbaria,[2] su pagine gestite da cultori e musicisti di pizzica, su tesine di laurea pubblicate online, su un lavoro di una docente dell’ Università di Bologna apparso su una rivista specializzata,[3] sulla pagina Wikipedia dedicata alla “pizzica”,[4] e su una innumerevole serie di pagine e blog aventi per oggetto pizzica e tarantismo.[5] Mi chiedo da dove mai la abbiano pescata tutti costoro, visto che nessuno ne indica fonti. Successivamente, noto (e ne trovo conforto) che la questione non è sfuggita ad Armando Polito, che in un suo articolo apparso qualche anno fa su questo sito web di Fondazione Terra d’Otranto, si accorge di questa incredibile confusione e sostituzione.[6]

Una singolare contorsione esplicativa e interpretativa la compie Annarita Zazzaroni, che scrive: “Il tarantismo pugliese è, infatti, legato anche a una vera e propria riscrittura del mito di Aracne: alcuni fanno risalire la nascita della taranta alla trasformazione in ragno di una fanciulla, Arakne, che fu sedotta da un marinaio e abbandonata dopo una notte d’amore. Per anni Arakne attese il ritorno del suo amato ma, quando questo avvenne, la nave del ragazzo affondò durante l’attracco. Arakne era folle di dolore per aver perso per sempre l’uomo che amava. Fu così che Zeus la trasformò in taranta, perché potesse vendicarsi perpetuamente delle sofferenze subite.“ [7]

Ma da quando in qua, e perchè, “il tarantismo pugliese” avrebbe riscritto il mito di Aracne? Da dove origina dunque questa versione, che avrebbe l’aria di una sorta di leggenda metropolitana (o internettiana), se non fosse che la storia è così singolare e avvincente da pensare (come poi di fatto risulta) che è stata presa in prestito da altre fonti[8] (che però non sono, come vedremo, così antiche)?

La risposta sta in un incredibile scambio della paternità e delle origini del racconto, che ci viene trasmesso attraverso gli scritti di un autore francese ottocentesco, Antoine-Laurent Castellan,[9] e che nella sua versione originale non parla affatto di Aracne (né del relativo mito) ma riferisce di una storia, appresa durante un suo viaggio a Brindisi, che ha come protagonisti una ragazza di nome Ginevra e un marinaio di origini albanesi. La storia è perfettamente identica a quella raccontata nel web (e là spacciata come “la storia di Arakne”): racconta dell’ incontro e dell’amore tra la fanciulla e il marinaio, della ripartenza del marinaio, della attesa della ragazza per il ritorno del suo amato, della barca che finalmente un giorno si avvicina alla costa mentre la fanciulla attende, racconta del segnale, del tragico affondamento poco prima che la barca possa approdare, della disperazione della fanciulla che da quel momento “si trasforma in ragno” (o meglio, diviene tarantata)! Ma (“piccoli” e unici particolari discordanti): la fanciulla non si chiama Arakne, ad affondare la barca non è “Zeus” ma una galea (altrimenti detta “galera”) barbarica, e la tragedia si snoda in Brindisi alla fine del Settecento. Castellan la riporta come un fatto realmente accaduto, e da lui appreso in seguito ad una casuale occasione in cui egli assiste come spettatore alla danza di una tarantata.

l’ opera di Castellan
tavole di Castellan inserite nel testo Lettres sur l’Italie. Fabbricati di Brindisi

 

Questa tarantata, è proprio lei, Ginevra, quella fanciulla che aveva perso il suo amore in quella straziante tragedia. E’ la gente del posto a raccontare a Castellan la storia, e a spiegargli come la ragazza sia diventata tarantata a seguito del trauma subito per la perdita del suo amore. O meglio, e per la precisione: nessun ragno aveva mai morso Ginevra, ma le era stato lasciato credere che così fosse stato. Il trauma per la perdita del suo innamorato era stato così forte che Ginevra aveva rimosso il penoso ricordo dell’accadimento, portandosi però addosso un malessere che aveva rielaborato attribuendolo al morso del ragno. Era stata lasciata volutamente in quella convinzione, per non farle riaffiorare il terribile ricordo, e per non farle perdere la speranza di poter guarire.

Nel classico stile del rimescolamento orale (che oltre che di epoche remote è tipico anche dell’epoca del web), la storia diventa “il Mito di Arakne”, e viene infilato persino un Zeus nel racconto, a “sostegno” della derivazione antica e mitologica del racconto.

Una possibile matrice della confusione e del rimescolamento può essere nel fatto che il Castellan nel suo scritto utilizza il termine araigne (che in italiano è ragno: ciò è stato forse sufficiente a scambiare quell’ araigne per la Aracne – altrimenti detta Aragne – mitologica). Il resto, lo han fatto la sprovvedutezza di chi ha fatto circolare a ripetizione la storia confondendo epoche, personaggi e fonti, e, di sicuro, quell’alone poetico e leggendario che caratterizza l’avvincente, struggente e bellissimo racconto di Castellan.[10]

tavole di Castellan inserite nel testo Lettres sur l’Italie. Colonna di Brindisi

 

A seguire, trascrivo integralmente il racconto del Castellan traducendolo in italiano (l’opera in lingua originale è consultabile e scaricabile anche attraverso Google books). Premessa: Il Castellan approda in Italia nell’agosto del 1797, e si ferma prima a Otranto, poi a Brindisi. A Brindisi, accade che:

“Mentre passavamo sulla banchina del molo, siamo stati fermati dalla folla, che si accalcava sulla porta di una casa dove si sentiva della musica. Ci siamo fatti spazio, e anche noi siamo invitati ad entrare in una stanza bassa che era servita per diversi anni, e ancora lo era oggi, da scenario e ambiente per la cura del morso della tarantola. Le pareti di questa ampia stanza erano adornate con ghirlande di foglie, mazzi di fiori e rami di vite carichi dei loro frutti, piccoli specchi e nastri di ogni colore erano là sospesi; molta gente era seduta intorno all’appartamento, e l’orchestra occupava uno degli angoli, ed era composta da un violino, un basso, una chitarra e un tamburello. C’era una donna che ballava: aveva solo venticinque anni ma ne dimostrava quaranta; i suoi lineamenti regolari, ma alterati da eccessiva smodatezza, i suoi occhi scuri, il suo aspetto triste e abbattuto, contrastavano con la sua ricercata e variegata decorazione di nastri e pizzi d’oro e d’argento; le trecce dei suoi capelli erano sparpagliate e un velo di garza bianca le cadeva sulle spalle; danzava senza lasciare la terra, con nonchalance, girando costantemente su se stessa e molto lentamente; le sue mani reggevano le estremità di un fazzoletto di seta che faceva oscillare sopra la sua testa, e alcune volte lo gettava indietro: in questo stato, ci offriva assolutamente la posa di quelle baccanti che vediamo su bassorilievi antichi.

L’aria che si suonava in quel momento era languida, trascinata sulle cadenze, e si ripeteva da capo a sazietà. Poi il motivo è cambiato senza interruzioni; questo era meno lento, e ad un certo punto divenne più vivace, precipitoso e saltellante. Questi brani musicali formavano una successione di rondò, o ciò che chiamiamo pot-pouri. Si passava alternativamente dall’uno all’altro; finalmente si tornava al primo, per dare un po ‘di riposo alla ballerina, e permetterle di rallentare i suoi passi, ma senza farla mai smettere di ballare; lei seguiva sempre il movimento della musica; e come quel movimento si animava, si muoveva e diventava più vivace; ma il sorriso non rinasceva sulle sue labbra scolorite, la tristezza era sempre stampata sul suo sguardo, talvolta rivolto verso il soffitto, di solito verso il suolo, oppure a volte muoveva gli occhi a caso fissando il vuoto, anche se abbiamo cercato di distrarla con ogni mezzo. Le offrirono fiori e frutti; li tenne per un momento tra le mani e li gettò in seguito; furono anche presentati fazzoletti di seta di diversi colori; lei li scambiava con il suo, li agitava in aria per qualche istante, li rendeva, prendeva gli altri. Diverse donne là presenti hanno successivamente ballato con lei in modo da attirare la sua attenzione, e cercavano di ispirarle allegria ma senza successo. Sembrava sottoporsi a quell’esercizio contro voglia ma spinta da una sorta di forza irresistibile, e ciò dovette stancarla molto; il sudore scorreva dalla sua fronte; il suo petto era ansante, e ci hanno detto che questo stato sarebbe terminato con una sospensione totale delle facoltà; che poi era necessario portarla a letto; che il giorno dopo si sarebbe svegliata ricominciando a a ballare, e che lo stesso rimedio sarebbe stato impiegato nei giorni successivi, fino a quando non le avrebbe dato sollievo.

Questo spettacolo aveva qualcosa di doloroso; e mi ha colpito ancor più fortemente quando ho appreso la storia di questa interessante paziente. Non era stata punta dalla tarantola, sebbene ne fosse convinta; e veniva lasciata nella sua errata convinzione solo per nascondere e per non far dimenticare la vera causa del suo stato, e per non privarla di ogni speranza di cura. Ecco l’origine dell’alienazione di Ginevra; questo è, credo, il nome della malata. All’età di vent’anni, pur non essendo la ragazza più carina fra quelle della sua età, si faceva notare per avere una fisionomia provocante e molto espressiva; la sua bocca era rosea e attraente; i suoi occhi neri erano pieni di fuoco; la sua altezza aveva più duttilità e abbandono della grazia; il suo carattere, per quanto buono e sensibile, era particolare; spesso gioiva fino al delirio, si abbandonava quindi a una tristezza vaga e senza motivo; esagerata in tutti i suoi sentimenti, favoriva l’amicizia per le sue compagne fino all’eroismo, e la sua indifferenza verso gli uomini era simile al disprezzo: quindi doveva esser prevedibile che che se avesse amato un uomo una volta, ciò sarebbe accaduto con veemenza e per tutta la vita. All’età di vent’anni, la sua ora non era ancora arrivata, ma squillò troppo presto per la sua disgrazia. Un giorno stava camminando assorta nei suoi pensieri malinconici sulla spiaggia deserta di Patrica; l’aria era stata rinfrescata da una tempesta e il mare, che era ancora agitato, ondeggiava sulla spiaggia. Un brigantino (piccolo veliero n.d.r.) a metà frantumato era appena approdato: aveva a bordo un uomo. Partito dal porto di Durazzo per stendere le reti, verso il centro del canale una raffica di vento aveva strappato la vela; il suo timone si era rotto tra le sue mani e, in balìa delle onde, la sua barca era stata lanciata sulle rive dell’Italia. Sopraffatto dalla stanchezza, morente di bisogno, deplorava la sua disgrazia, così la ragazza gli andò incontro in aiuto, gli offrì una mano e si offrì di portarlo a casa di sua madre, che esercitò verso di lui con slancio i doveri dell’ospitalità.

Questo albanese era giovane; era infelice; sembrava ragionevole e grato; Ginevra credette di essersi abbandonata al piacere puro e disinteressato che la carità fornisce, mentre in realtà l’amore si era già insinuato nel suo cuore nelle vesti di pietà. Tuttavia, il giovane albanese, combattuto dal desiderio di rivedere il suo paese, e dal tenero interesse che lo lega alla sua benefattrice, finalmente parla della sua partenza. A questa parola, come una striscia di luce colpisce Ginevra facendo chiarezza sui suoi sentimenti; riconosce in essa l’amore, per l’angoscia che l’idea di una separazione, lontana dal suo pensiero, inizia a sentire; onesta, ma appassionata, non ha più il controllo di nascondere la sua confusione e lascia persino sfuggire tutta la violenza dei suoi sentimenti; ma esige da questo straniero che adora, il sacrificio dei legami indissolubili con il suo paese d’origine. Senza esitazione, lui acconsente. Quindi lei stessa favorisce la sua partenza dall’Italia, dove non può stabilirsi senza consultare la sua famiglia. Il giorno del suo ritorno è fissato, e Ginevra deve aspettarlo sulla costa, proprio nel punto in cui gli ha salvato la vita.

Fedele alla sua parola, lei va là ben prima dell’ora stabilita; lei conta gli istanti; fluiscono con una lentezza disperata. Intanto, il sole è già al tramonto: preoccupata, cammina sulla riva, gli occhi rivolti verso il mare: lei interroga le onde; il minimo soffio di vento, la minima nube le fa temere una nuova tempesta. Il giorno sta cadendo, il suo cuore è schiacciato e il crepuscolo, di cui la natura si ricopre, oscura, disturba le sue idee; infine, scopre un punto nero all’orizzonte: avanza; è una barca: si precipita alla sommità di una roccia e scuote un velo cremisi, il segnale concordato. Immediatamente lo stesso segno è attaccato all’estremità dell’albero; lei non può più dubitarne, questa barca le porta il suo amante.

Infatti, l’ albanese si era imbarcato, felice, in una barca a remi decorata con tutti gli attributi della gioia. Gli alberi erano decorati e le vele erano di un bianco brillante. Alcuni musicisti, seduti sulla panca di poppa, suonavano con accenti felici; e la sua famiglia, che l’albanese stava lasciando per stabilirsi nel paese di sua moglie, volle affidare a Ginevra la cura della felicità del figlio, il deposito della sua modesta fortuna e il mobilio necessario per la giovane famiglia.

La barca avanza come in trionfo verso le coste dell’Italia, già il suono degli strumenti raggiunge l’orecchio di Ginevra, tocca la superficie delle onde, calma le sue ansie e porta nel suo cuore speranza e sicurezza. L’imbarcazione si sta avvicinando: l’amore rende i suoi occhi più penetranti; lei distingue, riconosce suo marito che tende le braccia; lei pensa di sentirlo, e questa illusione rapisce una risposta.

Ma improvvisamente un suono sinistro fa cessare le belle melodie; una galera barbarica esce da dietro una roccia sporgente, che la aveva nascosta alla vista degli occhi di tutti. I suoi numerosi remi salgono a ritmo, cadono tutti in una volta e le danno un movimento rapido. Come l’avvoltoio, si libra sopra l’aria e si dirige verso la sua preda. A questa vista, non meno inaspettata che fatale, Ginevra cade in un cupo torpore; il terrore incatena le sue facoltà, i suoi occhi solo conservano un residuo di vita, seguono i movimenti contrari delle due barche.

La fragile barca sta fuggendo, e grida di paura e dolore sono sostituite agli accenti gioiosi. Il giovane e coraggioso albanese esorta i suoi compagni ad una resistenza che risulterà vana: le ombre della notte avvolgono questa scena di desolazione e la nascondono agli occhi della sfortunata Ginevra, che cade impotente sulla riva.

Molto tempo dopo, Ginevra esce come da un sonno profondo: apre gli occhi; ma la luminosità del giorno li fa chiudere subito. Non può muovere le sue membra, irrigidita dal freddo del mattino. Eppure le sue idee, dapprima confuse, le raccontano la scena del giorno prima; poi, disorientata, fa risuonare la costa con la sua disperazione; lei esamina l’estensione del canale; nessun imbarcazione solca la superficie; non c’è più felicità o speranza per lei; i suoi sensi si alterano, la sua mente si smarrisce e lei precipita nel mare dalla cima della roccia.

I pescatori la videro, si affrettarono a venire in suo aiuto e la portarono a casa di sua madre. Questo atto di disperazione fu seguito da una lunga apatia e da uno sconvolgimento che degenerò in alienazione della mente. Ginevra aveva dimenticato la causa delle sue pene; lei attribuiva le sue condizioni al pungiglione della tarantola. Questa idea è stata mantenuta, facendole sperare che l’esercizio della danza e gli accordi della musica, che ha veramente placato l’agitazione dei suoi sensi, la abbia finalmente guarita da questa mania malinconica.”

 

[1]
Ovidio, Metamorfosi, IV

[2]    http://www.zimbaria.it/la-pizzica/

[3]    Annarita Zazzaroni, Il ragno che danza. Il mito di Aracne nel tarantismo pugliese, In “Amaltea: Revista di Mitocrìtica”, 2010 (vol. 2), pp. 169-183.

[4]    Nella attuale e più recente versione (magari alla prossima sarà omessa) di Wikipedia alla voce “Pizzica” è riportato un ennesimo copia-incolla della versione che circola sul web e della quale ho preso a caso da altro sito la parte riportata in corsivo in questo scritto.

[5]    Per citarne solo alcune: http://www.affaritaliani.it/culturaspettacoli/pizzica_tarantismo150609.html ; http://www.artcaroli.it/opere/arakne/ ; https://www.youreporter.it/foto_la_pizzica_e_le_antiche_origini_del_tarantismo/ ; http://www.storienapoli.it/2014/12/06/il-tamburello-e-la-tarantella/ ; http://pugliaierieoggi.altervista.org/index.php?option=com_content&view=article&id=14:il-salento&catid=2:territorio&Itemid=20 ; https://pizzica.wordpress.com/ ; https://vivereinsalento.weebly.com/blog/archives/02-2018 ; http://enosud.it/corso-di-pizzica-pizzica/ ; https://sites.google.com/a/student.unife.it/taranta/un-p-di-storia ; http://www.briziomontinaro.it/node/156

[6]    Armando Polito, Aspettando la Notte della Taranta (¼): Aracne, Fondazione Terra d’Otranto, luglio 2014, https://www.fondazioneterradotranto.it/tag/aracne/

[7]    Annarita Zazzaroni, op. cit., pag. 170

[8]    Una laureanda in Lettere dell’ Università di Torino si accorge delle convergenze tra il racconto fornito dalla Zazzaroni e l’opera del Castellan, ma prendendo per buona e originale la versione (senza fonti) del mito con la storia di Zeus, Arakne e il marinaio, non riesce a far derivare quest’ultima da una storpiatura della storia raccontata dal Castellan. Così, finisce con il validare e conferire ancor più valore alla versione-fake: Vanessa Elena Cerutti, La danza del ragno e la sua evoluzione. La tradizione ritrovata e reinterpretata, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Torino, pp. 49-51

[9]            Antoine Laurent Castellan, Lettres sur l’ Italie, faisant suite aux lettres sur la Morée, l’ Hellespont et Costantinople, Tomo I, Parigi, 1819, Lettre IX, pp. 83-91

[10]  Talmente suggestivo ed evocativo, che si presta bene ad essere “pensato” in chiave mitologica o leggendaria, o a far ipotizzare (come qualcuno ha fatto) che non sia autentico ma frutto della fantasia dell’autore o della sua trasposizione o adattamento di altre leggende. Sono andato frettolosamente alla ricerca di similitudini: per alcuni versi può far tornare in mente la storia di Odisseo e Nausicaa, o l’ antichissima storia egiziana del “marinaio naufragato”, o ancora, e forse con più elementi in comune, una storia ambientata in Liguria nel medioevo intitolata “Il picco spaccato” (viene raccontata nel 1847 da Pietro Giuria – nella raccolta Tradizioni Italiane per la prima volta raccolte in ciascuna provincia dell’Italia – che la presenta come un racconto tipico della tradizione dei luoghi). Ciascuna di queste storie contiene però varianti fondamentali da discostarsi notevolmente rispetto a quella raccontata dal Castellan.

Il dialetto galatinese nell’ultimo libro di Rino Duma

di Paolo Vincenti

“La Taranta. Il dialetto galatinese (ovvero la lingua del popolo)”, è l’ultima proposta editoriale di Rino Duma, scrittore e attivo operatore culturale galatinese.

L’opera, dalla mole consistente, 569 pagine, con elegante copertina cartonata bianca, pubblicata da Editrice Salentina (2016), è una raccolta di commedie, poesie, proverbi, modi di dire, soprannomi, filastrocche, indovinelli e materiali vari, in dialetto galatinese. Un viaggio letterario, un excursus filologico nella saggezza popolare, nella lingua madre dell’autore e nelle tradizioni ormai in via d’estinzione di una micro realtà municipale, quale Galatina, ricca di arte e di storia.

Alla confluenza con l’era digitale informatica, Duma, facendosi aedo di un tempo perduto, compartecipe cantore della cultura genuina e spontanea del popolo salentino, ha voluto regalare ai suoi lettori ed estimatori questo scrigno di saggezza, divertimento e leggerezza.

La taranta riportata in copertina è opera del maestro Antonio Mele Melanton: una libera interpretazione di uno spaccato sociale che ha caratterizzato in maniera indelebile il passato di questa città, il tarantismo, col suo portato di sofferenza, folklore, cultura. Ancora oggi il nome di Galatina è legato al culto di San Paolo e alle tarante, sebbene il fenomeno sia ormai estinto. Ma Rino Duma, Presidente del Circolo culturale Athena e direttore della rivista “Il filo di Aracne”, da studioso e appassionato ricercatore di memorie patrie, ha voluto riportare all’attenzione dei suoi concittadini, degli anziani e dei giovani, il recupero delle cose di un tempo, nel vecchio “scascione de dialettu”, cioè “trabiccolo di dialetto”, come scrive nella sua Prefazione, perché esso “è l’antica e inalienabile carta d’identità della nostra anima cittadina”.

E lo ha fatto con un corposo volume, una miscellanea, florilegio di brani diversi, raccolti insieme e accomunati dalla lingua usata; lingua che diventa un formidabile strumento di diffusione del sapere, se solo la si consideri non museificata, imbalsamata, cioè immobile, inerte nel suo stanco perpetuarsi o sopravvivere a sé stessa, ma come materia viva, cultura fermentante di un popolo, sua riappropriazione identitaria. Si tratta insomma non di stereotipi, anacronismi, mero divertissement, bensì di letteratura, disimpegnata, ma di sicuro interesse. Il presente repertorio linguistico espressivo assume una doppia valenza: quella di recupero memoriale per chi è agé, e quella di scoperta, riproposizione delle radici, per i più giovani, sol che questi ditteri, modi di dire, aneddoti e tranches de vie siano guardati come strumenti in grado di attivare processi collettivi.

Nel libro sono proposte quattro commedie, ovverosia farse in dialetto galatinese: si comincia con “Reparto Ortopedia” (in tre atti), poi si passa a “Befana miliardaria a Corte Vinella”(tre atti), poi a “La telefunata” (in quattro atti), e quindi “Natale tra vecchie comari” (in due atti), tutte scritte interamente dall’autore. Le poesie sono: “Poveru mmie”, “L’urtima taranta” che è un vero poemetto in dialetto al centro del quale è il mitico animale, “Pizzaca, Taranta beddhra!”, “Vulia cu èggiu”. A contrappuntare i testi, numerose fotografie in bianco e nero davvero pregevoli, che provengono dal patrimonio comune galatinese. Nella seconda parte del libro, viene pubblicata una sezione dedicata ai Modi di dire galatinesi, una ai Proverbi, una alle Filastrocche, Ninnananne, scioglilingua e Indovinelli, e un’altra, gustosissima, ai Soprannomi galatinesi, divisi in ordine alfabetico. A questo punto del libro, Duma propone la coniugazione di alcuni verbi in dialetto e qui la trattazione si fa ancora più divertente, per sfociare poi nella goliardia e nella risata crassa con “Frizzuli dialettali”, e con l’esilarante “Ma cce cazzu!”. Nell’ultima parte del libro, trovano posto una foto dell’indimenticato pasticcere galatinese Andrea Ascalone, scomparso l’anno passato, ed una scheda bio-bibliografica dell’autore.

Questo patrimonio di fiabe e proverbi acquista un enorme significato non solo storiografico ma anche valoriale, e riallaccia i fili consunti di una comunità che vi si ritrova, che si specchia in questo “come eravamo”, con il sorriso nostalgico e bonario dell’uomo della strada ma anche con la riflessione del ricercatore, dello studioso.

Così il libro è in grado di suscitare sentimenti che credevamo relegati nel passato, perché riesce ad accendere “la miccia esplosiva riposta nel già stato”, per citare Walter Benjamin . E tali sentimenti sono profonde scaturigini dell’immaginario collettivo e della enorme ricchezza che è il deposito culturale di un territorio.

Pellegrino Scardino di San Cesario di Lecce e la tarantata

di Armando Polito

C’è chi, ed io sono tra questi, rivendica anche alla poesia una capacità di conoscenza di regola attribuita solo alla scienza;  e questo, se fosse vero, sarebbe più che sufficiente  per liquidare in un attimo come insensata ogni contrapposizione tra le due culture. In particolare, sul fenomeno del tarantismo  credo di aver tentato di provarlo in https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/08/25/anche-questanno-la-notte-della-taranta-e-andata-ma-non-rinuncio-a-dire-la-mia-il-tarantismo-ovvero-laddove-la-poesia-arrivo-prima-della-scienza/. Le testimonianze allora addotte  non vantavano la paternità di autori del nostro territorio ed erano in prosa.

Oggi sottopongo all’attenzione del lettore una poesia di un salentino doc, del quale il lettore ha già letto il nome nel titolo. Di quest’autore abbastanza prolifico mi sono già occupato per un’altra questione in https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/06/una-sponsorizzazione-femminile-dellanfiteatro-di-rudiae-nella-travagliata-storia-di-una-fantomatica-epigrafe-cil-ix-21-prima-parte/. Ho segnalato il link non per vanitoso compiacimento ma per dare un’idea dello spessore del personaggio che può vantare un cospicuo numero di pubblicazioni, anche se in prevalenza di natura encomiastica  Di seguito l’elenco completo delle opere da lui pubblicate:

Vaticinium Tiberis ad urbem Romam de Sixto Quinto pontificem maximum, Zanetti, Roma, 1589.

De illustrissimo ac reverendissimo d. Scipione Spina Lupiensium pontifice creato Peregrini Scardini Sancaesariensis carmen, Cacchio, Napoli, 1591.

In admodum reuerendum d. Petrum Antonium De Ponte Congr. clericum regularem theologum, et concionatorem destrissimum, elogia, Guerilio, Venezia, 1599.

Oratio habita Lupiis in funere Hispaniarum, et Indiarum regis catholici Philippi II, Carlino & Pace, Napoli, Neapoli, 1599.

Peregrini Scardini Sancticaesariensis epigrammatum centuria, Vitale, Napoli,1603

Discorso intorno l’antichità e sito della fedelissima città di Lecce, Pace, Bari, 1607.

Sonetti di Peregrino Scardino al molto illustre signor Gioseppe Cicala di Lecce, Gargano & Nucci, Napoli, 1609.

Del terzultimo titolo riproduco il frontespizio

e il testo della poesia (in distici elegiaci) che è a p. 107, con la mia traduzione a fronte

2

Capito? – Certamente! – direte. Ma io intendevo dire (senza alcuna velleità poetica per via delle rime)  – Avete capito come il nostro salentino Pellegrino Scardino aveva capito tutto, anticipando di 359 anni Ernesto De Martino? -.

Galatina. “Il peso dei rimorsi”. Ernesto De Martino, 50 anni dopo

tarantismo1

Martedì 1 dicembre 2015

Palazzo della Cultura (Galatina, Le)

CONVEGNO

“IL PESO DEI RIMORSI” – ERNESTO DE MARTINO, 50 ANNI DOPO

La città di Galatina rende omaggio a Ernesto De Martino con la rassegna “Il peso dei rimorsi”, dedicata al grande antropologo italiano nel cinquantesimo anniversario della sua scomparsa. L’appuntamento ricade all’interno di una serie di incontri e dibattiti organizzati in numerose città italiane, curati dall’Istituto dell’Enciclopedia italiana Treccani, l’Associazione internazionale Ernesto De Martino, la Fondazione Premio Napoli, l’Università di Ginevra, la Scuola di specializzazione in Beni demoetnoantropologici dell’Università di Perugia, la Fondazione Istituto Gramsci e la Fondazione Angelo Celli.

Dopo Lecce, Bari, Salerno, Perugia, Napoli e Matera, le celebrazioni fanno tappa a Galatina, città in cui De Martino dedicò le sue ricerche per studiare a fondo, per la prima volta in maniera organica e multidisciplinare, il fenomeno del tarantismo. Era il 1959 e da quella spedizione scaturì il celebre saggio “La terra del rimorso”, oggi tradotto, conosciuto e studiato in tutto il mondo.

L’incontro galatinese offre l’occasione di conoscere il pensiero dello storico ed etnografo De Martino, nato a Napoli nel 1908 e scomparso nel ’65 a Roma, tracciando il suo pensiero in un quadro letterario più ampio, sempre più attuale, non ridotto al solo fenomeno del tarantismo.

L’iniziativa, promossa dall’Assessorato alla cultura del Comune di Galatina e organizzata in collaborazione con Meditfilm nell’ambito del progetto “Luoghi e Visioni – Frammenti di antropologia visuale”, nasce per restituire il giusto lustro alla figura di De Martino, allo studioso che seppe fondere saperi diversi nella ricerca etnografica sulle culture popolari del Sud d’Italia, fino a essere riconosciuto a livello mondiale come il padre della nuova antropologia italiana.

L’appuntamento di Galatina celebra un De Martino meno conosciuto al grande pubblico, aprendo a una riflessione sul percorso ideologico e politico che lo hanno reso protagonista, dagli anni ’40 agli anni ’60, del panorama intellettuale italiano, insieme ad altri personaggi che ne hanno segnato la formazione; con alcuni dei quali, come Antonio Gramsci, Cesare Pavese, Benedetto Croce, intrattenne un’intensa dialettica intellettuale.

“Il peso dei rimorsi” è inserito nelle celebrazioni nazionali che si concluderanno a Roma, nel maggio 2016, per il cinquantenario della morte di De Martino, attraverso una serie di incontri itineranti per ricordare, riflettere e valorizzare le ricerche, il pensiero e l’eredità di una delle figure centrali della cultura italiana del dopoguerra.

Il convegno vedrà la partecipazione dei professori: Pietro Clemente (Università di 2 Firenze), Riccardo Di Donato (Università di Pisa), Carlo Alberto Augeri, Eugenio Imbriani (Università del Salento). A moderare il dibattito sarà il professore Mario Lombardo (Università del Salento).

Tra gli eventi in programma, la mostra fotografica “Il Cattivo Passato”, un suggestivo percorso tra storia, religione, antropologia e società nel pensiero politico-intellettuale di De Martino, e dalla “Breve rassegna Luoghi e Visioni” a cura di Meditfilm, con la proiezione di alcuni importanti documentari etnografici (“Il male di San Donato” di Luigi Di Gianni, “La passione del grano” e “L’inceppata” di Lino Del Fra). Aprirà il convegno la professoressa Daniela Vantaggiato, assessore alla Cultura del Comune di Galatina.

Per l’occasione, sarà presentato in anteprima il corto “Equilibri nel tempo”, scritto e diretto da Fabrizio Lecce, prodotto da Meditfilm nell’ambito del percorso di antropologia visuale “Luoghi e Visioni”. Il film, interpretato da Simone Franco, esplora i megaliti del Salento, dolmen e menhir che, con la loro essenza sacra, rappresentano l’anello di congiunzione tra il terreno e l’ultraterreno, tra la natura e la cultura, facendo emergere un paesaggio rurale arcaico ormai lontano dagli immaginari contemporanei. Il racconto è affidato alle parole di De Martino, estratte dal libro “La fine del mondo, contributo all’analisi delle apocalissi culturali”.

L’intera manifestazione si svolgerà martedì 1 dicembre a Galatina, presso il Palazzo della Cultura, con il seguente programma: alle 16:00 apertura mostra fotografica “Il cattivo passato”, alle 17:00 inizio del convegno “Il peso dei rimorsi”, alle 19:00 proiezione dei film in rassegna con l’anteprima del corto “Equilibri nel tempo”.

 

Link di approfondimento: www.luoghievisioni.it; www.meditfilm.com

Info e Contatti: MEDITFILM  –  info@meditfilm.com  +39 3277305829

UFFICIO STAMPA: Gabriele Miceli

 

 

Aspettando la Notte della Taranta (4/4): “Malinconicu cantu, e allegru mai”: da Manduria a Parigi, da qui al deserto africano; e poi …?

di Armando Polito

Sono solo canzonette cantava sarcasticamente Edoardo Bennato nel brano di chiusura dell’omonimo album uscito nel 1980. Con lo stesso sarcasmo dico che è solo una canzonetta quella di cui mi occuperò oggi e per dimostrarlo comincio scomodando il n. 9765 del 22/11/1910 del quotidiano parigino Le Matin ( le relative immagini sono state tratte dall’indirizzo http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k569620g/f1.zoom.r=manduria.langEN).

Questa è la prima pagina.

Segue la quarta con  evidenziato in rosso lo scritto del quale mi occuperò oggi.

È un racconto dal titolo La lampe (La lampada)  inserito nella rubrica Contes des mille et un matins (Racconti di mille e un mattino) e reca la firma di Franz Toussaint (per ora basti il nome). Di seguito ho riportato il testo in formato immagine, tratto, adattato ed opportunamente assemblato dall’originale, cui di mio ho aggiunto la  traduzione a fronte e qualche nota esplicativa.

È giunto il momento di spendere su Franz Toussaint qualche parola per delineare la sua figura  al lettore che probabilmente su di lui ne sa quanto ne sapevo io prima di leggere il suo racconto.

Nato nel 1879, morto nel 1955, fu, oltre che scrittore, traduttore, orientalista e sceneggiatore di films muti (di uno,  Inch’Allah, eseguì anche le riprese nel 1922).

In questo racconto accanto alla dissimulata citazione dantesca vi è quella, imprecisa, di una canzone popolare di Manduria; ho detto imprecisa perché il verso riportato è l’ultimo si, ma, come vedremo, della prima strofa. Credo che questo sia dovuto al fatto che la citazione, secondo me è non diretta ma, per così dire, di seconda mano, cioè presa da Paul Bourget, Sensations d’Italie. Toscane, Ombrie, Grande-Grèce, Lemerre, Parigi, 1891, pagg. 278-279, cui appartiene l’immagine che segue (tratta da https://archive.org/stream/sensationsdital01bourgoog#page/n286/mode/2up) alla quale ho aggiunto, giuro che non lo dirò più …, la mia traduzione e qualche nota.

Nella nota 10 il viaggiatore Bourget parla di compagnon. Si tratta, però  di un compagno di viaggio assolutamente virtuale e che si concretizza nella parole che poco prima (pag. 275)  concludono  un racconto riportato, sempre popolare:

Le battute del dialogo, dunque, sono state trascritte dalla brochure del signor Gigli. Questo fantomatico signor Gigli è Giuseppe Gigli (1862-1921), letterato sostanzialmente autodidatta, nato a Manduria, autore di Superstizioni, pregiudizi e tradizioni in Terra d’Otranto con un’aggiunta di fiabe e canti popolari, Barbera, Firenze, 1893. Tale libro, tenendo conto dell’anno della sua pubblicazione (1893) e di quello dell’opera del Bourget (1891), non può essere la brochure di cui l’autore francese parla, anche perché esso consta di ben 280 pagine. La brochure, perciò, sarà una sorta di edizione ridotta che precedette quella maggiore o più precisamente quel  documento stampato in un numero limitato di esemplari di cui lo stesso Gigli parla nella prefazione:

Nella lettura, inviata presumibilmente anche al Bourget, compariva probabilmente solo la prima strofa (che poi l’autore francese trascrisse) della canzone, il cui testo completo comparirà, nel citato lavoro del Gigli uscito nel 1893, inserito nel capitolo che reca il titolo Il ballo della tarantola , capitolo che occupa le pagg. 66-71; qui, però, per brevità riprodurrò questa sezione fino al testo della nostra canzone, cioè le pagine 66-68) tratte, come la prefazione, dal link dove l’opera può essere letta integralmente (https://archive.org/details/superstizionipr00giglgoog):

Riassumiamo ora cronologicamente i fatti:

Fine 1888: Giuseppe Gigli raccoglie le testimonianze popolari che esporrà in una conferenza il 18 gennaio 1889. Di lì a poco stanperà la lettura e la invierà a molti dotti folkloristi d’Italia, di Francia (tra questi quasi sicuramente il Bourget) e d’Inghilterra.

1891: Il Bourget pubblica il suo lavoro e riproduce la prima strofa.

1893: Il Gigli pubblica il suo lavoro con il testo definitivo della canzone. Da notare che la prima strofa presenta varianti rispetto al testo riportato dal Bourget. Credo che siano errori di trascrizione di quest’ultimo: cacciati per càcciami; ai per aìa.

22/11/1910: Su Le Matin viene pubblicato il racconto La lampe di Franz Toussaint che fa un figurone quando, a proposito di  Ai nu cori e lu donai a ti!, non esita a dire che è  l’ultimo verso della malinconica canzone di Manduria. Il lettore noterà che il verso appare con le varianti segnalate nel Bourget.

Conclusione: Franz Toussaint avrà nella circostanza (che potrebbe anche essere parzialmente autobiografica visto che svolse il servizio militare in Marocco) fatto un figurone ma, essendo il testo del Gigli uscito ben diciassette anni prima, mostra di non essere aggiornato (questione di rete? …). A tal proposito si potrebbe discutere per secoli sulla libertà e sull’innocenza dell’artista, al quale, si dice, tutto va perdonato, compresi certi dettagli che eventualmente affliggano i suoi ricalchi, anche quando essi potrebbero apparire come citazioni infedeli …

Non sarà questo, comunque, l’ultimo ricordo della canzone di Manduria, perché Ernesto De Martino in La terra del rimorso, Il saggiatore, Milano, 1961, pag. 165 così scrive: In questa trasfigurazione dei patimenti d’amore, la donna tormentatrice diventa corega di una vicenda musicale in cui gli strumenti e le loro parti sono il corpo e l’anima dell’amante tormentato: un tema particolarmente adatto a far da orizzonte ai contenuti critici assunti di volta in volta nel rituale coreutico-musicale del tarantismo. In un canto della Terra d’Otranto raccolto verso il 1889 dal Gigli in Manduria, l’eros precluso si esprime in una lirica lavorata col noto tema popolare del distacco dell’amata per una partenza forzata.1

Segue il testo della canzone in cui, rispetto a quello del Gigli si notano queste varianti: v. 1: allegro per allegru;  v. 2; cacciàti per càcciami; v. 4: donai per dunai; tia per te; v. 5: arrivederci per arrividerci; addio per addiu; v. 6: non per nu; di per ti;  v. 7: non per nu; mio per miu; v. 8: mentre per mentri; sorte per sorti;  lontano per luntanu; v. 10: fama per fiama; v. 11: e per ma; v. 12: io per iu; l’ama per t’ama.2

La nota 97 rinvia a G. Gigli, Superstizioni, credenze e fiabe popolari in Terra d’Otranto, Lecce, 1889, pp. 23 sgg. Questo fa pensare che la lettura a stampa forse conteneva l’intera canzone ma, essendo il De Martino nato nel 1908, non può essere stato uno dei destinatari di quella lettura., anche se da quella deve aver tratto la sua citazione. Insomma anche lui, come Franz Toussaint, si mostra, con tutto il rispetto, filologicamente non aggiornato, peccato più grave per un etnologo che per un narratore, anche se a quei tempi non c’era il formidabile supporto della rete …

E ora, di fronte a  Malinconicu cantu, e allegru mai, chi avrebbe il coraggio di dire, non sarcasticamente, che si tratta solo di una canzonetta? Eppure essa non compare (questione di aggiornamento in rete?) tra i 250 titoli citati in http://www.laterradelrimorso.it/elencocanti e neppure sul sito dell’Archivio sonoro della Puglia (http://www.archiviosonoro.org/puglia/archivio/archivio-sonoro-della-puglia/fondo-accademia-nazionale-santa-cecilia.html ); a questo punto non mi meraviglierei neppure se la canzone non fosse stata registrata nemmeno una volta da qualche gruppo e, per farla completa, non fosse stata mai eseguita in nessuna edizione de La notte della taranta.

Si sa, se ne vanno sempre i migliori …

per la prima partehttps://www.fondazioneterradotranto.it/2014/07/25/aspettando-la-notte-della-taranta-14-aracne/

per la seconda partehttps://www.fondazioneterradotranto.it/2014/07/30/aspettando-la-notte-della-taranta-24-spettacolare-taranta/

per la terza partehttps://www.fondazioneterradotranto.it/2014/08/07/aspettando-la-notte-della-taranta-34-da-taranto-a-napoli-e-da-napoli-a-parigi/

_____________

1 Sul topos della partenza e della commistione amore e morte propongo solo due esempi (il primo di Palermo, il secondo di Salaparuta) tratti da Giuseppe Pitrè, Canti popolari siciliani, Pedone-Lauriel, Palermo, 1871, pagg. 324 e 331:

Sta partenza pi mia è ‘na cosa amara,/nun m’aspittannu mai stu gran turmentu;/cci ha curpatu la sorti micirara,/a ch’ha vulutu lu nostru turmentu./Nun ti scurdari a mia,  Rusidda cara,/a costu di qualunqui mancamentu:/ca mortu stissu supra di la vara/nun mi scordu di tia sempri in eternu./

Sta partenza pi mia fu troppu amara,/mi livasti li spassi e gusti ancora,/senti la vuci mia chi ti dichiara,/chi t’amirò in eternu fina chi mora./- Si mori, o bella, addiu amanti cara:/vuja a ‘na sepurtura ora pr’ora;/iu gridu e gridiroggiu a vuci chiara:/-Binchì cinniri sugnu iu t’amu ancora-.

2 Di seguito il prospetto in base al quale sarà più agevole seguire il mio tentativo di ricostruire, confrontando  i singoli versi corrispondenti,  la sofferta vicenda della tradizione testuale della canzone che, probabilmente, dopo la sua rozza raccolta è stata oggetto di ripensamento:

Primo verso: l’allegro di b per l’allegru di a e c secondo me è un errore di lettura o di stampa.

Secondo verso: il càcciami (imperativo singolare) di c appare grammaticalmente più corretto del plurale cacciati  poiché uno solo è il complemento di vocazione (malinconicu cantu, e allegru mai) cui esso si riferisce.

Terzo verso: è identico in a, b e c.

Quarto verso: l’aìa comune a b e a c mi fa pensare che l’ai di a sia un errore di lettura o di stampa. Da notare, poi, in ossequio al vocalismo salentino il dunai di c che subentra al donai di a e b. Più complessa e difficile da definire la questione di ti di a che diventa tia in b e te in c: la forma metricamente più corretta è ti (e tii sarebbe stato ancora più corretta, ma le forme salentine in uso sono tu, tie, tia e te); tia di b potrebbe essere errore di lettura (o adattamento arbitrario?) del ti di a, mentre il te di c mostra di essere una soluzione intermedia tra ti e tia.

Quinto verso: da questo verso in poi manca la possibilità del confronto con a e in assenza di questo aiuto tutto diventa possibile:  arrivederci di b per arrividerci di c potrebbe avere la stessa genesi di allegro per allegru ma anche essere figlio della stessa italianizzazione di donai di a e b rispetto a dunai di c.

Sesto verso: a proposito di non di b per nu di c e a proposito di di di b per ti di c vale quanto detto per l’arrivederci del verso precedente.

Settimo verso: per non/nu vedi quanto detto per il verso precedente

Ottavo verso: tutte le parole di b (ad eccezione di mi chiama) sono italianizzazione di quelle di c.

Nono verso: è assolutamente identico (so di c per so’ di b è da intendersi come scelta grafica di rappresentazione o meno dell’apocope) in b e c.

Decimo verso: a proposito di fiama di c per fama di b vale quanto detto a proposito di arrividerci di c per arrivederci di b nel quinto verso.

Undicesimo verso: Ma in c per e di b.

Dodicesimo verso: io di b per iu di c potrebbe essere un altro caso di quegli italianismi di cui il Gigli parlava nella prefazione, non mantenuto nella stesura finale. L’ama di b per t’ama di c dev’essere senz’altro un errore di lettura, anche per la traduzione del tutto arbitraria che il De Martino ne fornisce: ti custodisce il mio cuore amante.

 

Aspettando la Notte della Taranta (3/4): da Taranto a Napoli e da Napoli a Parigi

di Armando Polito

Il titolo fa quasi presagire una sorta di scoop su una triangolazione di fondi neri, lo sport preferito di chi ha ridotto il nostro paese (a scanso di equivoci, mi riferisco all’Italia…), con la connivenza di politici di ogni colore, al degrado ambientale, morale e alla fame. Parigi, tuttavia, a quanto ebbe a dirmi il mio commercialista …, non rientra nell’elenco dei paradisi più accorsati e perciò lo scoop è rimandato ad altra data.

La puntata di oggi contiene ben poco di mio, perché è solo la documentazione di un viaggio compiuto da una canzone che trae origine, come genere, dalla nostra terra ma che, stando al testo, vide i natali a Napoli.

L’ho trovata sul sito della Biblioteca Nazionale di Spagna e precisamente alle pagine 7-11 di Le tour du monde en dix chansons nationales & caractéristiques, Choudens Imp. Arouy, Paris, 1874 (?), opera di Paul Lacome (1838-1920) integralmente leggibile e scaricabile al link

http://bdh-rd.bne.es/viewer.vm?id=0000108483&page=1 (di seguito il frontespizio).

L’autore, che vanta una serie impressionante di pubblicazioni prevalentemente di argomento musicale, ha riservato l’onore di rappresentare l’Italia a La pizzica tarentina; essa con lo spartito e il testo tradotto in francese, nel libro occupa le pagine 7-11, che di seguito riproduco.

Trascrivo ora il testo francese per rendere evidente la suddivisione in versi (tutti ottonari; fanno eccezione il 13, il 14 e il 15 dodecasillabi dove l’immagine delle coppie allacciate e quella del trascorrere inesorabile del tempo fino ad una sua inconsapevole dilatazione richiedevano un ritmo meno incalzante, più disteso) e poi lo traduco:

 

C’est à Naples et sous la tonnelle,

lorsque la lune monte aux cieux,

que la joyeuse tarentelle

unit les couples amoreux. (due volte)

Pan! pan! pan! Joyeux bruits de fêtes,

claquez, tambours et castagnettes!

Pan! pan! pan! Que de brunes têtes

ne demandent qu’à perdre la raison!

Pan! pan! pan! Lorsque la nuit brille,

le plaisir dans les yeux scintille!

Pan! pan! pan! Quelle est donc la fille

que l’on pourrait tenir à la maison!

Dansez, dansez, doucement, les couples s’enlacent.

Dansez, dansez muets et la main dans la main.

Dansez, dansez, sans les compter les heures passent,

dansez, dansez, il sera trop vite demain!

C’est à Naple et sous la tonnelle,

lorsque la lune monte aux cieux,

que la joyeuse tarentelle

unit les couples amoreux.

Mille bruits animent l’espace,

cependant chacun est muet;

mais quand un joyeux couple passe,

la brise trahit son secret. (due volte)

Pan! pan! pan! Je t’aime, ma belle.

Quoi me trouverais-tu cruelle?

Pan! pan! pan!  O ma tourterelle!

Tu m’enchainas de solides liens!

Pan! pan! pan! Ta lêvre de flame

hélas a consumé mon âme!

Pan! pan! pan! Pour être ta femme,

je donnerais le ciel et tous les saints!

C’est à Naple et sous la tonnelle,

lorsque la lune monte aux cieux,

que la joyeuse tarentell

 unit les couples amoreux!   

 

È a Napoli e sotto la pergola, quando la luna sale in cielo, che la gioiosa tarantella unisce le coppie innamorate (due volte).

Pan! pan! pan! Gioiosi rumori di feste, battiti con le mani, tamburi e nacchere! Pan! pan! pan! Quante teste brune non chiedono che di perdere la ragione! Pan! pan! pan! Quale è dunque la ragazza che si potrebbe tenere in casa! Danzate, danzate, dolcemente, le coppie si allacciano, Danzate, danzate muti e mano nella mano. Danzate, danzate, senza contarle le ore passano, danzate, danzate, domani sarà troppo tardi. È a Napoli e sotto la pergola, quando la luna sale in cielo, che la gioiosa tarantella unisce le coppie innamorate.

Mille rumori animano lo spazio mentre ciascuno è muto; ma quando passa una coppia felice, la brezza tradisce il suo segreto (due volte)

Pan! pan! pan! Io t’amo, mia bella! Perché dovresti trovarmi crudele? Pan! pan! pan! O mia tortorella! Tu mi incatenasti con solidi legami! Pan! pan! pan! La tua bocca di fiamma, ahimè!,  ha consumato la mia anima. Pan! pan! pan! Per essere la tua donna io cederei il  cielo e tutti i santi! È a Napoli e sotto la pergola, quando la luna sale in cielo, che la gioiosa tarantella unisce le coppie innamorate!)

 

Invito chi conosce la musica (io, purtroppo so solo perché il pentagramma si chiama così …) a tentare di individuare la canzone originale (sarebbe interessantissimo il confronto tra i due testi) e, visto che la musica non cambia, sarebbe il massimo se potesse fornircene l’esecuzione Io sono in grado di dire solo che non potevano mancare nel testo due ingredienti classici: la luna e il pergolato. Basta ricordare: Dorme ‘o mare…Oje bella viene!/’n cielo ‘a luna saglie e va… (Piscatore ‘e Pusilleco) e Perziana scesa/’o frato se n’e asciuto/e appuntamento/è sotto ‘o pergulato… (Pusilleco addiruso).

In attesa che qualche amico musicista aderisca al mio invito non mi rimane che deliziare, dopo averlo fatto con i miei,  i vostri occhi con alcune stampe antiche sul tema. Ho scelto quelle in cui il pergolato è sempre presente. Per la luna abbiate pazienza, prima o poi n cielo ‘a luna saglie

La tarantella, olio su tela di Eduardo Dalbono (Napoli 1841-1915); immagine tratta da http://www.blindarte.com/listing/zoomify/photo/TKlot_11528_1.jpg/id/11528

Tarantella, litografia di Giuseppe Lanzedelli, Vienna, 1859: immagine tratta da http://www.stampeantiche.info/files/a45-tarantella-grande.jpg

La tarantella a Napoli, incisione di Charles Maurand (seconda metà del XIX secolo), tratta dal periodico L’Illustrazione popolare, Treves, Milano, 1869.

10

 La tarantella, di Saro Cucinotta (1830-1871) incisore e Teodoro Duclére (1816-1867) disegnatore; tavola tratta da Francesco De Bourcard, Usi e costumi di Napoli, Nobile, Napoli, v.II, 1858.

11

Incisione di A. H. Payne, 1850 circa; immagine tratta da http://www.abebooks.com/Tarantella-Payne-A-H-1860-Campania/12419354460/bd

(CONTINUA)

per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/07/25/aspettando-la-notte-della-taranta-14-aracne/

per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/07/30/aspettando-la-notte-della-taranta-24-spettacolare-taranta/

per la quarta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/08/18/aspettando-la-notte-della-taranta-44-malinconicu-cantu-e-allegru-mai-da-manduria-a-parigi-da-qui-al-deserto-africano-e-poi/

Aspettando la Notte della Taranta (2/4): spettacolare Taranta!

di Armando Polito

L’aggettivo del titolo è riservato di regola a qualcosa che ci ha colpito in modo particolare, quando, forse, meno ce l’aspettavamo. Può essere un gol, un corpo, un paesaggio, un edificio, un quadro, una statua,  una poesia (l’ordine, decrescente, corrisponde all’idea che ho io dell’emozionalità media …).

Uno dei miracoli della bellezza è quello di non essere soggetta, alla resa dei conti, al funzionamento di tutti e cinque i nostri sensi, compresa, addirittura la vista (questo concetto non vale, probabilmente, per l’emozionalità media di prima …). Così spettacolare può essere anche agli occhi di un cieco un tramonto raccontato dalla voce partecipe di un suo amico. E pensare che spettacolare deriva da spettacolo, questo dal latino spectàculu(m), a sua volta dal verbo spectare=guardare, derivato da spectum, supino di spècere=guardare, imparentato con il greco σκέπτομαι (leggi schèptomai=osservare), dal quale deriverebbe per metatesi –σκεπ– (leggi schep)>-σπεκ– (leggi spec). E poi una serie quasi sterminata di voci delle quali fornisco qui un arido ed incompleto elenco (per brevità escludo i composti) lasciando al lettore il piacere di individuare le molteplici sfumature o deviazioni rispetto al concetto di partenza: specie, speciale, specioso, specialista, specializzazione, specialità, specchio, specchiare, specchiato (aggettivo), speculare (aggettivo e verbo), specillo, spettro (pure lui!) e, restati tali e quali come nacquero in latino, spèculum e spècimen.

Se spettacolare può rivelarsi un piatto o un bicchiere di vino impegnando anche un solo senso per volta o, tutti insieme, la vista, l’olfatto, il gusto, l’udito (il vino agitato nel bicchiere canta), il tatto (vuoi mettere l’addentare una coscia di pollo tenendola stretta in mano con lo scarnificarla a rispettosa distanza con coltello e forchetta o mangiare una frisella con capperi, pomodori e rucola usando una forchetta anziché la mano?) e il gusto, è indubbio che i sensi di più largo impiego nella fruizione dello spettacolo propriamente detto sono la vista e l’udito, anche se in un futuro non lontano percepiremo anche i profumi e, ahimé, le puzze.

Sotto questo punto di vista la Notte della Taranta è assolutamente in linea con manifestazioni simili e non è mia intenzione riprendere la vecchia querelle tra coloro che si accostano al folklore con un approccio filologico rimpiangendo, per esempio, il Canzoniere grecanico salentino e chi, invece, si mostra più ben disposto ad una sua contaminazione e, dunque, ad una fruizione più consumistica, accettando in questo l’opinione di Lapassade sui Sud Sound System, simbolo del tarantamuffin, cioè della continuità musicale tra ragamuffin e tarantismo nel Salento.

Pretendere di mantenere in vita l’antico modernizzandolo, però, secondo me è estremamente pericoloso e fuorviante, oltre che, in ultima analisi, illusorio. Non vorrei, sotto questo punto di vista, che anche la povera, incolpevole taranta facesse la stessa fine del latino e del greco, che hanno pagato un pesantissimo tributo ad innovazioni didattiche che pretendevano di ridimensionare più o meno drasticamente l’aspetto grammaticale per privilegiare i contenuti, come se questi ultimi, per poter essere penetrati correttamente, non richiedessero allora e non richiedano ancora oggi (e così sarà pure domani) una conoscenza almeno dignitosa degli strumenti con cui sono stati realizzati, il latino e il greco, appunto. Est modus in rebus: non si può impunemente pretendere di fornire una conoscenza passabile di queste lingue e dei loro contenuti privilegiando il libro dei testi  (la cosiddetta antologia) rispetto a quello della grammatica o viceversa.

E, come uno studente non in grado di distinguere il soggetto dal complemento oggetto (lo so che c’è di peggio, ma non voglio infierire …) di una frase italiana (conseguenza anche del moderno approccio al latino e al greco) crede di essere un filologo non essendo in grado nemmeno di organizzare correttamente una sua frase di tre parole o di interpretare correttamente quella organizzata correttamente da altri, così il turista, nostrano o no, crede di sapere tutto, assistendo alla magica notte, su questo pezzo di memoria e, forse, va pure in trance, come chi davanti al Colosseo non resiste all’impulso di farsi la foto-ricordo col finto centurione …

Non ho la pretesa di convincere nessuno della bontà dell’opinione che in più occasioni ho manifestato nei riguardi di simili operazioni; voglio solo invitare il lettore a meditare su una doppia comparazione che qui propongo.

La prima immagine è tratta dal saggio di Brizio Montinaro Danzare col ragno. Musica e letteratura sul tarantismo dal XV al  XX secolo, Argo, Lecce, 2011 e mostra la tarantata Maria di Nardò durante la cura domiciliare praticata il 24 giugno 1959 dal barbiere-terapeuta, pure lui neretino, Luigi Stifani. La seconda è la tavola con cui Gustavo Doré illustrò i versi1 in cui Dante evoca la mitica figura di Aracne.

La sfortunata tessitrice che osò sfidare una dea non poteva non essere messa in campo da chi ha studiato il fenomeno del tarantismo2. La comparazione appena proposta facilita al lettore la comprensione del complicato intreccio in cui la tarantata si liberava dagli effetti del morso, reali o presunti che fossero e sia pure con l’aiuto esterno della musica, diventando prima essa stessa (endorcismo), con i suoi movimenti, tarantola. E il lenzuolo stropicciato dai suoi movimenti, dettaglio, a quanto ne so, ancora sfuggito, sembra evocare la tela distrutta dall’invidiosa Minerva.

Analogie suggestive e molto probabilmente casuali. Certo. Lo saranno anche quelle che è dato cogliere grazie alla seconda comparazione, quella che ha come oggetto due filmati dei quali segnalo i links;  oppure nel mistificante sfruttamento commerciale delle nostre memorie dobbiamo mettere in conto anche la possibilità che un terzo, prossimo filmato sia più vicino a quello di un Erotica tour che a quello del documentario d’epoca?

http://www.youtube.com/watch?v=f3RaIpFxw8I

http://www.youtube.com/watch?v=Qdp4y81-YsA

E termino ponendo una domanda maliziosa: tutte le tarantate autentiche erano così sexy come le tarantate-attrici di oggi …? Ah, spettacolare taranta!

(CONTINUA)

per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/07/25/aspettando-la-notte-della-taranta-14-aracne/

per la terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/08/07/aspettando-la-notte-della-taranta-34-da-taranto-a-napoli-e-da-napoli-a-parigi/

per la quarta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/08/18/aspettando-la-notte-della-taranta-44-malinconicu-cantu-e-allegru-mai-da-manduria-a-parigi-da-qui-al-deserto-africano-e-poi/

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1 Purgatorio XII, 43-45: O folle Aragne, sì vedea io te/già mezza ragna, trista in su li stracci/de l’opera che mal per te si fé. La figura dell’infelice fanciulla ricorre pure come similitudine nella descrizione del mostro demonico Gerione in Inferno, XVII, 10-18: La faccia sua era faccia d’uom giusto,/tanto benigna avea di fuor la pelle,/e d’un serpente tutto l’altro fusto;/due branche avea pilose insin l’ascelle;/lo dosso e ‘l petto e ambedue le coste/dipinti avea di nodi e di rotelle./Con più color, sommesse e sovraposte/non fer mai drappi Tartari né Turchi,/né fuor tai tele per Aragne imposte.

2 Alla luce di quanto ho già detto in https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/07/25/aspettando-la-notte-della-taranta-14-aracne/ non mi meraviglierei (non vorrei che fosse stato già detto o scritto a mia insaputa …) neppure se gli strumenti musicali che compaiono ne La Fábula de Aracne o Las Hilanderas di Diego Velázquez, Museo del Prado (1657-1658) venissero interpretati come allusivi a quelli utilizzati nel rituale di liberazione delle tarantate.

 

Aspettando la Notte della Taranta (1/4): Aracne

di Armando Polito

immagine tratta da http://mw2.google.com/mw-panoramio/photos/medium/27149023.jpg
immagine tratta da http://mw2.google.com/mw-panoramio/photos/medium/27149023.jpg

Manca poco alla Notte della Taranta,  l’evento principe dell’estate salentina. Fervono i preparativi e pure io nel mio piccolo mi do da fare con questa miniserie in quattro puntate.

Com’è noto il tarantismo ha ispirato milioni di pagine e non ci si poteva certamente lasciar sfuggire l’occasione di cercare a tutti i costi qualche collegamento con il mito di Aracne. Laddove, poi, qualcosa non quadra c’è sempre la possibilità di formulare ipotesi più o meno fondate. Il guaio è quando queste ipotesi vengono riprese acriticamente e vengono disinvoltamente spacciate come dato scientificamente certo.

È proprio il caso della nostra Aracne, per la quale letture frettolose hanno portato, poi, sprovveduti lettori, suggestionati anche da alcuni testi di canzoni popolari e probabilmente dall’assonanza tra Aracne e Arianna, ad inventarsi una variante del mito (come in http://www.sagresalento.com/pizzica/10-pizzica-e-tarantismo.html), guardandosi bene dal citare le fonti ed usando la parola magica leggenda …, per cui Aracne  fu sedotta da un marinaio che partì dopo la prima notte d’amore, e da allora visse in attesa del ritorno del suo amore. Una mattina la ragazza vide una barca avvicinarsi alla costa e fece il segnale convenuto con il suo marinaio. Dalla nave giunse la risposta: era tornato. Ma a pochi metri dal porto la barca fu affondata e coloro che erano a bordo vennero uccisi. Arakne vide morire il suo amore dopo anni di attesa. Così, alla morte della giovane, Zeus la rimandò in terra per restituire il torto ricevuto, non come ragazza ma come tarantola.

Posso affermare senza ombra di dubbio e tema di smentita che quello di Aracne è uno dei pochi miti tramandatoci in un’unica versione, per di più da un unico autore, Ovidio (43 a. C-18 d. C.), nei versi 1-145 del libro VI delle Metamorfosi, che di seguito traduco:

La dea tritonia (Pallade o Atena, identificata poi dai Romani in Minerva, nata sulle rive del lago Tritone, in Africa) aveva prestato orecchio a queste parole (delle Muse) ed aveva approvato il canto e l’ira delle Aonie (appellativo delle Muse perché in Aonia, cioè in Beozia, avevano la loro sede). Allora tra sé: “ Lodare è poco; sia lodata anch’io e non permetta che la mia divinità sia disprezzata senza punizione. E volse la sua attenzione al destino di Aracne di Meonia, che aveva sentito non voler cedere a lei nelle lodi per l’abilità nel lavorare la lana. Essa non era famosa né per il luogo né per la famiglia d’origine ma per la sua arte. Suo padre, Idmone di Colofone, tingeva le assorbenti lane con porpora di Focea. La madre era morta, ma anche essa era di origine plebea e della stessa condizione del marito. Tuttavia (Aracne) con la sua arte si era fatto un gran nome per le città della Lidia, sebbene, essendo nata da modesta famiglia, abitasse nella piccola Ipepe. Per vedere i suoi capolavori spesso le ninfe del Timolo lasciarono i vigneti del loro Timolo (o Tmolo, monte della Lidia), le ninfe abbandonarono le loro onde del Pattolo (fiume, sempre della Lidia). Né piaceva solo ammirare le vesti confezionate  ma anche l’esecuzione del lavoro, tanto alto era il livello della sua arte. Sia che avvolgesse la lana rozza nei primi gomitoli o con le dita facesse avanzare il lavoro o con lungo gesto sfilacciasse, dopo averle afferrate di nuovo le lane simili a nuvolette o girasse il tondo fuso con l’agile pollice o ricamasse, avresti capito che era stata istruita da Pallade. Tuttavia lei (Aracne) lo nega e offesa da una così grande maestra dice: “Gareggi con me; non c’è nulla che io, una volta vinta, rifiuti”. Pallade si traveste da vecchia, copre le tempie con capelli bianchi mentre un bastone sorregge gli arti malfermi. Allora così comincia a dire: “L’età avanzata non ha tutte cose da evitare: l’esperienza viene dagli anni tardi. Non disprezzare il mio consiglio. La massima fama tra le mortali nel lavorare la lana sia cercata da te; riconosci la superiorità della dea e con voce supplichevole, temeraria, chiede il perdono per le tue parole: essa concederà il perdono a chi lo chiede”. (Aracne) la guarda torvamente, lascia il lavoro iniziato e, trattenendo a stento la mano e tradendo nel volto l’ira, con tali parole risponde a Pallade che ancora non si è rivelata: “Te ne vieni tu debole di mente e provata dalla lunga vecchiaia. E nuoce troppo troppo l’aver vissuto a lungo. Queste parole le ascolti tua nuora, tua figlia, se ne hai una. So consigliarmi bene da sola. Perché tu non creda di avermi giovato col tuo consiglio, non ho cambiato parere. Perché costei non viene qui? Perché evita questo confronto?”. Allora la dea disse: “È venuta” e fece scomparire l’aspetto senile e mostrò Pallade. Le ninfe e le donne di Migdonia onorano la dea, solo Aracne non rimase atterrita. Tuttavia arrossì e l’improvviso rossore le segnò suo malgrado il volto e di nuovo svanì, come l’aria suole divenire purpurea al primo apparir dell’aurora e dopo breve tempo schiarirsi al sorgere del sole. Insiste nell’atteggiamento assunto e per brama di stupida gloria precipita verso il suo destino; infatti la figlia di Giove (Pallade) non rifiuta né l’ammonisce di nuovo né ormai rinvia la gara. Non c’è indugio, si sistemano ambedue frontalmente e con sottile filo tende ognuna il suo ordito, la tela è congiunta al subbio, la canna tiene distinti i fili; la spola viene inserita in mezzo ai raggi appuntiti, cosa che fanno le dita, e i denti intagliati nel pettine battuto comprimono la trama passata tra i fili. Entrambe si affrettano e con la veste abbassata sul petto muovono le esperte braccia mentre l’impegno appassionato inganna la fatica. Lì viene tessuta anche porpora che ha sentito la caldaia di Tiro e tenui ombre dalle leggere sfumature, come l’arcobaleno con i raggi del sole rifratti dalla pioggia suole dipingere il lungo cielo di un grande arco; sebbene in esso risplendano mille colori diversi, tuttavia lo stesso passaggio sfugge agli occhi che osservano, a tal punto quelli contigui si somigliano, gli estremi differiscano. Lì viene inserito nei fili pure duttile oro e sulla tela viene rappresentata un’antica storia. Pallade raffigura il colle di Marte sulla rocca di Cecrope (primo re mitico di Atene) e l’antica contesa sul nome da dare alla terra. Sei dei da una parte, sei dall’altra con Giove al centro siedono con augusta gravità su alti scanni. Un aspetto tutto proprio contraddistingue ciascuno degli dei: l’immagine di Giove è quella di un re.  Fa che vi stia il dio del mare e colpisca col lungo tridente l’aspra roccia e dal mezzo della ferita del sasso balzar fuori il mare, per aggiudicarsi con questo dono la città. A se stessa assegna uno scudo, un’asta dalla punta acuminata, un elmo per la testa, il petto è protetto dall’egida e rappresenta la terra mentre percossa dalla sua lancia genera la creatura del biancheggiantecon le bacche e gli dei che guardano stupefatti; fine dell’opera la (sua) Vittoria. Tuttavia, affinché la rivale di lode capisca dagli esempi quale premio possa sperare per così folle audacia, ai quattro angoli aggiunge quattro (altre) gare, vivaci nel loro colore, di immediata comprensione nel breve tratto. Un angolo mostra Rodope di Tracia ed Emo, ora gelidi monti, un tempo corpi mortali che attribuirono a sé i nomi dei sommi dei. Il secondo angolo mostra il miserevole destino della madre dei Pigmei: Giunone dopo averla vinta in gara ordinò che fosse una gru e indicesse guerre con il suo popolo. Raffigurò anche Antigone che un tempo osò contendere con la consorte del grande Giove e la regale Giunone la mutò in uccello né le giovarono Ilione o il padre Laomedonte perché come candida cicogna, spuntatele le penne, non si applaudisse da sola col rumoroso becco. Il solo angolo che rimane mostra Cinira privato dei figli; ed egli, mentre abbraccia i gradini del tempio, membra delle sue figlie, e si abbandona sulla pietra, sembra piangere. Contorna l’estremità dell’orlo con rami di olivo simbolo di pace: è questa la forma e con il suo albero dà fine alla sua opera. La donna di Lidia (Aracne) disegna Europa ingannata dall’immagine del toro: crederesti che il toro sia vero, vero il mare. Si vede mentre guarda la terra lasciata e chiamare le sue compagne e temere il contatto dell’acqua che sale e ritrarre le timide gambe. Raffigurò anche Asterie esser ghermita da un’aquila che si affatica, raffigurò Leda giacere sotto le ali di un cigno, vi aggiunse come Giove sotto le spoglie di un satiro ingravidò di due gemelli la bella figlia di Nitteo, come sia stato Anfitrione quando prese te, donna di Tirinto (Alcmena), come (sia stato) oro abbia ingannato Danae, come fuoco la figlia di Asopo, come pastore Mnemosine, come serpente screziato la figlia di Deo (Proserpina). Raffigura anche te, o Nettuno, mutato in torvo giovenco che ti accoppi alla figlia di Eolo. Tu sotto le sembianze di Enipeo generi gli Aloidi, sotto quelle di ariete inganni la figlia di Bisalte; e te la mitissima madre delle messi dalla bionda chioma sentì come cavallo, la madre, con serpenti al posto dei capelli, del cavallo alato, sentì come uccello, Melanto sentì come delfino. Per tutti loro rese fedelmente il loro aspetto e l’aspetto dei luoghi C’è lì in immagine da campagnolo Febo, come abbia assunto ora penne di sparviero, ora pelle di leone, come da pastore abbia ingannato Isse figlia di Macareo, come Libero con la falsa uva abbia ingannato Erigone, come Saturno sotto le sembianze di un cavallo abbia generato il biforme Chirone. L’estremità della tela , circondata da un fine bordo, mostra fiori intrecciati a flessuosa edera. Non Pallade, non la Gelosia avrebbe potuto criticare quell’opera. Si dolse del fatto la bionda dea (Pallade) e fece a pezzi la tela dipinta, le colpe degli dei. E come teneva (in mano) la spola (di legno) del monte Citoro, tre , quattro volte colpì la fronte di Aracne figlia di Idmone. La poveretta non lo sopportò e decisa si legò un cappio al collo. Pallade, avendo compassione di lei che pendeva, la sollevò e così disse: “Vivi pure, tuttavia pendi, malvagia, e, perché tu non sia sicura del futuro, la stessa legge di pena sia comminata per la tua stirpe e per i discendenti che verranno”. Poi andando via la cosparse del succo di erba di Ecate; e subito le chiome al contatto della triste sostanza scivolarono via, con esse il naso e le orecchie, il capo diviene piccolissimo, è anche piccola in tutto il corpo; sul fianco restano attaccate esili dita che fungono da zampe, ha il resto come ventre, dal quale tuttavia continua ad emettere del filo e da ragno costruisce le antiche tele.1

Risparmio al lettore la ridda di interpretazioni e dei ricami anche ideologici che il mito ha ispirato e umilmente lo rendo partecipe solo della particolare simpatia che nutro per questa ragazza che a qualcuno può sembrare presuntuosa ma che per me è solo consapevole dei suoi mezzi, intelligente, ribelle e anticonformista. A Pallade che crede di intimorirla con l’esibizionistica raffigurazione della potenza del potere divino (in ultima analisi della religione …) lei risponde magistralmente mettendo impietosamente in luce le miserie e gli inganni di quello stesso potere; il che spinge Pallade, che pure è simbolo di saggezza …, non al perdono (la soluzione più dignitosa, anche se destabilizzante, per lei e per i compagni di cordata) ma ad una raffinata vendetta.

Questa mia interpretazione è certo antitetica al significato morale originario, conservatosi pressoché immutato nel tempo,  del mito. La morale, però, è in continua evoluzione e non è detto che quel che in passato era considerato un valore tale debba restare per sempre. D’altra parte l’ipse dixit fortunatamente è morto da tempo, anche se i rigurgiti del principio di autorità (che io preferirei veder sostituito, dopo adeguato cambio dei contenuti, con quello di autorevolezza, concetto che coincide con quello della responsabilità personale e, dunque, dell’esempio, quello buono …) si manifestano periodicamente, per cui abbiamo ancora un disperato bisogno di eroi, come  Gandhi, Don Milani e, ahinoi!, pochi altri, che si contrappongano ai buffoni di turno, i cosiddetti potenti.

Qualcuno troverà  opinabile quanto ho appena finito di affermare, ma converrà almeno in quanto sto per dire. Ho scomodato già molte volte il detto latino nomina omina (i nomi sono presagi). Non sembra parallela alla descrizione della metamorfosi subita dalla ragazza anche quella del suo nome grazie a fenomeni fonetici da manuale?

A commento di questo mio diagramma aggiungo che il nome, nato femminile (quando mai un uomo ha lavorato al telaio …) in latino ha sviluppato (dall’aggettivo greco sostantivato) anche il femminile (arànea) con lo stesso significato (l’iniziale valore aggettivale rimane nell’italiano ragnatela che suppone una locuzione latina arànea tela=tela di ragno), mentre il neutro (aràneum) è passato ad indicare, con perdita di prestigio, l’oggetto o la malattia.

Come l’unica fonte letteraria è Ovidio, così le testimonianze iconografiche antiche del mito sono estremamente scarse, sostanzialmente due e, per giunta, non interpretate univocamente dagli studiosi.

La prima è la decorazione (nel dettaglio sottostante tratto da  Gladys Davidson Weinberg-Saul Weinberg, Arachne of Lydia at Corinth, in The Aegean and the Near East. Studies presented to Hetty Goldman on the occsion of her seventy-fifth birthday, S. S. Weinberg, New York 1956, tav. 33) di un aryballos (piccolo vaso per profumi e oli) datato intorno al 600 a. C. e custodito nel Museo Archeologico di Corinto.

C’è chi considera la decorazione come una semplice rappresentazione di genere dell’arte della tessitura e chi, invece, ci vede una specie di striscia,  identificando una prima volta Pallade, travestita da vecchia e intenta a tessere,  nella seconda (a partire da sinistra) figura femminile e  una seconda volta nella quarta, quella più grande.

La seconda testimonianza iconografica (immagine tratta da M. P. Del Moro, Il foro di Nerva, in Il Museo dei Fori imperiali nei Mercati di Traiano, Electa, Milano, 2007, fig. 257) è il dettaglio di un fregio, risalente alla fine del I secolo d. C.,  del cosiddetto Foro transitorio a Roma. La prime due figure (a partire da sinistra) per alcuni sarebbero, rispettivamente, Aracne e Pallade mentre la prima viene colpita dalla seconda con la spola; per altri la scena rappresenta l’omaggio a Pallade da parte di un gruppo di tessitrici devote.

Sterminata, è invece, la serie delle rappresentazioni più recenti, che conobbero il momento di maggior successo in concomitanza con le varie edizioni illustrate delle Metamorfosi uscite soprattutto dal XV al XVIII secolo.

Le immagini con cui mi congedo dal cortese lettore sono tutte tratte dal sito della Biblioteca Nazionale di Francia (http://gallica.bnf.fr/).

Da un’edizione manoscritta francese del 1403 del De claris mulieribus di Giovanni Boccaccio.

Dall’edizione delle Metamorfosi di A. Vérard, Parigi, 1498.

g

Dall’edizione veneziana delle Metamorfosi di Bernardino De Bindoni del 1540.

Dall’edizione delle Metamorfosi di Giovanni di Tornes, Lione, 1559.

Da Les Metamorphoses d’Ovide, incisioni di Jean Mathieu, Vedova Langellier, Parigi, 1619.

Da Les Metamorphoses d’Ovide, traduzione in francese di P. Duryer, P. & J. Blaeu, Janssons à Waesberge, Boom & Goethals, Amsterdam, 1702.

Da Les Metamorphoses d’Ovide, traduzione in francese dell’abate Banier, Hochereau, Parigi, 1767.

Se ora vi soffermerete ad osservare la mirabile architettura di una ragnatela (sulle sue proprietà terapeutiche rivendicate anticamente e non vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/09/26/la-taranta-e-la-lingatera-la-tarantola-e-la-ragnatela/), magari impreziosita dalle perle della prima rugiada, ed eviterete di uccidere il primo ragno che vi capiterà a tiro, il sacrificio di Aracne e, molto più modesto, questo mio lavoro non saranno stati inutili … ;  e, imitando la pubblicità televisiva, vi do l’arrivederci a breve con la seconda puntata.

(CONTINUA)

per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/07/30/aspettando-la-notte-della-taranta-24-spettacolare-taranta/

per la terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/08/07/aspettando-la-notte-della-taranta-34-da-taranto-a-napoli-e-da-napoli-a-parigi/

per la quarta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/08/18/aspettando-la-notte-della-taranta-44-malinconicu-cantu-e-allegru-mai-da-manduria-a-parigi-da-qui-al-deserto-africano-e-poi/

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1 Praebuerat dictis Tritonia talibus aures/carminaque Aonidum iustamque probaverat iram./Tum secum “laudare parum est; laudemur et ipsae/numina nec sperni sine poena nostra sinamus”/Maeoniaeque animum fatis intendit Arachnes,/quam sibi lanificae non cedere laudibus artis/audierat. Non illa loco neque origine gentis/clara, sed arte fuit. Pater huic Colophonius Idmon/Phocaico bibulas tingebat murice lanas./Occiderat mater; sed et haec de plebe suoque/aequa viro fuerat. Lydas tamen illa per urbes/quaesierat studio nomen memorabile, quamvis/orta domo parva parvis habitabat Hypaepis./Huius ut adspicerent opus admirabile, saepe/deseruere sui nymphae vineta Timoli,/deseruere suas nymphae Pactolides undas./Nec factas solum vestes spectare iuvabat;/tum quoque, cum fierent: tantus decor adfuit arti./Sive rudem primos lanam glomerabat in orbes,/seu digitis subigebat opus repetitaque longo/vellera mollibat nebulas aequantia tractu,/sive levi teretem versabat pollice fusum,/seu pingebat acu, scires a Pallade doctam./Quod tamen ipsa negat, tantaque offensa magistra/“certet” ait “mecum: nihil est, quod victa recusem.”/Pallas anum simulat falsosque in tempora canos/addit et infirmos, baculo quos sustinet, artus./Tum sic orsa loqui: “Non omnia grandior aetas,/quae fugiamus, habet: seris venit usus ab annis./Consilium ne sperne meum. Tibi fama petatur/inter mortales faciendae maxima lanae:/cede deae veniamque tuis, temeraria, dictis/supplice voce roga: veniam dabit illa roganti.”/Adspicit hanc torvis inceptaque fila relinquit,/vixque manum retinens confessaque vultibus iram/talibus obscuram resecuta est Pallada dictis:/“Mentis inops longaque venis confecta senecta./Et nimium vixisse diu nocet. Audiat istas,/siqua tibi nurus est, siqua est tibi filia, voces./Consilii satis est in me mihi. Neve monendo/profecisse putes, eadem est sententia nobis./Cur non ipsa venit? cur haec certamina vitat?”/Tum dea “venit” ait, formamque removit anilem/Palladaque exhibuit. Venerantur numina nymphae/Mygdonidesque nurus: sola est non territa virgo./Sed tamen erubuit, subitusque invita notavit/ora rubor rursusque evanuit, ut solet aer/purpureus fieri, cum primum aurora movetur,/et breve post tempus candescere solis ab ortu./Perstat in incepto stolidaeque cupidine palmae/in sua fata ruit: neque enim Iove nata recusat,/nec monet ulterius, nec iam certamina differt./Haud mora, constituunt diversis partibus ambae/et gracili geminas intendunt stamine telas/(tela iugo iuncta est, stamen secernit harundo);/inseritur medium radiis subtemen acutis,/quod digiti expediunt, atque inter stamina ductum/percusso paviunt insecti pectine dentes./Utraque festinant cinctaeque ad pectora vestes/bracchia docta movent, studio fallente laborem./Illic et Tyrium quae purpura sensit aenum/texitur et tenues parvi discriminis umbrae,/qualis ab imbre solet percussis solibus arcus/inficere ingenti longum curvamine caelum:/in quo diversi niteant cum mille colores,/transitus ipse tamen spectantia lumina fallit;/usque adeo quod tangit idem est, tamen ultima distant./Illic et lentum filis inmittitur aurum/et vetus in tela deducitur argumentum./Cecropia Pallas scopulum Mavortis in arce/pingit et antiquam de terrae nomine litem./Bis sex caelestes medio Iove sedibus altis/augusta gravitate sedent. Sua quemque deorum/inscribit facies: Iovis est regalis imago./Stare deum pelagi longoque ferire tridente/aspera saxa facit, medioque e vulnere saxi/exsiluisse fretum, quo pignore vindicet urbem;/at sibi dat clipeum, dat acutae cuspidis hastam,/dat galeam capiti, defenditur aegide pectus,/percussamque sua simulat de cuspide terram/edere cum bacis fetum canentis olivae/mirarique deos: operis Victoria finis./Ut tamen exemplis intellegat aemula laudis,/quod pretium speret pro tam furialibus ausis,/quattuor in partes certamina quattuor addit,/clara colore suo, brevibus distincta sigillis./Threiciam Rhodopen habet angulus unus et Haemum/(nunc gelidi montes, mortalia corpora quondam!),/nomina summorum sibi qui tribuere deorum./Altera Pygmaeae fatum miserabile matris/pars habet: hanc Iuno victam certamine iussit/esse gruem populisque suis indicere bella./Pinxit et Antigonen ausam contendere quondam/cum magni consorte Iovis, quam regia Iuno/in volucrem vertit; nec profuit Ilion illi/Laomedonve pater, sumptis quin candida pennis/ipsa sibi plaudat crepitante ciconia rostro./Qui superest solus, Cinyran habet angulus orbum;/isque gradus templi, natarum membra suarum,/amplectens saxoque iacens lacrimare videtur./Circuit extremas oleis pacalibus oras:/is modus est, operisque sua facit arbore finem./Maeonis elusam designat imagine tauri/Europam: verum taurum, freta vera putares./Ipsa videbatur terras spectare relictas/et comites clamare suas tactumque vereri/adsilientis aquae timidasque reducere plantas./Fecit et Asterien aquila luctante teneri,/fecit olorinis Ledam recubare sub alis;/addidit, ut satyri celatus imagine pulchram/Iuppiter implerit gemino Nycteida fetu,/Amphitryon fuerit, cum te, Tirynthia, cepit,/aureus ut Danaen, Asopida luserit ignis,/Mnemosynen pastor, varius Deoida serpens./Te quoque mutatum torvo, Neptune, iuvenco/virgine in Aeolia posuit. Tu visus Enipeus/gignis Aloidas, aries Bisaltida fallis;/et te flava comas frugum mitissima mater/sensit equum, sensit volucrem crinita colubris/mater equi volucris, sensit delphina Melantho./Omnibus his faciemque suam faciemque locorum/reddidit. Est illic agrestis imagine Phoebus,/utque modo accipitris pennas, modo terga leonis/gesserit, ut pastor Macareida luserit Issen;/Liber ut Erigonen falsa deceperit uva,/ut Saturnus equo geminum Chirona crearit./Ultima pars telae, tenui circumdata limbo,/nexilibus flores hederis habet intertextos./Non illud Pallas, non illud carpere Livor/possit opus. Doluit successu flava virago/et rupit pictas, caelestia crimina, vestes./Utque Cytoriaco radium de monte tenebat,/ter quater Idmoniae frontem percussit Arachnes./Non tulit infelix laqueoque animosa ligavit/guttura. Pendentem Pallas miserata levavit/atque ita “vive quidem, pende tamen, improba” dixit:/“lexque eadem poenae, ne sis secura futuri,/dicta tuo generi serisque nepotibus esto.”/Post ea discedens sucis Hecateidos herbae/sparsit; et extemplo tristi medicamine tactae/defluxere comae, cum quis et naris et aures,/fitque caput minimum, toto quoque corpore parva est:/in latere exiles digiti pro cruribus haerent,/cetera venter habet: de quo tamen illa remittit/stamen et antiquas exercet aranea telas.

 

La taranta del Caucaso

di Armando Polito

Può darsi pure che il titolo sia interpretato come una sorta di reazione alle vistose storture che in nome del business hanno contaminato, col pretesto di conservarne il ricordo, il fenomeno antico diventato, forse più del sole, del mare e del vento, l’emblema del Salento nel mondo. Può darsi pure che in me l’inconscio abbia sopraffatto per un attimo la razionalità, ma, tutto sommato, credo che anche il lettore più raffinato alla fine riconoscerà che questo post non poteva avere altro titolo.

Ho trovato l’immagine di testa sul sito della Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia, come, d’altra parte, mostra la filigrana, espediente protettivo di una malintesa interpretazione del diritto d’autore; in questo caso, tutt’al più, si potrebbe parlare di diritto di digitalizzazione derivante, a sua volta, da un diritto connesso con la custodia di un bene, non della sua proprietà, essendo la Marciana, come lo stesso Nazionale dice, un’istituzione pubblica e non privata. Avrò pure una visione comunista della cultura e non voglio attardare il lettore su un problema secondo me gravissimo che nessuno sembra aver voglia di cominciare ad affrontare e al quale ho dedicato più di un post; dico solo che, se avessi voluto spacciare l’immagine come mia  (nel senso di da me digitalizzata e non, magari!,  di da me posseduta) per me, che pure non sono un mago del pc, sarebbe stato uno scherzo, senza neppure scomodare Photoshop, eliminarla senza che ne restasse la minima traccia. Roba di una decina di minuti, secondi, non primi.

La tavola consta di una prima immagine in cui si vede un uccello, la cui identificazione lascio a qualche lettore ornitologo o, al limite, cacciatore (a meno che la specie raffigurata non sia da tempo estinta …), nell’atto di avventarsi su due tarantole (lo conferma la scritta Tarantula in basso). A questo punto diamo inizio alle telefonate: su quale delle due per prima, secondo voi, si avventerà l’uccello battagliero?

Lasciando da parte il paesaggio, sul quale ritornerò alla fine, passo alla seconda immagine.

Spicca in primo piano un ricino. Inutile fare l’ipocrita: prima o poi, forse, l’avrei riconosciuto ma, senza l’aiuto determinante del Ricinus che si legge in alto a destra, forse questo post sarebbe ancora in gestazione e avrei dovuto affrontare un parto distocico …

A sinistra, invece, si legge Wonder boom. Qui sono cominciati i dolori, per i quali, come si sa, non è certamente indicato l’olio di ricino…

Escluso il toponimo sudafricano Wonderboom, non mi è rimasto che considerare il significato letterale e distinto delle due voci: wonder=meraviglioso, boom=esplosione. A questo punto si è accesa la lampadina (quando ero più giovane era ad incandescenza, ora è a led, cioè a luce fredda, ma non so se l’aggiornamento tecnologico mi abbia giovato …) e il pensiero è volato agli effetti … meravigliosi dei semi della pianta, che vanno dalla morte per avvelenamento a quella per dissenteria …

Anche qui bando all’ipocrisia: senza la rete, da cui ho appreso che wonderboom è il nome inglese del ricino, non ci sarebbe stata conferma alla mia rozza e quasi meccanica ipotesi etimologica, sia pur con l’aggiustamento dell’ultim’ora per cui secondo me, per quanto riguarda l’esplosione, il riferimento è solo allo spettacolo offerto dalla pianta alla fioritura …

La terza immagine della tavola è in realtà una tabella.

Vi è riportato l’alfabeto georgiano (sul quale, fra l’altro, ho scritto e pubblicato una dozzina di saggi; purtroppo non me ne ricordo gli estremi bibliografici …). Anche qui senza l’ABC des Géorgiens che si legge all’inizio sarei sicuramente in alto mare e probabilmente questo post non sarebbe esistito o non gli avrei dato il titolo che sapete.

Le montagne, infatti, che in entrambe le immagini si vedono sullo sfondo, appartengono, guarda caso, al Caucaso. Se, infine, state morendo dalla voglia di scoprire se e quanto col Caucaso ci azzecchi la nostra taranta e questa col ricino, sapete a chi rivolgervi in quest’Italia dei valori …

 

 

La taranta: mi sta bene quasi tutto, ma da dove viene “taranta”?

di Armando Polito

immagine tratta da http://animals.nationalgeographic.com/animals/bugs/tarantula/
immagine tratta da http://animals.nationalgeographic.com/animals/bugs/tarantula/

 

Come in Puglia si fa contro il veleno/di quelle bestie, che mordon coloro,/che fanno poi pazzie da spiritati,/e chiamansi in vulgar tarantolati./E bisogna trovar un, che sonando/un pezzo, trovi un suon che al morso piaccia;/sul qual ballando, e nel ballar sudando/colui da sé la fiera peste caccia.

 Francesco Berni (1497-1535), Orlando innamorato, XLI, ottava 6, vv. 5-8; ottava 7, vv. 1-4.

 

Mi ero ripromesso di angustiare il lettore con un post sull’argomento ad agosto, quando il nostro simpatico animaletto è ogni anno oggetto, inconsapevolmente (e, forse, almeno per lui è una fortuna …), di attenzione mondiale. Tuttavia, il recentissimo bel lavoro di Daniele Vigna fruibile, per chi se l’è perso, al link  https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/12/12/la-scherma-il-codice-la-ronda-nella-notte-di-san-rocco-a-torre-paduli/, mi ha ispirato e indotto a bruciare i tempi, anche per non suscitare il sospetto di sfruttare l’evento della stagione per qualche contatto in più …

Quanto sia grande il quasi che nel titolo precede tutto lo lascio intuire al lettore (anche se l’ho anticipato con la dichiarazione d’invidia nei confronti dell’incolpevole protagonista) dichiarando apertamente che ciò che mi sta bene (cioè il fenomeno antropologico e, ancor più, il simpaticissimo presunto responsabile) è ormai un dettaglio fagocitato dal modo perverso di agire del nostro tempo che crede di fare opera meritoria contaminando artificiosamente  la memoria storica col businnes1 (e questo non mi sta bene) …

Il lettore avrà pure intuito che qui non troverà clamorose ipotesi ad effetto sull’origine, magari aliena, della taranta ma solo osservazioni di natura etimologica che inizieranno dopo una parentesi iconografica.

 

Tavola tratta da Attanasio Kircher (1602-1680), Magnes sive de arte magnetica, Ludovico Grignano, Roma, 1641, pag. 874. Il cartiglio superiore contiene l’Antidotum tarantulae (L’antidoto della tarantola), cioè la composizione musicale con finalità terapeutica2; quello centrale reca la scritta Tarantulae Sive Phalangÿ Apuli Vera Effigies (Vera immagine della tarantola o falangio di Puglia); in quello inferiore si legge: a sinistra: Inferior pars Tarantulae Ventrem Exhibens (Parte inferiore che mostra il ventre della tarantola); al centro: Musica sola mei Superest medicina Veneni (Resta la sola musica come medicina del mio veleno); a destra: Superior pars dorsum Tarantulae exhibens (Parte superiore che mostra il dorso della tarantola). I tre cartigli, insieme con tre tarantole, hanno come sfondo una carta della Puglia in cui dall’alto in basso si leggono i toponimi: Bari, Bitonto, Polignano, Conversano, Aquaviva (Acquaviva delle fonti), Gravina (Gravina di Puglia), Cassano (Cassano delle Murge), Martina (Martina Franca), Cisternino, Taranto, Oria, Brundusi (Brindisi), Usano (Uggiano Montefusco), Scelino (Cellino San Marco), Maliano (Magliano), Maruzo (Maruggio), Lecce, Otranto, Nardo (Nardò), Galipoli (Gallipoli), Alesano (Alessano).

Tavola tratta da Attanasio Kircher, Phonurgia nova, R. Dreherr,  Campidona, 1673, pag. 206. Nella parte superiore il titolo Typus Tarantiacorum saltantium (Tipo di tarantati che ballano) che mostra la danza delle spade o pizzica-scherma che l’autore, evidentemente, assimila alla pizzica terapeutica (notare in alto a sinistra la tarantola; non giungo ad affermare che lo sfondo potrebbe rappresentare Torrepaduli, però l’ho pensato …).

Tavola tratta da Kaspar Schott (1608-1666), Magia universalis naturae et artis, Herbipoli, s. n., 1657, tomo II, pag. 239. È l’evidente ricalco di quella del Kircher che dello Schott fu il maestro. C’è anche qualche differenza nei toponimi riportati che sono: Bari, Bitonto, Polignano, Conversano, Aquaviva (Acquaviva delle fonti), Gravina (Gravina di Puglia), Cassano (Cassano delle Murge), Martina (Martina Franca), Taranto, Oria, Cisternino, Unsano (Uggiano Montefusco), Maruzo (Maruggio), Brundusi (Brindisi), Nardo (Nardò), Otranto, Aresano (Alessano).

De Apula Aranea sive Tarantula ad Musicum subsiliens sonum (Sul ragno pugliese o tarantola che salta fuori al suono della musica). Tavola tratta da Cornelis Stalpart Van Der Wiel, Observationum rariorum medicarum anatomicarum chirurgicarum centuria prior, Petrum Van Der Aa, Leyde, 1687, pag. 439.

 

Tavola tratta da Wolferdus  Senguerdius, Rationis atque experientiae connubium, Bos, Rotterdam, 1715, pag. 277. È evidente il plagio, sia pur parziale, dalla tavola precedente.

Tavola tratta da Antonio Pitaro (1767-1832), Parallèle physico-chimique entre le calorique, la lumière, l’électricité, le magnétisme, le galvanisme animal et le galvanisme métallique, ou Introduction à la théorologie galvanique, suivi de trois autres mémoires, dont un sur le tarentulisme, Giguet e Michaud, Parigi, 1805, pag. 72.

Le didascalie: 1 Tarentule de Baglivi prise dans les campagnes de Lecce (Tarantola di Baglivi3 presa nelle campagne di Lecce); 2 Tarentule de Valletta prise dans les campagnes de Nocera de Pouille (Tarantola di Valletta4 presa nelle campagne di Nocera di Puglia); 3 Tarentule de Pitaro prise dans les campagnes de Squillace (Tarantola di Pitaro presa nelle campagne di Squillace); 4 Tarentule  d’Albin existante dans la collection de Sir Hans Sloanès prise dans le campagne d’ Otranto (Tarantola di Albin5 esistente nella collezione di sir Hans Sloane6 presa nelle campagne di Otranto). Didascalia dell’immagine in alto a destra senza numero: Tarentule vue en dessous ou par le ventre (Tarantola vista da sotto o dalla parte del ventre).

Da notare come in tutte le tavole riportate (altre non ne conosco) compaiono la tarantola e i musici terapeuti, mai il tarantato o la tarantata; tuttavia, nella tavola di Cornelis Stalpart Van Der Wiel vista precedentemente in taranta subsiliens (tarantola che salta fuori) taranta può essere inteso in doppio passaggio metaforico come veleno della taranta che salta fuori dal corpo del tarantato.

Termina qui la digressione iconografica e inizia la trattazione etimologica.

Mi piace iniziare riportando le parole di un grande conterraneo (in senso stretto, neretino), cioè il medico Achille Vergari che al tarantismo dedicò il saggio Tarantismo o malattia prodotta dalle tarantole velenose, uscito per i tipi della Società Filomatica a Napoli nel 1859.7

Proprio la parte iniziale del lavoro reca un sintetico elenco di proposte etimologiche. Per poter inserire le mie note di commento ho preferito riportare in formato testo e non immagine la parte che ci interessa (pagg. 5-6): “L’etimologia della Tarantola8, chi la crede derivata da θηράνθορα9 , θηρ fera – ἄυθορα venenumanimale velenoso. Chi da terrentula, pel terrore che produce la sua veduta10, o perché in terra latitat11. Chi da tarantin12, commovere grandemente; fenomeno proprio dell’animale e de’ morsicati dallo stesso, quando dall’azione del suono armonico vengono attivati. Chi da Taranto13, luogo nelle cui vicinanze più abbonda. Chi da Tarando14, animale di vari colori proprio della Scizia. Serao credeva che il vocabolo tarantola avesse potuto derivare da tara tara replicato, espresso nelle modulazioni musicali adatte a curare i tarantolati”.

Il Serao citato dal Vergari è Francesco Serao (1702-1783), medico, fisico e geologo napoletano e il Vergari sostanzialmente ha tratto tutte le notizie etimologiche prima riportate (eccetto quelle riguardanti θηράνθορα, terrentula e tarantin) dalla prima delle due lezioni universitarie che lo studioso napoletano dedicò all’argomento (Della tarantola ossia falangio di Puglia, s.n., Napoli, 174215). Dopo aver motivato la scarsa attendibilità della derivazione di tarantola da Taranto e, secondo me arrampicandosi sugli specchi, il suo favore a Tarando (vedi la mia nota n. 9), il Serao a pag. 35, quando si accinge a passare ad altro, ha un sussulto che registra nella nota o che riproduco di seguito: “Prima di uscir di questo proposito (che io non intendo avvolgermi di più in queste seccaggini) mi si permetta ch’io accenni un altro mio pensiero, sovvenutomi improvvisamente a favore di una nuova etimologia; che io non voglio proporre ad altro fine, se non per far vedere, che quando si tolga di mezzo l’originazione insipidissima presa dalla città di Taranto,  qualunque altra cosa avrà più colore e grazia. Potremmo immaginarci, che i Pugliesi fossero stati usi di chiamare o tutte, o una sola particolar canzone, Taranta, o Tarantara, o Taratantara (voce, come ognun sa, usata già da Ennio16, Pugliese anch’esso, per esprimere il suono della trombetta, imitandone in certo modo lo strepito): e perciò quella famosa volgarissima canzonetta, chiamata Tarantella, sarebbe  stata così chiamata da principio per questa guisa. Or poiché cominciarono i Pugliesi a sperimentare che il fuoco facesse tanto strano effetto in coloro, cui essi credevano morsi dal Falangio del lor paese; potrebbe esser vero, che eglino avessero voluto chiamar a quel modo il Falangio, come quello che avea tanta alleanza col suono per conto de’ mortificati da lui: nel qual caso la prima origine della voce Tarantola, della quale si quistiona, sarebbe da riferirsi al Tara replicato, e variamente profferito, per esprimere il suono di qualunque musico istrumento, o di alcuno in particolare, e di qualunque aria, o di alcuna certa e determinata. Torno a dire: io non mi fermo in questa conghiettura; contro di cui non mancherebbe che dire: ma pure ella mi sembra più naturale e giusta, che non è la comune degli Etimologisti”.

Accanto al taratàntara (con questo accento va letto per motivi metrici) di Ennio (III-II secolo a. C.) che rivendicherebbe l’origine antica di taranta c’è un altro taratàntara, sempre di natura onomatopeica, attestato in epoca medioevale. Ecco come il lemma è trattato nel Glossario del Du Cange (la traduzione a fronte è mia):

Non saprei dire se alla comune origine del taratantara enniano (suono della tromba di guerra) e di quello medioevale (rumore prodotto dal setaccio) corrisponda un rapporto di parentela o se l’uso della stessa voce sia puramente casuale. Se non è casuale ciò è un dettaglio non di poco conto, anche ai fini di risalire alle origini del fenomeno da cui siamo partiti, che in passato si ritenevano medioevali17 e per le quali recentemente è stata ipotizzata una drastica retrodatazione18. E se il suono sincopato della tromba di guerra ben si adatta a quello altrettanto sincopato della pizzica, come non pensare alla suggestiva somiglianza di forma tra il tamburello e il setaccio e, più che al rumore che lo strumento produce, al movimento regolare e cadenzato cui è (meglio, era) obbligato chi lo usa (meglio, usava)? Ma né la storia né l’antropologia culturale possono lasciarsi condizionare più di tanto dalla suggestioni che nell’impervio cammino della conoscenza  sono sempre a tendere insidie dietro l’angolo. Insomma, come sempre, la ricerca della verità continua …

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1 Questa mia valutazione, della cui smentita sono da qualche anno in ansiosa quanto vana attesa, non riguarda solo l’evento Notte della taranta ma pure la saga di romanzi storici sui Messapi di Fernando Sammarco e la saga di fesserie su questo argomento ed altri di Tania Pagliara che chiunque può leggere in rete nella rubrica La lupa che tesse de Il tacco d’Italia all’indirizzo  http://www.iltaccoditalia.info/sito/index.asp?s=4&t=82. Il fenomeno è particolarmente pericoloso se si pensa che ai romanzi del Sammarco è attribuita quella dignità che io ero abituato ad ascrivere solo alle fonti storiche; e non è attribuita da uno qualunque ma da Maurizio Nocera, docente di antropologia culturale dell’Università del Salento, in un suo post leggibile all’indirizzo  http://www.unigalatina.it/index.php?option=com_content&view=article&id=608:salento-terra-che-un-tempo-aveva-nome-messapia&catid=37:sallentina&Itemid=61.

Se l’operazione del Nocera può essere definita quantomeno avventata, gli scritti della Pagliara, frutto di letture superficiali e di un raffazzonato copia-incolla, costituiscono un vero e proprio atto criminale, perché è un crimine costruire delle fandonie sapendo (ma forse l’autrice non si rende conto neppure di questo …) che i fruitori superficiali  (magari fossero la minoranza …) della rete ne faranno man bassa e provvederanno a loro volta a diffonderle; e sarà il trionfo della scemenza fatta verità agli occhi degli ignoranti  creduloni , complici anche le implicazioni e le suggestioni magico-religiose di certi argomenti.

2 Il Kircher in occasione di un suo viaggio in Puglia fatto nel 1630 per approfondire le sue teorie sul ruolo terapeutico della musica nei  culti dionisiaci raccolse questa e le altre melodie che pubblicò nello stesso testo (pagg. 975-876) e che di seguito riproduco.

 

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Una rielaborazione non filologica ma reinterpretativa dell’Antidotum tarantulae è nel brano Antidotum (S. Di Lauro-P. Mastronardi) incluso nel cd La favola di Bellafronte e altre storie uscito nel 2009 per l’etichetta Ph musica Worx. Di taglio filologico, invece, l’omonimo brano, eseguito da L’arpeggiata diretta da Christina Pluhar, che fa parte del cd, corredato di un corposo, non convenzionale libretto, La tarantella. Antidotum tarantulae uscito nel 2004 per l’etichetta Alpha.

 

3 Giorgio Baglivi (1668-1707), autore di De anatome, morsu et effectibus Tarantulae, D. A. Ercole, Roma, 1696. L’immagine che segue, tratta dalla pag. 270 dell’edizione di tutte le opere per la quale vedi alla fine della nota 13, ricalca lo schema grafico delle tavole di Kircher prima e Scott poi con qualche differenza solo nei toponimi che qui sono: Bisceglie, Bari, Monopoli, Conversano, Ostuni, Rutigliano, S. Vito, Brindesi (Brindisi), Gravina, Matera, Mottola, Oria, Otranto, Lecce, Taranto, Noha, Nardò, Gallipoli, Alessano, S. Maria (S. Maria di Leuca).

 

4 Ludovico Valletta, autore del De phalangio Apulo, De Bonis, Napoli, 1706, da cui è tratta l’immagine che segue.

 

5 Eleazar Albin, autore di Insectorum Angliae naturalis historia, 1731, testo integralmente consultabile e scaricabile da

http://books.google.it/books?id=9u9WAAAAcAAJ&pg=PT12&dq=Insectorum+angliae+Naturalis+Historia&hl=it&sa=X&ei=kYOLUumtF4aRtAag_oCACw&ved=0CDgQ6AEwAA#v=onepage&q=Insectorum%20angliae%20Naturalis%20Historia&f=false

6 Hans Sloane (1660-1753), questa è l’esatta grafia del nome, fu un medico e naturalista inglese; dal 1727 al 1741 successore di Isacco Newton alla guida della Royal Societ, fin da giovanissimo manifestò passione per il collezionismo.

7 Testo integralmente consultabile e scaricabile da http://books.google.it/books?id=XCsxAQAAMAAJ&printsec=frontcover&dq=achille+vergari&hl=it&sa=X&ei=Ki2CUubLIciThgfmgoD4CQ&ved=0CDQQ6AEwAA#v=onepage&q=achille%20vergari&f=false

8 L’italiano taràntola (dal latino medioevale taràntula) rispetto al salentino  taranta mostra la stessa tecnica di formazione del toscano formìcola  (furmìcula in salentino) rispetto a formica, dell’italiano spìgola rispetto a spiga e, per fare un esempio relativo al mondo vegetale, del salentino  irdìcula rispetto all’italiano ortica. A proposito di taranta (probabile madre di tarantola) l’attestazione più antica che io conosca del vocabolo è contenuta nel De rebus gestis Rogerii Calabriae et Siciliae comitis et Roberti Guiscardi ducis fratris eius di Goffredo Malaterra (XI secolo) che così ricorda per l’anno 1064 (cito il testo originale da E. Pontieri, Rerum italicarum scriptores 2, v. I, 1928; la traduzione che segue, come tutte le altre, è mia):  Panormum usque perveniunt; atque in monte, qui postea Tarantinus [dictus est] ab abundantia tarantarum, a quibus ibidem exercitus eorum plurimum vexatus est, iubente duce – quem postea poenituit -, tentoria fixa sunt. Nam mons totus insitus tarantis, viris et mulieribus inhonestum, quamvis iis qui evaserint, ridiculosum hospitium praebuit. Taranta quidem vermis est, araneae speciem habens, sed aculeum veneni ferae punctionis omnesque, quos punxerit, multa et venefica ventositate replet: in tantumque angustiantur, ut ipsam ventositatem, quae per anum inhoneste crepitando emergit, nulla modo restinguere praevaleant et, nisi clibanica vel alia quaevis ferventior aestuatio citius adhibita fuerit, vitae periculum incurrere dicuntur. Tali inhonestate nonnulli nostrorum vexati, tandem locum mutare coguntur … (… alla fine giungono a Palermo e le tende furono fissate, per ordine del duca che dopo se ne pentì, sul monte che poi fu chiamato Tarantino dall’abbondanza di tarante dalle quali il loro esercito lì fu molto tormentato, Infatti tutto il monte è disseminato di tarante, ripugnante per uomini e donne, sebbene esso abbia offerto un risibile riparo a coloro che vi erano saliti. La taranta è un verme avente l’aspetto del ragno ma un pungiglione velenoso dalla dolorosa puntura e infonde in tutti coloro che ha punto una diffusa e venefica flatulenza e sono tormentati a tal punto che non sono in grado in nessun nodo di placare la stessa flatulenza che vergognosamente crepitando esce attraverso l’ano e si dice che corrono pericolo di vita se non viene applicato al più presto il calore di una teglia o qualsiasi altro che riscalda piuttosto energicamente).

Lo stesso autore per l’anno successivo:  Antequam iret versus Panormum dux Robertus, et in monte Tarantarum, iuxta Panormum, tentoria fixisset, dux et comes Rogerius … (Prima che il duca Roberto andasse verso Palermo e ponesse le tende sul monte delle tarante presso Palermo, il duca Ruggero …)

Un tarentum (ma questa volta  si tratterebbe di un serpente, a meno che nel testo serpentibus non debba intendersi nel suo valore originario di ablativo plurale di serpens,  participio presente  di sèrpere=strisciare (in tal caso  a serpentibus andrebbe  inteso da animali striscianti;  va ricordato a tal proposito che serpens può avere anche il valore specifico, oltre che di serpente, anche di verme) fu il responsabile di altri guai, si direbbe ben più gravi, per i crociati secondo la testimonianza di Alberto d’Aix (XII secolo) nella sua Historia Hyerosolimitana expeditionis (cito dall’edizione della Patrologia Latina del  Migne, v. 166, libro V, capitolo XL, colonna 534): Illic plurimos acervos lapidum repererunt, inter quos infinita manus debilis et pauperis vulgi dum fessa quiesceret et accubaret, a serpentibus, quos vocant Tarenta, quidam percussi, interierunt tumore, et prae intolerabili siti inaudita inflatione membris eorum turgentibus (Lì trovarono parecchi mucchi di pietre; mentre  stanca si riposava e giaceva l’infinita schiera della gente debole e povera, alcuni, morsi da serpenti [o da animali che strisciavano?] che chiamano Tarenti morirono per il gonfiore e per via dell’intollerabile sete a causa dell’inaudito rigonfiamento mentre le loro membra si inturgidivano).

A distanza di due secoli da Goffredo Malaterra e di uno da Alberto d’Aix s’incontra un darentarum (genitivo plurale di darenta), con riferimento allo stesso fatto storico, nella cronaca del XIII secolo del frate domenicano Corrado (in Giovan Battista Carusio, Bibliotheca historica regni Siciliae, tomo I, Francesco Cichè, Palermo, 1723, pagg. 47-50); il passo sembra la sintesi e il ricalco del primo  malaterrano e darentarum è da leggere tarentarum o da valutare come una sua variante:  item anno 1064 iverunt ad obsedendum Panormum, et nihil fecerunt ex abundantia darentarum, a quibus exercitus fuit valde vexatus … (… parimenti nell’anno 1064 andarono ad assediare Palermo e non fecero nulla per l’abbondanza di tarante  dalle quali l’esercito fu molto tormentato).

Gilberto Anglico nel settimo libro del Compendium medicinae tam morborum universalium quam particularium nondum medicis sed et cyrurgicis utilissimum scritto nella prima metà del XIII secolo (cito dall’edizione De Portonaris, Lione, 1510, pag. 316): Taranta animal est parvum habens sex pedes, tres hinc et tres inde … (La taranta è un piccolo animale che ha sei zampe, tre da una parte e tre dall’altra …)

Nel bestiario di Leonardo da Vinci (1452-1519) si legge (cito da Augusto Marinoni, Leonardo da Vinci. Studi letterari, Fabbri, Milano, 1996, s. p.): TARANTA: il morso della taranta mantiene l’omo nel suo proponimento, cioè quello che pensava quando fu morso. Qui Leonardo riprende sinteticamente il concetto di “congelamento” delle condizioni psichiche del paziente, quali erano prima del morso,  già espresso da Sante Ardoini, per cui vedi la nota 8.

9 Non so chi sia il chi citato dal Vergari. So solo che θηράνθορα in greco non esiste e, quindi, si tratterebbe di una parola ricostruita, perciò oggi andrebbe scritta correttamente preceduta da un asterisco. Tuttavia, se il primo presunto componente (θήρα=bestia, corrispondente al latino fera) va bene, il secondo (ἄυθορα), che si fa corrispondere al latino venenum=veleno, in greco non esiste. Insomma, questa etimologia, tutt’al più, avrà il capo ma non la coda …

10 Secondo questa anonima proposta, dunque, terrentula deriverebbe dal verbo latino terrère=atterrire.

11 Il chi questa volta dovrebbe essere Giulio Cesare Scaligero (1484-1558) che in Exotericarum exercitationum liber XV de subtilitatead Hyeronimum Cardanum, Eredi di Paul Wechel, Francoforte, 1582, pag. 611, così scrive: Alia est ab hac diversa, quippe lacerti facie, quam, quod sub terra lateat, a Romanis putant Terrentulam nominari.  Eam non vidi. Si est, ut aiunt, nigra, luteis maculosa notis, Stellionem puto (Ce n’è un’altra diversa da questa [dalla tarantola propriamente detta], a dire il vero con l’aspetto di lucertola, che, per il fatto che si nasconde sotto terra, si crede che dai romani sia chiamata terrentula).

Terrentula, dunque, deriverebbe da terra ma secondo lo stesso Scaligero è da identificare con lo stellione (una specie di geco) e non con la nostra tarantola. Insomma, il Vergari ha attribuito allo Scaligero, sia pure senza citarne espressamente il nome,  un etimo da lui mai proposto.

12 Questo tarantin, anch’esso di anonimo padre, per la definizione che subito dopo viene data (commovere grandemente) dovrebbe essere un infinito presente, ma in quale lingua?

13 La prima proposta è di Thomas Moffet (1553-1604) in Insectorum sive minimorum animalium theatrum , Cotes, Londra, 1634, pag. 219: Ultimum appulum vocamus, vulgo tarentulae nomine, non incelebrem, a Tarentino agro in Appulia, ubi frequentiores vivunt, cognominatam. Eius hic iconem … exhibemus … ecce vobis lentiginosum et verum Tarantulam, a nemine, quod sciam, hactenus vere descriptum  (L’ultimo lo chiamiano appulo, popolarmente detto tarentula, non infrequente, così chiamata dalla campagna di Taranto in Puglia, dove questi animali vivono più numerosi … Qui …  mostriamo la sua immagine [riprodotta in basso] … ecco a voi, cosa vera e lentigginosa, la tarantola, da nessuno finora, a quanto sappia, descritta).

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Prima di lui Sante Ardoini così si era espresso nel capitolo 5 (intitolato De tarantula) del libro VIII del suo De venenis (opera, composta tra il 1424 e il 1426 e pubblicata la prima volta per i tipi di Scoto a Venezia nel 1492; qui cito dall’edizione Pietro Perna, Basilea, 1562, pag. 482): Et in quibusdam locis, utputa in Apulia, et praesertim in Tarento a quo forte nomen unum ex praefatis assumpsit, accidit ex puntura eius quod vir vel mulier punctus vel puncta ab ea efficitur melancholicus vel melancholica, adeo ut perseveret illa melancholia cum illa phantasia et appetitu et cogitatione cum quibus tempore punctionis erat, quousque venenositas resolvatur (E in certi luoghi, per esempio la Puglia e soprattutto a Taranto dalla quale per caso assunse un unico nome tra quelli che ho detto prima, succede che un uomo o una donna punto o punta dalla sua puntura vien reso [dalla tarantola] malinconico o malinconica a tal punto che permane quella malinconia con quell’aspetto e inclinazione e immaginazione che aveva al tempo della puntura, finchè l’avvelenamento non si risolva).

Se il forte (per caso) è un semplice intercalare e non esprime un’ipotesi di genesi casuale l’Ardoini è da considerare il primo che abbia avanzato l’ipotesi della derivazione di Taràntula da Tàranto.

L’ultimo in ordine di tempo fu Giorgio Baglivi per cui vedi la nota 3 (cito da Opera omnia, G. Girardi, Venezia, 1761, pag. 271): Vocatur Tarantula, non quia Tarenti hoc animal virulentius fit, quam in reliquis Apuliae Regionibus; sed forsan quia Graecorum, et Romanorum temporibus, Civitas illa caeteris erat, aut frequentior, aut nobilior, et ideo existentibus ibidem maiori numero aegrotis hoc veneno laborantibus, nomen exinde animalculum desumpsisse non inficiarer (Si chiama tarantola non perché questo animale diventa più velenoso a Taranto che nelle altre zone della Puglia ma forse poiché quella città ai tempi dei Greci e dei Romani era o più frequentata o più nobile e perciò, essendoci in maggior numero malati sofferenti per questo veleno, non negherei che l’animaletto da ciò abbia preso il nome).

14 Il chi è proprio il Serao citato poco dopo, che nell’opera che successivamente indicherò così si esprime (pag. 30): “… volgendo io alcuni degli Storici naturali per lo mio intendimento, e Greci, e Latini, mi avvenni appresso tutti costoro nella descrizione uniforme di un animal esotico, nativo della Scizia, chiamato da’ Greci τάρανδος, e così pure da’ Latini tarandus, il cui carattere, e singolar proprietà è quella, di cambiar colore in tutte le occorrenze, quando cioè gli torni in bene de’ fatti suoi. Dicono adunque, che essendogli dato la caccia per prenderlo, ed egli adattando il colore della sua pelle (anzi della sua lana, o peli; ciò che fa maravigliar doppiamente Plinio al colore delle cose, che gli sono più vicine, venga con questo artificio a deludere la vista de’ cacciatori, ed a campare perciò dalle lor mani. Or da questa voce τάρανδος  o tarandus, cambiando con naturalissimo e facil passaggio il D in T, sarà nato tarantus, e quindi taranta … e poi o per diminuzione , o per modulazione dissoluta e sdrucciola dell’ultimo suono della parola, tarantolo, o tarantola.

15 Integralmente leggibile e scaricabile da http://books.google.it/books?id=c3A2AQAAMAAJ&printsec=frontcover&dq=francesco+serao&hl=it&sa=X&ei=u1SHUt7TOeyS7QbImICQBg&ved=0CDsQ6AEwAQ#v=onepage&q=francesco%20serao&f=false

16 Sul verso enniano rinvio per brevità alla nota 3 in https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/10/28/curiosita-antiquarie-da-una-biblioteca-conventuale-2/

17 E. De Martino, La terra del rimorso. Il Sud tra religione e magia, Il Saggiatore, Milano 1961.

18 R. Rossetti,  Nel nome di Asclepio. Il Tarantismo oltre la lettura di Ernesto De Martino, in Segni e comprensione (rivista telematica quadrimestrale), anno XXVI nuova serie, n.76, Gennaio Aprile 2012, pagg. 88-118.

La Puglia e la “taranta” in un repertorio di simboli del 1603

di Armando Polito

Una delle espressioni più significative dell’erudizione rinascimentale fu il proliferare di repertori di simboli in forma di schede corredate o meno di immagini. Tra questi forse il più noto è, pur non essendo il più antico,  l’Iconologia di Cesare Ripa, la cui  prima edizione uscì per i tipi degli Eredi Gigliotti a Roma nel 1593 (in basso il frontespizio).

 

Le schede di questa prima edizione riguardavano solo le virtù e i vizi ed erano prive di immagini. Alle virtù ed ai vizi si aggiunsero alcune schede di carattere geografico con relative immagini a cominciare dall’edizione del 1603 (frontespizio in basso) uscita per i tipi di Lepido Facii a Roma.

 

Riporto di questo testo le pagg. 265-267 con mia trascrizione a fronte, espediente che mi è servito ad inserire qualche nota. Buona lettura!

 

 

Che fine hanno fatto a distanza di quattrocentodieci anni il grano, l’olivo e il mandorlo? E nella Taranta di oggi cos’è sopravvissuto di quella di ieri e come? E alla fine dei prossimi cinquant’anni cosa sarà diventata la Puglia, unicamente per nostra colpa? Temo che il suo nuovo stemma sarà la solitaria torre d’acciaio di una piattaforma petrolifera; ma in compenso, allora, non si dovrà scomodare tutta questa circollocuzione: basterà derrick1 e non si correrà il rischio di essere assaliti dalla nostalgia del ricordo del famoso ispettore dell’altrettanto popolare serie televisiva del tempo che fu …

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1 La voce nacque agli inizi del XVII secolo dal cognome di un impiccato, passando al significato di boia, poi di forca, nel XVIII secolo a quello di sollevamento, gru, da cui è derivato il significato moderno di torre di perforazione.

 

 

S. Pietro, S. Paolo e il tarantismo

di Sonia Venuti

Molti studi si sono fatti su questo fenomeno che da secoli affliggeva le popolazioni pugliesi e non solo, sul morso della tarantola, e tante ipotesi sul legame che unisce il tarantismo con la devozione alle figure dei  Santi Pietro e Paolo.

Alcuni azzardano che il fenomeno del tarantismo abbia una stretta connessione  con la cultura greca che è sempre stata molto forte in puglia, e che con il culto delle divinità quali quelle di Dionisio, Cibele, Demetra ed altre ancora venivano praticati riti orgiastici di carattere spiccatamente erotico.

La gente danzava follemente al suono della musica, vestita d’indumenti sgargianti con il capo cinto da pampini di vite, agitando il tirso, pronunciando parole oscene, strappandosi gli abiti di dosso, frustandosi l’un l’altro, bevendo vino.

L’analogia tra questi riti e i sintomi del tarantismo è impressionante: qual è dunque il nesso religioso?

Il Cristianesimo giunse tardi in Puglia e s’imbattè in una popolazione primitiva e tenacemente legata ai propri costumi, presso la quale antiche credenze e consuetudini erano profondamente radicati.

In competizione col paganesimo, il cristianesimo dovette cercare in tutti i modi d’imporsi sulla popolazione: le antiche festività religiose pagane furono mantenute, ma intese a commemorare eventi cristiani.

Le chiese erano erette su precedenti luoghi di devozione tra le rovine dei templi, elementi degli antichi culti come le processioni furono accolti nelle modalità cristiane, ma vi erano tuttavia dei limiti che la chiesa non riuscì ad oltrepassare, e non essendo subito in grado di assimilare i riti orgiastici del culto di Dionisio  dovette contrastarli.

Da qui, non sappiamo esattamente in che anno, ma di sicuro nel corso del medioevo, i vecchi riti si trasformarono nei sintomi di una malattia, e di conseguenza la musica, la danza, e l’insieme di quei comportamenti orgiastici di colpo furono legittimati e tutti coloro che indulgevano in queste pratiche non erano più peccatori, ma povere vittime della tarantola.

Il culto di S. Pietro, in questo contesto, nasce innanzitutto dall’ipotesi fortemente indiziaria che il santo sia sbarcato in Puglia dalla Palestina e, dopo essere passato dalla città d’Otranto, dove a testimonianza del suo passaggio, è stata eretta la chiesa di S. Pietro, questi si spostò nel casale galatino, dove “vennero a sentirlo parlare di Dio tutti quasi di quei casali circonvicini”.

Il principale responsabile della sempre più forte idenficazione città-santo protettore la si deve all’arcivescovo Gabriele Adarzo di Santander, che nel corso del suo arcivescovato fece erigere in territorio galatino piccole colonne ed epigrafi, che oggi non esistono più, nei luoghi in cui si ipotizza sia passato o abbia riposato il Santo durante il suo cammino verso Roma.

Per concludere, S. Pietro giunse nel 44 inGalatina e secondo lo storico Da Lama “tutto quel popolo si fece battezzare dalle sue mani  nel nome di Cristo e le donne(….) conforme imprigionasti in piccola rete più pesci, così ti chiamano, aprono la bocca a mille ringraziamenti, vedendosi esenti dal tormento della tarantola, e se in Roma annientasti le magie d’un Simone, in Galatina hai posto in fuga il veleno di questo verme, mago potente, che incanta col bacio, né si scioglie l’incanto se non col ballo. E s’a Paolo in Malta ubidirono gli serpenti, a S. Pietro in Galatina ubbidiscono le tarantole”.

S. Paolo, sempre secondo la tradizione, nella città di Galatina giunse  in incognito, dopo la predicazione di S. Pietro e dopo aver navigato verso i nostri mari, giungendo  al promontorio di Leuca.

Per timore dei persecutori si fermò una sola notte in una casa ancora esistente, di proprietà di un uomo pio, che per questa ragione viene detta casa di S. Paolo.

Il medico non galatinese Antonio Caputi racconta”I Galatinesi raccontano varie storie su questa visita, ma ciò che è più importante affermano che abbia chiesto a Dio, per i meriti di Gesù Cristo, che a quell’uomo pio, per ricompensa della sua pietà, fosse concesso a suo favore o a quello dei suoi discendenti di sanare tutti quelli che fossero stati morsi da animali velenosi come scorpione, vipera, falangi e simili, facendo il segno della croce sulla ferita e facendoli bere al tempo stesso l’acqua di un pozzo lì esistente. Estinta ora la discendenza di quell’uomo pio, gli ammalati morsi dalla tarantola, da uno scorpione o dalla vipera, finchè il veleno è attivo, si conducono a quel pozzo ancora esistente per implorare la guarigione da S. Paolo”

In definitiva, nella casa dove passò prima S. Pietro e poi S. Paolo, come deduzione diretta del Caputi, gli apostoli lasciarono in perpetuo ricordo, agli abitanti di quella casa, la virtù e la grazia di guarire attraverso lo sputo chiunque fosse stato morso dalla tarantola.

Gli ultimi eredi della dinastia dei guaritori sono due sorelle che, per non far andare perduta la virtù e la grazia di guarire, prima di morire sputarono nel pozzo, e da qui, la credenza del “pozzo miracoloso” giunta a valorizzare le “case di S. Paolo”; queste erano le sorelle Farina Francesca e Polisena.

Il culto del santo crebbe molto a metà del ‘700, fino al punto che la famiglia Mory fece erigere un altare, e fu dato inizio alla contestatissima costruzione della cappella, da parte degli allora padroni delle “case di S. Paolo” i conti Vignola.

Le donne chiedevano degli specchi davanti ai quali sospiravano e urlavano con atteggiamenti inverecondi, altri preferivano essere lanciati in aria, o scavavano delle fosse e si rotolavano nella terra come i maiali, e tutti bevevavno vino e danzavano fino a liberarsi dagli effetti del morso, e si dice che se non si faceva in tempo a praticare il rito purificatore della musica, si poteva verificare  anche la morte del tarantato.

Pare solo i frati Francescani fossero immuni dal morso della tarantola, in ragione del fatto che S. Francesco avesse istituito un legame speciale anche con quegli animali, e ogni 29 Giugno in ricorrenza della festività dei Santi Apostoli  convergevano in Galatina tutti i tarantati dei paesi limitrofi, che a suon di tamburelli epuravano il loro corpo e la loro anima.

 

Il Salento delle leggende. Tarante e tarantate

Il Salento delle leggende.

Misteri, prodigi e fantasie nell’antica Terra d’Otranto

 

 

di Antonio Mele ‘Melanton’

Quando muoiono le leggende finiscono i sogni.

Quando finiscono i sogni, finisce ogni grandezza.

 

Si può dire tutto della gens salentina, meno che non ami la propria terra.

Siamo, sostanzialmente, un popolo d’irriducibili nostalgici, forse anche perché siamo a lungo stati (e in parte lo siamo ancora) un popolo di emigranti. Anche chi scrive lo è. Pur potendo convintamente affermare che “risiedo” da molti anni a Roma, ma “vivo” nella mia Galatina.

Tra la fine dell’800 e il preludio all’orribile tragedia della Grande Guerra, un’immensa legione di disperati compatrioti, giovani e meno giovani, per lo più meridionali – da Puglia, Basilicata, Campania, Calabria, Sicilia –, ma anche piemontesi, veneti e friulani, invase il Nord e Sud America, imbarcandosi sugli accidentati piroscafi che salpavano dai porti di Napoli, Genova o Palermo, stipati fino all’inverosimile. Un movimento globale di decine di milioni di persone!

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A quella prima ondata ne seguì un’altra, negli anni ’50 del secolo scorso, questa volta sui cosiddetti “treni della speranza”, caracollanti verso i Paesi più emancipati del Nord Europa: Svizzera, Belgio, Francia, Germania. Un’autentica epopea, che investì anche le nostre province, e che molti ricordano ancora.

Di questi nostri fratelli salentini, non pochi tornavano periodicamente nei propri paesi (a volte in estate, più spesso a Natale), per partire nuovamente all’estero col cuore sospeso tra gioia e malinconia. Il nuovo addio era, se possibile, più cocente del primo, ma intanto quei pochi giorni del ritorno, rivissuti tra mani e occhi conosciuti, e affetti riacquisiti, e desideri finalmente appagati, ‘ricostruivano’ rapidamente l’amore per la propria piccola patria, evidenziato anche attraverso romantiche e ingenue esternazioni di fierezza. Come quella di sfoggiare orgogliosamente la nuova automobile (spesso affittata a caro prezzo, pur di fare bella figura), o regalando in abbondanza a parenti e amici pacchetti di sigarette e stecche di cioccolato.

Difficile, poi, che si mancasse alla festa del Santo Patrono – in luglio e agosto per lo più –, mossi da devozione sincera per il proprio Protettore: da Santu Roccu a Santa Cristina, da Sant’Antoniu a li Santi Medici, o alla Madonna dellaLizza, e Santu Ronzu, e innumerevoli altri… Per secoli, e per un preciso motivo, sconfinante tra il religioso e il pagano, la più importante di tutte è stata sicuramente la festa de Santu Paulu, a Galatina: il Santo delle tarantate.

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Il fenomeno delle tarantate – ampiamente studiato (e illuminato) da Ernesto De Martino – è rimasto per almeno mille anni avvolto nel mistero e nella leggenda.

Nell’ambito della comunità contadina, la manifestazione dell’evento, com’è noto, nasceva dalla credenza popolare che in campagna, nel mese di giugno, ed in particolare durante la mietitura del grano, un ragno velenoso (la tarantola o taranta) potesse “pizzicare” le persone – peraltro quasi esclusivamente di sesso femminile – provocando con il suo morso una serie di crisi isteriche, espresse poi in balli frenetici, e prolungati fino allo sfinimento. Queste danze convulse erano accompagnate ed esorcizzate con la musica (prodotta soprattutto da tamburelli e violini), e infine guarite bevendo l’acqua miracolosa del pozzo della cappella di San Paolo, in Galatina.

Perché San Paolo? Semplicemente perché l’Apostolo, durante i suoi viaggi, fermandosi nell’isola di Malta, fu qui morso da un serpente, ma sopravvisse al veleno, protetto dalla fede e dall’intercessione divina.

Le tracce più remote del tarantismo si perdono nei culti dionisiaci e nella mitologia greca, con varie leggende, delle quali s’interessò anche Ovidio. In una delle sue suggestive narrazioni, il poeta racconta di Arakne, una giovane e bellissima fanciulla, nota in tutta la Lidia per la sua arte della tessitura: produceva infatti tele ricamate di straordinaria bellezza, tanto che la stessa Pallade Athena, scesa dall’Olimpo, la sfidò a misurarsi con lei. Quasi inutile aggiungere che la gara fu vinta alla grande da Arakne, provocando naturalmente l’invidia e le ire della dea, che in un moto di stizza la tramutò in ragno, destinandola così a tessere in eterno i suoi fragili (ma pur sempre meravigliosi) lavori.

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Strettamente collegata alla devozione per San Paolo è anche quella per San Donato,

al quale peraltro molti paesi della Penisola sono dedicati: da San Donato Milanese a San Dona’ di Piave, San Donato Val di Comino, San Donato di Ninea, e altri ancora, fino al nostro San Donato di Lecce…

L’elemento che in qualche modo accomuna i due Santi è per l’appunto la danza convulsa ed eccitata, il ballo di natura isterica, che si manifesta sia con le tarantate –, di competenza, per così dire, di San Paolo –, sia con i soggetti fragili o malati di mente, generalmente colpiti da nevrastenia e epilessia, che sono devoti a San Donato. Non va infatti dimenticato che, essendo morto per decapitazione il 7 agosto 304, su ordine personale dell’imperatore Diocleziano (altri spostano l’evento ai tempi di Giuliano l’Apostata), San Donato vescovo e martire è il protettore dell’epilessia: malattia un tempo assai diffusa, e popolarmente conosciuta come ”male di San Donato”.

Più in generale, la protezione di San Donato (che nel nostro territorio è patrono anche di Montesano Salentino) riguarda tutti i danni e le complicazioni che interessano la testa e la mente. Tant’è che nei mercatini della festa patronale si usava, e in parte si usa anche oggi, comprare come talismano una piccola chiave benedetta, che porta riprodotta l’effigie del Santo: chiave da custodire gelosamente, in quanto capace di “aprire” la mente per liberarla dal demonio e preservarla da ogni male.

Si dice, infatti, che in tempi non lontani, i malati di epilessia fossero considerati invasati da spiriti maligni, per scacciare i quali si procedeva talvolta al seguente rituale di espiazione ed esorcismo: il malato e un suo accompagnatore (di solito la madre, un fratello o una sorella) entravano in chiesa inginocchiandosi, e sempre in ginocchio, baciando continuamente per terra e recitando le orazioni, procedevano fino alla statua del Santo, chiedendogli la grazia.

Nel Medioevo, invece, per curare l’epilessia si faceva uso di una rara erba selvatica, vagamente somigliante alla rùcola o al taràssaco (in dialetto chiamato pisciacane), che veniva disposta su un letto di foglie di fico o di piccole canne, sulla quale, a sua volta, veniva posato il Vangelo, mentre le donne, sedute in circolo, recitavano brevi preghiere e invocazioni. Dopo il rituale, si riprendeva l’erba e la si lavorava fino a formarne una collana, destinata ad essere sistemata al collo del malato, e da questi indossata dall’alba al tramonto per nove giorni, in attesa che dal decimo acquisisse i primi segni di guarigione.

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Tornando alle tarantate, resta da chiedersi per quale ragione gli abitanti di Galatina – loro, e soltanto loro! – non siano mai stati morsicati dal ragno fatale, mantenendosi così immuni dalle conseguenti crisi epilettiche.

Ebbene, tale miracoloso privilegio risale al tempo della predicazione di Gesù Cristo, allorché i discepoli Pietro e Paolo giunsero nel Salento, e si fermarono ad evangelizzare, fra le altre, anche le popolazioni del luogo dove sarebbe poi sorta Galatina. Qui, grazie alla generosità di una donna, che offrì loro del cibo e un giaciglio per dormire, i due affaticati Apostoli si poterono rifocillare, e san Paolo, come ringraziamento, benedisse la donna e i suoi familiari, esentandoli – anche per tutte le generazioni future – dalla contaminazione di qualsiasi genere di veleno, e concedendo altresì il potere di aiutare a guarire chiunque fosse stato morso da ragni, scorpioni o altri pericolosi animali.

Per rafforzare tale potere, san Paolo consacrò infine l’acqua di un pozzo adiacente alla casa della donna, proclamando che alle persone “pizzicate” sarebbe bastato bere quell’acqua, per annullare definitivamente ogni malefico effetto di tossicità. E intorno a quel pozzo, secondo una vecchia leggenda, fu poi costruita quella che è ancora oggi la Cappella de Santu Paulu de le tarante.

Tarantate, di Luigi Caiuli
Tarantate, di Luigi Caiuli

Va per ultimo aggiunto che alla fenomenologia della pizzica molti artisti si sono variamente ispirati, primo fra tutti, io credo, il maestro Luigi Caiuli, con il suo impetuoso e sanguigno ciclo pittorico sul tarantismo, donato al Museo Cavoti di Galatina; ed anche letterati come il poeta dialettale lizzanese Salvatore Fischetti, che in una sua appassionante poesia dedica alla pizzica versi di grande incanto: «…Ttacca, viulinu, tàgghia cu llu suènu / tagghiènti comu filu ti rasùlu, / la tantazziòni e la malincunia! / A sta carusa mia talli rifìna, / falla ballà cu ccàccia fuècu e raggia! / A bballa, beddha, comu mai facisti, / no ti ppuggiàri: bballa, bballa, bballa! / ddurmisci la taranta tantatrici,/ a cantu e suènu: bballa, bballa, balla!… (Attacca, violino, taglia con il suono, / tagliente come filo di rasoio, / la tentazione e la malinconia! / A questa ragazza mia ridona pace, / falla ballare, ché scacci fuoco e rabbia! / Balla, mia bella, come mai facesti, / non ti fermare: balla, balla, balla! / Addormenta la taranta tentatrice, / a canto e suono: balla, balla, balla!…».

 

Pubblicato su Il Filo di Aracne.

 

 

Osservazioni sul tarantismo di Puglia

di Paolo Vincenti

“Le Puglie per la posizione ed i rapporti topografici e per la natura del suolo, offrono condizioni interamente proprie, che meritano di essere rilevate. Al Nord un’immensa pianura, nuda di alberi, intersecata da paludosi torrenti nel verno, ed in està fessa in larghi crepacci; nel mezzo sonvi umili colline di una pietra bianca, rossiccia o giallognola, coverte da leggero strato di terra […]; al sud infine seguono le stesse colline, con un pendìo poco rilevante, che per tutto offrono scoverte pietraje o gessaje […]. Quest’ultima parte che forma la Terra D’Otranto, sulla quale Idomeneo e Pirro, le squadre di Augusto e quelle dei Crociati, la baronale potenza e le incursioni dei Saraceni, han lasciate orme incancellabili di gloria e di sventura, ed in cui Taranto, Brindisi e altre città sono ancora per ricordarci quello che fummo; merita più di ogni altra di essere conosciuta. A guisa di promontorio essa si inoltra fra le onde cupamente azzurre di un doppio mare: priva di fiumi e di fonti, colle spiagge contaminate per lungo tratto da impuri ristagni, soggetta a libere e variabilissime correnti atmosferiche che si alternano ora dallo stretto che la divide dall’antica Grecia, ed or dal golfo cui dà Taranto il nome, e ch’è dominato dalle montagne Bruzzi e Lucane, dalle quali irreligiosi torrenti cadono ad interrare gli avanzi di Metaponto, di Sibari e di Eraclea.”

Questa descrizione (un po’ surreale) della nostra regione è opera di un viaggiatore dell’Ottocento, il napoletano Salvatore De Renzi, e costituisce la parte introduttiva della sua opera “Osservazioni sul tarantismo di Puglia- Prolusione accademica recitata nell’ordinaria seduta del 28 luglio 1832 dell’Accademia medico-chirurgica napoletana dal dott. Salvatore De Renzi, socio della medesima” .

Questo saggio viene ora ripubblicato, a cura di Sergio Torsello, dalla casa editrice Kurumuny (2012).

Conosciamo Sergio Torsello come uno studioso attento delle complesse problematiche legate all’antropologia culturale salentina ed in particolare di quel vasto fenomeno che è il tarantismo, del quale si è occupato in numerosissimi saggi e articoli di cui pare arduo dare un sia pur vago cenno di elenco. Giornalista pubblicista, Torsello è parimenti conosciuto per essere consulente scientifico dell’ “Istituto Diego Carpitella” e direttore artistico della “Notte della Taranta” di Melpignano.

Sappiamo bene che l’Ottocento fu un secolo in cui fiorì una enorme messe di studi, soprattutto di carattere medico-scientifico, sul tarantismo pugliese. Ed in questa sezione del sapere rientra il saggio di De Renzi il quale, nella sua dotta dissertazione, descrive il fenomeno dal punto di vista della sua sintomatologia, della diagnosi e della terapia, grazie alle nozioni ricevute da alcuni informatori locali.

Nella sua dettagliata Introduzione, Sergio Torsello, spiega che quella della letteratura medica sul tarantismo è una branca della disciplina molto importante, come confermano le ricognizioni effettuate da Angelo Turchini (nel suo libro “Morso, Morbo, Morte. La tarantola tra terapia medica e cultura popolare”, edito da Angeli nel 1987) e più recentemente da Gino L.Di Mitri ( in “Storia biomedica sul tarantismo nel XVIII secolo”, edito da Olschki nel 2006).

In particolare, nell’Ottocento, il dibattito sul tarantismo vede coinvolti molti medici e scienziati, come Antonio Pitaro, e poi Dimitry, Ferramosca, Costa, Vergari, Carusi, De Martino, Panceri, Cantani, Campelli, De Masi, Carrieri, per citare solo gli studiosi italiani che danno il proprio contributo alla bibliografia medica sul tarntismo. Ad essi si aggiunge l’opera di De Renzi, medico, patologo e storico della medicina, fondatore del giornale scientifico “Il Filiatre Sebezio”, grande erudito e viaggiatore. Il suo interesse per il tarantismo, che si inquadra in una generale riscoperta del fenomeno avvenuta in quegli anni nell’ambiente scientifico accademico napoletano, del quale il medico era esponente di spicco, ci ha portato questo saggio, che è sicuramente un originale contributo rientrante nel clima positivista che animava la cultura italiana in quel periodo. Per maggiore completezza, alla fine del libro, Torsello riporta una interessante bibliografia delle opere pubblicate sull’argomento dal 1800 al 1898.

 

Giurdignano. Il menhir San Paolo

di Marco Piccinni

Appena fuori dal centro abitato di Giurdignano, lungo quella che è stata definita la strada dei dolmen e dei menhir, all’interno del percorso archeologico del comune, definito il giardino megalitico d’Italia, è possibile ammirare una perfetta forma di sincretismo religioso-culturale costituitosi nei secoli intorno alla cripta di San Paolo.

Sormontata da uno dei menhir più “bassi” di Giurdignano, alto poco più di due metri, una cavità scavata in un basamento roccioso con tracce di affreschi fortemente deteriorati dal tempo e ulteriormente danneggiati da azioni vandaliche, rivela le sue origini, probabilmente bizantine, con degli abbozzi al culto di San Paolo e alla ormai storica associazione alla terribile taranta.

Menhir e cripta di San Paolo

San Paolo, divenuto un taumaturgo per ogni fenomeno di avvelenamento indotto dal morso di animali dopo aver debellato dal suo corpo il veleno iniettatogli da un serpente sull’isola di Malta, divenne anche il “testimonial ufficiale” di un fenomeno tipico dell’Italia Meridionale, con prevalenza nel territorio salentino, che fece discutere uomini illustri di ogni tempo, tra cui anche il grande Leonardo da Vinci:

San Paolo che vince sul mistico ragno che induce uno stato di possessione nel soggetto morso, è rappresentato nella piccolissima cripta di Giurdignano, accanto ad un ragnatela, probabilmente postuma all’affresco insieme ad altri piccoli dettagli  ”ricalcati” intorno alla figura dell’apostolo delle genti.

Affresco di San Paolo

 

L’associazione di San Paolo alla taranta avvenne con predominanza nel ’700, quando la chiesa cercò di arginare il fenomeno del tarantismo, di stampo tipicamente pagano, intorno ad un piccola cappella di Galatina, con il solo fine di debellarlo e ristabilire l’ordine nella terra dove la leggenda vuole siano sorte le prime chiese cristiane d’occidente. Nello stesso periodo, inoltre, i progressi in campo medico raggiunti nella capitale del regno di Napoli respingevano ormai di netto la teoria della possessione da morso, benchè fosse stata fortemente accreditata nei secoli precedenti, per sposarne una  più razionale focalizzata su un autentico avvelenamento. Questi sarebbe stata la causa di spasmi e tormenti psico-fisici.

All’interno della cripta, tutt’oggi oggetto di culto, è possibile individuare altre figure di santi ai lati di San Paolo. Si ipotizza che in origine fosse utilizzata per usi sepolcrali, ipotesi non suffragata da evidenze archeologiche. Sulla sua sommità tuttavia, adiacente al menhir,è possibile notare un insenatura nella roccia, artificiale, che ricorda tombe bizantine e medievali. Se così fosse non ci sarebbe spazio per nessun stupore. Questa zona è stata fortemente frequentata nei secoli, come dimostrano i rinvenimenti archeologici nelle vicine contrade Quattromacine e Vicinanze.

Possibile tomba sul menhir San Paolo

 

Il lato nord del menhir presenta sette tacche alla medesima distanza, mentre sulla sommità è possibile notare un foro, probabilmente utilizzato per l’installazione di una croce. Tutti i monumenti/simboli vistosamente legati a culti di stampo pagano vennero progressivamente cristianizzati a partire dagli editti di Teodosio, con i quali il Cristianesimo divenne religione di stato per l’impero romano e il popolo dei Cristiani divenne, da perseguitato, un persecutore. I menhir vennero incisi con delle croci o sormontati con “addobbi” cristiani, le cripte vennero affrescate e gli dei catechizzati.

Anche se molto piccola, questa cripta rappresenta un anello di congiunzione per molti dei culti che hanno segnato in maniera decisiva la storia etnografica del Salento.

 

pubblicato su http://www.salogentis.it/2012/02/19/il-menhir-san-paolo-di-giurdignano/

Origine e discendenza dei carmati ti Santu Pàulu

ELSHEIMER ADAM, S. Paolo a Malta

 

RELIGIONE E MAGIA NELLA CIVILTA’ CONTADINA DI FINE OTTOCENTO

ORIGINE E DISCENDENZA DEI
CARMATI TI SANTU PAULU

 Necessaria precisazione linguistica per evitare che, alla luce del nuovo dialetto, gli agguerriti carmàti ti Santu Pàulu vengano identificati non più come i fortunati discendenti di una famiglia magicamente dotata, bensì come persone ammansite da S. Paolo.

 di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

Negli Atti degli Apostoli, in riferimento al viaggio di S. Paolo da Gerusalemme a Roma, dopo la descrizione della tempesta nelle acque di Creta e il successivo naufragio, si legge:

“Una volta in salvo, venimmo a sapere che l’isola si chiamava Malta. Gli indigeni ci trattarono con rara umanità; ci accolsero tutti attorno a un gran fuoco, che avevano acceso perché era sopraggiunta la pioggia ed era freddo. Mentre Paolo raccoglieva un fascio di sarmenti e lo gettava sul fuoco, una vipera, risvegliata dal calore, lo morse a una mano. Al vedere la serpe pendergli dalla mano, gli indigeni dicevano tra loro: certamente costui è un assassino, se anche scampato dal mare, la Giustizia non lo lascia vivere. Ma egli scosse la serpe nel fuoco e non ne patì alcun male. Quella gente si aspettava di vederlo gonfiare e cadere morto sul colpo, ma dopo avere molto atteso senza vedere succedergli nulla di straordinario, cambiò parere e diceva che era un dio”.

Su questa succinta nota degli Atti, la fantasia popolare ci aveva ricamato sopra, e stando all’ampliata versione assunta come testo tradizionale, S. Paolo non aveva scosso il braccio e fatto cadere la vipera nel fuoco, bensì l’aveva afferrata delicatamente con due dita e dopo averla compassionevolmente rimproverata chiamandola “fìgghia spinturàta ti lu piccàtu” (“figlia sventurata del peccato”) le aveva ingiunto di fare il giro dell’isola, chiamando a raccolta tutte le vipere e facendole convenire in massa accanto al fuoco. Torcendosi in spire precipitose la vipera si era allontanata, per poi riapparire pochi minuti dopo seguita da centinaia e centinaia di vipere che si erano fermate a pochi metri dal santo sibilando la loro minacciosa presenza.

Issùte ti lu ‘nfiérnu parìanu
e llu ‘nfiérnu purtànu intra lla occa
mpéssime an core loru si ticìanu:
ilénu tinìmu, uai a ccinca nni tocca!

Uscite dall’inferno sembravano / e l’inferno portavano nella bocca / cattive in cuor loro si dicevano: / veleno teniamo, guai a chi ci tocca!

Ma S. Paolo era ben più potente di loro. Fra gli urli di terrore dei suoi compagni di naufragio si era avvicinato sin quasi a toccarle, e tracciando un segno di croce aveva loro imposto, nel nome di Dio, di avvicinarsi al rogo e sputare nelle fiamme il dente velenoso.

Miràculu ti Ddiu istu e ttuccàtu
la zzoca ti lu male s’ìa spizzàta,
lu tiàulu si nn’ìa sciùtu scunfunnàtu,
la facce ti li sierpi ja cangiàta.

No cchjùi ssassìne cu ll’uécchi ti la morte,
ma criatùre ti Ddiu senza piccàtu,
criatùre carmàte pi’ nna bbona sorte,
mmansùte comu àunu ‘mpena natu.

Miracolo di Dio visto e toccato / la corda del male s’era spezzata, / il diavolo se n’era andato confuso, / la faccia delle serpi era cambiata: // non più assassine con gli occhi della morte, / ma creature di Dio senza peccato, / creature incantate per una buona sorte, / ammansite come agnello appena nato.

Fatte appunto docili come agnelli, le vipere avevano obbedito: dopo avere strisciato in tondo ai piedi di S. Paolo per rendergli omaggio, a una a una si erano avvicinate al fuoco sputando denti e veleno. Commosso da tanta obbedienza, il santo le aveva benedette, e a simbolo delle stabilita alleanza

La tìpara cchiù rrossa ja zziccàta
tuttu cundùtu si l’ìa mpisa an cuéddhru
tànnule ssiéttu, bbona ncummitàta
la cota amm’occa, sistimàta a nniéddhru.

E cquannu poi pi’ mmare s’ìa ‘mbarcàtu
si ll’ìa purtàta a rretu, ca sapìa
quiddhru ca nn’ìa ffare, ja pinzàtu
pi cquale ràzzia ranne lli sirvìa.

La vipera più grossa aveva acchiappato / tutto compiaciuto se l’era appesa al collo / dandogli assetto, buona accomodata / la coda in bocca, sistemata ad anello. // E quando poi per mare si era imbarcato / se l’era portata dietro, perché sapeva / quello che ne doveva fare, aveva pensato / per quale grazia grande gli serviva.

Con la vipera attorcigliata al collo, S. Paolo era arrivato a Galatina, suscitando l’immediata ostilità degli abitanti, atterriti dalla poco rassicurante presenza della serpe. Pur essendo gente ospitale, pronta a fraternizzare con i forestieri, nessuno gli aveva rivolto la parola, anzi al suo passaggio se ne erano discostati precipitosamente, e tutte le volte che aveva fatto mossa di avvicinarsi a un uscio, questo gli era stato sbattuto sul muso.
Dopo aver percorso tutto il paese chiedendo invano la carità di un alloggio, sul calare della notte si era ritrovato in periferia, dove fra il diradarsi delle case s’incuneava il verde della campagna. Adocchiato un orto pieno di alberi, vi si era inoltrato, andandosi a rannicchiare sotta’a nn’àrvilu ti mbrufìcu (sotto un albero di caprifico) il cui fitto fogliame prometteva bbuénu ‘mbràcchiu a lla muttùra (buon riparo all’umido della notte).
A poca distanza dall’albero sorgeva una casa, nella cui muraglia s’inseriva un pozzo a due bocche: una prospiciente il caprifico per chi voleva attingere dall’esterno, e l’altra all’interno della casa per l’uso familiare. Sicché quando S. Paolo allo scoccare della mezzanotte si era messo a salmodiare, la sua voce, passando dalla bocca esterna del pozzo a quella interna, aveva svegliato gli abitanti, che allarmati erano corsi a spalancare l’uscio. Nel vedere con quanta fede quell’uomo pregava, si erano pentiti di non avere accolto la sua domanda di ospitalità e, superando ogni diffidenza e paura per la presenza della vipera, lo avevano voluto loro ospite per tutto il tempo che si era trattenuto a Galatina.
Grato per tanta carità, il santo aveva pensato di disobbligarsi, e poiché ranne era la ràzzia ca tinìa (grande era la grazia che teneva), prima di ripartire aveva operato tre miracoli. Per prima cosa aveva accarezzato i rami del caprifico, che da quel momento, alla produzione di profichi fòrniti, buoni solo per la caprificazione, aveva aggiunto una successiva maturazione di frutti commestibili; prodigio che, a quanto si raccontava, si era protratto per secoli e che, una volta seccato l’albero galatinese ed estinta la ‘progenie’ dei suoi polloni, sporadicamente e limitatamente a uno o due frutti per albero, e non del tutto commestibili, si riproponeva nelle campagne salentine. Un fenomeno botanico normalissimo, ma che naturalmente veniva attribuito alla benevolenza di S. Paolo, anzi a un rinnovarsi del miracolo, sicché il contadino che all’alba avvistava fra i rami di un caprifico un frutto edulo si sentiva in dovere di farsi il segno della croce e comunicare ai confinanti del campo: “Sta notte Santu Pàulu è bbinùtu acquai cu ppassìa e ss’à ffirmàtu sott’a llu mbrufìcu!” (“Questa notte S. Paolo è venuto qui a passeggiare e si è fermato sotto il caprifico!”).

dal libro di Brizio Montinaro “San Paolo dei serpenti”, Sellerio, Palermo 1996

Del secondo prodigio era stata protagonista la vipera: il santo, dopo averle raccomandato di moltiplicarsi, l’aveva buttata nel pozzo, dove, miracolo dei miracoli, anziché annegare si era trasformata in biscia acquatica. Da quel momento l’acqua del pozzo aveva assunto virtù particolari e chi, essendo morso da bestie velenose – serpi, tarantole, scorpioni – ne beveva nnu ursùlu curmu (un boccale colmo) vomitava subito il veleno ottenendo la guarigione. Dulcis in fundo, il santo aveva riunito tutti i componenti maschi della famiglia e “ll’ìa carmàti a nno ppatìre ilénu e a zzziccàre siérpi, sia iddhri ca lli fili ti li fili ti li fili”, cioè li aveva incantati trasmettendo loro il dono di essere invulnerabili al veleno e di potere catturare i serpenti, sia loro che i figli dei figli dei figli.

San Paolo
S. Paolo in un’antica stampa. Coll. priv. Nino Pensabene

 

Nasceva così la definizione “Carmàti ti Santu Pàulu”, che, pur se a volte sostituita da quella più sommaria di “Sampaulàri”, si intendeva la più ufficialeo quanto meno la più rivendicata dagli interessati, in quanto chiariva l’origine dei loro poteri. Se all’appellativo carmàti, che già di per sé li attestava iniziati magicamente, si aggiungeva il fatto che a trasmettere tali virtù soprannaturali era stato S. Paolo, la loro quotazione – è il caso di dirlo – saliva alle stelle, tenendo anche conto della misura quasi ontologica che il popolo dava alla parola carmàre, la cui valenza oggettiva era però sempre in stretto rapporto con la figura di chi carmàva, o per meglio dire con le qualità spirituali che questi possedeva.
E qui ci sia consentito di sottolineare che ci stiamo riferendo a una significazione inerente l’antico dialetto e la cui derivazione è da ricercare nell’altrettanto arcaico termine dialettale “carma” (carme), valevole qui per incanto, parola magica, influsso attuante una dotazione spirituale. Precisazione necessaria ora che il dialetto non ha più cittadinanza nel vissuto linguistico e ha perso la sua originaria identità. Anche là dove affiora è ormai memoria incerta, spesso e volentieri imbastardito sia nella costruzione che nella resa fonica; soprattutto nella significazione, giacché si tratta di una lingua nata e sviluppata per esprimere un contesto di vita a noi ora completamento estraneo: venendo meno la misura oggettiva di quel particolare codice di comportamenti, peraltro determinati da un complesso patrimonio psicologico, anche l’atto verbale risulta sradicato e quindi difficile a reperire nella sua accezione effettiva.
Fin troppo abituati alla sintesi, non riusciamo a possedere il dialetto nella sua peculiarità di sfumature, e ciò porta a una frettolosa omologazione di termini, spesso espunti da un’arbitraria traduzione dall’italiano.
In seguito allo spopolamento delle campagne, in margine a un processo di urbanizzazione vissuto come rottura dello stato di subalternità e quindi non esente da uno spirito di globale rinnegazione del passato, soprattutto a causa di un condizionamento mentale determinato dai mass media, il dialetto si è trovato, direttamente o indirettamente, sotto processo, quasi che dal suo perdurare dipendesse la scomoda patina di retrività e ignoranza. E poiché non si poteva di colpo cancellarlo, in quanto non si era ancora padroni dell’idioma nazionale, si è cercato via via di modificarlo, di ingentilirlo, col risultato di creare una parlata che è misero compromesso tra la storpiatura dell’italiano e la falsazione del dialetto. Imbastardimento che, come già detto, ha oltretutto implicato una falsazione di significati, in quanto le parole più arcaiche, ritenute per questo più rozze, sono state del tutto cancellate e alle altre, oltre alla plasmatura ammodernatrice, si è insistito a dare significazioni in linea con il nuovo contesto di vita nonché con i termini italiani che si è creduto ne fossero gli equivalenti.
Ciò è accaduto appunto con il vocabolo “carma”, completamente abbandonato per ciò che concerneva la sua originaria significazione e arbitrariamente riassunto come equivalente dialettale dell’italiano “calma”. Sicché oggi carmàtu lo si fa bellamente derivare dal verbo calmare, chiamato ad assolvere indifferenziatamente a tutti gli stati o le proposte di acquetamento, e dimenticando così che anticamente il vocabolo dialettale non veniva svilito in semplice convenzione onnivalente, ma posto nel discorso in misura di appropriazione circostanziale. Ne conseguiva una nomenclatura lessicale caratterizzata da un largo uso di sinonimi, a ognuno dei quali si dava una valenza specifica, ossia un’applicazione differenziata: per comunicare che un dolore di denti o reumatico in genere si era calmato si usava dire “Lu tulòre m’à llintàtu” (“Il dolore mi si è allentato”); ma se lo stato dolorifico riguardava la sfera digestiva si passava a una diversa formulazione: “Lu ngruppu s’à ssuétu” (“L’ingorgo si è sciolto”). Il calmarsi di un accesso febbrile veniva focalizzato con “La frèe m’à scisa” (“La febbre è scesa”), ma se a calmarsi era il vento si diceva “Lu jentu è ccalàtu” (“Il vento è calato”). E continuando in questa minuta frastagliatura di appropriazioni, la bonaccia era “mare cuietàtu” (“mare acquetato”), un giorno senza alito di vento “sciurnàta sota” (“giornata immobile”) e il calmarsi del freddo “aria ndurcinàta” (“aria addolcita”).
Oggi, nel processo evolutivo di cui dicevamo, si è dato un colpo di spugna alla molteplicità delle aggettivazioni, e nel seguire la lingua italiana, in “calmare” si è trovata la scorciatoia per addivenire a una polivalente significazione: se carmàtu si dice in rapporto al dolore, carmàtu vale anche per il vento, e carmàta è la febbre, carma la giornata e carmu il mare. E ciò avviene anche in sede di dialogo evocativo, poiché rivolgendosi a una persona agitata non le si dice più come anticamente “Cuiétate, cuiétate” (“Acquietati, acquietati”) o se l’agitazione era esclusivamente spirituale “No tti mbilinàre” (“Non ti avvelenare”), ma si adopera un generico “Statte carma, statte carma” (“Statti calma, statti calma”). “Statte carmu” (“Statti calmo”) lo si dice anche al ragazzino irrequieto al posto del tradizionale “Statte sotu” (“Statti immobile”), raccomandazione che là dove nasceva preventiva, cioè in vista di una visita da compiere o di una permanenza in chiesa, veniva sostituita da un altrettanto tassativo “Sisci mansu” (“Sii mansueto”). Allo stesso modo, per mettere in evidenza la posatezza di un ragazzo che aveva superato l’aggressività dell’età puberale o un periodo di nervosismo in genere, non si diceva “S’à ccarmàtu” (“Si è calmato”) ma “S’à mmansùtu “ (“Si è ammansito”).

San Paolo
S. Paolo Apostolo. Cartapesta del 1800 custodita in Galatina nella “cappeddhra ti li tarantate”

La contrapposizione tra mmansùtu e carmàtu, o più esattamente la sostanziale diversità di significato che anticamente si dava ai due vocaboli, la ritroviamo evidenziata nello stesso testo poetico riguardante la leggenda di S. Paolo, dove, proprio in uno degli stralci che abbiamo riportato, si puntualizza il processo di trasformazione delle vipere, scandito nella successione di due tempi, o per meglio dire chiarito nel suo andare dalla causa all’effetto. L’intervento del santo, in prima istanza, punta a rendere le vipere “criatùre carmàte pi’ nna bbona sorte”, ossia le incanta, le strega, e poiché ciò avviene “pi’ nna bbona sorte” è chiaro che non si intende alludere a un fenomeno transitorio, a una temporanea sospensione della naturale aggressività delle serpi, ma a una totale trasformazione valevole per tutta la vita e perciò implicante l’azione di un influsso magico, tanto potente da riuscire a svellerle dal loro primiero stato di “figghe spinturàte ti lu piccàtu”.
La successiva connotazione, che ci presenta vipere mmansùte comu àunu ‘mpena natu”, non può perciò essere intesa come elemento rafforzativo del precedente concetto – il che renderebbe equivalenti i vocaboli carmàte-mmansùte -, bensì come consequenziale effetto di un processo in sé e per sé già concluso e che non viene maggiorato ma solo confermato dal comportamento. Pur nella concatenazione verbale, che a prima vista sembra unificare la formulazione del pensiero, la separazione dei due campi è netta, e quello che è ragguaglio fisico, o materiale che dir si voglia, subentra ma non si confonde col preavvenuto influsso spirituale.
Ci rendiamo conto che parlare di influsso spirituale in rapporto a delle serpi è semplicemente assurdo, ma propria o impropria che sia la definizione, riteniamo sia l’unica adatta a esprimere fedelmente la specificità che il popolo dava al vocabolo carmàre. E per convincersene basta riaffidarsi a quell’insuperabile chiave di lettura che è il referente antropologico, ossia osservare a quale dinamica di applicazioni il vocabolo sottostava nell’azione verbale del quotidiano.
L’occasione più emergente e più vincolata all’uso era la cresima, un sacramento al quale il popolo attribuiva grande importanza, tanto da giungere a reclamarne l’amministrazione subito dopo il battesimo, soprattutto quando le condizioni fisiche del neonato non lasciavano troppo sperare nella sua sopravvivenza.
In quel tempo, l’alto indice di mortalità infantile era realtà scottante, e ciò determinava non solo un’estrema sollecitudine da parte della Chiesa nell’amministrare i sacramenti, ma anche un senso di scrupolosa responsabilità nei genitori, che ritenevano loro stretto dovere provvedere tempestivamente e nella misura più larga possibile alla sorte eterna dei figli.
Il conferimento del battesimo si poneva come l’atto più urgente da compiere, e perciò quasi mai procrastinato oltre gli otto giorni dalla nascita; ma pur se vissuto con senso liberatorio, in quanto ipso facto assicurava la salvezza, questo non acquetava del tutto l’ansia di arricchire al massimo l’anima del figlio. l’aldilà beatifico, il popolo lo concepiva in una misura oseremmo dire dantesca, immaginando un paradiso sistemato a piani, la cui raggiungibilità veniva determinata dalle credenziali che l’anima poteva esibire al suo arrivo. Per gli infanti, queste si concretizzavano, oltre che nella loro innocenza, nel numero dei sacramenti ricevuti: ne conseguiva che un neonato semplicemente battezzato non avrebbe mai goduto quanto uno attisciàtu e ccrisimàtu.
A questo accaparramento di esclusivo ordine spirituale riguardante l’aldilà, faceva riscontro un’altrettanta premura di ordine temporale, sempre collegata al desiderio di un arricchimento interiore del cresimando ma che trasbordava dalle linee portanti della fede – più che altro si discostava da quelle che erano le intenzionalità ecclesiali nel conferire il sacramento.
Mentre la Chiesa basava il rituale sull’invocazione dello Spirito Santo e affidava l’opera trasformatrice unicamente all’azione della grazia santificante, il popolo dava molta importanza anche all’imposizione delle mani da parte dei padrini, visti non come li voleva la Chiesa in veste di garanti della fede, ma come ministranti chiamati a dispensare virtù a stretto appannaggio terreno. Se la mano consacrata del vescovo propiziava le benedizioni divine richiamando grazie “pi’ ricchjmiéntu ti l’ànima e ccutimiéntu ti l’eternitàte” (“per arricchimento dell’anima e godimento nell’eternità”), la mano del padrino catalizzava doni “pi’ ndutazziòne ti sta ita ti munnu a ddonca l’ànima camina cu lli piéti ti lu cuérpu, e ti la furtùna no nni pote fare a mmenu” (“per dotazione di questa vita nel mondo, dove l’anima cammina con i piedi del corpo, e della fortuna non può farne a meno”).

San Paolo
S. Paolo in un’antica stampa. Coll. priv. Nino Pensabene

Religione e magia, come sempre, andavano a braccetto: all’esuberanza di fede, riscontrata nel desiderio dei sacramenti per il completamento dell’essere cristiani e in virtù di un interesse escatologico, si innestava l’inconfessato riemergere di pregnanze arcaiche, che sia pure in termini sfumati si ritrovavano in parallelismo con il rituale della cresima, imperniata sull’imposizione delle mani, gesto che per se stesso riportava ad ancestrali riti di iniziazione o trasmissione di poteri. Di qui la premura di scegliere come padrino o madrina di cresima una persona ricca di doti spirituali, virtù che proprio attraverso l’imposizione delle mani avrebbe trasmesso al figlioccio (o figlioccia), riplasmandolo a sua somiglianza.
Era ferma convinzione che per il cresimato, subito dopo il rito, iniziasse una fase di trasformazione caratteriale che lo avrebbe portato gradatamente a diventare la controfigura del padrino e quindi ad assorbirne anche la intùra, ossia ad avere un destino uguale al suo. Non a caso nella scelta del padrino ci si orientava prevalentemente verso una persona anziana: al senso di maggiore affidabilità o di più ampia panoramica circa la correttezza di vita nonché la fortuna che aveva avuto, si aggiungeva, fattore non trascurabile, la cospicuità degli anni, attestante il dono della buona salute. E ciò valeva soprattutto quando si trattava di cresimare un neonato in pericolo di vita, anzi in quel caso più che un anziano si cercava una persona addirittura vecchia, e alla quale non ci si peritava dal chiedere esplicitamente “Ncòddhrane puru l’anni ti ssignurìa”, ossia “Trasmettigli anche la tua longevità”. Postulazione che se per caso veniva seguita da un reale miglioramento fisico del neonato malato, assurgeva a incontrovertibile testimonianza dell’avvenuto assorbimento, immettendo i genitori in una sfera di assoluta tranquillità circa l’avvenire del figlio. Tanto è vero che a chi si rallegrava con loro per l’avvenuta guarigione usavano rispondere con sicurezza: “Nùnnusa éte écchiu e ll’à ccarmàtu an curmu”.
Si noti come anziché dire “l’ha cresimato” si preferisce dire “l’à ccarmàtu”, il che non va semplicisticamente inteso come banale sostituzione di termine, bensì come voluto scavalco della causa in favore dell’effetto, reso ancora più emergente dalla precisazione “an curmu” che dà misura quasi visiva dell’avvenuto travaso. Interpretazione che ritroviamo confermata dalla frase che si pronunciava allorquando si invitava qualcuno a far da nunnu (padrino) e che, nel riporto di ambedue i termini, annulla ogni sospetto di sostituzione puramente linguistica, attestando che crisimàre stava come azione o rito da compiere e carmàre come risultato da ottenere: “Aggiu ffare crisimàre fìgghiuma e ci nni ll’ài a ppiacìre nci tinìa mutu cu mmi ll’aggi a ccarmàre ssignurìa” (“Devo fare cresimare mio figlio, e se lo hai a piacere ci terrei molto che l’abbia a dotarlo vossignoria”).
Del resto non meno illuminanti risultano altre frasi di più ordinaria occasione, giacché era nell’uso comune sfruttare l’incontro di una persona anziana o particolarmente saggia per presentarle il bambino e, al contrario di quando si incontrava un sacerdote dal quale si pretendeva una semplice benedizione, chiedere specificatamente: “Mpòggiane la manu an capu ssignurìa ca sinti bbiunnàtu ti Ddiu e ccàrmamilu a ccore chinu” (“Poggiagli la mano sulla testa vossignoria che sei abbondato da Dio e trasformalo con tutto il cuore”). Né da tanta petizione venivano esentati li signùri (i signori), ai quali più esplicitamente si chiedeva: “Sulamente ssignurìa mi lu puéti carmàre pi’ nna bbona furtùna” (“solamente vossignoria lo puoi incantare per una buona fortuna”).
Varianti che danno ulteriore conferma all’intendimento della ‘trasmissione’, e che potremmo proporre e analizzare in tante altre sfumature se ormai non fosse del tutto superfluo. Il nostro discorso è nato all’unico scopo di fornire una precisazione ed evitare che, alla luce del nuovo dialetto, gli agguerriti carmàti ti Santu Pàulu vengano identificati non più come i fortunati discendenti di una famiglia magicamente dotata, bensì come persone ammansite da S. Paolo.

 

GIULIETTA LIVRAGHI VERDESCA ZAIN, “TRE SANTI E UNA CAMPAGNA”, Culti Magico-Religiosi nel Salento fine Ottocento (pagg. 27 – 36)
con la collaborazione di Nino Pensabene, Laterza 1994

Tarantismo salentino e antico culto ellenico di Asclepio

Le sorprendenti analogie di rito presenti nel tarantismo salentino e nell’antico culto ellenico di Asclepio

di Romualdo Rossetti

Alla luce delle ultime ricerche storiche ed archeologiche risulta evidente che il tarantismo salentino, a differenza di quanto sostenuto da Ernesto De Martino nella sua Terra del Rimorso, affonda le sue radici nella prima storia del bacino del Mediterraneo. Se ci si sofferma ad analizzare con spirito sereno la particolarissima ritualità di questo fenomeno antropologico, ormai in via d’estinzione, non si possono non cogliere le numerosissime corrispondenze di culto che lo legano intimamente agli antichi riti di guarigione praticati in tutti i santuari di Asclepio della Magna Grecia e delle zone ad essa culturalmente contigue.

Ernesto De Martino interpretò il tarantismo quasi esclusivamente in chiave sociologica individuandone la causa nel malessere sociale dei poveri del Mezzogiorno d’Italia, nella condizione subordinata all’uomo della donna contadina, nella società rurale salentina retrograda e culturalmente arretrata, nella diversità fisico-psichica e sessuale mal vissuta e/o socialmente mal tollerata e soprattutto in uno spaccato esistenziale ingenuo e sottomesso all’autorità religiosa.

Per quel che concerne l’origine del fenomeno sociale, nel quinto paragrafo del commentario storico della sua Terra del Rimorso l’etnologo collocò l’atto di nascita del tarantismo nell’alto Medioevo, durante gli scontri tra la civiltà cristiana e quella musulmana in occasione delle Crociate, uno spazio temporale ben preciso che, a ben vedere, escludeva drasticamente la possibilità che esso si fosse generato nella protostoria dell’Occidente. Un’indagine, quella demartiniana, che finì per porre in essere un’interpretazione riduttiva del tarantismo perché frutto di una visione personale del marxismo vissuto soprattutto in chiave esistenzialista, una lettura antropologica, dunque, vittima del tempo (anni 50 del XX secolo) in cui il fenomeno venne studiato, etichettato e proposto al pubblico.

Galatina, cappella di San Paolo, particolare della tela del santo omonimo

Ciò che lascia oggi sorpresi è però, come mai, uno studioso delle religioni attento, intelligente ed intuitivo come Ernesto De Martino abbia trascurato di esaminare il culto di una importantissima pratica medica delle origini e la sua probabile sovrapposizione sincretica in un altro rito nel corso degli anni. Probabilmente ciò fu dovuto proprio dalla formazione culturale dell’etnologo, una formazione culturale fedele all’indirizzo imposto da Benedetto Croce, da sempre poco incline ad analizzare ciò che poteva fuorviare il dato storico da analizzare. In realtà, però, gli sarebbe bastato interpretare con più attenzione le stesse critiche del medico settecentesco Francesco Serao, da lui più volte menzionate nella Terra del Rimorso, quando affermava che la fenomenologia del tarantismo non dipendeva affatto dal morso della tarantola quanto, piuttosto, dall’indole congenita dei pugliesi.

L’indole di un popolo, è notorio che non la si costruisce dall’oggi al domani, ma è un sovrapporsi di simboli, significati e vissuti sociali che si tramandano nei secoli nei costumi, soprattutto in quei contesti culturali arretrati come possono esserlo quelli propri del mondo contadino. Gli sarebbe bastato poco per intuire che il tarantismo come forma di catarsi dall’oistros, come esorcismo coreutico-musicale, affondava le sue radici nella protostoria della Magna Grecia. Se soltanto avesse disatteso le proprie radici crociane e si fosse soffermato ad osservare lo Zodiaco, la prima mappa sapienziale dell’uomo, avrebbe di sicuro intuito che l’Oistros deteneva, non a caso, un posto d’onore anche tra le stelle dove compariva altresì il nome divino della sua risoluzione. Poco sopra la costellazione dello Scorpione difatti, gli antichi scrutatori e denominatori degli astri, avevano posto la costellazione dell’Ofiuco, detto anche Anguitenens o Serpentario che col calcagno pare schiacciare lo Scorpione che a sua volta, pare, volerlo pungere. A quel punto la chiave di risoluzione del mistero dell’origine del tarantismo poteva essere facilmente risolta rifacendosi ad un’unica antichissima divinità, ad Asclepio il signore e demone colui il quale fu da Zeus predisposto alla guarigione fisica e psichica dei mortali.

Se De Martino non si fosse soltanto soffermato a catalogare in maniera quasi ossessiva, come stabiliva il metodo storicistico, il comportamento dei tarantolati durante l’esorcismo nella piccola cappella sconsacrata della casa di S. Paolo a Galatina ma si fosse soffermato ad esaminare l’ubicazione del pozzoomphalos dalle acque emetico-curative all’interno del complesso architettonico della cappella avrebbe sicuramente colto la corrispondenza strutturale che la associava ad un antico asclepeion.

Anche i tanti simboli della città di Galatina, a partire dal nome della stessa, furono trascurati e non furono vagliati con la dovuta accuratezza filologica e semantica. Ad onor del vero ciò è accaduto non unicamente con l’indagine demartiniana ma anche con le altre numerose successive indagini antropologiche che, pur volendo distanziarsi dalla lettura del fenomeno operata tramite la Terra del Rimorso, hanno continuato a trascurare l’evidente inoltrandosi in un indirizzo di ricerca alla “moda”, (interpretazione nietzscheana) con tanto di eccessivi ed azzardati rimandi al dionisismo ed al menadismo.

Esculapio

Asclepio, il protagonista nascosto del tarantismo salentino, veniva rappresentato solitamente come un uomo maturo, il più delle volte munito di  barba con in pugno un bastone e con l’altra mano appoggiata sulla testa di un

I tarantati secondo Teresina

di Josè Pascal

Gli anni ’50 nei paesini del Sud Salento me li hanno solo raccontati. Ai ricordi di mia nonna devo la mia memoria della miseria più nera, di quella quotidianità oggi chiamata folklore e delle tante braccia partite a cercar fortuna.
Mi sembra di vederli i tarantati, puntuali alle soglie di ogni estate, che si dimenano nelle piazze, tra il clamore concitato della gente ed il ritmo serrato dei tamburelli. Quando nonna Teresina ne parla, comincia sempre dicendo: “Succedia ca certi cristiani tuttu de paru scuppàvane an terra – accadeva che alcune persone all’improvviso stramazzassero a terra posseduti da una forza soprannaturale – anche qui, a Comuncè c’era gente pizzicata da taranta o colpita dai guai de Santu Dunatu. C’era a CONSIJA SSUNTAMIJIA – persona per mia nonna normalissima – ca passava de sutta i pali de segge, scinnia de scale tutta curcata stisa – che strisciava in maniera scomposta tra le gambe delle sedie, si introduceva nei posti più angusti e scendeva dalle scale distesa – se girava de na vanna e de l’autra, sturcia anterra poi cuntava cu Santu Dunatu – si contorceva con fare frenetico e poi rivolgeva richieste e preghiere a San Donato. C’erane quiddi ca sunavane pizziche cu li passa u male. E poi dopu ure li passava e diventavane normali sti cristiani – spesso per esorcizzare questo male si ricorreva ai tamburellisti, ai suonatori di organetto e fisarmonica, perché una danza scatenata ed estenuante era l’unico modo per liberarsi da questo stato di isteria e tornare in se stessi.

Arrivata a questo punto della sua storia nonna Teresina diventa malinconica e reticente – Basta, sta me sentu fiacca cu le cuntu ste cose – non insisto perché continui il suo racconto. La lascio al suo silenzio. So già che con la mente è tornata a quel torrido pomeriggio di giugno; era ancora bambina e davanti la sua casa saltellava attorno a suo nonno che suonava il tamburello. Non poteva sapere, Teresina, che quel suo ballo spensierato e vivace si sarebbe trasformato in una lotta per la sopravvivenza, circondata dagli zombi della sua infanzia.

 

Lo pseudo lettore scrivente
Jose Pascal

In parole semplici – Scatola di latta virtuaculturale
http://parolesemplici.wordpress.com

Link di riferimento:
http://parolesemplici.wordpress.com/2010/05/22/i-tarantati-secondo-teresina/

Saverio Lillo e i dipinti di San Paolo “te le tarante” di Galatina

di Stefano Tanisi

Uno l’ho visto io camminare col capo in giù sul soffitto, altri bevevano a un pozzo di scorpioni e di serpi, non senza gridi, nel viola acido e sporco d’una cappella, mentre fuori era il chiaro giorno steso coi piedi avanti come il Cristo del Mantegna. V.  Bodini

 

Già dalle prime luci dell’alba del 29 giugno, giorno in cui ricorre la solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, per le vie e nella piazza grande del centro storico di Galatina, si avvertiva nell’aria, fino a qualche anno addietro, quell’agitazione che prendeva tutti: era l’arrivo dei tarantati da tutto il Salento per recarsi alla piccola cappella di S. Paolo “te le tarante”, chiesa

Leccesi, c’era una volta / Quando esce la taranta. 6a parte.

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 di Alfredo Romano

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IL VIDEO: Alfredo parla del tarantismo. Segue monologo e l’esecuzione di 2 pizziche con la partecipazione di Mina Fabiani e di Giuseppe Maniglio alla chitarra.

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PREMESSA AL TARANTISMO CON QUALCHE DIVAGAZIONE

C’è stato nel Salento, fino a qualche anno fa, un fenomeno detto del tarantolismo, fenomeno che è sopravvissuto finché è resistita la civiltà contadina e che ora è del tutto scomparso. Nella mia terra succedeva che le donne specialmente, alcune donne, ciclicamente all’inizio della stagione calda entravano in una crisi che si potrebbe definire depressiva.

Alfredo Romano

Era credenza che la donna fosse stata morsa da un ragno, la tarantola, un morso magico, dal momento che la donna, al semplice suono di un tamburello o di una fisarmonica, danzava e si dimenava al ritmo del suono e questo le portava giovamento nel fisico e nell’umore.

I familiari, la collettività, consci di questo effetto terapeutico della musica, organizzavano dei veri e propri concerti in casa ad opera di musicisti di tamburello, di violino, di fisarmonica e di chitarra: in genere erano persone del paese. Io ho avuto due zii paterni che suonavano il violino e il tamburello, quello che suonava il violino era il nonno di mio cugino Mariano Romeo, un mastro muratore che qui tutti chiamano Lupo.

I concerti duravano giorni a volte, la donna danzava e mimava con i gesti le movenze del ragno, entrava in trance, percorreva nella sua mente mondi sconosciuti, finché, ad un certo punto, rientrava docilmente nella ragione, tornava in sé, nella sua normalità, dopo aver smarrito il suo orizzonte.

A questo punto ringraziava i musicisti, ringraziava i vicini di casa che avevano assistito alla sua terapia musicale, e ringraziava pure San Paolo, creduto il protettore delle tarantole e dei serpenti. In conclusione, la stessa collettività allora si incaricava di curare chi era entrato nel tunnel della crisi.

Che la musica, il canto, abbiano una funzione terapeutica, è ormai riconosciuto da tutti. La vibrazione sonora infatti non viene percepita solo dal nostro udito, ma viene sentita anche dall’intero corpo e dal nostro mondo inconscio. Il suono armonico viene quindi ad armonizzare, ad alleviare cioè il nostro dolore fisico e mentale.

Tornando alla terapia musicale del tarantolismo, è chiaro che aveva la sua ragion d’essere in un determinato contesto culturale. Ma le crisi, gli smarrimenti della ragione non sono affatto finiti. Solo che oggi la cura si risolve in farmacia o all’ospedale (detto tra noi era molto meglio ballare al suono di un tamburello) dimenticando che certe malattie dell’anima non possono essere curate esclusivamente con la chimica.

Mina Fabiani

Perché le donne erano più soggette a essere «morse dalla tarantola?» Beh sappiamo che allora le donne subivano leggi e costumi repressivi e la crisi era sempre in agguato. Ma io aggiungo un altro motivo: non è che anche l’uomo fosse immune dalle crisi, è che la donna, più dell’uomo, ad un certo punto decideva di entrare in crisi, si abbandonava, tirava fuori la parte di sé più irrazionale e costringeva la collettività a occuparsi di lei (finalmente di lei), si metteva al centro dell’attenzione, lei ballava e aveva un pubblico tutto suo, era protagonista di un evento. Così facendo la donna si riconquistava le sue sfere di libertà.

Al contrario, gli uomini in crisi, in generale non sono capaci di questi abbandoni, non decidono di smarrirsi, di uscire da sé (e farebbe loro tanto bene), perché gli uomini si controllano di più, stanno più attenti, si vergognano, ne andrebbe del loro status di maschi, perfino il pianto è visto come segno di debolezza, quasi che il pianto debba essere un’esclusività delle donne. Non so perché mi viene in mente il pianto di Priamo, re di Troia, di fronte all’eroe greco Achille per ottenere la restituzione del corpo di Ettore, il figlio ucciso dallo stesso Achille. Era il pianto di un re. E piangeva anche Odisseo nell’isola di Ogigia al ricordo della sua donna lontana, della sua patria lontana. E allora… questi uomini, insomma, che piangano pure, visto che piangevano anche gli eroi.

Adesso passo a raccontarvi del fenomeno del tarantolismo nel dialetto del mio paese di origine, Collemeto di Galatina, in provincia di Lecce. Questo perché, prima della pìzzica tarantata, voglio farvi entrare in un mondo magico, un mondo di suoni e ritmi che solo il dialetto può rievocare.

Mina Fabiani, Alfredo Romano e Giuseppe Maniglio in scena.

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 QUANDU ESSE LA TARANTA

Mo’ fazzu cu ssentiti la pìzzica tarantata. Cce gh’ete la pìzzica tarantata? Ete ‘na tarantella. Ndae tante tarantelle a llu Sud: have la tarantella te Napuli, quiddha calabrese, quiddha siciliana… e nnui tenimu puru la tarantella noscia: la pìzzica-pìzzica.

La tarantella vene te taranta. La taranta è ‘nn’animale ca se troa a ttiempu t’estate a lle campagne, a lli tiempi de la metitùra te lu cranu… Se scunde a mmienzu ‘llu cranu la taranta, quandu face quiddhu sole ertu ertu, a quiddhi merisci caddi ca se vite l’aria brillare, ca pare ca sta arde quasi. Le furmìcule stanu scuse sotta terra, se sente lu sonu te le cicale… ca face mutu caddu! Se sente cicì-cicì-ciciiì. Sempre quiste cicale. E allora tìcianu ca la taranta esse te fore e pìzzica le mane e lli pieti te li cristiani.

Giuseppe Maniglio

   E quandu pìzzica la taranta, li cristiani se sèntanu tutti scazzicàti. E basta cu nne rria quarche ssonu te tamburieddhu o te fisarmonica ca vene te luntanu, ca se mìntanu ‘ballare. E ballanu tuttu lu giurnu, a ffiate puru dô giurni, tre giurni, quattru giurni… puru ‘na settimana!

   La taranta, la pìzzica. Nui ‘stu fattu te li cristiani ca su’ ppizzicàti te la taranta e cca se mìntanu ballare, ‘sta cosa la tenìmu scusa intru te nui, comu ‘na sorta te mascìa ca nu’ mbulìmu cu sse saccia.

   E ssentendu vui quistu sonu te pìzzica-pìzzica, vui be putiti ccurgìre te cce ssangu ca tenìmu nui intra lle vene, te cce ffocu ca ne arde intra llu core: ‘stu focu ca vulìmu cu spetterra, cu esse te fore e ccu llu tamu a tutti li cristiani.

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TRADUZIONE IN ITALIANO

QUANDO ESCE LA TARANTA

   Mo’ vi faccio ascoltare la pìzzica tarantata. Che cos’è la pìzzica tarantata? È una tarantella. Ci sono tante tarantelle al Sud: c’è la tarantella di Napoli, quella calabrese, quella siciliana… e noi teniamo pure la tarantella nostra: la pìzzica-pìzzica.

  La tarantella viene da taranta. La taranta è un animale che si trova al tempo d’estate nelle campagne, al tempo della mietitura del grano… Si nasconde in mezzo al grano la taranta, quando fa quel sole alto alto, in quei meriggi caldi quando si vede l’aria brillare, che pare che arda quasi. Le formiche se ne stanno nascoste sotto terra, si sente il suono delle cicale… ché fa molto caldo! Si sente cicì-cicì-ciciiì. Sempre queste cicale. E allora dicono che la taranta esce fuori e pìzzica le mani e i piedi dei cristiani.

Alfredo Romano

   E quando pìzzica la taranta, i cristiani si sentono tutti smossi dentro. E basta che arrivi loro quarlche suono di tamburello o di fisarmonica che viene da lontano, che si mettono a ballare. E ballano tutto il giorno, a volte anche due giorni, tre giorni, quattro giorni… anche una settimana!

   La taranta, la pìzzica. Noi questo fatto dei cristiani che sono pizzicati dalla taranta e che si mettono a ballare, questa cosa la teniamo nascosta dentro di noi, come una sorta di magia che non vogliamo che si sappia.

   E ascoltando voi questo suono di pìzzica-pìzzica, voi potete scorgere che razza di sangue teniamo noi nelle vene, che fuoco ci arde dentro il cuore: questo fuoco che vogliamo che trabocchi, uscir fuori e donarlo a tutti i cristiani.

Come ci inventiamo una cultura: il caso della Notte della Taranta

di Pier Paolo Tarsi

Possiamo partire da un’interessante intervista (interamente disponibile al seguente link: http://www.vincenzosantoro.it/nottedellataranta.asp?ID=233) rilasciata il 13 agosto 2005 a Carla Petrachi da Eugenio Imbriani, docente di Antropologia Culturale all’Università del Salento, studioso serio del tarantismo e non solo. È opportuna anzitutto una precisazione: Imbriani, per anni impegnato nel seno dell’Istituto Diego Carpitella, al momento in cui l’intervista è stata rilasciata si era già volontariamente allontanato da questo ente, battezzato “nell’estate del 1997 con il proposito di studiare e valorizzare il patrimonio artistico e culturale del Salento” (fonte: sito dell’Istituto Diego Carpitello: http://www.lanottedellataranta.it/istituto_carpitella.php) e poi finito per diventare di fatto, con un evidente restringimento dei vasti intenti sopra indicati e a scapito in specie dell’attività di ricerca scientifica, semplicemente (o almeno, soprattutto) il promotore e l’organizzatore della famigerata Notte della Taranta, cioè – eventualmente qualcuno avesse passato gli ultimi anni su Marte e non lo sapesse – della estiva kermesse musicale itinerante per vari comuni salentini che conclude il suo ciclo a Melpignano, ove raggiunge il suo clou nel mega-concertone e show-mediatico finale negli ultimi giorni di agosto. Data la situazione descritta, il detto antropologo, interessato ovviamente più che altro alla ricerca e allo studio, finalità purtroppo “fagocitate” dalla Notte della Taranta che, per sforzi e risorse economiche e organizzative richieste, “cannibalizza” necessariamente tutto il resto delle attività per cui era sorto l’Istituto stesso, se ha inteso come anticipato prendere a suo tempo le distanze da questo, non ha ritenuto opportuno sollevare polemica alcuna. Imbriani infatti ribadisce spesso nella sua intervista di voler rimanere assolutamente lontano dalle polemiche su un eventuale “tradimento” dell’ampiezza di finalità per cui l’Istituto si era costituto e in particolare di voler astenersi da polemiche sul fagocitante e totalizzante evento mediatico (che vede almeno tanti detrattori, per ragioni molto diverse e spesso distanti tra loro, quanti sono i tifosi, motivati da ragioni anche qui molto variegate, ragioni che per continuità tematica non interessa ora analizzare).

Scelta arguta questa astensione dalle polemiche che non è dovuta (come si potrebbe pensare) ad una sobria pacatezza della persona in questione, a indifferenza o addirittura a una accondiscendenza remissiva e arrendevole della stessa, quanto al fatto, ben più interessante e istruttivo qui per noi, che Imbriani, con la mentalità tipica dello studioso, è interessato più a

Galatina. Breve nota irriverente e fantasiosa su San Paolo e le tarantate

di Massimo Negro

Ho dei buoni motivi per ritenere che San Paolo in fin dei conti non abbia mai avuto vita facile a Galatina. Anzi forse avrebbe fatto anche a meno di essere presente in quella città.

Non che a Roma le cose fossero state tutte rose e fiori. Lasciamo perdere il martirio che nella vita di un Santo, specialmente nei primi anni del cristianesimo, era una scelta quasi obbligata. A preoccuparlo erano stati soprattutto i rapporti iniziali con il Santo pescatore.

Paolo pur con qualche difficoltà aveva alla fine accettato questa coabitazione come santo patrono della città eterna. Avrebbe preferito, in virtù della sua cittadinanza romana, che si dicesse “Santi Paolo e Pietro”, ma alla fine se l’era fatta passare.
Così come, pur se con qualche borbottio, aveva accettato che la sua Basilica venisse posta fuori le mura anziché in centro.
Più di qualche borbottio, riferiscono santi a lui vicini,  c’era stato quando il vescovo di Roma (per intenderci il Papa) aveva scelto come sede San Giovanni, ma qualcuno gli aveva fatto prontamente notare che trattavasi pur sempre del cugino del Maestro e del discepolo “che Egli amava”.
Dopo i primi momenti e le difficoltà iniziali, si può dire che a Roma era riuscito a trovare un suo spazio, una sua dimensione. Sempre pronto a sfoderare la spada, ma il suo carattere si era con il tempo ammorbidito.

Ma questo non accadeva quando pensava a Galatina. Lasciamo stare il fatto che il ritrovarsi anche nel Salento in compagnia di Pietro non l’avesse entusiasmato, e forse lo stesso Pietro, che per primo ci aveva messo piede, non era contentissimo. Ma dopo tanti anni di coabitazione romana alla fine i due conoscevano pregi e difetti l’uno dell’altro e sapevano come “prendersi” e come all’occasione evitarsi.
Chi non riusciva assolutamente a sopportare erano due donne. Due comuni mortali ma che non c’era verso di scalzare nel cuore della gente. Francesca e Polisena Farina.

Eppure, ripeteva ai suoi amici, lui poteva vantare miracoli provati e documentati, anzi nello specifico, un miracolo era stato anche riportato negli “ Atti degli Apostoli”. Lui a Malta era riuscito, pur se morso da una vipera, a non riportare alcuna conseguenza e, da allora, era invocato dalle genti di tutto il mondo a protezione dai morsi degli insetti e delle serpi. In tutto il mondo tranne a Galatina.
A Galatina accorrevano persone da ogni dove, morse da tarantole, scorpioni o serpi, non per chiedere a Lui la guarigione, bensì per rivolgersi a quelle due sorelle che, con pratiche ancestrali e arti magiche, tra sputi e rituali vari, riuscivano a far espellere il veleno dal corpo del malcapitato o malcapitata.
Alla fine dovette aspettare che morisse anche l’ultima delle due sorelle, senza che lasciassero discendenza femminile.

Ma proprio quando stava per gioire,  sia beninteso , non della loro morte ma per il semplice fatto che l’ordine naturale e sovrannaturale delle cose pareva essersi ristabilito, qualcuno gli aveva fatto notare qualcosa che, se possibile, l’aveva incupito ancora più di prima.
L’ultima delle due sorelle prima di passare a miglior vita si era preso il fastidio di sputare la propria saliva guaritrice nell’antico pozzo. Per cui accadeva che la gente tarantata, che ora accorreva in massa a chiedere la protezione a Santu Paulu miu de le tarante, dopo aver ballato, essersi contorti per terra o arrampicati sull’altare, alla fine del rito di espiazione si avvicinava al pozzo e beveva proprio quell’acqua benedetta dalla saliva della guaritrice.
Si mosse tutta la chiesa compatta ma non ottenne nulla. La gente continuava a bere l’acqua di quel pozzo.
Una vita da separati in casa. Lui da una parte, il ricordo delle due sorelle dall’altro.

Il quadro che un pittore parente delle due sorelle dipinse e che pose all’interno della cappella sembra quasi rappresentare questa situazione. Si nota un San Paolo in posa altera e maestosa e ai suoi piedi un poveretto malaticcio sorretto dalle due sorelle che cercano di far bere a questi l’acqua del pozzo. Se notate, San Paolo non degna di uno sguardo i tre, quasi a dire “ti sei rivolto a loro? ora sono fatti tuoi”. E delle due sorelle, una non lo degna di uno sguardo porgendo l’acqua del pozzo al malato, mentre l’altra sembra dire, guardando San Paolo, “che vogliamo fare?”.
Quando sul letto di morte, qualcuno chiese al pittore il perché di quella rappresentazione, questi, proprio mentre stava per esalare l’ultimo respiro, disse “non si sopportavano … non si sopportavano”.
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Le due sorelle Farina, Francesca e Polisena, sono le due sorelle descritte dall’Arcudi nel finire del ‘600 come le due guaritrici che alleviavano le sofferenze dei malati e in particolare dai morsi degli insetti. Il pittore Francesco Lillo che dipinse il quadro nel 1795 dovrebbe essere un discendente del marito di Francesca, Donato Lillo.
Le storie sul tarantismo si perdono nell’antichità dei tempi. Tra l’altro abbiamo letto in una delle mie precedenti note, come nel brindisino si ricorresse all’intercessione di San Francesco per guarire dai morsi della tarantola.
La chiesetta di San Paolo, i cui lavori iniziarono nel 1791, fu completata nel 1795. Molto dopo la morte delle due sorelle. Da quanto riferiscono studi condotti nel Salento, prima del ‘700 il culto di San Paolo era molto limitato e ristretto a poche chiese.
E’ probabile che, proprio in virtù del miracolo dal morso della serpe a Malta raccontato negli Atti degli Apostoli, la Chiesa abbia deciso di intervenire con tutto il suo peso non solo religioso ma anche culturale, ponendo San Paolo come santo protettore di questi malati, cercando di far scomparire o limitare, ma inutilmente, tutti gli aspetti non canonici legati ai riti di guarigione.
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La chiesetta dopo circa un anno di restauro, iniziati grazie all’Amministrazione Provinciale allora retta dal sen. Pellegrino e dall’Amministrazione Comunale allora retta dalla dott.ssa Antonica, è stata riaperta al pubblico nei giorni scorsi in occasione delle festività dei Santi Pietro e Paolo (o Paolo e Pietro!).
Non era mai stata sconsacrata per cui la riapertura è stata accompagnata dalla celebrazione di una messa all’interno della chiesetta.
I lavori di restauro hanno interessato, in particolare, il rifacimento del vespaio per cercare di arginare l’umidità di risalita e la posa della nuova pavimentazione. Riguardo l’altare, anch’esso attaccato dall’umidità, gli interventi son stati limitati a rafforzarne la struttura e a interventi di pulitura per eliminare dove possibile la calce che ricopriva i colori originali dell’altare. Non è stato effettuato un vero e proprio restauro dell’altare anche a causa della particolare friabilità della pietra usata nella sua costruzione.
La tela del pittore Saverio Lillo (1795) era stata già restaurato circa due anni fa; per l’occasione è stata posizionata nella sua collocazione originaria, cioè sull’altare, dopo esser stata per lungo tempo esposta all’interno del Museo cittadino.
La chiesetta restaurata merita una visita e vi consiglio di visitare anche il vicino Museo sul Tarantismo sito in Corso Porta Luce.

dopo 1

Tarantolismo, il più noto esorcismo salentino

di Raimondo Rodia

ll tarantismo (o tarantolismo) è una sorta di esorcismo popolare che, sin dal lontano dal medioevo, spinge uomini e donne, che si ritengono morsi dalla tarantola ( grosso ragno ancora esistente nel territorio), a recarsi il 29 giugno in pellegrinaggio al pozzo presso la chiesetta di San Paolo a Galatina per essere liberati definitivamente dagli effetti del veleno che provoca nel malcapitato un languore mortale da cui si può essere liberati solo per mezzo della musica e dei colori.

Da qui l’uso di nastrini colorati (chiamati zagarelle) da legare al polso e di una musica ossessiva (la pìzzica) che induce ad una danza sfrenata intorno al pozzo la cui acqua è considerata simbolo di purificazione. La musica è suonata da un’orchestrina con chitarra battente, mandolino, violino e tamburello. Gli orchestrali ingaggiati dai familiari dell’invasato recano normalmente a casa del tarantolato, per suonare e fargli venir fuori il veleno del ragno con la danza. Verso la soluzione della crisi la musica che accompagna il tarantolato ha suoni ora cupi, ora struggenti, che culminano in un crescendo di straordinario effetto.

Le tarantolate un tempo, si recavano di buon`ora nella cappella di S. Paolo vestite di bianco e bevevano, almeno fino a quando il pozzo non è stato chiuso per ragioni igieniche sanitarie, l’acqua del pozzo dove c’erano anche dei serpenti.

Si lanciavano in una danza sfrenata al suono del tamburello fina a stramazzare al suolo vinte dalla fatica. La cura poteva durare anche diversi giorni. Il ricorso a S. Paolo è effetto della sovrapposizione del culto cristiano a quello molto più antico pagano dei serpenti.

Anche la tarantola rappresenta un animale totemico le cui origini si perdono nella notte dei tempi e sono anteriori al menadismo, al coribantismo ed alle feste dionisiache a cui il tarantismo rimanda per gli aspetti orgiastici. Il tarantismo è un fenomeno che emerge su tutti.

Nella storia della medicina popolare salentina, esiste una connessione tra tarantati e i santi Pietro e Paolo che ricorda le visite ai templi asclepei dell’antica Grecia: anche in quel caso i malati si recavano al tempio dei protettori per essere guariti.

L’analogia non è casuale: profonda deve essere stata l’influenza della medicina greca nel Salento. Sotto l’aspetto diagnostico è difficile definire il tarantismo come fenomeno, anzi si è riusciti a classificarlo. E’ forse una specie di isteria, oppure la sua origine è da ricercarsi non in lesioni organiche neurologiche, ma in elementi antichi che hanno logorato e distrutto una psiche già debole a causa di fattori storico-sociali.

Gli attacchi si manifestano in maniera molto simile all’isteria e, secondo la leggenda, sarebbero provocati dal morso della tarantola. Non si riesce a spiegare però la periodicità delle crisi che durano anche decine di anni.

Si può dire che il tarantìsmo è un male culturale. Una volta, infatti, le donne che subivano frustrazioni per eccesso di fatica, povertà o tabù sessuali, non potevano fare altro che rivolgersi a S. Paolo per liberarsi dal male.

San Paolo, in particolare, era considerato il Santo dei poveri e il protettore dagli animali striscianti (serpenti, scorpioni, ragni, e quindi anche la tarantola).

Similare nel Salento, la danza delle spade un antico duello rusticano, un tempo eseguito con coltelli che oggi viene riproposto. I duellanti, mimando i coltelli con l’indice della mano nella piazza di fronte al santuario di San Rocco a Torrepaduli di Ruffano, si mettono in cerchio formando le cosiddette ronde e si fanno accompagnare dal sottofondo incalzante della pizzica. Si suona e si balla dal tramonto del 15 agosto per tutta la notte fino all’alba del 16 giorno dedicato al santo.

Libri/ La Taranta

Gianfranco Mingozzi
 La taranta. Il primo documento filmato sul tarantismo
Kurumuny Edizioni, € 15,00

Questo libro racconta le esperienze di Gianfranco Mingozzi, cineasta appassionato di antropologia: Per oltre vent’anni Mingozzi ha percorso le terre del Salento documentando per primo – nel 1961 – con il cortometraggio La taranta e con un episodio del film Le italiane e l’amore – La vedova bianca, il fenomeno del tarantismo allora conosciuto solo dagli studiosi.
Nel 1977 ritorna su questo argomento con l’inchiesta televisiva Sud e magia, in ricordo di Ernesto de Martino. Nel 1982 poi, con il documentario Sulla terra del rimorso, testimonia la fine di questo antico rito e mito salentino.
Il libro ricostruisce le diverse esperienze di Mingozzi sul tarantismo e ripropone in dvd La taranta con il commento di Salvatore Quasimodo. La storia di questo documentario è ricostruita, oltre che dal diario tenuto dal regista in quegli anni e dalle note di Ernesto de Martino, anche dalle critiche e da tutti i documenti attorno alle riprese.

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