Santa Maria Dell’Odegitria (Madonna del cammino)

di Onofrio Milella

LA MADONNA ODEGITRIA RAPPRESENTA L’ARCHETIPO FIGURATIVO DELLA VERGINE MARIA, MADRE DI DIO. LA SUA IMMAGINE E’ IL PRIMO RITRATTO CONOSCIUTO.

LA CORRETTA ETIMOLOGIA DEL NOME DERIVA DAL GRECO “ODOS”=VIA ED “EGHETER”=GUIDA, DA CUI L’APPELLATIVO POPOLARE DI “MADONNA DEL BUON CAMMINO”, CHE GLI VIENE COMUNEMENTE ATTRIBUITO, ED IL SUO TABERNACOLO ERA SPESSO POSTO IN PROSSIMITA’ DEGLI INCROCI FRA STRADE DIVERSE, PROPRIO PER INDICARE LA GIUSTA DIREZIONE AL VIANDANTE SPERDUTO E STANCO.

Quanto fin qui scritto è facilmente reperibile, tramite internet, su uno dei tanti portali che scorrono sul video cliccando “madonna dell’Odegitria”.

Io invece voglio raccontare di un evento che ci riporta ad alcuni secoli fa!

Questa storia ha il sapore di una favola perché è troppo lontana dalla convulsa vita odierna e troppo vicina ad un romanzo, eppure è talmente vera che ne è celebrata la memoria, annualmente, nella ricorrenza della Madonna dell’Odegitria, la terza domenica di Novembre, a Galatone in provincia di Lecce.

In questo piccolo paese, come in tutta la Terra d’Otranto, il culto della Madonna dell’Odegitria, nei secoli detta anche Madonna di Costantinopoli e, nella latinizzazione della dottrina cattolica Madonna dell’Idria, è stato sempre molto coltivato.

È noto a tutti il legame che ha unito la Terra d’Otranto all’Oriente e ai bizantini con la cultura, la mentalità e i costumi che, ancora oggi, caratterizzano antropologia, architettura e toponomastica dei nostri centri storici e, in alcuni casi, interi territori con la loro lingua dialettale.

Per meglio intendere il significato di quello che andrò a raccontare voglio brevemente contestualizzare l’episodio dal punto di vista storico e sociale.

Siamo negli anni 1690-1695, nel Regno di Napoli, all’epoca dominio spagnolo, governava il viceré Fernando Fajardo, marchese di los Valéz, già viceré di Sardegna. Regna in Spagna Carlo II, ultimo degli Asburgo, figlio di Filippo IV. È Papa regnante Innocenzo XII, al secolo, Antonio Pignatelli, già Cardinale a Napoli.

Le provincie erano suddivise in feudi demaniali e feudi privati. Nei feudi demaniali gli uffici pubblici erano spesso ceduti in gestione ai privati.

I giudizi di grado inferiore erano delegati a tribunali locali detti Regge Udienze, quelli di grado superiore erano svolti a Napoli presso la Vicaria, dove in nome del Re veniva pronunciato il giudizio di condanna o di assoluzione.

A Galatone, per tornare all’evento oggetto di questo racconto, in quegli anni era già dimorante e chiara nel paese la famiglia Tafurus (Tafuri), ramo cadetto dei Tafuri di Lecce. Era vivente il Dottore Don Orazio Tafuri che, dal matrimonio con Donna Caterina Farata, aveva avuto tre figli maschi, Gioacchino nato il 14 marzo 1670, Niccolò Francesco e Giulio Cesare. Gioacchino, essendo primogenito, si laureò in diritto civile per ereditare possedimenti e titoli, gli altri due si laurearono in diritto civile ed ecclesiastico per divenire prelati.

La famiglia Tafuri, oltre ad avere proprietà e parentele tali da essere considerata una delle più potenti in Terra d’Otranto, godeva di privilegi e uffici in concessione in diverse Università.

Più che ventenne, Gioacchino fu accusato, da un componente di una famiglia rivale, di conio e spaccio di moneta falsa, condotto a Napoli nelle carceri della Vicaria, si proclamò sempre innocente e tale lo ritenne la sua famiglia.

Per sostenere la difesa a Napoli, furono impiegati tutti i mezzi a disposizione, economici, professionali e, non per ultimo, si ricorse al Patrocinio della Madonna con messe, orazioni e pubbliche suppliche. Quando si era verso la fine della causa, davanti alla Gran Corte della Vicaria, pare che non fosse durata a lungo, si presentò una donna di nobile aspetto, vestita di nero, avendo superato le guardie ed essendosi avvicinata senza alcun impedimento al Preside della Corte e chiedendo di poter testimoniare a favore dell’imputato Gioacchino Tafuri. La richiesta fu accolta e la testimonianza fu talmente valida e dimostrativa dell’innocenza dell’imputato che la Corte assolse Gioacchino per non aver commesso il reato, ordinandone l’immediata scarcerazione.

Tutto sembrerebbe ordinario, ma la straordinarietà dell’episodio è data dall’apparizione nell’aula di questa donna che nessuno conosceva, compreso lo stesso Gioacchino. Qualcuno potrebbe ipotizzare che la donna sia stata una testimone della difesa, come si direbbe oggi spontanea che, conoscendo i fatti, abbia agito liberamente a favore di un innocente. Se si analizzano attentamente le circostanze, è facile capire che dietro quella presenza qualcosa di eccezionale si era verificato. Siamo alla fine del XVII secolo, nella colonia della Spagna conservatrice, dove le donne difficilmente erano considerate, nella Vicaria dove ogni ingresso era controllato da guardie che non consentivano ad alcuno l’accesso in quei luoghi.

A ogni buon conto, giunta a Galatone la novella prima dello stesso Gioacchino, tutti i paesani e la famiglia Tafuri, attribuirono l’evento all’intercessione della Madonna e che, ella stessa, fosse la Signora presentatasi a testimoniare.

Per questa singolare grazia fu fondato un LEGATO PIO in perpetuo, per volere di Orazio Tafuri, padre di Gioacchino, che lasciò ai suoi eredi l’incarico di fondarlo, con l’obbligo di sette messe piane, nel giorno del Patrocinio di Maria, la terza Domenica di Novembre: le sette messe simboleggiano i sette dolori di Maria e dovevano essere celebrate anche per suffragio ai defunti della famiglia Tafuri.

Il legato pio prevedeva un capitale censo iniziale di Ducati 50, con interessi di Ducati 4,5 annui. Tale importo era elevatissimo; se si pensa che l’elemosina ordinaria per una messa era di 1 Carlino con 4,5 Ducati si sarebbero potute celebrare ben 45 messe, senza tener conto del capitale iniziale.

Per concludere il racconto, il nostro Gioacchino, in seguito fu Sindaco di Galatone per ceto nobile dal 1696 al 1697, dal 1703 al 1705 e dal 1712 al 1713. Il 6 Novembre 1695 sposò la nobile Anna Maria Antonia Leuzzi di Galatone. Fu sempre rispettato in paese come persona onesta e saggia, dedicò la sua vita alla famiglia, alla gestione dei suoi beni e all’osservanza dei suoi doveri religiosi.

Ancora oggi, gli ultimi discendenti della famiglia Tafuri di Galatone, pur essendo stati aboliti i legati pii, fanno celebrare, nella terza Domenica di Novembre, la messa in memoria dell’episodio attribuito al miracolo della Madonna e per suffragio ai defunti Tafuri.

Per quanto mi ricordi, non ho mai mancato di partecipare alla celebrazione della terza Domenica di Novembre, nella quale è evocato il racconto sopra scritto e, la chiesa di Galatone insieme ai Tafuri ha caparbiamente, contro la trascuratezza per il passato dei nostri giorni, voluto mantenere viva nella coscienza dei fedeli l’importanza dell’affidamento alla Madonna in ogni circostanza, anche quando tutto sembra perduto o tutto sembra essere contro.

Io nelle situazioni più disparate ho avuto certezza che la Vergine con il Suo Figliolo intervengano potentemente a dipanare ogni situazione grave, specialmente li dove vi siano casi di ingiustizia e di sofferenza.

I Tafuri… senza peli sulla lingua!

antico stemma dei Tafuri

 

di Piero Barrecchia

 

Non di rado in terra salentina capita di imbattersi in brandelli del passato, in qualche cimelio di vita consumata tra meandri di palazzi ed alternanze di luci ed ombre di chiostri familiari, tra ruderi e restauri sapienti.

Non di rado in terra salentina, succede di far conoscenze con chiarissime casate nobiliari, colonizzatrici di questa penisola, quasi mai indigene.

Spesso in terra salentina, si è accolti da parenti desueti, di un aristocratico lignaggio, che t’accompagnano lungo il perimetro dei loro manieri, accostando gli usci per impedire la violenza della luce, svelandosi tara le ombre, in quella prorompente discrezionalità e riservatezza, incomprensibile ai più.

Ti esibiscono le loro facciate, tra casine, dimore di residenza e perpetui riposi, tra paraste sinuose o liscie pareti, a volte essenziali, in stile rinascimentale, a volte sorprendenti, in  tardo barocco, rococò o neogotico. Lasciano tracce ed al contempo fuggono dalla tua conoscenza. Tale è il D.N.A. tratto dal midollo storico ed architettonico della famiglia nobiliare dei Tafuri. E non se la prenda qualche discendente, che non ho il piacere di conoscere, ma i suoi antenati sono così schivi da non consentirmi la sua vicinanza, poiché nobili, letteralmente e formalmente nobili, di quella nobiltà ortodossa, inviolabile che non si concede e non permette che l’altrui sguardo varchi la soglia della blasonata casa, per non compromettere la discendenza della stirpe, per non consentire miscele sanguinee o intellettuali, se non a casati con pari requisiti.

E non fanno poi tanta fatica a nascondere la loro indole se tra le loro dimore visitate ho ben percepito, oltre all’eleganza usata e mai esagerata, una certa soggezione ed un certo disagio nel porgere anche e solo lo sguardo sui loro domicili.

Non vi è possibilità di penetrare nelle loro stanze e loro stessi mi avvertono di non attendermi un invito all’ingresso, uno zerbino con su scritto “Benvenuto”.

Il loro diniego ad un’estranea visita è esplicitato in parole, motti e figure.

Sembra volerlo ripetere un qualsiasi pertugio dei loro prospetti “Voi siete un’altrà realtà, qui è un altro mondo, un altro modo di esistere. Ammirateci pure dall’estrerno, ma non vi è concesso entrare nelle nostre viscere. Quel che nostro è nostro!”. Se l’Ade dantesca ostacola l’ingresso alla speranza, l’Eden dei Tafuri è inaccesibile ad anima e corpo. Sfido il visitartore a soffermarsi sul varco principale di una qualsiasi loro dimora e di trovar aperto un varco. Sfido il visitatore a voler percepire qualsiasi forma di benvenuto, nel second’ordine del piano nobiliare, racchiuso in perimetri di finestre serrate al pubblico. Sfido il visitatore a trovar ampie balconate nei loro prospetti. Risulteranno prettamente estetiche, assolutamente impraticabili, quasi un auto-impedimento, affinchè sia precluso ogni contatto tra i due mondi.  Sfido, ancora, lo stesso visitatore ad affermare che non sia stato avvertito, come nel costume dei nobili, con  una frase, con un mascherone apotropaico, con lo stemma stesso.  La pena è un duello subito da parte dell’intervenuto. Antico passo carrabile, divieto d’accesso vetusto, ma sempre e comunque da rispettarsi.

Gallipoli – Palazzo Tafuri, particolare dell’ingresso principale

Così, in Gallipoli, se lo stile rococò, esuberante, invita alla briosità della vita, lo scongiuro alla visita è  percepito dalle serrate imposte ed è amplificato ed esplicitato nell’astrusa capite ingiuriante, che sormonta l’ingresso.

E mentre Soleto si fregia, ora, dei natali del suo Matteo e dell’opera da lui consegnata all’intera comunità, poco o nulla gli interessa della casa natale dell’illustre figlio dei Tafuri. E così, la decadenza e l’incuria osano irrompere nella patrizia dimora, senza, tuttavia, dimostrare alcun coraggio nel contaminare il monito del geniale cittadino: “Humile so et hulmità me basta: Dragon diventarò se alcun me tasta”.

La guglia di Soleto

E gli scrigni residenziali e le ultime dimore dei Tafuri riecheggiano di tal monito in Lecce, Nardò, Galatina, Alezio ed in chissà quante altre località del Salento.

Se lo stemma estrinseca l’indole di una famiglia, allora, è ben esplicita l’araldica dei Tafuri nelle sue due varianti riscontrate.

La prima variante rappresenta una quercia, simbolo della famiglia, sormontata da un’aquila bicipite, spiegando la provenienza albanese della stirpe. Nella seconda variante, è presente la quercia sormontata da saette che, tuttavia, non la scalfiscono!

Gli impedimenti agli accessi nobiliari, come già detto, sono vari, ma esclusivo mi è sembrato l’ultimo ritrovato.

Un palazzo nobiliare seicentesco, la dimora dei Tafuri in Neviano.

Neviano- Palazzo Tafuri – particolare del quadrato

Scansione simmetrica di finestre rinascimentali, misurata eleganza, alcuna prorompenza estetica, asimmetria dell’ingresso principale alla dimora e centralità del sacro. Tutto, o quasi, lineare, se non fosse per quel mediano campanile a vela, che campeggia sul prospetto principale. Tutto, o quasi, lineare, se non fosse per quel finestrone curvilineo che apre uno spiraglio lì, sempre sulla facciata principale. Tutto, o quasi, lineare, anche nel bianco intonaco, se non fosse per quel quadrato lapideo, lì, sulla porta di un probabile luogo di culto, al quale si potrebbe accedere, se non fosse per quella porta chiusa, come nell’indole propria di questa famiglia. Tutto lineare, ma proprio tutto, se la tradizione dei moniti della famiglia Tafuri, anche qui non è smentita, proprio per quel quadrato lapideo, sul quale è incisa la scritta:“QUI NON SI GODE IMMUNITA’ ”.

Esecuzione tassativa a quanto disposto dal Sommo Pontefice Clemente XIII, nella sua “Pastoralis Officii”, nella quale si  elencano le fattispecie di illeciti criminali per i quali è interdetto ogni tipo di immunità e si specificano i luoghi ove godere di tale beneficio e, per il nostro caso, così recita:

 

“”(…) 3. Di immunità ecclesiastica invece non devono affatto godere: ” Le Cappelle, e gli Oratori esistenti nelle Case de’ Particolari, e Magnati, quantunque abbiano privilegio di Cappelle pubbliche, e l’adito in strada pubblica;(…)

4. Affinché queste Nostre sopraddette disposizioni raggiungano il loro effetto, imponiamo ed ordiniamo con la presente Lettera a Voi, Fratelli Arcivescovi e Vescovi, che ognuno di Voi nelle sue rispettive città e in qualsiasi terra, paese e castello delle rispettive diocesi assegni ai rei e ai criminali che si trovano nelle chiese e nei luoghi immuni il tempo congruo, secondo il Vostro giudizio, e si affiggano i pubblici manifesti ed avvisi, informandoli che in avvenire, secondo la Nostra presente Disposizione, in alcune chiese e luoghi sopraddetti non debbano assolutamente godere dell’immunità ecclesiastica coloro che si trovano presentemente accusati di crimini commessi (…)

(…)  Dato a Roma, presso Santa Maria Maggiore, sotto l’anello del Pescatore, il 21 marzo 1759, nel primo anno del Nostro Pontificato.””.

E’ ovvio, dunque, che presso la nobiliare dimora dei Tafuri non era prevista tutela dalla legge ordinaria, per ogni tipo di illecito commesso.

Non è invece ovvio ed è del tutto sorprendente e particolare che la disposizione papale, emanata per tutto il Regno, sia stata eseguita letteralmente e pedissequamente, con l’affissione del quadrato presente sul prospetto di Palazzo Tafuri di Neviano.

Non escludo che vi siano disseminati altri esemplari in Salento.

Tuttavia, è sintomatico che il divieto, ampliamente pubblicizzato su una delle dimore di proprietà dei Tafuri, declami la “chiarezza” della nobile famiglia, poiché, come si suol recitare, le cose “ non le manda, certo, a dire!”.

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