Dialetti salentini: milaffanti, metafora di guerra o di innocenza?

di Armando Polito

L’associazione di particolari piatti a determinate ricorrenze è pratica che le diverse culture hanno messo in atto da tempo immemorabile. La globalizzazione e il consumismo, però, da qualche decennio la stanno cambiando inesorabilmente, e neppure lentamente, sicché fra poco, per fare un esempio, gusteremo in piena estate un dolce che in origine aveva nel periodo del Natale la funzione di deliziare il nostro palato e di evocare nello stesso tempo ricordi e aspettative. Mi pare che oggi qualsiasi legame col tempo che non sia il presente vada cancellato dalla coscienza e pure i piatti tipici di certe ricorrenze sono disponibili in qualsiasi periodo dell’anno, al pari della frutta fuori stagione (quella della natura prima dello stupro umano).

Il piatto nominato nel titolo non si sottrae a questo destino ed è di parziale conforto considerare che il suo consumo anche nelle grandi ricorrenze non era certo appannaggio delle classi meno abbienti, annoverando tale piatto quale ingrediente finale nella sua preparazione il brodo di carne.

Non ho intenzione di continuare nella predica, col rischio di deragliare tra i pandori (prodotto della moderna ignoranza, complice anche la cosiddetta “creatività” dei pubblicitari, accolto a braccia aperte dalla lessicografia attuale1) di personaggi considerati geniali ma che in realtà sono solo furbetti che approfittano della condizione di decerebrazione in atto, e non da oggi, sulla popolazione da parte di chi, per il proprio tornaconto e non per suo conto, gestisce il potere. Passo, perciò, ad altre considerazioni, mi auguro più in linea con le mie competenze che con quelle che possono sembrare elucubrazioni da sociologo della domenica.

preparazione dei milaffanti

 

Milaffanti: se un giorno si scoprisse un’origine araba, non mi meraviglierei più di tanto, essendoci oltretutto, per motivi storici, dei precedenti, tra i quali il salentinissimo cìciri e tria2. Nel frattempo, non mi resta che soffermarmi sul nome in sé.

Comincio col dire che il Rohlfs al lemma millaffanti (varianti registrate: melinfante e mmilleffanti; mancano quella di Nardò, milaffanti e quella di Otranto, cettafanti, ma non è questo il problema) si limita a proporre un confronto col napoletano  millenfante= pastina fine, rinviando a ffanti, dove, dopo aver dato la definizione di specie di pappa di farina, rinvia al punto di partenza.

Prima di continuare, un minimo di onestà intellettuale mi impone di precisare che tutto quello che sto per argomentare sarebbe stato trattato infinitamente meglio se il maestro tedesco avesse avuto a disposizione gli strumenti formidabili, soprattutto digitali, di cui oggi chiunque può fruire, anche se il degrado della scuola e la latitante acribia lo espongono ad ogni passo al rischi di facili entusiasmi e mastodontici abbagli. E proseguo sperando, in questo senso, di cavarmela degnamente.

Così ho potuto rilevare, accanto al napoletano millenfante, i siciliani melifanti e milinfanti3 e il milanese mennafait4. Per quanto riguarda l’etimo, l’unico proposto è quello siciliano di cui do conto nella relativa nota. Esso, però, non mi convince per evidenti ragioni fonetiche, essendo arduo già spiegarsi  il oresunto passaggio da mano a mell/mili. Al di là dei vocabolari citati, in Giuseppe Gioeni, Saggi di etimologie siciliane, Tipografia dello statuto, Palermo, 1885, p. 180, si legge: “Milinfanti, semolino, forse dal greco mylìfatos o milèfatos (μυλήφατος), macinato, tritato, come in italiano chiamasi tritollo il cruschello, o altra cosa tritata”. Anche questa proposta non mi convince, perché è basata sul riferimento di un carattere comune (tutte le farine sono passate dal mulino) ad un prodotto particolare. Ad ogni modo non mi pare secondario il fatto che una indiscutibile affinità fonetica, almeno parziale, collega i nomi con cui lo stesso prodotto è chiamato in altre zone non salentine, quali prima la siciliana e la lombarda, e a Minervino Murge, Trani e Ruvo di Puglia (mbandaridde) e nel Barese mbilèmbande).

E allora?

Molte di queste voci dialettali potrebbero aver trovato una sorta di nobilitazione (ammesso, per assurdo, che il dialetto non possa vantare alto lignaggio) nella deformazione dell’italiano mille fanti, la cui più antica attestazione è in Bartolomeo Scappi (1500-1577), cuoco segreto di papa Pio V, come è ben evidenziato nel frontespizio, che di seguito riproduco insieme col ritratto che è all’interno, della sua opera uscita per i tipi di Tramezzino a Venezia nel 1570.

 

Le pagine (sono numerate come nei manoscritti) 55r-55v contengono i capitoli CLXXI dal titolo Per fare una minestra con fior di farina, e pan grattato, volgarmente detta mille fanti & e CLXXII dal titolo Per far mille fanti di fior di farina per conservarlo.

Trascrivo i due testi per rendere più agevole la lettura e il rlevamento di quelle differenze che molto spesso accompagnano ricette con lo stesso nome.

CAPITOLO CLXXI

Piglinosi oncie dieci di fior di farina, et oncie otto di pan grattato, passato per un foratoro, et mescolinosi insieme con la farina, et con un quarto di pepe pesto, et habbianosi quattro rossi d’uove fresche, battute con un bicchiero di acqua fredda, tinta di zafferano, e stendasi essa farina su la tavola, e sbruffasi con l’uove sbattute, mescolandola leggiermente con li coltelli, overo con una paletta di legno, in modo che tal farina venga in ballottine picciole, et le dette ballottine passinosi in una tortiera per un foratoro, overo crivello leggiermente senza porre la mano nel foratoro, et quelle che da se saranno passate nella tortiera, si poneranno su la cenere calda nel modo che si pongono le torte con il coperchio caldo sopra, et lascinosi stare fibche si asciughino, et non havendo coperchio pongonosi nel forno non troppo caldo, et perche tal compositione sempre sarà humida, aspettisi che siano asciutte però non arse, et dapoi cavinosi dalla tortiera, et mettanosi sopra una tavola, percioche come i detti grani saranno all’aere verranno sodi, et rimettanosi in un foratoro ben netto, o in un setaccio chiaro, et setaccisi fuora il farinaccio, et habbiasi apparecchiato brodo grasso che bolla, et pomganovisi dentro essi mille fanti, ogni libra de quali vuole xsei libre di brodo, et quando saranno cotti, servanosi con casciograttato, et cannella sopra. In questo medesimo modo si potrebbeno cuicere con il latte di capra, o con il butiro, o acqua. Si possomo ancho conservar tre o quattro mesi dapoi che son fatti nella tortiera, ma volendo farne quantità, la parte chè rimasta nel foratoro, o nel crivello riponasi su la tavola, e spolverizzisi di farina, et battasi leggiermente con li coltelli, rivoltandola sotto sopra piu volte fib’a tanto che si vedrà, che sia ben battuta, et dapoi nel passarle per lo foratoro, et nel seccarle tengasi il medesimo ordine che si è detto di sopra.     

CAPITOLO CLXXI

Piglisi fior di farina macinata sotto la luna di Agosto, perche è piu durabile, et la quantità sua secondo se ne vorrà fare, stendasi sopra una tavola grande, et larga, habbiasi acqua tepida, mescolata con sale, et con una scopettina di mellica sbruffisi la farina di tale acqua, rivolgendola con la paletta al modo che s’è fatto de gli altri fin a tanto, che tutta sia convertita in granelli grossi come miglio, et dapoi passinosi essi granelli con il crivello sopra un’altra tavola, et faccianosi seccare al sole, facendosi cosi fin’a tanto che sia consumata tutta la farina, et quando saranno asciutti, si crivelleranno per un foratoro minuto, o setaccio chiaro, accioche se n’esca fuora il farinaccio, et si riporranno su la tavola, et si lascieranno stare per un altro dì nel Sole, et dapoi si conserveranno in sacchetti, o in vasi di legno,per tutto l’anno. E volendone fare minestra, con brodo di carne, et con latte tengasi l’ordine delli soprascritti.

Il mille fanti dello Scappi sembrerebbe non lasciare dubbi: si tratterebbe di una similitudine di natura militare, in cui i minuscoli pezzetti di pasta apparirebbero come tanti  (mille in milaffanti, cento nella variante otrantina cettafanti). Ho usato ben due condizionali perché la sfumatura, per così dire, bellica non mi trova d’accordo. A volte, come nelle persone basta un gesto impercettibile per rivelare un sentimento profondo, per le parole è sufficiente un fonema. Credo che nel nostro caso protagonista sia la consonante f. Nelle varianti salentine riportate compare due volte la sequenza consonantica –ff– (millaffanti, milaffanti e mmileffanti) e una volta –nf– (melinfante), ricorrente anche nella voce napoletana (millenfante); la variante otrantina col suo –f- in questo quadro si mostra come un apax.

Rimane il dilemma: –ff– è frutto di quel raddoppiamento espressivo che, particolarmente nella consonante iniziale (e non è questo il nostro caso) del dialetto salentino, geminazione nella fattispecie dovuta al nome composto, come negli italiani soprattutto, soprammobile, sopraggiungere etc. etc.?; e –nf– è frutto della dissimilazione di un originario –ff-? Siccome non riesco a trovare un solo esempio di questa presunta dissimilazione, sono indotto a pensare che, invece, sia –ff– frutto di assimilazione di un originario –nf– e che i protagonisti della metafora non siano i fanti, ma gli infanti. Queste due voci hanno lo stesso etimo e, in particolare, fante deriva per aferesi da infante, che è dal latino infante(m)=muto, puerile, giovane, composto da in privativo e dal participio presente di fari=parlare. Il fante, soldato a piedi, era in origine al servizio del cavaliere (ma il diminutivo fantino rappresenta una sorta di compromesso tra l’uso del caballo 4e la necessità di non affaticarlo col proprio peso, ragion per cui chi lo cavalca di regola è di bassa statura ), concetto di subalternità presente anche in fantesca, mentre quello di giovane sussiste in fantolino e fanciullo (il prmo diminutivo di diminutivo: fante>fàntolo>fantolino; il secondo, con sostituzione di suffisso, da fancello, a sua volta per sincope da fanticello), oltre che nello spagnolo infante e infanta (titolo spettante agli eredi al trono non diretti e nel francese enfant. Per completare il tutto va detto che pure fantoccio in origine era sinonimo di giovane ragazzo e che in seguito ha assunto la valenza dispregiativa prima parziale a designare il burattino, poi totale quando la metafora ha coinvolto il singolo  adulto e perfino lo stato e il governo.

Il precedente dilemma di natura fonetica si complica ora con risvolti storici non di poco conto in un nodo pressoché inestricabile. Se –nf_ e non –ff– è il nesso consonantico originario, per milaffabti va messo in campo il fante, l’infante o l’enfant,  per cui la similitudine sarebbe guerrafondaia (!) o pacifista (?) pacifista, a seconda che l’immagine evocata sia quella dei soldatini oppure quella dei bambini. In un caso o nell’altro c’è il ricorso al concetto del piccolo, presente anche nel nome di due piatti dolci di questo periodo: purciddhuzzi5 e cartiddhate6.

L’interrogativo, poi, presente fin dal titolo ed evocato dalle due immagini di testa [(milaffanti fatti da mia moglie il 24/12/2023 )/Armata di terracotta (III secolo a. c.)] non è stato sciolto, ma l’angoscia del dubbio sia lenita, almeno parzialmente, da quella di coda (fine fatta dai milaffanti della prima il giorno successivo)!

__________

1 Sul sito dell’Accademi della Crusca (https://accademiadellacrusca.it/it/consulenza/pani-di-natale/1387) si legge: … oggi la lessicografia sincronica è concorde nel considerare il termine declinabile: dunque, pandoro al singolare, pandori al plurale. Un po’ di pazienza: basta che per motivi commerciali da  faccia di bronzo nasca (così come per l’originario pan d’oro) un facciadibronzi perché la materia viva il miracolo della sua moltiplicazione nel complemento che da lei prende il nome). E poi, per violentare pure la creatività, quella vera, di De Andrè, prendiamo Bocca di rosa, trasformiamolo in Boccadirosa e lanciamo con questo nome un profumo; non trascorrerà nemmeno una settimana e nasceranno locuzioni del tipi: ho comprato cinque Boccadirose e nel corso dello stesso anno  la lessicografia registrerà con servile acquiescenza Boccadoro al singolare e Boccadori al plurale …

E io, che pensavo di mettendo a Ferr…agni e fuoco i pandori, sto ancora a Baloccarmi (a questo punto l’iniziale maiuscola è d’obbligo).

2 Vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/03/18/un-antichissimo-piatto-salentino-ciciri-e-ttria/

3 Michele Pasqualino, Vocabolario siciliano etimologico, 1789: “Vedi Cuscusu. P. MS. dice: Insubres menafatti appellant farinae inspersione densam granorum congeriem, quasi manu facta sive coacta” (Gli Insubri chiamano menafatti un insieme di grani di farina denso con lo sparpagliamento, quasi fatto o compresso con la mano).

4 Francsco Cherubini, Vocabolario milanese-italiano, Dalla regia stamperia, Milano, 1841: “La nostra è voce antica che leggesi negli Statuti degli offellatori milanesi, a p. 16″. Offellatori è da offella, diminutivo del latino offa=focaccia, boccone. L’indicazione p. 16 indurrebbe a supporre che si tratti di un testo a stampa (purtroppo finora irreperibile in rete) , abche se è più probabile che si tratti di manoscritto, di reperibilità ancora più difficile.

5 Trascrizione di un inusitato italiano porcellucci, plurale diminutivo del diminutivo di porco (porco>porcello>porcelluccio). Non è necessaria molta fantasia per comprendere la similitudine, anche questa, come la maggioranza, tratta dal mondo animale.

6 Trascrizione di un inusitato italiano cartellate. Qui c’è lo zampino della dominazione spagnola che ci ha lasciato, oltre la pessima abitudine di esagerare nell’esibizione di titoli e di iniziali maiuscole, anche il retaggio di molte parole, tra cui cartiglio, a sua volta da cartiglia, che è dallo spagnolo cartilla, diminutivo del latino carta.

I caratteristici dolci salentini del Natale: purciddhuzzi e cartiddhate

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di Massimo Vaglio

Nonostante mezzo secolo di campagne pubblicitarie plurimilionarie tendenti alla completa globalizzazione delle abitudini e dei gusti di tutti gli italiani, condotte dalle ricche aziende produttrici di panettoni e pandori, alcune tradizioni culinarie locali resistono saldamente e talvolta, si persino rafforzano, in una spesso inconsapevole difesa della propria cultura popolare. Perché, non sembri pomposo il termine, di cultura si tratta, infatti, se leggiamo la definizione data dall’Unesco a questa parola, ci rendiamo conto dell’appropriatezza, del suo utilizzo: “La cultura in senso lato può essere considerata come l’insieme degli aspetti spirituali, materiali, intellettuali ed emozionali unici nel loro genere che contraddistinguono una società o un gruppo sociale. Essa non comprende solo l’arte e la letteratura, ma anche i modi di vita, i diritti fondamentali degli esseri umani, i sistemi di valori, le tradizioni e le credenze” (definizione Unesco di cultura, espressa nel Rapporto finale della conferenza internazionale organizzata dall’UNESCO a Città del Messico dal 26 luglio al 6 agosto 1982).

Una delle tradizioni più radicate e care ai salentini di ogni ceto e generazione è quella legata al consumo dei dolci natalizi e in particolare di quelli dalle tipologie più semplici, viene infatti considerata triste e sconveniente l’assenza sul desco natalizio, non tanto dei prelibati dolci di pasta mandorla, vanto e orgoglio dell’arte pasticcera locale, quanto quella dei purciddhuzzi, delle cartiddhate e delle pèttole.

Dolci semplici, poverissimi, ma che intrinsecamente offrono un senso di familiarità, dolci che con muta eloquenza, materializzano l’amore di qualche familiare che con pazienza e dedizione li prepara per tutti gli altri.

Consumare insieme questi semplici dolci è un po’ come rinnovare promesse, spezzare e consumare insieme il Pane dell’Alleanza, infatti la società e la famiglia di oggi appaiono spesso sclerotizzate, ma, né più, né meno, di quanto lo fossero quelle in cui Cristo, tradito da Giuda e rinnegato per ben tre volte da Pietro andava a fondare l’istituzione Eucaristica.

Inconsapevolmente e con le dovute distanze il consumo di questi semplici cibi rituali, rinforza il vincolo familiare e rinnova il miracolo di una famiglia che come nell’ Eucaristia avvicina e accoglie tutti con amore e senza pregiudizi, andando a costituire il nucleo per una società più umana. Quindi antichi cibi rituali, legati alla più importante ricorrenza liturgica e, come tali, semplici, poveri alla portata di tutte le famiglie, in una sorta di fratellanza universale che un tempo univa persone e persino animali.

La tradizione popolare infatti voleva che anche gli animali domestici la notte di Natale parlassero e assumessero altre capacità e sensibilità umane. Per tale ragione dovevano essere trattati meglio del solito, quasi umanamente, trattamento che spesso si concretizzava con una più abbondante somministrazione di cibo e con la distribuzione a tutti di pèttole fritte, anche queste universalmente gradite, sia dai piccoli carnivori domestici, quanto dai grandi erbivori.

I purciddhuzzi e le cartiddhate, erano e restano dei dolci ghiottissimi, trasversalmente apprezzati da adulti e bambini. I primi sono più diffusi nel Salento e nel Tarantino, ove vengono appellati sannacchiudere, mentre le cartiddhate, termine più frequentemente italianizzato in cartellate, sono diffuse un po’ in tutta la regione, ma maggiormente nel barese.

La loro origine è incerta, ma pare che dolci simili ai purciddhuzzi siano stati portati già dai greci già in periodo Magnogreco. Infatti, nella cucina greca esiste ancora una preparazione simile, i loukoumades, mentre nell’antica Roma erano in auge dolci simili, fritti e cosparsi di miele, molto utilizzati anche come offerta rituale alle divinità. Dall’ evoluzione di questi arcaici dolci sono stati derivati anche la cicerchiata abruzzese, la cicirata lucana e gli struffoli partenopei, tutti parenti stretti dei nostri purciddhuzzi, ma la più antica citazione riguarda gli struffoli che compaiono nel ricettario di Bartolomeo Crisci del 1634. Però non parla del loro consumo in relazione al Natale, tradizione evidentemente sopravvenuta più tardi. L’etimo, secondo alcune fonti, deriva da porcellino, di cui ricorderebbe vagamente la forma; secondo altri dalla Ciprea (Ciprea lurida), una bellissima conchiglia tondeggiante, appellata in vari idiomi pugliesi appunto purciddhruzzu, che montata in argento veniva utilizzata come amuleto porta fortuna. La credenza voleva che questa conchiglia, legata alla caviglia del bambino, lo avrebbe aiutato a crescere in salute come il porcello di Sant’Antonio.

L’origine delle cartellate è ancora più incerta, così come pure l’etimologia, di certo la loro produzione è abbastanza datata, sono riportate, infatti in un registro spese del 1762 (tenuto presso l’archivio della Basilica di San Nicola di Bari) ove, le monache Benedettine di Santa Scolastica che reggevano l’Ospizio dei Pellegrini di San Nicola di Bari, riportavano i pasti e le spese delle domeniche.

Probabile, quindi che come tante altre prelibatezze dolciarie siano nate proprio in qualche convento e da lì, pian piano, si siano diffuse in tutta la Regione.

L’impasto è semplice, ricalcando nella composizione quello dei purciddhuzzi, ma la fattura è più complessa, richiede una discreta manualità, specie nelle artistiche elaborazioni a forma di fiore di dalia.

Purciddhuzzi e cartiddhate, preparazione

1 kg. di farina di grano duro setacciata, 2 dl di olio, vino bianco secco o liquore all’arancia o all’anice, un pizzico di sale, vincotto, miele, cannella in polvere, farina supplementare, “anisini”, pinoli, olio di frantoio.

Ponete la farina a fontana sulla spianatoia, versate al centro l’olio, il sale e un poco di vino bianco secco tiepido. Amalgamate bene il tutto sino a che risulti una pasta compatta; raccoglietela, arrotolatela e avvolgetela in un panno dove si farà riposare per un paio d’ore. Quindi infarinate leggermente la spianatoia e ponetevi sopra l’impasto, lavoratelo un poco e tiratelo con l’aiuto del matterello, sino a ricavarne delle sfoglie sottilissime. Col tagliapasta dentellato ricavate delle losanghe con cui formate rosette, farfalle, nocche o semplici rombi e altre forme a piacere e friggetele in ottimo olio di frantoio aromatizzato con delle scorze di limone o mandarino; ritiratele dall’olio ben dorate e croccanti e ponetele su carta assorbente. Immergetele man mano nel miele scaldato a bagnomaria, disponetele in terrine e guarnitele con confettini colorati (anisini), pinoli, mandorle spellate e cannella in polvere.

Una variante consiste nel sostituire il miele con il vincotto.

Volendo, semplificare un poco il lavoro potrete utilizzare una comune macchina per la pasta: preparate delle sfoglie che siano più o meno spesse quanto le tagliatelle, tagliatele a strisce della larghezza di un paio di centimetri con l’apposita rotella dentellata, e pizzicate le strisce di pasta unendole a tratti alterni per tutta la loro lunghezza. Infine, arrotolate le strisce su se stesse, comprimendo ogni tanto in modo da unirle in varie parti, bagnando eventualmente, con un po’ d’acqua, andrete così a formare dei fiori simili alle dalie. Continuate cosi, fino a consumare tutto l’impasto, deponendo man mano i fiori su tavolieri di legno.

Per preparare i purciddhuzzi che nel Tarantino vengono appellati sànnacchiudere preparate un impasto analogo a quello già descritto, con la sola differenza che, invece di ricavarne sfoglie, ricaverete dei piccoli gnocchi che friggerete, e confetterete nello stesso modo descritto per le cartellate. 

Dai Loukoumades ai purciddhuzzi

 

 

di Pino de Luca

 

Nel Libro III dell’Eneide Virgilio descrive, in qualche modo, quella che fu detta Magna Grecia. Numerose imprecisioni ne costellano la storia ma non sarà qui ed ora che esse troveranno lume. La Magna Grecia è, qui, solo il punto primigenio dal quale nascono i Loukoumades: farina di frumento impastata con acqua, latte e sale, lasciata lievitare per qualche ora e, ridotta a palline, fritta in olio di oliva bollente finché non diventa dorata. Dopo, ben scolata dell’olio, condita con miele e aroma di cannella.

Siamo tra il VI e il II secolo a.c., quando, da Cuma ad Ancona, l’italica penisola è punteggiata da colonie di stirpe Greca. Con i Greci hanno viaggiato nella storia le “palline” fritte dolci che nella zona di Parthenope diventano stroggoulos (rotondi) e, negli anni, struffoli

Ogni colonia aveva i suoi loukomades, e ogni colonia la sua contaminazione linguistica: ciciriata in Basilicata e Calabria, cicerchiata nelle Marche, ciceriata in Abruzzo, pignolata in Calabria. E in Puglia accadde di tutto. Popolazioni autoctone divise in mille gruppi e gruppuscoli, consolidate da antiche civiltà, tiraron fuori Pizzi Cunfritti, Sannacchiudere, e le varie declinazioni dell’amato suino: Purciddhruzzu, Purceddhruzzu, Purcidduzzu e Purcedduzzu.

Loukoumades che prendono nome ed occasione dalla forma, dal tempo e dalla regione. Sicché la pignolata si ottiene mettendo le palline nel cartoccio e poi rivoltando il medesimo, la ciciriata o cicerchiata (con palline a forma di ceci o di cicerchia) si costruisce versando le palline intorno ad un bicchiere ed ottenendo una specie di vulcano ciambella e così via.

Sui purciddhruzzi non v’è contea, paese, famiglia o persona che non ne abbia una variante, una sua variante. Dal vino bianco nell’impasto alla modalità di sciogliere e scegliere il miele, alla forma del purciddhruzzu (pallina, cilindro, ricciolo o nodino), dalla “massa dura” che si deve rompere irregolarmente alla “separabilità” di ciascuna pallina, dall’uso dell’alloro ai canditi, agli anisini. Il purcirddhruzzu con il miele secco e quello con il miele filante e quelli che invece del miele usano il vincotto di fichi o il mosto cotto di uva.

E la buccia di limone, di arancio o di mandarino. O di bergamotto?

Qualcuno li inforna e qualcun altro ci aggiunge cioccolato o “mendule ricce”, dall’Immacolata all’Epifania i purciddhruzzi abitano nelle case dei Sallentini di Idomeneo, e a carnevale si fanno Cartiddhrate. Barocco puro.

Ma il purciddhruzzo è un’altra cosa, è socialità nel prepararlo e nel consumarlo, è segno di prosperità e di allegria. Il Purciddhruzzo non tradisce, è buono anche quando non è buono, non va mai a male e dà sapore al tempo. Si mangia piano per forza, si gusta per costruzione, e si continua per passione anche all’infinito. E dove prese terra l’Ecista Falanto, proprio perché troppo attraenti, i probi spartani li chiamano “Sannachiudere”.

Un giorno, la comunità dei Loukoumades si riunirà. Magari per decretare chi ne è l’interprete migliore. Noi, Sallentini di Idomeneo, qualche cosa da dire sull’argomento credo che l’avremo!!!

Piccoli, barocchi e saporiti… gli struffoli

di Pino de Luca

Fra le pene accessorie che l’Italia ha dovuto scontare per aver provocato quella immane tragedia che fu la seconda guerra mondiale una riguardò il cinema. Obbligati per mezzo secolo ad avere nelle sale il 90% di pellicole americane.

Intere generazioni cresciute a western, film di guerra e commedie dai telefoni bianchi: pura colonizzazione culturale. Scontata la pena, anche se la cultura di questi tempi non è alla testa del pensiero di chi comanda, qualcosa si muove. Un libro e un film: “Terroni” e “Noi credevamo” provano ad uscire dalla retorica risorgimentale e a raccontare alcuni pezzi di una guerra di conquista per quello che è stata: ogni guerra che si rispetti ha sempre dichiarazioni di cause nobilissime e obiettivi veri assai meno narrabili. Ieri come oggi e come domani. E i vincitori hanno sempre bisogno di scrivere la loro storia spingendo al massimo la colonizzazione culturale. Devono trascorrere anni, forse secoli, per ritrovar traccia di una qualche ragione dei vinti.

Oggi, venerdi 17, giorno che la càbala reputa reietto, sfido la sorte: cucina meridionale, di scuola napoletana preunitaria, per sorprendere ospiti di italica stirpe che transitano per ospitali case durante le feste natalizie e combattere il colonialismo culturale anche sulle tavole.

La seconda edizione (1839) del libro: Cucina Teorico-pratica del Duca di Buonvicino precede di pochi decenni la manovra Sabaudo-Garibaldina che abbatterà il Regno di Napoli.

Preciso e meticoloso, Ippolito Cavalcanti, discendente del più famoso Guido, si giunge a raccontar per calendario cosa preparare giorno per giorno. E, secondo il Duca, la vigilia di Natale non possono mancare gli Struffoli.

Gli struffoli sono il dolce più meridionale che esiste. Sono piccoli, barocchi e saporiti e per farli e per gustarli ci vuole gusto, tempo e pazienza. Qualcuno li fa provenire dalla Grecia altri dalla Turchia. I Romani già usavano mangiar pasta fritta condita … Di certo la linea che parte dallo struffolo del Tirreno e

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