Lu maccarrone (il maccherone): il suo etimo è duro, come il grano di cui dovrebbe esser fatto … (1/2)

di Armando Polito

Miniatura dal Theatrum sanitatis, manoscritto (n. 4182) del XIV secolo custodito nella Biblioteca Casanatense a Roma (immagine tratta da https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/e/e8/6-alimenti%2C_pasta%2CTaccuino_Sanitatis%2C_Casanatense_4182..jpg)
Miniatura dal Theatrum sanitatis, manoscritto (n. 4182) del XIV secolo custodito nella Biblioteca Casanatense a Roma (immagine tratta da https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/e/e8/6-alimenti%2C_pasta%2CTaccuino_Sanitatis%2C_Casanatense_4182..jpg)

 

Sulla seconda parte del titolo non mi attardo; dico solo che non mi meraviglierei se prima o poi la cronaca dovesse registrare la notizia secondo la quale uno o più produttori di maccheroni sono stati incriminati perchè si è scoperto che tra gli ingredienti c’era anche una buona percentuale di cemento (bianco in alcuni tipi, grigio in altri) e che, attenzione!, l’incriminazione sarebbe dovuta non alla presenza, peraltro reale e provata, del cemento ma al fatto della sua assenza (anche questa reale e provata) tra gli ingredienti la cui indicazione  l’UE prevede tassativamente in etichetta …

L’attestazione più antica finora conosciuta della parola sarebbe (spiegherò dopo il condizionale) contenuta  In un atto di vendita dell’aprile del 1041 pubblicato nel Codex diplomaticus Cavensis, a cura di Mauro Schiani, Michele Morcaldi e Silvano De Stefano, Hoepli, Milano,  tomo VI, pp.  155-156, documento n. CMLXXIV. Ecco il brano che ci interessa (tratto da http://atena.beic.it/view/action/nmets.do?DOCCHOICE=1089355.xml&dvs=1452447044821~863&locale=it_IT&search_terms=&adjacency=&VIEWER_URL=/view/action/nmets.do?&DELIVERY_RULE_ID=7&divType=&usePid1=true&usePid2=true) e che corrisponde proprio alla parte iniziale del documento: + In nomine domini vicesimo tertio anno principatus domni nostri guaimari eius salerni, et tertio anno eius capue, et secundo anno eius ducatus amalfi et sorrento, glorioso principe, mense aprelis, nona indictione. Ideoque ego nardus filius quondam mari, qui dicitur mackarone … (+ In nome del Signore nel ventitreesimo anno del principato di Salerno del nostro signore Guaimario, nel terzo di quello di Capua e nel secondo del ducato di Amalfi e Sorrento, principe glorioso, nel mese di aprile nella nona indizione. E perciò io Nardo Figlio del fu Maro soprannominato mackarone …).

Come non ricordare che dalle nostre parti maccarrone è un appellativo non proprio gratificante, perché sinonimo di stupido? Gli amici napoletani, poi, rincarano la dose con maccarone senza pertuso (maccherone senza il buco). Ma perché, con tante altre cose naturali e artificiali al mondo, proprio il maccherone doveva essere il protagonista di questa metafora? La fantasia di ognuno può dare la sua risposta. Io, per esempio, lasciandomi forse suggestionare troppo da quel suo reale o presunto suffisso accrescitivo –one, metterei in campo l’idea della grossezza e, spiccando un volo troppo ardito, penserei al crassa (o pinguis) Minerva (crasso ingegno; Minerva era, fra l’altro, la dea dell’intelligenza) degli autori latini2, usato in tutti i contesti: da quello rurale, al filosofico, al sessuale.

La lettura di mackarone nell’atto è fuor di dubbio; secondo me, invece (sto spiegando, come mi ero ripromesso di fare, il condizionale di l’attestazione più antica finora conosciuta della parola sarebbe contenuta), non solo è difficile dire se il significato metaforico del nomignolo è legato ad una caratteristica fisico-psichica di Maro o alla sua professione (pastaio?) ma io non sarei nemmeno sicuro che esso sia effettivamente legato all’alimento, perché potrebbe essere portatore di una pura coincidenza fonetica e legato, perciò, ad altro concetto.

Siccome questo maccherone mi sta uscendo troppo lungo ho deciso di spezzarlo in due parti, ragion per cui le altre attestazioni e il resto troveranno spazio nella prossima puntata.

 

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/01/19/lu-maccarrone-il-maccherone-il-suo-etimo-e-duro-come-il-grano-di-cui-dovrebbe-esser-fatto-22/

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1 Guaimario IV fu principe di Salerno dal 1027 al  1052 e di Capua dal 1038al 1047), nonché duca di Amalfi dal 1039 al 1043), di Gaeta dal 1040 al 1041) e di Sorrento (dal 1040 fino alla morte). Questi dati coincidono con quelli dell’atto (indizione compresa) e consentono di datarlo con assoluta precisione al 1041.

 

2 Orazio (I secolo a. C.), Sermones, II, 2, 3: Ofellus/ rusticus, abnormis sapiens crassaque Minerva/ …(… il contadino Ofello, filosofo fuori dalle regole, di crasso ingegno …).

Columella (I secolo d. C.), De agricultura, Proemio: Potest enim nec subtilissima nec rursus, quod aiunt, pingui Minerva res agrestis administrari (L”impresa agricola può essere amministrata né con sottilissimo né d’altra parte, come dicono, con crasso ingegno); XI, 1: … in hac autem ruris disciplina non desideratur eiusdem scrupolositas; sed, quod dicitur, pingui Minerva quantum vis utile contiget villico tempestatis futurae praesagium … ( … in questa disciplina agraria, poi, non si richiede una simile sottigliezza, ma, come si dice, pur con crasso ingegno, tornerà utile al fattore la previsione del tempo …).

Carmina Priapea (I secolo d. C.), 3: Obscure poteram tibi dicere: – Da mihi, quod tu/des licet asidue, nil tamen inde perit./Da mihi, quod cupies frustra dare forsitan olim,/cum tenet obsessas invida barba genas;/quodque Iovi dederat, qui raptus ab alite sacra/miscet amatori pocula grata suo;/quod virgo prima cupido dat nocte marito, dum timet alterius vulnus inepta loci -./Simplicius multo est – Da pedicare – Latine/Dicere. Quid faciam? Crassa Minerva mea est (Potrei dirti con un giro di parole: – Dammi ciò che tu potresti dare di continuo senza che per questo si consumi. Dammi ciò che forse un tempo desidererai invano di dare, quando una barba invidiosa ti ricoprirà le guance; e ciò che aveva dato a Giove colui che rapito dal sacro uccello riempie al suo amante gradite coppe [allusione a Ganimede, il giovinetto di cui Giove si era invaghito e che,rapito dall’aquila, uccello sacro al re degli dei, di questi ultimi divenne il coppiere]; ciò che la vergine dona la prima notte al marito voglioso, mentre l’inesperta teme la ferita dell’altro posto -. È molto più semplice (dire) alla latina: – Fatti sodomizzare! -. Che vuoi che faccia? La mia intelligenza è crassa.

 

Un antichissimo piatto salentino: cìciri e ttria

di Armando Polito

A beneficio dei lettori più giovani che non hanno probabilmente mai sentito questo nesso o avuto la voglia di conoscerne il significato (quanto alla degustazione, invece, sono certo che McDonald’s e compagni ne hanno decretato, e da tempo, la fine…) dirò che si tratta di un piatto tipico quanto semplice della nostra cucina, a base di ceci e sottili strisce di pasta fritta, un piatto contadino, come oggi si suol dire, con accezione finalmente positiva, velata, comunque dall’artificiosità che accompagna lo snobismo e che è insita in tutto ciò che è, sempre come oggi si dice, trendy.

tria

Il geografo arabo Idrisi nell’opera Kitab-Rugiar (Libro di Ruggiero) del 1154 parla della itryia (così suona la trascrizione dall’arabo) una specie di capellino molto sottile. Ancora oggi in Sicilia è comune chiamare i capellini tria. Riporto, tradotto, il passo in questione: A ponente di Termini Imerese vi è l’abitato di Trabia, sito incantevole, ricco di acque perenni e mulini, con una bella pianura e vasti poderi nei quali si fabbricano vermicelli (itryia) in quantità tale da approvvigionare, oltre ai paesi della Calabria, quelli dei territori musulmani e cristiani, dove se ne spediscono consistenti carichi.

Si presume che Idrisi nell’adoperare il vocabolo itryia si riferisse ad un tipo di pasta conosciuto nel proprio paese di origine. I siciliani probabilmente nell’inventare gli spaghetti si ispirarono all’itryia, dando vita, comunque, ad un prodotto nuovo. Da questi due tipi di paste si hanno diversi piatti tipici. Uno di questi, con sicure discendenze di tradizione araba o comunque orientale, è la pasta fritta croccante di capellini, appunto tria, lessati e cosparsi di miele e cannella. Che gli arabi conoscessero i capellini è fuori di dubbio, per i loro contatti con l’oriente, tenendo presente che i cinesi da millenni cucinavano i famosi capellini di soia. Il nostro ciciri e tria non sarebbe altro, dunque, a prima vista, che una variante del piatto dolce siciliano prima descritto.

Un’ultima riflessione: comunemente si crede che a far conoscere i vermicelli sia stato Marco Polo (nato un secolo dopo l’opera di Idrisi) nel suo Milione: in realtà, nel Meridione d’Italia già si fabbricavano da tempo…

Non è finita: nel primo libro delle Satire di Quinto Orazio Flacco (poeta latino del 1° secolo a. C.) la satira 6 ai versi 114/115 contiene, a mio avviso,  un probabile riferimento al tipico piatto neritino dei cìciri e ttria: …inde domum me/ad porri et cìceris rèfero laganìque catìnum (poi me ne ritorno a casa dove mi attende un piatto di porri, ceci e pasta sfoglia).

Ora mi soffermerò sul  precedente laganìque: esso è composto da -que enclitico (che significa e) e da làgani, genivo di làganum. Dal nominativo plurale làgana è nata la voce dialettale làiana (vale la pena ricordare, a vanto del dialetto, che la voce latina non è sopravvissuta in italiano; quella che sembra foneticamente più vicina, lasagna, deriva da un latino *lasània, dal classico làsanum=treppiedi, in Petronio vaso da notte , a sua volta dal greco làsanon con lo stesso significato).

La làiana è la sfoglia di pasta da cui, volendo, si ricavano le lasagne. L’originario latino làganum significa frittella, in altri autori pizza; tuttavia, il vocabolo è usato da Apicio (gastronomo latino vissuto tra il I° secolo a. C. e il I° d. C.) anche come sinonimo di tractum=pasta sfoglia (da tràhere=tirare). Làganum, poi, è dal greco  làganon=dolce di farina, miele e olio; tuttavia l’espressione elkiùein làganon (in cui elkiùein, come sempre, significa tirare, stendere) ci consente di capire che in sostanza il   làganon era la sfoglia da cui si partiva per realizzare il dolce che aveva lo stesso nome: storia parallela a quella del làganum latino.

Debbo infine dire che la voce è usata in frasi di rimprovero rivolte ai bambini come sostituto ammiccantemente eufemistico di lagna.

Insomma, se Orazio avesse aggiunto a quel làgani anche il participio passato fricti (ma ho già detto che la voce làganum può significare da sola frittella), avremmo avuto la certezza assoluta di trovarci di fronte alla citazione del nostro cìciri e ttria, dal quale, e chiudo, per evidentissimo slittamento metaforico dovuto a somiglianza (quella che solo la gente semplice e i poeti sono, da sempre, in grado di cogliere), è nato il nome dialettale di una specie di narciso, il cicirittrìa.

Dalle orecchiette alle ‘ncannulate. Salento, terra di trafilatori

di Massimo Vaglio

In più occasioni, abbiamo illustrato i formati caserecci di pasta della tradizione salentina, dalle fatidiche orecchiette, da sempre  l’emblema della cucina di questa regione, alle ormai parimenti famose sagne “ncannulate” o agli arcaici maccheroncini cavati. Tutti  formati che ormai vengono apprezzati anche fuori regione anche grazie all’opera di promozione svolta dalle tante dinamiche aziende produttrici.

Per quanto riguarda la preparazione casalinga di questi formati, ricordiamo che le farine vengono quasi sempre ricavate da grani duri coltivati localmente e moliti artigianalmente dai tanti piccoli molini sparsi un po’ in tutto il Salento, Non si tratta quindi di semole, ma di farine, con un vario grado di raffinazione a cui, spesso, chi preferisce un prodotto più rustico vi aggiunge ad arte una percentuale variabile di cruschello ricavato dall’abburattamento della farina dopo la separazione della crusca vera e propria.

Quella della preparazione casalinga della pasta è una pratica semplice che necessita principalmente di una buona materia prima, pochi rudimentali attrezzi e di una sicura manualità.

Il Salento, è però anche terra di rinomati opifici per la produzione industriale di pasta secca trafilata, un’attività che non scaturisce come si potrebbe pensare dall’evoluzione della preparazione casalinga della pasta. Enorme è infatti il divario tecnologico tra le due produzioni, che se si volesse fare un parallelo è come se si mettessero a confronto una carriola con una potente auto di ultima generazione. Un divario tecnologico che parte dalla produzione della semola, per produrre la quale occorrono macchinari imponenti, sofisticati e precisissimi quali i molini di alta macinazione. Piuttosto, la produzione industriale rappresenta il frutto della lenta evoluzione di un’attività che, iniziata

Un antichissimo piatto salentino: cìciri e ttria

di Armando Polito

A beneficio dei lettori più giovani che non hanno probabilmente mai sentito questo nesso o avuto la voglia di conoscerne il significato (quanto alla degustazione, invece, sono certo che McDonald’s e compagni ne hanno decretato, e da tempo, la fine…) dirò che si tratta di un piatto tipico quanto semplice della nostra cucina, a base di ceci e sottili strisce di pasta fritta, un piatto contadino, come oggi si suol dire, con accezione finalmente positiva, velata, comunque dall’artificiosità che accompagna lo snobismo e che è insita in tutto ciò che è, sempre come oggi si dice, trendy.

tria

Il geografo arabo Idrisi nell’opera Kitab-Rugiar (Libro di Ruggiero) del 1154 parla della itryia (così suona la trascrizione dall’arabo) una specie di capellino molto sottile. Ancora oggi in Sicilia è comune chiamare i capellini tria. Riporto, tradotto, il passo in questione: A ponente di Termini Imerese vi è l’abitato di Trabia, sito incantevole, ricco di acque perenni e mulini, con una bella pianura e vasti poderi nei quali si fabbricano vermicelli (itryia) in quantità tale da approvvigionare, oltre ai paesi della Calabria, quelli dei territori musulmani e cristiani, dove se ne spediscono consistenti carichi.

Si presume che Idrisi nell’adoperare il vocabolo itryia si riferisse ad un tipo di pasta conosciuto nel proprio paese di origine.  siciliani probabilmente nell’inventare gli spaghetti si ispirarono all’itryia, dando vita, comunque, ad un prodotto nuovo. Da questi due tipi di paste si hanno diversi piatti tipici. Uno di questi, con sicure discendenze di tradizione araba o comunque orientale, è la pasta fritta croccante di capellini, appunto tria, lessati e cosparsi di miele e cannella. Che gli arabi conoscessero i capellini è fuori di dubbio, per i loro contatti con l’oriente, tenendo presente che i cinesi da millenni cucinavano i famosi capellini di soia. Il nostro ciciri e tria non sarebbe altro, dunque, a prima vista, che una variante del piatto dolce siciliano prima descritto.

Un’ultima riflessione: comunemente si crede che a far conoscere i vermicelli sia stato Marco Polo (nato un secolo dopo l’opera di Idrisi) nel suo Milione: in realtà, nel Meridione d’Italia già si fabbricavano da tempo…

Non è finita: nel primo libro delle Satire di Quinto Orazio Flacco (poeta latino del 1° secolo a. C.) la satira 6 ai versi 114/115 contiene, a mio avviso,  un probabile riferimento al tipico piatto neritino dei cìciri e ttria: …inde domum me/ad porri et cìceris rèfero laganìque catìnum: …poi me ne ritorno a casa dove mi attende un piatto di porri, ceci e pasta sfoglia.

Ora mi soffermerò sul  precedente laganìque: esso è composto da -que enclitico (che significa e) e da làgani, genitivo di làganum. Dal nominativo plurale làgana è nata la voce dialettale làiana (vale la pena ricordare, a vanto del dialetto, che la voce latina non è sopravvissuta in italiano; quella che sembra foneticamente più vicina, lasagna, deriva da un latino *lasània, dal classico làsanum=treppiedi, in Petronio vaso da notte , a sua volta dal greco làsanon con lo stesso significato).

La làiana è la sfoglia di pasta da cui, volendo, si ricavano le lasagne. L’originario latino làganum significa frittella, in altri autori pizza; tuttavia, il vocabolo è usato da Apicio (gastronomo latino vissuto tra il I° secolo a. C. e il I° d. C.) anche come sinonimo di tractum=pasta sfoglia (da tràhere=tirare). Làganum, poi, è dal greco  làganon=dolce di farina, miele e olio; tuttavia l’espressione elkiùein làganon (in cui elkiùein, come sempre, significa tirare, stendere) ci consente di capire che in sostanza il   làganon era la sfoglia da cui si partiva per realizzare il dolce che aveva lo stesso nome: storia parallela a quella del làganum latino.

Debbo infine dire che la voce è usata in frasi di rimprovero rivolte ai bambini come sostituto ammiccantemente eufemistico di lagna.

Insomma, se Orazio avesse aggiunto a quel làgani anche il participio passato fricti (ma ho già detto che la voce làganum può significare da sola frittella), avremmo avuto la certezza assoluta di trovarci di fronte alla citazione del nostro cìciri e ttria, dal quale, e chiudo, per evidentissimo slittamento metaforico dovuto a somiglianza (quella che solo la gente semplice e i poeti sono, da sempre, in grado di cogliere), è nato il nome dialettale di una specie di narciso, il cicirittrìa.

La pasta prodotta nel Salento. Sempre di grano duro pugliese?

Da dove viene il grano impiegato per la produzione della pasta prodotta dalle industrie agroalimentari del Salento leccese?

di Antonio Bruno

Domenica 10 luglio 2011 a Merine, una piccola frazione di Lizzanello del Salento leccese, c’è stata la Sagra te lu ranu (Festa del grano). Sono andato ogni anno e ci sono andato anche questo. Le spighe dorate, la pasta e la gioia che accompagna l’abbondanza del raccolto. Ma è proprio così?

Il grano di San Cesario di Lecce

Già il grano, quello che la mamma del mio amico Luigi Pascali in autunno seminava nei campi vicino a casa di mia madre, quel grano che da ragazzo vedevo crescere sotto i miei occhi, prima quel tenue ed esile filo di verde e poi le prepotenti spighe che viravano improvvisamente in giallo prima della raccolta. Quello stesso grano che viene seminato ogni anno dietro alla casa in cui abito adesso in Via Vittorio Emanuele III che vedo ogni anno nascere, crescere e dare frutto, tanto frutto.

 

Il grano duro in Italia

A livello nazionale nel 2011 secondo l’ufficio studi di Toscana Cereali si è registrata una diminuzione su superficie investita a grano duro di 207.441 ettari , passando da una superficie di 1.257.074 ettari a 1.049.633; inoltre da una resa (2010) di 3 tonnellate ad ettaro si è passati alle 2,8 tonnellate ad ettaro (2011) per una produzione complessiva di 3,8 MT ad una previsione di 2,9 MT. Si avrà così una perdita di circa 9 milioni di tonnellate in termini di quantità.

Tutte le Regioni produttrici di grano duro, ad eccezione della sola Sardegna (+9%) fanno registrare una diminuzione delle superfici coltivate nel 2011. Le aree con maggiori diminuzioni sono quelle del nord: Lombardia -48%, Veneto -47%, Emilia Romagna -41%, Piemonte -31%. Ma non va molto meglio nel resto d’Italia: -21% Lazio, -19% Calabria, quindi la Toscana, Umbria, Basilicata e Sicilia che si attestano al -18%; Campania -17%; Molise -13%, Puglia – 12%, Abruzzo -9% e Marche -7%.

Il grano duro del Salento leccese

Nella Provincia di Lecce negli anni dal 2003 al 2005 si sono coltivati circa 29mila ettari di grano duro ovvero circa il 7% della superficie investita a grano della Regione Puglia con una produzione media di 3 tonnellate per ettaro e una produzione complessiva di circa 87mila tonnellate di grano duro.

Il grano duro dà ai proprietari del paesaggio rurale del Salento leccese un reddito da fame

Si può concepire che tre tonnellate di grano duro diano un reddito per ettaro al proprietario del paesaggio rurale di 810 euro lordi? E’ pensabile che 29mila ettari della Provincia di Lecce diano un valore lordo, da cui cioè vanno tolte le spese, di 261mila euro?

ph Riccardo Schirosi

 

Ma quali sono le spese per produrre il grano duro?

Secondo l’INEA le spese specifiche rappresentano il 32% di cui: sementi 9%; fertilizzanti 10%; fitofarmaci 4%; noleggi 8% e altre spese specifiche 1% con l’impiego di 15 ore lavoro per ettaro di manodopera.

La pasta Cavalieri

Sono rimasto suggestionato dall’intervista a Benedetto Cavalieri del giornalista Adelmo Gaetani del Nuovo Quotidiano di Puglia.

Ho cercato, senza successo, il sito dell’Antico Pastificio Benedetto Cavalieri, invece per chi ne volesse sapere di più rimando a Wikipedia, l’enciclopedia libera http://it.wikipedia.org/wiki/Antico_Pastificio_Benedetto_Cavalieri .

Un secolo di successi e di tradizione a Maglie del Salento leccese ed è li che alla Via Garibaldi al 64 c’è l’opificio.

In sintesi l’Antico Pastificio Benedetto Cavalieri è da tutti unanimemente riconosciuto come sinonimo di pasta di prima qualità apprezzata in tutto il mondo e prodotta ancora oggi con il metodo di lavorazione originale.

Ma quanto costa la Pasta dell’Antico Pastificio Benedetto Cavalieri

Le confezioni della Pasta dell’Antico Pastificio Benedetto Cavalieri costano 3,12 euro e pesano 500 grammi ovvero un chilo di pasta costa 6,24 Euro.

Ma da dove viene il grano della Pasta dell’Antico Pastificio Benedetto Cavalieri?

Anche se sulla confezione da 500 grammi della pasta dell’Antico Pastificio Benedetto Cavalieri si può leggere Maglie – Terra d’Otranto – Italia io non ho trovato alcun riferimento sulla provenienza geografica del grano duro. Già perché in Italia la pasta si può fare solo di grano duro infatti la legislazione italiana (Legge n. 580 del 1967) prevede che la pasta secca debba essere fabbricata solo ed esclusivamente con semola di grano duro. Qualsiasi aggiunta, anche se parziale, di grano tenero costituisce una frode. Non è però così in altri Paesi in cui è possibile utilizzare la farina di grano tenero anche per la pasta.

Chiarezza sulla provenienza della materia prima

Intanto cominciamo con l’affermare che non è chiaramente scritta sulla confezione da 500 grammi di pasta dell’Antico Pastificio Benedetto Cavalieri la provenienza geografica del grano con cui si fa la farina da cui si fa la pasta. Quindi il grano duro che viene molito e trasformato in farina che poi sarà successivamente trasformata in pasta potrebbe avere qualunque provenienza. Ma anche ammettendo che l’Antico Pastificio Benedetto Cavalieri utilizzi per la produzione della pasta solo grano della Provincia di Lecce dovremmo fare un po’ di conticini.

I conti non tornano

Ho già scritto che una confezione da 500 grammi di pasta dell’Antico Pastificio Benedetto Cavalieri costa 3,12 euro come è possibile verificare al link http://www.pedrelli.com/it/prodotti/id/4034 ovvero 6mila240 euro alla tonnellata. Mentre un produttore di grano duro della Provincia di Lecce vende una tonnellata di grano duro nella migliore delle ipotesi a 270 euro la tonnellata come si può verificare al link http://www.ilgranoduro.it/userfiles/quotazione%2027a%20settimana%202011.pdf

Una filiera della pasta tutta del Salento leccese

Sarebbe bello per un proprietario di paesaggio rurale coltivare grano, è una coltivazione facile, si ara, si semina, si concima e si raccoglie. E sarebbe bello sapere che dalle tre tonnellate che il buon Dio con la Sua provvidenza regala a noi umani si potrebbe ottenere un reddito in grado di far vivere tante famiglie. Per farlo c’è bisogno di mettere tutto insieme il grano duro del Salento leccese e comunicare i dati della produzione. Sempre insieme si dovrebbero trasformare le 87mila tonnellate di grano duro del Salento leccese in farina. Un buon impianto di macinazione ha una resa del 60-64% di semola e dell’8-12% in farinette. Il Salento leccese è in grado di dare 55mila tonnellate di farina! E che fare delle 50 mila tonnellate di pasta?

Il consumo della pasta del Salento leccese

L’Italia, con oltre 3.1 milioni di tonnellate prodotte e 28 kg di consumo medio pro capite annuo, figura come il Paese leader indiscusso della tradizione pastaia. Ogni 10 piatti di pasta sfornati a ogni longitudine e latitudine, ben 3 sono infatti realizzati con pasta italiana. Quindi noi 800mila abitanti del Salento leccese potremmo auto consumare circa la metà della pasta prodotta ovvero 25mila tonnellate delle 55mila se scegliessimo da consumare in casa solo pasta prodotta con il grano duro del Salento leccese. Vi lascio pensare che cosa significhi conquistare anche un solo mercato estero! Una coltivazione facile diverrebbe anche una coltivazione che da la ricchezza! Una filiera tutta del Salento leccese è la soluzione! Le Organizzazioni professionali dei produttori agricoli dovrebbero lavorare su questa ipotesi e sin d’ora metto a disposizione l’Associazione Dottori in Scienze Agrarie e Forestali della Provincia di Lecce che ho l’onore di presiedere per costruire insieme un progetto che sta in piedi con le sue gambe e senza finanziamenti da parte di nessuno!

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