L’ambiguità artistica dei due pittori salentini Catalano e D’Orlando

Catalano e D’Orlando: un’apparente ambiguità artistica tra i due pittori. Sulla bottega del gallipolino e alcune sue opere “sicure”

 

di Santo Venerdì Patella

Leggendo vari scritti che riguardano il gallipolino Gian Domenico Catalano e il neretino Antonio Donato D’Orlando (pittori attivi nel Salento tra gli ultimi decenni del ‘500 ed i primi del ‘600), pare che in alcune opere loro attribuite vi sia un rapporto artistico ambiguo tra i due artisti: che il D’Orlando alcune volte copi il Catalano.

Le paternità delle opere la cui attribuzione oscilla tra i due pittori, è caratterizzata da una qualità non “elevata”, e tende a favorire il più “arretrato” D’Orlando adducendo giudizi che in generale sottolineano una essenzialità stilistica della composizione della sua opera, che riguarda il colore, l’espressività dei volti e il carattere devozionale dell’opera stessa.

In queste opere si è scritto, come accennavo prima, che il D’Orlando copi il Catalano; questa osservazione però può valere quando i diversi elementi che compongono l’opera del neretino rimandano ad un aggiornamento generale del suo stile, ma non quando questi elementi sono specifici del Catalano.

Il fatto che il D’Orlando copi questi elementi pedissequamente, senza una propria originalità, non mi ha mai convinto del tutto. Il D’Orlando, nelle sue opere che ho esaminato, non copia mai il Catalano, quasi fosse un suo falsario. Immaginare il D’Orlando che vada in giro per il Salento a copiare angeli, visi, panneggi, cromie, decori, pennellate ecc. e poi nelle sue opere si prenda la briga di riposizionarli, a volte nei posti equivalenti delle stesse opere del Catalano, mi sembra quantomeno deviante. Il neretino ha un suo stile, e nella sua evoluzione artistica, al massimo si aggiorna sul Catalano e non ha bisogno di copiare passivamente chicchessia.

Al contrario, avviene che alcune opere riportate come certe del Catalano, e che in alcuni casi gli sono vicine stilisticamente, più “arcaiche”, in virtù della certezza documentaria, o stilistica, non sono di sicuro attribuibili al D’Orlando.

Questo fraintendimento critico potrebbe presentare anche una bizzarrìa, un paradosso: se il D’Orlando a volte si “aggiorna” seguendo il Catalano, allora anche il Catalano a volte “regredisce” mediante il D’Orlando?

Entrando nello specifico ho notato che alcune delle opere assegnate al D’Orlando hanno, non a caso, la stessa qualità artistica, e lo stesso stile, di altre “sicure” attribuite al Catalano e che, perlomeno, rientrano nella scia di una qualità media della produzione dello stesso pittore gallipolino.

Come esempio per tutte si tenga conto della tela della Vergine con bambino e i Santi Eligio e Menna nella cattedrale di Gallipoli, riconosciuta alla bottega del Catalano grazie alle fonti documentarie.

Venendo al dunque, in queste opere, si dovrebbe valutare piuttosto l’ambito artistico del Catalano, bottega o aiuti, che magari realizzano opere, o parti di esse, meno sostenute qualitativamente ma che sono sempre pertinenti al gallipolino.

Ora possiamo accostare perlomeno alla “qualità media” della produzione del Catalano un elenco di alcuni dipinti che dalla critica, nel corso del tempo, sono stati attribuiti ad entrambi gli artisti in questione:

La “Madonna del Carmine tra San Giacomo Maggiore e San Francesco d’Assisi” a Galatone, chiesa della Vergine Assunta;

La “Madonna col Bambino in trono e i Santi Domenico e Pietro Martire” a Matino, chiesa del Rosario;

Il “Perdono di Assisi” (realizzato nel 1608) a Muro Leccese, chiesa Madre;

Il “San Francesco e le Anime purganti” (1613 ca.) a Squinzano, chiesa di San Nicola;

Il “Perdono di Assisi” (1616 ca.) a Campi Salentina, chiesa Madonna degli Angeli;

La “Madonna del Carmine tra San Carlo Borromeo e San Francesco di Paola”, (realizzata tra il 1613 ed il 1624) a Muro Leccese, chiesa Madre.

I confronti che seguono riguardano ancora altre opere del Catalano.                            Partendo dalla tela sopra menzionata della Vergine con Bambino e i Santi Eligio e Menna che si attribuisce con una certa sicurezza, grazie alle fonti documentarie, alla bottega del Catalano, è importante notare che nel 1614 era ancora allo stato iniziale dell’esecuzione e venne completata nel 1617.

Effettivamente in quest’opera si nota un livello qualitativo meno aulico rispetto alle opere maggiori del Catalano e che si può spiegare con la presenza di aiuti; tra essi si può individuare il nome del figlio del Catalano, Giovan Pietro, che nel 1617 aveva circa 18 anni e che da qualche anno poteva già lavorare col padre (nel XVI sec. la soglia della maggiore età si situava tra i 12 e i 14 anni). Pochi anni più tardi invece vi sarà la presenza di un pittore romano che collaborò col Catalano dal 1621 sino alla sua dipartita. Si può anche citare la vicinanza stilistica alla maniera del Catalano da parte del pittore leccese Antonio Della Fiore, che dipinse il “San Carlo Borromeo” nella cattedrale leccese, dove è molto evidente l’influsso dell’artista gallipolino.                  

Facendo dei confronti ed accostando la tela della Madonna del Carmine tra San Giacomo Maggiore e San Francesco d’Assisi della chiesa della Vergine Assunta di Galatone [fig. 1] alla tela della Madonna del Carmine tra San Menna e San Eligio possiamo notare che la Madonna col Bambino è sovrapponibile in entrambe.

Fig. 1. Tratto da “La Puglia, il Manierismo e la Controriforma”, Galatina : Congedo, 2013

 

Si noti che per realizzare queste opere, si è fatto ricorso al tipo iconografico della Madre di Dio della “Bruna“, conservata nella Basilica Santuario di Santa Maria del Carmine Maggiore a Napoli.

Altre tangenze le ritroviamo nei volti posti di profilo, tra loro speculari, del Sant’Antonio Abate nella tela della Regina Martyrum di Squinzano [fig. 2], chiesa di San Nicola, e il San Giacomo Maggiore della tela di Galatone [fig. 3], simili sono anche i medaglioni istoriati a quelli della tela di San Carlo Borromeo di Surbo.

 

Fig. 2

 

Fig. 3

 

Per quanto riguarda il modo di dipingere gli angeli notiamo che sono simili alla tela del San Tommaso della chiesa del Rosario di Gallipoli, dove è stato anche ipotizzato l’intervento della bottega del Catalano; angeli simili sono anche in altre opere qui citate: Madonna del Carmine a Muro [fig. 4 e Perdono di Assisi a Campi [fig. 5]. Per quanto riguarda i panneggi alcune spigolosità ricordano quelli dell’Andata al Calvario di Scorrano e del Martirio di Sant’Andrea a Presicce.                                                                                                                           

  

Fig. 4 tratta da Anronaci, Muro Leccese, Panico, Galatina 1995

 

Fig. 5

 

Stessa iconografia mariana della “Bruna” di Napoli, e stesso stile delle precedenti opere sopramenzionate, è stata utilizzata per la tela della Madonna del Carmine tra i Santi Carlo Borromeo e Francesco di Paola di Muro Leccese [fig. 4] (commissionata da Pascale Rotundi tra il 1613 ed il 1624), somiglianze vi si rintracciano negli angeli, come nel modo di dipingere il saio dei santi francescani, figure presenti nella tela di San Francesco e le Anime purganti di Squinzano. Va sottolineato che le anime purganti già attribuire alla bottega del gallipolino, appaiono di qualità inferiore.

Tangenze con l’immagine di San Carlo Borromeo della tela del Carmine di Muro le possiamo intravedere anche nelle figure dello stesso santo esistenti nei dipinti di Surbo (Parrocchiale), nella chiesa della Lizza ad Alezio e nel trittico della Regina Martyrum, della chiesa di San Nicola a Squinzano. Una ulteriore somiglianza ai medaglioni della tela murese del Carmine è riscontrabile anche in quella della Madonna del Rosario di Casarano, (Parrocchiale).

 

Fig. 6, tratta da “La Puglia, il manierismo e la Controriforma”

 

Ora cerchiamo di approfondire ulteriormente la tela del “Perdono di Assisi” di Muro Leccese [fig. 6]. Come ho già affermato nel 2003, anche in questo dipinto le creature angeliche sono simili a quelle esistenti nelle tele del Catalano. Un esempio potrebbe essere rappresentato dall’angelo posto a destra della Madonna del dipinto in questione che è simile ad uno degli angeli di destra, al di sopra dell’Arcangelo Gabriele, nella tela dell’Annunciazione nella matrice di Specchia Preti; come pure simile è anche ad un altro angelo posto nella tela dell’Annunciazione di Squinzano, (chiesa di San Nicola) [fig. 7 A-B-C]. Simili sono anche altri angeli posti a destra del Perdono e della Dormitio Virginis della chiesa di San Francesco di Gallipoli [fig. 8 A-B]. Si noti che sul piano compositivo equivalenti sono le ubicazioni, e parzialmente anche le posture, che queste figure occupano nelle rispettive opere.

Fig. 7A

 

Fig. 7B

 

Fig. 7C

 

Fig. 8A

 

Fig. 8B

 

Le stesse somiglianze ritornano anche nelle figure del San Domenico e in quelle del committente della tela della Madonna con Bambino ed i Santi Domenico e Pietro martire di Matino, – ex chiesa dei Domenicani – infatti sono uguali le teste del San Francesco murese e del San Domenico matinese, come pure la postura dei committenti maschili [fig. 9 A-B].

Fig. 9A

 

Fig. 9B

 

A voler essere scrupolosi si possono individuare altre similitudini con altre opere riconosciute del Catalano: la frangia posta sul paliotto con croce gigliata al centro, dipinta con tre o quattro colori distinti [fig. 10], la si ritrova: nella tela della Circoncisione nella chiesa del Rosario a Gallipoli, in quella della Presentazione di Gesù al tempio, chiesa di San Francesco, Gallipoli, e addirittura anche sulla dalmatica di Santo Stefano nella tela Regina Martyrum a Squinzano, e sule vesti del Sant’Eligio della tela della Vergine con Bambino nella cattedrale di Gallipoli. Ritornando alla croce gigliata, sopra menzionata, la ritroviamo dipinta anche nel paliotto della tela di San Carlo Borromeo della chiesa parrocchiale di Surbo.

Fig. 10

 

Fig. 11

Sulla tela del Perdono di Assisi di Campi (simile al Perdono murese, che rappresenta una versione semplificata sia nelle dimensioni che nell’articolazione della composizione) [fig. 11]: le figure angeliche, sia quelle a figura intera che quelle con le teste alate, sono riprese da quelle analoghe dalla tela dell’Annunciazione di Squinzano [fig. 12]; anche qui ritorna la frangia descritta prima usata nelle altre opere già citate.

Fig. 12

 

Il volto del San Francesco, eseguito di tre quarti, é sovrapponibile a quello del Cristo della tela dell’Andata al Calvario, dei Cappuccini di Scorrano, e anche in quello del San Francesco della tela dell’Annunciazione, nella chiesa di San Francesco a Gallipoli [13A e B].

 

Fig. 13A

 

Fig. 13B

 

Rammento la mia attribuzione del 2003 al Catalano, piuttosto che al D’Orlando, della tela del “Perdono di Assisi” di Muro Leccese, purtroppo non sempre condivisa. Venne mantenuta – inspiegabilmente a mio parere – l’attribuzione al D’Orlando senza considerare le effettive tangenze stilistiche riscontrabili nei dipinti esaminati.

Pertanto, oltre a tutte le comparazioni precedenti, credo vada sottolineata la questione relativa all’angelo con le vesti celesti che si ritrova (insieme alle cromie e alle pennellate) nelle tele di Muro, “Perdono di Assisi” [fig. 7A], e Specchia, “Annunciazione” [fig. 7C].

In merito approfondiamo l’epoca di realizzazione delle due opere ed i rispettivi committenti.

La tela murese è datata 1608 ed ho potuto appurare che è stata commissionata dal “Regio Judice ad contractus” Annibale Adamo (non a caso lo stemma alludente della famiglia Adamo, o D’Adamo, richiama il pomo di Adamo); mentre la tela di Specchia, vista la sua qualità artistica, viene di solito datata al periodo maturo del Catalano. Facendo il confronto con altre opere simili dovremmo trovarci nel secondo decennio del ‘600; i personaggi ritratti in questa tela, dovrebbero essere pertanto (dopo aver valutato gli altri feudatari di Specchia nel periodo che va dagli ultimi decenni del ‘500 ai primi decenni del ‘600), Ottavio Trane e la moglie Isabella Rocco Carafa, ed ipotizzerei, vista anche l’intitolazione della tela all’Annunciazione di Maria, la data 1611, data di nascita di Margherita Trane, futura Marchesa e moglie di Desiderio Protonobilissimo, in tal caso questa tela potrebbe configurarsi come una sorta di ex voto.

Un ulteriore dilemma infine è relativo all’attribuzione del Perdono di Muro, assegnato dalla critica al D’Orlando: può l’angelo con le vesti celesti di questa tela, datata 1608 e attribuito al D’Orlando, essere stato realizzato dal Catalano nella successiva tela dell’Annunciazione di Specchia e ritenuta opera certa del pittore gallipolino?

La soluzione credo di averla espressa – in forma differente – già nel 2003, con tutte le prove del caso; il dipinto andrebbe attribuito all’ambito artistico del Catalano, come le altre tele proposte, e vista la sua qualità artistica e la caratura sociale di chi la commissionò, la riterrei anche una buona opera dello stesso pittore gallipolino.

 

Bibliografia essenziale

E. Pendinelli, M. Cazzato, Il pittore Catalano, Galatina 2000.

S. V. Patella, Una nova opera del pittore Giandomenico Catalano. Originali, copie e riprese del gallipolino a Muro Leccese, in “Il Bardo”, XIII, n. 1, p. 2, Ottobre, Copertino 2003.

L. Galante, Gian Domenico Catalano “Eccellente Pittore della città di Gallipoli”, Galatina 2004.

A. Cassiano, F. Vona (a cura di), La Puglia, il manierismo e la controriforma, Modugno 2013.

 

Archivi consultati: Archivio diocesano di Otranto e Archivio storico parrocchiale di Muro Leccese.

Ringrazio Luigi Mastrolia per avermi fornito gentilmente le foto del “Perdono di Assisi” di Campi.

 

8 dicembre. Sine macula. Una tela dell’Immacolata Concezione a Squinzano

 

di Valentina Antonucci

La chiesa dell’Annunziata di Squinzano è uno dei più straordinari ambienti ecclesiali seicenteschi conservatisi integri, anche per quanto riguarda  la decorazione pittorica, nella diocesi di Lecce. Entrando nella grande chiesa squinzanese ci si sente immediatamente trasportati nel cuore del XVII secolo: la suggestione è emozionante. Il visitatore si trova infatti immerso in un ambiente riccamente decorato, con quasi tutte le tele originali ancora al loro posto: tele dalle dimensioni impressionanti, che misurano poco meno di quattro metri d’altezza per due e mezzo di larghezza! L’abside è occupato da un maestoso altare ligneo ornato da piccole pitture tra cui, al centro, quella della Madonna col Bambino. Tutta la chiesa è un inno al culto mariano: a Maria Vergine è infatti interamente dedicato il programma iconografico.

Lo stato di conservazione dei dipinti è precario, per alcuni di essi è pessimo, e tutto il complesso versa purtroppo  in un grave stato di abbandono. Alla mancata valorizzazione si tentò anni or sono di porre rimedio con l’organizzazione di una bella mostra documentaria, a cura del dott. Salvatore Polito. Dagli studi allora realizzati, pubblicati sul materiale illustrativo dell’allestimento (non altrove, per quel che io sia riuscita a sapere) si possono trarre molte e puntuali informazioni sullo stato di conservazione, sui dettagli della tecnica pittorica dei dipinti e sull’iconografia.

La storia della chiesa dell’Annunziata di Squinzano attende dunque ancora di essere ricostruita e scritta nei suoi particolari, che comprendono anche le notizie relative allo straordinario evento religioso e culturale che fu la sua stessa fondazione da parte della devota Maria Manca nonché alla venerazione che intorno a questa figura e al santuario da lei fondato si sviluppò nel tempo. Quel vero e proprio repertorio di pittura salentina che in essa è fortunatamente conservato attende per parte sua di essere recuperato con gli opportuni interventi di restauro, rivalutato, studiato e reso finalmente fruibile al pubblico.

Entro la metà del secolo l’Annunziata di Squinzano, grazie al finanziamento e alle cure di Maria Manca, era completata , ma già dagli anni ’30 del secolo probabilmente erano all’opera i pittori che avrebbero dovuto realizzare le vaste superfici pittoriche previste.

Non vi è alcuna coerenza stilistica e linguistica tra le diverse tele: si deve perciò supporre che siano state eseguite in modo indipendente l’una dall’altra e non dalla medesima bottega. Tuttavia si scorgono in esse legami con artisti attivi in ambito francescano: la Visitazione, dalla bizzarra ambientazione architettonica di sapore rinascimentale, sembra infatti legata ai modi espressivi di fra’ Giacomo da San Vito, mentre la Circoncisione di Gesù, nonostante la pesante ridipintura che la copre, è attribuibile all’anonimo maestro della Presentazione al Tempio di S. Maria degli Angeli a Lecce, la quale d’altra parte è iconograficamente legata al grande telone dal medesimo tema presente proprio nell’Annunziata.

Altre tele sembrano invece degli unica di artisti che lavorarono in modo sporadico in diocesi di Lecce, senza essere legati al contesto produttivo locale. Lo stile fresco ed espressivo della Natività della Vergine ad esempio non trova riscontri in altre opere della diocesi, così come il linguaggio carnoso e vigoroso della bella Immacolata Concezione, per la quale non sembrano esservi analoghi, se non altro sul piano della qualità.

E’ proprio su quest’ultimo dipinto che voglio soffermarmi in questa sede, per metterne in rilievo alcuni aspetti iconografici e alcune caratteristiche di stile che gli conferiscono, a mio giudizio, un fascino tutto particolare. Si tratta di una versione particolarmente bella e grandiosa di uno schema iconografico piuttosto diffuso nella diocesi e, più in generale, nel Salento: Maria è in piedi su una falce di luna sorretta da due angioletti che, specularmente, reggono in mano rami di due piante simboliche, le rose bianche e l’ulivo, entrambe riferibili alla Vergine;  ai suoi lati due ordinate, ascendenti schiere di Angeli sorreggono i simboli delle litanie lauretane; al di sopra, all’interno della centina, il Padreterno appare tra le nubi a benedire la propria creatura perfetta, sine macula, sul cui capo volteggia la colomba dello Spirito Santo. Una regale corona è posata sui capelli biondi, mentre un alone di luce dorata l’avvolge tutta. Sono elementi comuni nell’iconografia dell’Immacolata del XVII secolo, ma si osservi come qui vengano tradotti in modo inconsuetamente grandioso e attraente: gli Angeli che sorreggono da un lato la gigantesca Turris e dall’altro il modellino in grande scala del Templum si affacciano al proscenio paffuti e dolcemente sorridenti, avvolti da vesti riccamente panneggiate, dialogando tra loro con gli sguardi e con i gesti, conquistando l’ammirazione dello spettatore e suggerendogli al tempo stesso le proporzioni, le distanze e le profondità in cui si scalano gli altri personaggi, fino ai remoti Angeli musici assisi nella corte celeste. Maria riempie tutto lo spazio aurato con il suo amplissimo mantello azzurro, con le braccia che si muovono in eloquente gesto di intercessione, con i bei capelli soffici sparsi sulle spalle.

L’ambiguità iconografica con il tema dell’Ascensione e Incoronazione della Vergine è frequente nelle rappresentazioni seicentesche del controverso dogma immacolista, approvato ufficialmente dalla Chiesa soltanto nel XIX secolo (ma caldamente patrocinato già ai tempi del nostro dipinto dalla corona di Spagna e dall’Ordine francescano): la tela squinzanese non fa eccezione, richiamando anch’essa l’idea che Maria stia appunto ascendendo al Cielo, incoronata e trionfante.

Facendo poi scorrere lo sguardo verso il basso e osservando ciò che si trova sul “proscenio” del dipinto, troveremo ancora elementi caratteristici e degni d’attenzione. Il Serpente, nemico veterotestamentario della nuova Eva, appare qui raffigurato come una creatura dalle fattezze diabolicamente antropomorfe, contorte in una smorfia di rabbia e terrore cui non è difficile dare spiegazione, poiché la punta d’acciaio di una lancia, la cui asta è però invisibile incombe su di lui come se fosse spinta da una forza soprannaturale, è già quasi conficcata nel suo cranio. Si tratta di una soluzione bizzarra e inedita per raffigurare la sconfitta del demonio ad opera della Vergine Madre di Dio.

Ai due lati, in basso, secondo uno paradigma iconografico che si diffonde nel XVII secolo, sono raffigurati due santi in adorazione della Vergine, come se fossero comuni devoti ritratti nell’atto di preghiera e contemplazione: si tratta di uno straordinario stratagemma comunicativo che consente allo spettatore di sentirsi “sullo stesso piano” del santo che, come lui, rivolge il proprio sguardo alla Vergine Immacolata, l’icona cui si tributa venerazione.

A sinistra è raffigurato un giovane e commovente sant’Antonio da Padova con il suo ramo di giglio, la tonsura, il saio francescano: si osservi la cura con cui il pittore si è soffermato a rendere l’incarnato del volto delicato e roseo, le mani tornite e paffute, gli occhi quasi rovesciati in estasi, le labbra leggermente dischiuse in una preghiera che, nel silenzio assorto della chiesa, sembra quasi di udirgli mormorare.

A destra invece il pittore, certamente su richiesta del committente, ha giustapposto la vigorosa vecchiaia di un canuto san Nicola, rigorosamente bardato di abiti vescovili ma, nelle fattezze, già ad un passo dall’assumere l’aspetto che, qualche secolo dopo, trionferà sui manifesti pubblicitari della Coca Cola. In questa figura l’anonimo artista salentino sembra aver speso il meglio della sua capacità di tornire e cesellare l’immagine nei dettagli più corposi e realistici, dai peli della barba ai riflessi della luce sulla pelle lucida del volto del vecchio, dalle minuscole perle che ornano la sua mitria agli intagli che arricchiscono il suo pastorale.

 

Bibliografia: P. Coco, Cenni storici di Squinzano, Lecce 1922, pp. 239 ss.

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