Il restauro della tela dell’Immacolata della confraternita di Spongano

di Giuseppe Corvaglia

Il 25 novembre il dipinto d’altare della Congrega verrà restituito alla Comunità sponganese restaurato dal professor Erminio Signorini e dalla dottoressa Viviana Nardò.

Ho voluto incontrarli in videochiamata per chiedere alcune notizie in merito all’operazione che segue il restauro pregevole ed eccellente di alcuni medaglioni della navata.

operazioni di restauro della tela

 

La nostra Congrega era dedicata a Santa Maria delle Grazie, ma nel quadro restaurato la Madonna non sembra propriamente una Madre amorevole, quanto, piuttosto, una Madre pronta a lottare per salvare il Figlio che porta in grembo e gli altri figli intesi come tutta l’umanità.

 Prof. Signorini Semmai io la definirei una Madonna degli attributi molteplici: colei che sconfigge il male raffigurato dal drago a sette teste, tema dell’apocalisse come l’appoggiarsi sulla luna, ma anche colei che ha altre doti speciali rappresentate dalle figure che rimandano alle litanie lauretane e sono sempre attributi della Vergine.

Quasi sempre le litanie lauretane sono associate alla Madonna del Rosario, culto che, dopo Lepanto, si diffuse in tutte le chiese, come è noto, e decantano una molteplicità di virtù alcune delle quali sono contenute in quest’opera e la rendono estremamente significativa anche da questo punto di vista.

 

Colpisce infatti nel quadro la rappresentazione iconografica degli attributi della Madonna: Fonte della nostra gioia, Specchio di giustizia, Rosa mistica, Torre della santa città di Davide, Porta del cielo, Rosa mistica…

Prof. Signorini Erano tutti elementi che arricchivano la sua figura ed esprimevano anche i ruoli che la Madonna svolge nei confronti dei fedeli come intermediaria verso Cristo e verso Dio.

 

il dipinto prima del restauro

 

A parte questo aspetto iconografico potete dirci qualcosa di più del restauro? Che tipo di approccio avete attuato?

Prof. Signorini Questo dipinto, come in altri casi che mi è capitato di osservare lavorando e insegnando in Accademia, è stato realizzato all’inizio del ‘600, nelle prime decadi del ‘600, e poi è stato ripreso nel corso dei secoli successivi alla sua realizzazione.

Il restauro dell’opera in questo caso è suggerito semplicemente dalla presenza di una data che indica la ripresa in mano l’opera, avvenuta in un periodo in cui era stato fatto un intervento generale più complesso per quello che riguardava l’architettura, le decorazioni e le caratteristiche che doveva assumere di seguito l’oratorio.

 

Sappiamo, infatti, che nella seconda metà del ‘700 lo scoppio di un fulmine aveva danneggiato gravemente la Congrega, che fu restaurata con importanti modifiche strutturali, con innalzamento della volta con un secondo ordine dove trova posto il rosone a forma di lira che illumina l’altare.

 Prof. Signorini Il quadro però fu tenuto per l’indubbio significato e per questa complessità degli attributi della Vergine proprio perché significativo e conclusivo delle storie della Vergine contenute nei quadri della navata, che si riferiscono proprio della storia della Madonna. Questo dipinto ha una valenza più simbolica e conclude il ciclo pittorico, dando un senso alla vicenda umana della Madonna descritta nei Vangeli e raffigurata nei quadri della navata.

 

Come dire che la Madonna è umanità e vita umana però è anche entità sovrumana e vicinanza alla divinità…

Prof. Signorini E questo viene poi giustificato e rappresentato dall’Assunzione.

Il restauro si presentava diciamo un po’ più complesso proprio perché aveva all’interno queste due date; da un lato quella del Seicento (1653) dall’altro lato le modifiche degli interventi dell’Ottocento (1837), che in questo caso, presentavano, ai nostri occhi, una serie di integrazioni o di correzioni o di coperture di piccole lacune non proprio fatte bene e un indebolimento della forza cromatica di alcuni colori. Questi elementi rappresentano sempre una complessità per chi restaura ,perché, come è plausibile, sono stati eseguiti all’incirca 200 anni fa. Inoltre la diversa età degli interventi presenta una differenziazione rispetto ai colori originali più antichi.

Il legante olio, poi, ha una sua storia specifica dal punto di vista chimico-fisico, che non è il caso di riprendere in questa occasione; quello che avviene è che diventa un materiale di molto più difficile solubilità e questo comporta per noi restauratori di dover intervenire con grande attenzione, anche perché molti di questi ritocchi sono andati a coprire anche la pittura originale che sotto esisteva, esiste e che si è anche, in buona parte, riusciti a recuperare.

Per questo occorre cautela e conoscenza, perché spesso si utilizzano solventi o materiali che possono essere anche “aggressivi”, ed è stata nostra cura cercare di utilizzare materiali che dessero sicurezza e garantissero di non andare ad intaccare i materiali più antichi, quelli dei secoli precedenti.

Questo è stato uno degli ostacoli; poi altre difficoltà erano legate alla stabilità dell’opera, non solo la stabilità degli strati pittorici, ma anche quella legata al sostegno e alla struttura, cioè al telaio, perché anche il telaio era stato fatto con legni non più adeguati, che dovevano essere rinforzati aumentando il numero delle traverse, per assicurarne la stabilità. Soprattutto bisognava correggere un intervento che era stato fatto nella parte sommitale del dipinto, laddove c’è una parte ad arco centinata che si era rotta. Il telaio, sempre nel corso dei secoli, si era danneggiato ed era stato ricostruito con sistemi che non hanno retto poi nel tempo e si sono danneggiati. Per questo si è dovuto far fare un intervento a un professionista specializzato nel recupero e nella costruzione dei telai, dietro nostre indicazioni, per poter realizzare questa stabilità.

Però, oltre a ottenere una stabilità maggiore abbiamo ottenuto di rendere visibili anche alcuni elementi del disegno della pittura che, in occasione della riparazione, per una piega della tela erano rimasti nascosti.

Per esempio, sono più complete le due figure di angioletti che stanno a destra e a sinistra in alto.

 

 

Filippo Cerfeda mi aveva anche parlato di quello che gli aveva detto Viviana dei telai, del rinforzo, del lavoro che avevate fatto sui telai in occasione del restauro degli altri quadri. Non ci dobbiamo dimenticare però che noi siamo uomini del ventunesimo secolo, e che questi lavori li facevano nel ‘600 con mezzi che non erano quelli di cui disponiamo oggi, insomma è già molto che non siano andate completamente perdute.

Prof. Signorini Tante volte nei restauri, per tradizione, i telai, quando sembravano non essere in grado di reggere sufficientemente la tela, venivano eliminati e si sostituivano con telai nuovi.

Per noi il telaio è un documento storico certo e in questo caso Filippo Cerfeda ci è stato di grande aiuto, perché ha trovato i possibili autori di questi telai che, se non ricordo male, avevano fabbricato anche alcuni banchi della chiesa. Anche questo, quindi, è un omaggio a Filippo e alla sua sensibilità, da storico, nel collegare i vari elementi.

Un dipinto su tela non è solo lo strato ultimo di colore ma è un sistema e, se possibile, bisogna salvare il sistema o renderlo più efficiente, se ha perso efficienza.

 

Riguardo al paesaggio che si vede nella parte inferiore, potete dire qualche qualcosa?

Prof. Signorini Il paesaggio nel dipinto serve a dare un piedistallo al mostro a sette teste che si trova in questa parte, perché fa parte della terra, dell’umano.

C’è da dire che questi paesaggi sono spesso dei paesaggi di fantasia; in qualche caso, per particolari situazioni di chiese o di devozioni, magari rappresentano il paesaggio locale, ma in molti casi sono paesaggi costruiti mescolando elementi vari che ha il pittore, diciamo, nella sua mente. Anche su questo abbiamo visto che anche da parte di chi è intervenuto nell’Ottocento sono stati fatti dei rinforzi di colore e dei piccoli aggiustamenti.

Quando questi interventi non danno un arricchimento o non interrompono il disegno non vale la pena di toccarli, anche perché hanno una loro storicità, ma se interrompono la continuità della immagine, pensiamo a un dito di una mano oppure al vestito di un altro Angelo o un’interruzione nell’ala e così via, a questo punto diventano elementi negativi e occorre intervenire per riportare l’originale.

Per quello che riguarda la parte del 1600, molte delle evoluzioni che ha il legante olio per la pittura sono già consolidate; su quelle noi non possiamo intervenire. Magari possiamo interpretarne l’intensità cromatica originaria ma, non disponendo di un documento fotografico, preferiamo lasciare la situazione com’è per il rispetto e la storia del dipinto. Per usare un paragone è come se volessimo eliminare sempre tutte le rughe sui volti.

Il fatto è che è comune che ci siano cambiamenti come la variazione nei valori cromatici della pittura a olio e questi avvengono soprattutto nei primi periodi, nei primi decenni o nel primo secolo di vita  e nel tempo si interviene. Per questo ci siamo trovati di fronte a interventi del passato che si sono fortemente modificati rispetto ai valori cromatici e che sicuramente anche il restauratore dell’800 aveva già incrociato. Comprendiamo quindi che nel tempo sicuramente variazioni ne sono avvenute, però noi, non avendo un documento fotografico, dobbiamo dare fiducia a chi è intervenuto che l’abbia fatto con sensibilità e con adeguata capacità.

 

le due fate alla base della tela

 

Alla fine, siete riusciti a reperire delle notizie riguardo a questo autore che si firma B.P.?

Prof. Signorini Non siamo riusciti. Aspettavamo dei suggerimenti dagli storici dell’arte o dagli ispettori di Soprintendenza, che in genere sono storici dell’arte, ma non è emerso nulla.

Ci auguriamo che il restauro di quest’opera possa stimolare curiosità, promuovere la ricerca e che si arrivi almeno ad avere delle ipotesi

Filippo Cerfeda aveva pensato a chi potesse essere intervenuto nell’Ottocento e ci aveva suggerito di confrontare il quadro con un’altra opera sita in una chiesetta privata a cui, però, purtroppo, nonostante diverse richieste di vederla, non siamo ancora riusciti ad avere accesso.

Volevo fare un’ultima aggiunta riguardo al restauro: quando noi ci muoviamo soprattutto per quella fase, che è la più delicata, della pulitura, dove quello che si toglie non si può rimettere, come invece si può fare se si sostituisce l’asta di un telaio, ed è, quindi, l’unica operazione sicuramente irreversibile, dobbiamo muoverci sempre con cautela e sulla scorta di osservazioni specifiche di tipo ottico, come quelle che utilizzano raggi UV o raggi infrarossi. È importante che l’intervento sia fatto con un’adeguata diagnostica, in questo caso il dottor Melica ci ha molto aiutato con i suoi mezzi tecnologici che integrano sapientemente i nostri test, le nostre provette e garantiscono al trattamento coerenza con i mezzi a disposizione.

Per essere “scientifici” e quindi seguire una disciplina corretta occorre avere competenze e conoscenze, ma anche avere a disposizione tutti i risultati della diagnostica, dell’osservazione o dell’analisi di alcuni piccoli micro-campioni che si raccolgono sull’opera.

 

Quindi avete utilizzato metodiche moderne di diagnostica anche a raggi X?

Prof. Signorini In questo caso non erano necessarie, però abbiamo fatto una osservazione di questi campioni in superficie o in sezione che ci hanno mostrato la stratificazione che c’è nell’opera e identificano tutta una serie di materiali, attraverso micro test che il diagnosta ha fatto sui campioni stessi per indicarci se si tratta di materiali tipo oleoso, come in questo caso, oppure se ci sono proteine, cere o altri materiali applicati sia nella fase di creazione sia nell’intervento di restauro dell’opera, ma consente pure di vedere, per esempio, se ci sono vernici intermedie e cose di questo tipo.

 

Un’ultima domanda: queste operazioni hanno un costo, ma sono necessarie per la storia, per il culto, per la memoria collettiva ma soprattutto per la bellezza, perché una cosa bella è un valore per tutti e noi abbiamo avuto la fortuna di avere una Confraternita intera stimolata dai priori Giacomo Paiano e oggi Fulvio Verardo, che ha dato risalto alla conservazione dei beni materiali, opere d’arte, documenti, strutture… in maniera davvero lodevole, ma senza trascurare la preghiera, la devozione, il culto, veri scopi della società, e tutto fatto con grande zelo. Cosa ne pensa?

Prof. Signorini Ho avuto modo di conoscere i Confratelli e in particolare Giacomo Paiano, all’epoca Priore, che mi parlava di progetti importanti e di piccoli oggetti recuperati, con grande entusiasmo e cura per questo, perché recuperare è importante ma è importantissima la salvaguardia, cioè il cercare di far durare nel tempo più a lungo possibile le opere che ci sono state consegnate e nei Confratelli della Congregazione c’è consapevolezza ed entusiasmo e questa attenzione, questa sensibilità sono pregi rari da trovare. Se ci fosse stata questa sensibilità ovunque molto del patrimonio italiano non sarebbe andato perduto.

 

Una parola anche sull’aspetto estetico

Prof. Signorini Il valore estetico sicuramente c’è. Gli antichi pittori potevano anche essere pittori locali però avevano una loro cultura, facevano riferimenti alle opere di maestri precedenti, anche più grandi. In loro c’era l’idea di fare la cosa bella con l’idea di fare una cosa buona per gli utenti che guardavano all’opera con fede e devozione, ma anche per coloro che non fossero credenti e potevano apprezzare elementi estetici di queste iniziative religiose. Chi verrà dopo vedrà una chiesa più bella, potranno vedere le opere conservate e la nostra missione è di farlo al meglio per farle durare il più possibile pur sapendo che anche i nostri lavori nel tempo andranno incontro all’inevitabile deterioramento.

L’invito che noi facciamo sempre dopo la fine di un restauro è di non accontentarsi del risultato, pure quando sia eccellente, ma di operare per mantenere quel risultato con la manutenzione periodica che a volte vuol dire semplicemente spolverare spesso. Per esempio, in questo caso per tendere le tele sui telai usiamo un sistema in cui l’attaccatura non danneggia il dipinto. Questo, però comporta che si possano creare delle piccole fessure fra la cornici e la tela e lì potrebbero inserirsi polveri, insetti che potrebbero nidificare; impedire che questo avvenga è manutenzione ordinaria che permette alle opere di durare ancora più a lungo

Poi sappiamo quanti danni può fare il deposito di polveri sulle superfici perché nelle polveri c’è di tutto e queste si depositano sulle superfici dei quadri sulle superfici delle pareti delle chiese all’interno e all’esterno per cui nel tempo è vero che ci vorrà il restauro ma occorrerà sempre la manutenzione.

Se ci fosse più manutenzione ci sarebbe meno restauro e danni da restaurare. Per noi sarebbe una bella cosa, ci farebbe molto piacere e potremmo comunque essere chiamati per dare  indicazioni più precise per la manutenzione.

Nuovo telaio con sistemi di supporto integrati

 

opera ultimata

Mattia Bacile e la sua dimora a Spongano (XVIII secolo)

Mattia Bacile, chierico in Spongano e la sua dimora in contrada “Le More”. Note storiche di approfondimento*

 

di Filippo Giacomo Cerfeda

 

Nella monografia su Spongano di Fernando De Dominicis (vol. I, pag. 513), nelle pagine dedicate alla famiglia Bacile, leggiamo che Mattia Bacile è fratello di Gennaro e zio di Ippazio Bacile. Fu sacerdote in Roma, ma nel Catasto Onciario del 1749 è ancora accatastato come chierico ed aveva 45 anni.

Stemma nobiliare dei Bacile di Castiglione

 

Stemma nobiliare dei Bacile di Castiglione

 

Fece costruire un casino di campagna con una cappella, lontano dall’abitato di Spongano, sulla strada in contrada “le More”. Sul parapetto faceva bella mostra di sé un ostensorio in pietra locale che è misteriosamente scomparso. Raffigurava il segno eucaristico dell’ostia con raggiera proprio dell’Ordine Riformato di San Bernardino da Siena che si richiamava a San Francesco; aveva, al centro, inciso le lettere IHS (Jesus Hominum Salvator) con la lettera H sormontata da una croce e tre chiodi, i segni della passione. Lo stesso stemma è usato anche dai Gesuiti. Inoltre, su quello che una volta fu l’ingresso principale, si intravedono i resti di una epigrafe ormai illeggibile.

Molti cittadini di Spongano ricordano benissimo l’ostensorio in pietra, poi trafugato, del casino Mattia. Una perdita veramente significativa per la storia civile e religiosa non solo della famiglia Bacile ma anche della comunità sponganese.

ingresso della Cappella del Casino Mattia con fregio centrale trafugato.

 

A queste informazioni, che riteniamo importanti, desidero aggiungere i contenuti essenziali di alcuni documenti e atti notarili inediti scoperti recentemente nell’Archivio di Stato di Lecce.

In un atto notarile del 18 aprile 1723 si legge che il chierico Mattia Bacile di Spongano è il Procuratore (cioè Priore) della Confraternita del Santissimo Sacramento. Sicuramente tale Confraternita, come tutte le altre omologhe Confraternite sotto lo stesso titolo, non aveva una cappella propria ma la sede reale e giuridica sull’altare centrale o qualche altare laterale della chiesa parrocchiale di Spongano. Da tener presente che 9 su 10 Confraternite nel Salento, sotto il titolo del SS. Sacramento, avevano sede legale e giuridica nell’altare centrale della chiesa, quasi sempre sotto lo stesso titolo. Dall’atto notarile apprendiamo che il sodalizio del SS. Sacramento, oltre a garantire le attività di culto e quelle devozionali, praticava anche l’Istituto del microcredito, ossia prestiti in denaro a coloro che avevano specifico bisogno e che avanzavano formale richiesta. Il tasso di interesse era valutato in base alle leggi vigenti dalla Chiesa Cattolica; per questo erano chiamati anche censi bollari, perché i meccanismi di prestito e i tassi percentuali erano regolati dalle Bolle pontificie. L’oggetto del rogito notarile è l’affrancamento di un censo bollare di 9 carlini per un capitale censo di 10 ducati. In pratica il debitore restituisce alla Confraternita la somma di dieci ducati di capitale che aveva richiesto molti anni prima e, nello stesso tempo, si libera (affrancamento) anche dal pagamento annuale degli interessi di 9 carlini. La pratica dei censi bollari era molto redditizia per i privati facoltosi o per le Istituzioni che operavano in questo settore e consentiva al povero cittadino di usufruire di piccole somme di denaro con interessi che andavano dal 5% al 9%. In verità i pontefici avevano imposto dei limiti (9%) oltre il quale si sconfinava nell’usura.

Spesso bisognava motivare la richiesta del prestito: l’acquisto del terreno per edificare la casa al proprio figlio oppure per la dote nuziale della propria figlia oppure per il pagamento delle numerose tasse di decime e quindecime dovute al feudatario o al regio fisco. Vogliamo pensare che il chierico Mattia Bacile abbia impiegato le rendite dei capitali censi per la manutenzione dell’altare, per le opere di culto e per le spese delle lampade votive o per il sostentamento del cappellano che celebrava (su quell’altare) le messe pro anima dei confratelli defunti.

In un altro atto notarile del 4 aprile 1726, rogato per il testamento di Francesco Russo di Diso, scopriamo che il testatore è marito di Feliziana Bono ed è padre di Vito Antonio Russo. Francesco Russo è zio del chierico Mattia Bacile di Spongano e di Gennaro Bacile. Gli altri nipoti sono i tre fratelli: il chierico Carmine Russo, Giuseppe Russo e Paolino Russo. In realtà il nostro Mattia Bacile è imparentato con i Russo di Diso, famiglia benestante e cospicua che ha dato origine a diversi notai, e, come descritto nell’atto, anche beneficiario di molti beni lasciati in eredità dallo zio Francesco Russo.

Casino Mattia in località More. Interno della cappella dove era l’altare, riadattato con camino come abitazione

 

Un documento inedito estremamente importante per la storia del nostro personaggio Mattia Bacile e della feudalità di Miggiano nel Settecento è un contratto di affitto del feudo di Miggiano del 1734. Si tratta di un atto notarile rogato dal notaio Vito Resce di Diso e attualmente custodito nell’archivio di Stato di Lecce.

L’atto notarile è stato rogato nella città di Castro, alla presenza di Giovanni Russo, regio giudice ai contratti, e dei testimoni don Saverio Calò, dottore in diritto civile e canonico e parroco di Castro, del sacerdote don Antonio De Blasi di Diso e di Ippazio Rizzo e Antonio Ciriolo, entrambi di Castro.

Davanti al notaio si costituiscono mons. Giovanni Battista Costantini, vescovo di Castro utile Signore e Barone della Terra di Miggiano, da una parte; Oronzo Bacile con il figlio Mattia, chierico, entrambi di Spongano, dall’altra parte.

Il vescovo Costantini dichiara di voler concedere in affitto la “Terra” di Miggiano”, sua baronia, e per questa ragione intende stabilire una convenzione con il maestro Oronzo ed il figlio Mattia, intervenuti in solidum nel contratto di affitto dell’intero feudo di Miggiano.

Il padre e il figlio Bacile quindi accettano la concessione del feudo con tutta la sua giurisdizione civile e mista, con tutti i diritti, azioni, ragioni, esazioni, tributi, con tutti i suoi beni, tanto feudali quanto burgensatici, palazzo baronale, case, corti, frantoio, forno, vassalli, vassallaggi, masserie, territori seminativi, uliveti, terreni macchiosi e montuosi (“cutosi”) colti ed incolti, giardini, rendite, frutti, proventi, pagamenti, decime, annui censi, erbaggi, pascoli, ed ancora tutti i beni che appartengono alla medesima baronia siti nel territorio di Miggiano ma anche in quello di Acquarica del Capo, con il Banco della giustizia, mastrodattia, con tutta la giurisdizione delle cause civili e miste e con le quattro lettere Arbitrarie di poter comporre i delitti e commutare le pene, per gli stessi delitti, da corporali in pecuniarie, rimettere le pene e concedere la grazia in tutto o in parte.

L’affitto è stabilito per la durata di tre anni consecutivi, a decorrere dal 1° settembre 1734 fino al 31 agosto 1737, al prezzo di 550 (cinquecento cinquanta) ducati l’anno, per un totale complessivo di 1650 ducati per l’intero triennio.

5. Ingresso del Casino Mattia in località More. Data di costruzione

 

Il pagamento annuale deve avvenire nella città di Castro, sede episcopale, alla presenza diretta di mons. Costantini, in moneta d’argento in uso nel Regno di Napoli. I conduttori del feudo, Oronzo e il figlio Mattia, promettono e si obbligano in solidum di pagare l’affitto annuale alla fine di ogni semestre, ossia la somma di 275 ducati per sei semestri consecutivi e di non mancare né cessare tale pagamento “semestratim” per qualsiasi causa, caso ed eccezione di legge o per qualsiasi titolo, pretesto, nonché per cause di guerra, peste, di insolita sterilità del terreno, tempeste, gelate, grandinate, nevicate, invasione di bruchi, malattia alle olive (brusca) e per qualsiasi altro caso fortuito, opinato e inopinato che dovesse accadere quando fosse insopportabile e inevitabile di forti grandinate devastanti o terribile invasione di bruchi. In altri termini, nel contratto viene stabilito che solo in questi due casi (grandinate devastanti e invasione di bruchi) il vescovo Costantini doveva scomputare dall’affitto la somma relativa al danno, secondo il parere e giudizio di persone esperte in agricoltura e secondo le disposizioni delle leggi e dei dottori in agraria.

Gli stessi Bacile, padre e figlio, per il menzionato affitto, ricevono in dote dal vescovo barone tomoli trenta di grano, tomoli settanta di orzo, entrambi di ottima e recettibile qualità, insieme con tre bovi, una “vacca figliata” ed una carretta per il trasporto del letame. Solo per gli animali e la carretta il valore viene stimato in ducati 80. Al termine del triennio di conduzione gli affittuari sono tenuti e obbligati di restituire e consegnare al titolare della baronia l’intera dote, comprensiva di vettovaglie, bestiame e carretta.

Le ultime due clausole, previste dal contratto, riguardano mons. Costantini. La prima è l’obbligo del vescovo di non rimuovere né di far rimuovere i due affittuari durante il loro esercizio della conduzione del feudo; la seconda riguarda il godimento del frutto della vigna dell’autunno 1734, spettante di diritto ai precedenti conduttori, Oronzo e il figlio Gennaro Bacile, che dopo la decadenza del precedente contratto (agosto 1734) spetta ai nuovi affittuari ossia Oronzo e figlio Mattia. Questi ultimi sono anche beneficiari del frutto delle olive della raccolta novembre 1734-febbraio 1735, mentre il frutto delle olive dell’anno 1737 doveva restare esclusivamente a beneficio del Costantini.

Da quest’ultima clausola veniamo ad apprendere che nel triennio 1731-1734 il feudo di Miggiano era stato concesso in conduzione ad Oronzo e al figlio Gennaro Bacile, sostituito quest’ultimo, nel contratto successivo, dal fratello clerico Mattia per motivi non esplicitati nell’atto notarile.

Non conosciamo al momento della nostra indagine archivistica se altri e successivi contratti di proroga siano stati stipulati con la famiglia Bacile per la concessione in affitto della “Terra” di Miggiano; elementi non documentari però ci inducono a ritenere che la stessa famiglia Bacile abbia avuto tale concessione nei trienni successivi almeno fino al sopraggiungere di altri conduttori non locali per la gestione del feudo.

Tra gli elementi di prova della continuità della famiglia Bacile è la realizzazione del loro frantoio ipogeo a Spongano. Le ingenti quantità di olive prodotte nel feudo ecclesiastico di Miggiano nell’annata 1734 ed in quelle successive pongono le premesse per la realizzazione di un grande frantoio ipogeo nell’abitazione di Oronzo, certamente coadiuvato dai figli Gennaro e Mattia. Sull’architrave della porta d’ingresso del frantoio è incisa a chiare lettere l’iscrizione latina A[nno] D[omini] 1736, seguita, a breve distanza e sullo stesso lato della strada, da un’altra data (1760) segnata sull’architrave di una finestra della facciata del palazzo Bacile che potrebbe indicare la progressione dei lavori di ampliamento dello stesso palazzo.

Ingresso al frantoio ipogeo di Palazzo Bacile

 

Nell’atto di battesimo del 10 settembre 1739 di Domenico Fedele Nicola Bramante, figlio di Ippazio Bramante e Maria Stefanelli, coniugi di Miggiano, amministrato dal parroco di Miggiano don Vincenzo Scolozzi, leggiamo che i padrini del piccolo furono il chierico Mattia Bacile ed Elisabetta Bacile, entrambi figli di Oronzo Bacile di Spongano. Mattia Bacile si presenta con la licenza del reverendissimo Vicario di Ugento, opportunamente esibita all’arciprete di Miggiano prima del battesimo. Chiara ed esplicita nell’atto di battesimo l’identità di Mattia Bacile, identificato come “chierico”.

Particolarmente significativo è l’atto notarile del 13 luglio 1746, rogato dal notaio di Spongano Teodoro Bacile. Purtroppo, i protocolli del 1746, come tutti gli altri protocolli di Teodoro Bacile, non sono mai stati versati nell’archivio di Stato di Lecce. Per tale ragione li riteniamo scomparsi o forse giacenti in qualche archivio privato degli eredi e discendenti della famiglia Bacile di Spongano. Del rogito però del 13 luglio 1746 abbiamo un chiarissimo regesto all’interno dei Protocolli notarili del Giudice ai Contratti Tommaso Scarciglia di Spongano. Nei regesti dell’anno 1746, in corrispondenza del mese di luglio, troviamo la seguente annotazione manoscritta:« Listesso giorno le trideci del mese di Luglio mille sette cento quaranta sei nel Casale di Spongano Notaro Teodoro Bacile di detto Spongano in mia presenza stipulò uno istrumento di afrancazzione dun capitale Censo di docati quindici alla raggione del nove per cento a favore di Domenico Pisino di Surano contro la venerabile cappella di S. Antonio di Spongano e suo procuratore Clerico Mattia Bacile di Spongano. Testimoni Clerico Crisostomo Bacile, Clerico Paolo Scarciglia, e Nicolò Rizzo di Spongano litterati. Io Tomaso Scarciglia del Casale di Spongano Reggio Giudice a Contratti.».

 

Piccola cappella con vestigia di un altare e di portaceri in un angolo del giadino

 

Nonostante la sobrietà del regesto, il Regio Giudice Scarciglia ci consegna alcuni dati molto significativi, relativi alla cappella di Sant’Antonio ed al suo procuratore Mattia Bacile. Siamo certi che si tratta della cappella di famiglia Bacile, prospiciente il palazzo Bacile. Sull’architrave della porta d’ingresso della cappella di Sant’Antonio (come viene esplicitamente denominata nell’atto notarile e nel regesto del giudice Tommaso) è incisa la data 1747, lasciando ogni ombra di dubbio sulla edificazione della stessa cappella. Tuttavia, l’atto notarile di Teodoro, redatto il 13 luglio 1746, mette in chiara evidenza lo stato di preesistenza della cappella, egregiamente amministrata dal chierico Mattia Bacile, nel ruolo di procuratore della stessa e gestore del patrimonio immobiliare. Cospicue dovevano essere le rendite dei beni legati alla cappella, tanto da consentire la pratica creditizia a coloro che ne facevano esplicita richiesta. Nel nostro caso, Domenico Pisino di Surano, per sue necessità familiari, aveva ottenuto in prestito quindici ducati al tasso del nove per cento. Dopo i pagamenti rateali tertiatim, ossia tre volte l’anno ogni quattro mesi, giunge finalmente all’affrancazione attraverso la restituzione della somma che aveva ottenuto. Il chierico Mattia Bacile riceve in tal modo la somma del capitale censo che aveva sborsato alcuni anni prima e rilascia finale quietanza a Domenico Pisino di Surano. L’assenza di istituti bancari o di credito nelle piccole realtà salentine consentiva ai procuratori di chiese e cappelle di istituire procedure di microcredito a vantaggio dei più bisognosi. I tassi percentuali di interesse variavano dal sei al nove per cento. Quasi sempre erano privati cittadini facoltosi che praticavano tassi al sei per cento, mentre i procuratori di cappelle garantivano capitali più consistenti ma a tassi più elevati. Le rendite derivanti dai pagamenti rateali venivano quasi sempre impiegate nella concessione di altri capitali censi e nelle spese per gli arredi sacri delle cappelle, nonché al sostentamento del cappellano rettore della stessa cappella. I testimoni presenti all’atto notarile sono altri chierici di Spongano: Crisostomo Bacile, Paolo Scarciglia e Nicolò Rizzo, tutti letterati.

L’ultima osservazione dell’atto notarile è rivolta alla denominazione della cappella, edificata sotto il titolo di Sant’Antonio. Solo nei decenni successivi in tutti i documenti ufficiali riscontriamo il titolo “Vergine dei Dolori” o dell’Addolorata.

 

Cappella della Madonna dei sette dolori presso Palazzo Bacile

 

L’atto notarile del 27 novembre 1747 contiene informazioni interessanti sul chierico Mattia Bacile. Nel rogito è inserito il Mandato di procura da parte di Francesco Sergi di Poggiardo del 21 ottobre 1747, l’atto notarile del 27 ottobre 1747 relativo alla vendita a favore dei fratelli Gennaro e chierico Mattia Bacile ed infine l’atto notarile della ratifica della vendita datato 27 novembre 1747. Di questi documenti si presenta un breve regesto:

Mandato di procura da parte di Francesco Sergi di Poggiardo effettuata a Napoli il 21 ottobre 1747

Francesco Sergi di Poggiardo non potendo attendere e nemmeno essere presente di persona per l’atto notarile, per la distanza del luogo ma confidando nella fiducia e lealtà di Domenicantonio Pede, il medesimo, benché assente ma come se fosse presente,  lo creo e lo costituisco mio Procuratore con tutta quella pienezza e potestà che si ricerca alle cose infrascritte, affinché in mio nome, rappresentando la propria mia persona, possa e voglia vendere ed alienare liberamente e senza patto di ricomprare, o speranza di riavere a tutti, e qualsivogliano uomini e persone che vorranno attendere alla compra suddetta la parte, e porzione che li spetta così su i beni del quondam Carlo Sergi di Poggiardo, mio padre, come quella che spetta su li beni della signora Annamaria De Matteis mia madre siti li beni predetti in diversi luoghi e Terre per il prezzo che meglio potrà convenire con i futuri compratori, esigere il prezzo suddetto e quietare in ampia forma, con promettere ancora la ratifica di me predetto costituente fra giusto e competente tempo, e di detta vendita farne rogare pubblico istrumento per mano di qualsiasi pubblico notaio con tutte le clausole e cautele necessarie, solite apponersi in simili contratti.

Mandato di procura da parte di Francesco Sergi di Poggiardo effettuata a Napoli il 21 ottobre 1747

Francesco Sergi di Poggiardo ma dimorante a Napoli, per essere impedito per la distanza del luogo di rendersi presente di persona per l’atto notarile, nomina e costituisce come suo Procuratore speciale il suo patrigno Domenicantonio Pede perché confida nella sua bontà e lealtà. Lo crea e lo costituisce suo Procuratore con tutta quella pienezza e potestà che si ricerca in simili circostanze, affinché in suo nome possa rappresentarlo davanti al notaio con concedergli la facoltà di poter e voler vendere ed alienare liberamente e senza patto di ricomprare, o speranza di riavere a tutti e qualsivogliano uomini e persone che vorranno attendere alla compra suddetta la parte e porzione che li spetta sui beni del defunto suo padre Carlo Sergi di Poggiardo, così come su quella parte dei beni spettanti a sua madre Annamaria De Matteis. I beni dei suoi genitori sono situati in diversi luoghi e Terre e potranno essere venduti da Domenicantonio Pede al prezzo che meglio potrà convenire con i futuri compratori, esigere il prezzo conveniente e rilasciare quietanza in ampia forma, con promettere ancora la ratifica nella sua persona fra giusto e competente tempo, e di detta vendita farne rogare pubblico atto notarile per mano di qualsiasi pubblico notaio con tutte le clausole e cautele necessarie, solite apponersi in simili contratti.

Atto notarile del 27 ottobre 1747.  Vendita a favore dei fratelli Gennaro Bacile e chierico Mattia Bacile

Il giorno 27 ottobre 1747 in Poggiardo, nelle case dei signori Sergi, davanti al notaio Stefano Fello di Poggiardo si costituiscono i signori:

– i coniugi Domenicantonio Pede ed Annamaria De Matteis; il signor Domenicantonio Pede interviene come procuratore speciale di Francesco Sergi, suo figliastro, assente in vigore di mandato di procura;

– Marina Sergi, monaca bizzoca con l’abito di Sant’Ignazio, figlia di Annamaria De Matteis, nata dal primo matrimonio, da una parte;

– i fratelli chierico Mattia Bacile e Gennaro Bacile, dall’altra parte.

I signori Domenicantonio Pede, Annamaria e Marina spontaneamente asseriscono davanti al notaio e davanti ai fratelli Bacile di avere, tenere e possedere come veri signori e padroni, con giusto titolo, una chiusura seminatoria nominata “Vignavecchia” o “Caudanova”, di capacità di terra di circa dieci tomoli, sita e posta nel feudo di Vaste, la maggior parte ed una porzione di capacità di cinque stoppelli, quantunque nelle pertinenze di Vaste, è del suffeudo della mensa vescovile di Castro. Tale vendita è motivata da loro urgenti e comuni bisogni, dalla loro casa e famiglia per alimentarsi in questa annata tanto scarsa ma soprattutto per pagare al reverendo sacerdote don Giuseppe Maggiulli di Muro la somma di cento ducati insieme ad altri cinque ducati di rate arretrate. Le parti costituite hanno deliberato e stabilito, insieme con Francesco Sergi, di vendere e liberamente alienare la predetta chiusura ed avutone trattato con i fratelli Bacile, con i medesimi rimase conclusa nel modo seguente: vendono ed alienano, ed a detto titolo per fustem jure, la chiusura suddetta, come sopra descritta, sita e confinata. Tale vendita è fissata al prezzo di ducati duecentosessantatre, tanto apprezzata, stimata e valutata dai sacerdoti don Paolino Pede di Diso e don Nicola Paiano di Surano, esperti comunemente eletti. Della stima effettuata dai due sacerdoti, periti in agricoltura, i signori Sergi esprimono piena soddisfazione, così come anche per il ricevimento della somma di denaro contante da parte dei fratelli Bacile. Dopo queste operazioni i signori Sergi con giuramento rilasciano finale quietanza, liberano e assolvono i fratelli compratori.

Atto notarile del 27 novembre 1747. Ratifica di vendita

Il 27 novembre 1747, in Diso, e precisamente nel Convento dei frati cappuccini, davanti al notaio Stefano Fello di Poggiardo si costituiscono i signori:

– Francesco Sergi di Poggiardo, da una parte;

– i fratelli chierico Mattia e Gennaro Bacile di Spongano, dall’altra.

Francesco Sergi spontaneamente dichiara che nei mesi scorsi, dimorando nella città di Napoli, fece un atto di procura con il quale istituì suo procuratore il signor Domenicantonio Pede, suo patrigno, al quale diede la facoltà di vendere e alienare i suoi beni a qualsiasi persona, stipularne le cautele e promettere in suo nome la ratifica nei termini competenti. In vigore di quella procura il signor Domenicantonio, in data 27 ottobre 1747, tanto in nome di Francesco Sergi, quanto in suo proprio nome et in solidum con Annamaria De Matteis e Marina Sergi, sorella di Francesco Sergi, per comuni e urgenti bisogni e per soddisfare alcuni loro creditori, vendettero ai fratelli chierico Mattia e Gennaro Bacile una chiusura seminatoria di dieci tomoli sita nel feudo di Vaste, nominata “Lama vigna vecchia” o anche “Caudanova” e promettendo al suo procuratore la ratifica da farsi dallo stesso Francesco Sergi fra il termine di due mesi. Con il presente atto il signor Francesco Sergi ratifica la vendita fatta per procura a favore dei fratelli Gennaro e Mattia Bacile.

 

L’ultimo documento che presentiamo in questa carrellata documentaria è l’atto notarile del 2 gennaio 1748 rogato da Stefano Fello di Poggiardo: “Quietanza, e cessione d’azzioni, e raggioni a favore del Chierico Mattia e Gennaro Bacile fratelli di Spongano, fatta dal sacerdote D. Giuseppe Maggiulli di Muro”.

Il due gennaio 1748, nella “Terra” di Muro, e precisamente nelle case del signor Don Ignazio Papadia, davanti al notaio si sono costituiti i signori:

– il reverendo sacerdote don Giuseppe Maggiulli di Muro, da una parte;

– Gennaro Bacile della “Terra” di Spongano, il quale agisce ed interviene tanto per sé stesso, quanto in nome e parte del chierico Mattia Bacile suo fratello, assente, dall’altra parte.

Il reverendo don Giuseppe spontaneamente asserisce alla presenza del notaio e di Gennaro Bacile che il 21 giugno 1746 a richiesta delle signore Anna Maria De Matteis e Marina Sergi, madre e figlia della “Terra” di Poggiardo, per loro bisogni e per far loro cosa gradita, prese a censo dal convento “Santo Spirito” di Muro ducati cento alla ragione del nove per cento, come appare dall’atto notarile rogato dal notaio Lega di Muro in data 26 giugno 1746. Le suddette signore per indennità dello stesso don Giuseppe, penes acta del Regio Tribunale del Consolato della città di Lecce, si obbligarono di pagare i cento ducati con tutte le rate al detto don Giuseppe per tutta la fine del mese di ottobre 1746. Gennaro Bacile soggiunse che esso in solidum con suo fratello chierico Mattia comprarono il 27 ottobre 1747 da Anna Maria De Matteis e Marina Sergi e dai signori Domenicantonio Pede e Francesco Sergi in solidum una chiusura seminatoria sita nel feudo di Vaste nominata “vigna vecchia” o “Caudanova”, per il prezzo di ducati duecentosessantuno, dai quali venditori furono delegati pagarne a don Giuseppe Maggiulli ducati cento insieme con altri ducati cinque di rate decorse e non pagate. Gennaro Bacile quindi in suo nome si è dichiarato disponibile a versare al sacerdote Maggiulli ducati cento di capitale insieme con altri ducati tredici e grana ottanta di rate decorse che lo stesso don Giuseppe ha pagato al convento di Muro fino alla data odierna, mentre le signore Anna Maria e Marina dovessero fare la cessione translativa e non estintiva di azioni e ragioni, della quale i fratelli compratori potessero servirsi in caso di futura evizione della chiusura comprata e ad ogni altro fine ed ampia quietanza a favore dei principali debitori come Gennaro e suo fratello chierico Mattia. Riconosciuta legittima, giusta ed onesta la richiesta fattali da Gennaro Bacile, il sacerdote Maggiulli riceve manualmente dallo stesso Gennaro Bacile la somma di ducati cento di capitale ed altri ducati tredici e grana ottanta di rate decorse in moneta contante di oro per affrancarsi e liberarsi dall’obbligo contratto con il convento di Muro.

 

Alla luce dei contenuti di questi documenti e atti notarili viene logico e spontaneo incrociare tutti i dati. In modo particolare la presenza dell’ostensorio in pietra, collocato sul frontespizio della casina di campagna, rimanda immediatamente al ruolo ricoperto per molti anni da Mattia Bacile come Priore della Confraternita del SS. Sacramento che certamente aveva come emblema il segno eucaristico dell’ostia con raggiera.

Se nel Catasto Onciario Mattia Bacile è censito come chierico ed aveva 45 anni possiamo calcolare la sua nascita nel 1704. Nell’anno 1723 lo ritroviamo come Procuratore del SS. Sacramento all’età di quasi 20 anni.

Casino Mattia in località Le More a Spongano. Giardino

 

Al momento non abbiamo altri elementi utili per illuminare il personaggio Mattia Bacile. Se la presenza del casino di campagna ne ha perpetuato la memoria, il furto dell’ostensorio e la scomparsa dell’epigrafe latina IHS hanno cancellato definitivamente un intimo legame con un simbolo eucaristico e con un ruolo importante da lui ricoperto nella comunità sponganese e miggianese.

 

Le foto sono di Antonio Chiarello

Si ringrazia per la disponibilità e l’accoglienza Ignazio Oliva attuale proprietario della dimora.

 

* Dal libro Iscrizioni latine a Spongano di G. Corvaglia – F.G. Cerfeda – G. Tarantino. Youcanprint edizioni 2022

Raffaele Monteanni da Lequile, maestro intagliatorein legno e artefice d’intarsi

 

di Filippo Giacomo Cerfeda

Le primissime informazioni su Raffaele Monteanni possiamo recuperarle in un lungo articolo di Pietro Marti sugli architetti, pittori e scultori leccesi, pubblicato nel 1927 nella rivista “Il Salento”. L’autore, nel tracciare le qualifiche professionali del Monteanni, come “intagliatore in legno e artefice d’intarsi” ne esprime anche un giudizio: “modesto ma infaticabile”.

Per lo scrittore Marti egli è un frate, generando quell’errore che si riscontra anche in numerosi cronisti e studiosi del Salento nei decenni successivi. Merito di Marti però è quello di una prima segnalazione di alcune opere del maestro, realizzate tra il 1793 e il 1797. Ma riportiamo fedelmente la presentazione del Marti:

Modesto ma infaticabile frate. Intagliatore in legno e artefice d’intarsi, nato in Lequile nella seconda metà del secolo XVIII. Portano il suo nome: il Coro in noce della Chiesa di S. Domenico Maggiore in Taranto, il Coro della Parrocchiale di Copertino (1793), il Pulpito della Parrocchiale di Tricase (1795), il Coro della Parrocchiale di Uggiano (1797) [1].

Il coro di Spongano. Foto di Federica Urso

 

Diverso parere, in merito al giudizio, è quello registrato nelle “pagine sparse di storia cittadina di Lequile”, scritte nel 1933 da Amilcare Foscarini e pubblicate nel 1941. Il Foscarini, nel tracciare brevemente tutti gli uomini illustri della città, annovera anche Raffaele Monteanni, definendolo “Intagliatore di molto merito, nato nella seconda metà del sec. XVIII. Empì di suoi lavori tutta la provincia di Lecce. Intarsi, cori, pergami, ed altro, trovansi sparsi a Taranto, Copertino (1793), Scorrano (1790 e 1801), Tricase (1795), Uggiano La Chiesa (1796) ed altrove” [2]. Ma è soprattutto nella ristampa di questo prezioso contributo che emergono interessanti informazioni sul Nostro artista.

 

Il curatore della ristampa, Michele Paone, in una ricchissima nota, riprende e illustra brevemente i risultati della tesi di laurea sul Monteanni discussa da Enzo Rizzato, a cui si deve una diligente e laboriosa ricerca biografica sullo stesso Monteanni sostenuta da imponente documentazione archivistica [3].

Notevoli quindi sono i contributi aggiuntivi alla prima edizione del Foscarini, debitamente inseriti nelle note dal curatore Paone e corredati da una ricchissima bibliografia. Lequile può certamente vantare di aver dato i natali a numerosi personaggi, in tutti i campi, soprattutto in quello artistico. Per tale ragione nelle pagine relative a Lequile, pubblicate nel volume sull’edilizia domestica e architettura religiosa nell’area della Cupa, il curatore Antonio Costantini scrive:

La vicinanza al capoluogo, la presenza di due noti ed operosi architetti, come Salvatore Miccoli e Fra Nicolò da Lequile, di artisti, come lo scultore e pittore Francesco M. da Lequile e Oronzo Rossi, e dell’intagliatore Raffaele Monteianni, hanno fatto di Lequile uno dei principali centri del barocco salentino. [4].

Il De Dominicis, nella sua corposa monografia su Spongano, sostiene che

Raffaele Monteanni è figlio di Lucio, originario di Lequile, vicino Lecce, accasato a Spongano con Maddalena, figlia di Andrea Marzo. Realizza l’artistico coro in legno con la tecnica della tarsia nel 1795 [5].

Elementi sobri ed essenziali quelli riferiti al maestro intagliatore nel descrivere gli stalli in legno della parrocchiale di Spongano. Ed è proprio in questo luogo che Monteanni stabilisce la sua dimora, fino alla morte, dopo aver contratto un secondo matrimonio con Maddalena Marzo, proveniente da una ricca e cospicua famiglia del paese.

Ma ritorniamo alle diligenti ricerche di Enzo Rizzato, magistralmente sintetizzate da Paone e inserite nella nota di approfondimento del profilo di Monteanni. Dalla dissertazione di laurea si ricava che Raffaele Monteanni

nacque in Lequile il 20 ottobre 1754 dal bracciante agricolo Ciro Monteanni e da Caterina Sciombovuto e fu battezzato il giorno successivo, ricevendo, oltre il nome di Raffaele, gli altri di Giosuè, Lazzaro e Gaetano. A ventidue anni, il 10 agosto 1776, sposò in Martina Franca la trentenne Angela Aversa da Cisternino, vedova di Donato Olivieri, dalla quale ebbe quattro figli: Maria Caterina, nata il 14 agosto 1776, Beatrice Maria Chiara, nata il 12 agosto 1780 e morta in Spongano il 1833, Benedetta Giuseppa, nata il 27 luglio 1784 e Benedetto Giuseppe, nato il 24 marzo 1787. La moglie morì quarantacinquenne il 23 febbraio 1791 e fu seppellita nella suburbana chiesa di S. Stefano. Trasferitosi in Spongano, vi sposò il 4 ottobre 1792 Maddalena Marzo, dalla quale ebbe: Maria Giuseppa Domenica Leonarda, nata il 3 giugno 1794 e morta il 1820, Francesco Antonio Maria Giuseppe Cornelio Tiziano Giorgio Raffaele, nato il 16 settembre 1800 e morto il 1823, Michele Angelo Pietro Toma Pascale, nato il 6 marzo 1802, Caterina Vita Rosa Raffaela e morta il 16 febbraio 1815, Epifania, morta diciassettenne, Giorgio Maria Raffaele, nato il 22 aprile 1807, morto novizio, il 1828 e Maria Vittoria Vincenza, nata il 3 settembre 1811 e morta il 1829. La moglie morì cinquantottenne il 23 luglio 1827. Deputato del sale (1807), ternato (1808) per la carica di sindaco di Spongano, Surano ed Ortelle, Raffaele Monteanni è, il 1815, sindaco di Spongano, Surano ed Ortelle e, l’anno successivo, deputato annonario. Muore in Spongano nella sua casa in via S. Leonardo il 7 agosto 1835. [6].

La nota prosegue con un interessante aggiornamento delle opere del maestro ebanista, compreso quelle che andrebbero espunte dal suo catalogo per una scorretta o presunta attribuzione.

Negli anni 1788-1789 realizza egregiamente gli stalli in legno nel coro retrostante l’altare maggiore della chiesa parrocchiale di Spongano, secondo il progetto realizzato dallo stesso Monteanni e consegnato al clero locale.

Le vicende della realizzazione del coro ligneo di Spongano sono illustrate in un atto notarile inedito del 1788 che qui di seguito si espongono.

Altra angolazione del coro di Spongano. Foto Federica Urso

 

L’ALBARANA DEL 1788

Grande la nostra soddisfazione nell’aver individuato nei protocolli notarili di Giovanni Stasi di Diso del 1788 l’albarana di Spongano*, ossia la convenzione tra la civica amministrazione di Spongano ed il maestro Raffaele Monteanni per la realizzazione degli scanni in legno del coro della novella chiesa parrocchiale, solennemente benedetta nel 1770. Grande fermento c’era in quegli anni successivi alla riedificazione del nuovo edificio, sia per la realizzazione degli altari laterali sia per il loro abbellimento e decoro, attraverso i dipinti, le suppellettili e gli arredi sacri.

Ci è gradito consegnare ai lettori la sintesi di un lavoro di ricerca più ampio e articolato sulla chiesa parrocchiale, sull’albarana degli scanni e sul maestro artista Raffaele Monteanni.

Il rogito notarile è del 24 aprile 1788 ed è stato stipulato nella Terra di Spongano [7].

Davanti al notaio Giovanni Stasi di Diso si presentano Raffaele Monteanni, definito “magnifico” maestro, originario della Terra di Lequile, sposato e domiciliato nella città di Martina Franca, Girolamo Scarciglia e Giuseppe Maria Ruggeri, “deputati” ossia gli eletti dalla civica Amministrazione per gli abbellimenti e adornamenti che necessitano nella nuova chiesa parrocchiale insieme con Simone Lecci di Spongano, Regio Giudice ai Contratti, ed i sacerdoti di Spongano don Pietro Paiano, don Vito Spagnolo e don Casimiro Marzo.

Tra le parti si trattava e conveniva che il maestro Monteanni a sue spese e fatica dovesse costruire gli stalli in legno dentro il coro della chiesa parrocchiale, “secondo il disegno più moderno che apparisce nelle quattro figure, e proprio quello di basso del lato sinistro, formato detto disegno da esso magnifico Rafaele, e lasciato in possesso di detti Signori Deputati … di noce massiccio“.

Il costruttore aveva a disposizione due anni e mezzo di tempo utile, calcolato a partire dalla data dell’atto notarile. Per il lavoro il maestro Raffaele si rimetteva alla generosità e gentilezza dei signori “deputati” dal governo cittadino. Nell’albarana si stabiliva che il maestro falegname doveva mettere tutto il legname necessario per la costruzione degli stalli in legno. E tutto questo per il prezzo convenuto tra loro di 300 ducati, sia per il materiale, sia per la fatica, pagabili a rate.

Ma quali caratteristiche tecniche doveva avere l’intero complesso del coro? Si stabiliva, in particolare, che gli stalli dovevano essere realizzati in noce massiccio; le spalliere, i pilastri e ogni genuflessorio dovevano essere impellicciati, consistenti in noce, ulivo e lestinco romano; l’ossatura delle spalliere, i pilastri e il genuflessorio dovevano essere tutto di abete veneziano; il pavimento che sostenevano gli stalli e il sedile dovevano essere di larice, mentre il sedile del piano basso di legno di noce. In sostanza dovevano essere impiegate ben cinque qualità di legno.

La convenzione prevedeva anche la quantità e le forme di pagamento. A conclusione del rogito notarile dovevano essere sborsati immediatamente i primi venti ducati; altri ducati quaranta alla fine del mese di settembre 1788; altri ducati quaranta alla fine di gennaio 1789; altri ducati cinquanta dopo il primo fissaggio degli stalli nel coro; altri ducati cinquanta alla fine dell’opera. I restanti cento ducati, per il completamento dell’intera somma di 300 ducati, dovevano essere liquidati nel termine di un anno esatto dopo la definitiva collocazione degli stalli. Queste somme rateali dovevano essere consegnate brevi manu direttamente al maestro Monteanni se si trovava a Spongano, altrimenti nella città di Lecce nelle mani di una persona fidata.

I due “deputati” Scarciglia e Ruggeri promettono e si obbligano di somministrare al maestro Raffaele ed ai suoi aiutanti, per quel tempo che dimoreranno a Spongano per l’installazione degli scanni, l’uso di una abitazione privata, fornita di cucina, secondo il costume praticato in simili circostanze.

L’ultima parte dell’albarana è dedicata a tutte quelle situazioni avverse ed inaspettate che potevano verificarsi nel tempo concordato, tali da vanificare il progetto originario. Si pongono quindi delle condizioni affinché l’impegno civile e morale dei deputati, dell’amministrazione civica e della cittadinanza, e la spesa materiale non venissero a mancare nel caso di gravi situazioni di salute o di morte.

L’opera viene egregiamente portata a termine ed installata nel coro retrostante l’altare maggiore, secondo il progetto realizzato dallo stesso Monteanni e consegnato al clero di Spongano nel 1795, come attesta l’intarsio.

Purtroppo, quel disegno e progetto originario non esiste più nell’archivio parrocchiale, ma il ritrovamento dell’albarana del notaio Stasi sostituisce ed illumina le vicende di una lunga trattativa conclusasi felicemente con la consegna di una pregevole opera d’arte.

Il maestro intagliatore continuerà la sua attività con la produzione di altre meraviglie: il coro della chiesa di San Domenico Maggiore in Taranto (1787-1788); il coro della cappella dell’Immacolata in Martina Franca (1791); il coro della Collegiata di Copertino (1793); il pulpito della chiesa matrice di Tricase (1795); il coro della chiesa matrice di Uggiano la Chiesa (1796); il pulpito (1799) e il coro (1801) della chiesa degli Agostiniani in Scorrano ma avrà stabile e fissa dimora a Spongano dove risiederà fino alla morte.

Ai tempi di Monteanni l’Europa è percorsa da importanti novità quali le leggi eversive della feudalità promulgate dalla Francia rivoluzionaria e poi divulgate in tutti gli stati conquistati. Così anche in Italia e nel Salento.

Tra le riforme attuate da Giuseppe Bonaparte, una delle più significative è quella del 2 agosto 1806 che, abolendo gli ordinamenti feudali, poneva fine alla giurisdizione baronale sui comuni (le antiche Universitas) e ai diritti sulle persone.

Non ci furono i benefici sperati per le classi subalterne, sul frazionamento dei latifondi e sulla concessione delle terre con contratto di enfiteusi ai contadini e ai fittavoli; tuttavia questo nuovo ordinamento, favorì  nei Comuni la formazione di una nuova classe dirigente chiamata a svolgere funzioni di governo sulla base non più degli antichi titoli nobiliari, ma del censo; e così professionisti (come notai, medici, avvocati), commercianti artigiani e proprietari terrieri potranno ricoprire la carica di sindaci e decurioni nei Comuni, di consiglieri distrettuali e provinciali nei rispettivi organismi.

Il decurionato comunale era un organo amministrativo i cui membri venivano sorteggiati tra i cittadini benestanti che possedevano un reddito annuo non inferiore a 25 ducati nei Comuni fino a 3.000 abitanti, a 48 ducati nei Comuni maggiori; il presidente dell’assemblea, il sindaco e i suoi più stretti collaboratori (gli eletti e i deputati) venivano scelti dagli stessi decurioni, la cui nomina era vincolata al beneplacito dell’intendente provinciale, che aveva altresì il potere di revocarli dalla carica nel corso del mandato. I decurioni (o almeno un terzo di loro) dovevano saper leggere e scrivere.

La ristrutturazione amministrativa attuata dal re Giuseppe Bonaparte interessò anche le Universitas della ex contea di Castro. Con queste norme i conti di Castro che avevano per secoli tenuto sotto il loro dominio le comunità di Diso, Marittima, Vignacastrisi, Ortelle, Spongano e Castro, i baroni Spinola e i principi Caracciolo (feudatari di Andrano), i baroni Ventura, Maramonte e i marchesi Castriota (feudatari di Castiglione), lasciarono il posto ai rappresentanti della classe borghese nell’assunzione delle funzioni del governo locale e consentiranno a un artigiano di rango come Raffaele Monteanni di diventare Sindaco di Spongano.

Nonostante la prima deliberazione in assoluto, quella cioè relativa all’istituzione del Decurionato di Spongano, non sia giunta fino a noi, disponiamo, però, della conclusione decurionale successiva (la prima dal punto di vista archivistico), datata 11 dicembre 1808, sindaco Francesco Marzo, che riguarda la proposta della terna di amministratori per il 1809. Non bisogna dimenticare che per i primi anni del Decurionato i sindaci duravano in carica solo un anno, come nel vecchio regime.

Per Spongano vengono scelti, a maggioranza, lo stesso Marzo, Raffaele Monteanni e Pasquale Paiano; per Surano, ad unanimità, Domenico Cutrino, Saverio di Giuseppe Galati e Vito Galati; per Ortelle, sempre ad unanimità, Paolo Vito De Luca, Fedele De Luca e Vincenzo Abate.

Nel 1815 Raffaele Monteanni, che pure negli anni precedenti aveva svolto ruoli istituzionali, è Sindaco e ne troviamo traccia nell’atto notarile del 28 gennaio 1815, rogato dal notaio Francesco Fello di Poggiardo, riguardante l’assegnazione del patrimonio sacro al novizio di Spongano Giuseppe Rini da parte del padre Antonio Rini. Nel rogito vi è il certificato del Comune di Spongano con la firma del sindaco di Spongano Raffaele Monteanni [10].

Segue un altro atto dello stesso notaio Fello del 22 aprile 1815. Gennaro Rizzo, contadino di Spongano, abitante nella strada detta dello Putriso, vende e cede a Paolo Donato Rizzo di Spongano, abitante in strada del “puzzo d’avanti”, due fondi semenzabili siti nel Campo di San Vito a Ortelle. Anche in questo rogito leggiamo la firma del sindaco di Spongano Raffaele Monteanni, negli ultimi mesi del suo mandato amministrativo [11].

Nel mese di novembre Monteanni non è più Sindaco, infatti, tale carica è ricoperta dal De Micheli, come chiaramente appare in un allegato dell’atto notarile del 6 dicembre 1815 [12] e del 12 dicembre 1815 [13].

Il cospicuo patrimonio economico di Raffaele Monteanni, il radicamento nel tessuto sociale di Spongano e la sua intensa devozione verso la Vergine Immacolata, venerata soprattutto dai confratelli della locale Congregazione, lo porteranno ad offrire alla chiesa confraternale “un apparato fatto nuovo”. Certamente il riferimento è di un apparato d’altare ma la telegrafica segnalazione del redattore dell’inventario non consente di fissare con precisione la natura di questo “apparato” [14]. Un apparato nuovo, donato alla Confraternita dal “Maestro Rafaele Monteanni”. Vogliamo pensare che lo stesso falegname, nel ruolo di confratello dell’Immacolata, abbia realizzato anche i telai dei dipinti del presbiterio e delle pareti laterali, ma senza una documentazione certa tutto ciò resta una mera supposizione.

Raffaele Monteanni muore a Spongano nella sua casa in via San Leonardo il 7 agosto 1835 all’età di ottanta anni. Nell’atto di morte, redatto l’otto agosto 1835, Raffaele Monteanni viene registrato come “falegname intagliatore” ed anche il figlio Michele, che davanti al sindaco Luigi Paiano ne dichiara la morte, viene registrato “di professione falegname” [15].

La famiglia è ormai ben radicata a Spongano e qui vivono ed operano i figli dell’artista.

Benedetto Giuseppe Monteanni è il quarto figlio di Raffaele, avuto dal primo matrimonio con Angela Aversa. Gli viene attribuito lo stesso nome della sorella nata tre anni prima, Benedetta Giuseppa, morta quasi certamente in tenera età. Nel corso della sua vita Benedetto Monteanni eserciterà il mestiere del padre, conquistando lo stesso prestigio paterno sia nel campo sociale che in quello economico. Ciò risulta evidente in numerosi atti notarili, rogati nel primo ventennio dell’Ottocento, nei quali Benedetto compare come testimone e proprietario di beni fondi nel territorio di Spongano [16].

Diversa affermazione sociale viene raggiunta da Giuseppe Monteanni, figlio di Benedetto e nipote di Raffaele, che nella seconda metà dell’Ottocento ricopre un ruolo di prestigio sociale come “capo musico” della locale banda musicale di Spongano [17]. Le recenti operazioni di riordino e di inventariazione dell’archivio confraternale “Maria SS. Immacolata” di Spongano, hanno messo bene in evidenza numerosi mandati di pagamento a favore di Giuseppe Monteanni, coinvolto con la sua banda nelle maggiori festività promosse dalla locale Congregazione e soprattutto nelle processioni religiose durante i riti della Settimana Santa. Nel Mandato di pagamento dell’otto dicembre 1861 si fa esplicito riferimento al capo musica della banda musicale di Spongano, impegnata nelle festività civili e religiose dell’Immacolata Concezione [18]. Nel Mandato di pagamento del 26 marzo 1869 troviamo Giuseppe Monteanni che riceve dalla Confraternita ducati 7 per essere capo della compagnia musicale di Spongano, impegnata nella processione del Venerdì Santo [19]. Nel Mandato di pagamento datato 2 maggio 1870 si dispone la somma di lire 31 e centesimi 66 (pari a ducati 7 e grana 45) al signor Giuseppe Monteanni, capo musico di Spongano, per la processione del Venerdì Santo [20].

 

particolare, foto Andrea Pedone

 

 

particolare con la dedca, foto Andrea Pedone

 

 

particolare della dedica e della firma, foto Andrea Pedone

 

* Nel Grande Dizionario della lingua italiana del Battaglia il termine “albarana” deriva dall’antico sostantivo femminile “albarà” col significato di polizza, quietanza, ricevuta di pagamento (che attestava la tassa pagata per la merce importata, ed esentava il mercante da ulteriori obblighi doganali). Nello spagnolo antico il termine è attestato già nel 1039 nelle diverse forme di albarà, albaran e albalà, col significato di “cedola regia”. Nella lingua araba il termine al-barà’a aveva il significato di “ricevuta di pagamento” e perciò “esenzione”. Dal latino medievale albaranus si è avuto il volgarizzamento siciliano albarà e poi alberanu con il significato di “scrittura privata”. Entrato nel linguaggio giuridico e notarile il termine è stato utilizzato nel significato di “convenzione”, “accordo tra due parti” e nei rogiti notarili appare indifferentemente nelle due forme: maschile (albarano) e femminile (albarana).

 

NOTE

  1. MARTI PIETRO, Elenco di Architetti, Pittori e Scultori fioriti in Provincia di Lecce fino a tutto il secolo XIX e novero delle loro opere principali, in IL SALENTO, Almanacco 1927, compilato da Gregorio Carruggio, Lecce, Stabilimento tipografico Giurdignano, 1926, p. 47.
  2. FOSCARINI AMILCARE, Lequile. Pagine sparse di storia cittadina, a cura di Michele Paone, Galatina, Congedo editore, 1976, p. 84.
  3. FOSCARINI, op. cit., pp. 84-85.
  4. COSTANTINI ANTONIO (a cura di), Edilizia domestica e architettura religiosa nell’area della Cupa, Regione Puglia assessorato Pubblica Istruzione C.R.S.E.C. LE/39 San Cesario di Lecce, editrice Salentina, Galatina, 1999, p. 52.
  5. DE DOMINICIS FERNANDO, Spongano da villa a Comune. Storia e documenti, Capone Editore, Lecce 2003, vol. I, pp. 395-396.
  6. FOSCARINI, op. cit., pp. 84-85.
  7. ARCHIVIO DI STATO DI LECCE (d’ora in poi ASL), fondo Protocolli notarili, Protocolli di Giovanni Stasi di Diso, 35/4, anno 1788, atto notarile del 24 aprile 1788, foll. 83r-85v (in lapis), 70r-72v (cartulazione coeva).
  8. ARCHIVIO DIOCESANO DI OTRANTO (d’ora in poi ADO), fondo Curia arcivescovile, sez. I, serie Sacre Ordinazioni, sottoserie Spongano, anno 1808, fascicolo personale di Michele Marzo, Fede di verità del luogotenente di Spongano Giuseppe Alemanno.
  9. ADO, fondo Curia arcivescovile, sez. I, serie Sacre Ordinazioni, sottoserie Spongano, anno 1808, fascicolo personale di Raffaele Corvaglia, Fede di verità del luogotenente di Spongano Giuseppe Alemanno.
  10. ASL, fondo Protocolli notarili, Protocolli di Francesco Fello, 76/5, anno 1815, atto notarile del 28 gennaio 1815, foll. 16r-21r.
  11. ASL, fondo Protocolli notarili, Protocolli di Francesco Fello, 76/5, anno 1815, atto notarile del 22 aprile 1815, foll. 65r-67r. Al folio 67r vi è la firma del sindaco di Spongano Raffaele Monteanni.
  12. ASL, fondo Protocolli notarili, Protocolli di Francesco Fello, 76/5, anno 1815, atto notarile del 6 dicembre 1815, foll. 130r-132r. Al folio 132r vi è la firma autografa del sindaco De Micheli.
  13. ASL, fondo Protocolli notarili, Protocolli di Francesco Fello, 76/5, anno 1815, atto notarile del 6 dicembre 1815, foll. 130r-132r.
  14. ARCHIVIO CONFRATERNITA IMMACOLATA DI SPONGANO (d’ora in poi ACS), serie Corrispondenza e carteggio, unità archivistica n.3, “Inventario de’ Sacri Arredi, ed utensili della Congrecazione di Spongano”, doc. non datato ma post 1830-ante 1863. Questo inventario è stato integralmente pubblicato da CERFEDA FILIPPO GIACOMO, Loquar ad cor eius. La chiesa confraternale dell’Immacolata di Spongano e l’omonima Confraternita, Edizioni Giorgiani, Castiglione d’O. 2014, pp. 234-235.
  15. ARCHIVIO COMUNALE DI SPONGANO, Registro degli atti di morte del 1835, foglio n. 6, atto di morte n. 11 dell’otto agosto 1835 di Raffaele Monteanni. Ringrazio Gino Tarantino e Virgilio Corvaglia per la piena disponibilità nel recuperare l’atto di morte di Raffaele Monteanni presso l’archivio comunale di Spongano. Il documento, finora inedito, viene quindi a pieno titolo recuperato e inserito nel presente saggio.
  16. Nell’atto notarile del 24 dicembre 1811, redatto a Spongano dal notaio Francesco Fello di Poggiardo, foll. 61r-72r, troviamo i contraenti: Giuseppe Nicola Scarciglia e Maddalena Scarciglia; i due testimoni: Benedetto Monteanni, figlio di Raffaele Montejanni e Simone Lecci. Si segnala ancora l’atto notarile del 26 settembre 1816, rogato dal notaio Francesco Fello di Poggiardo, foll. 85r-89r. In questo atto di acquisto tra i testimoni vi è anche Benedetto Montejanni, falegname, figlio di Raffaele.
  17. GIUSEPPE CORVAGLIA, Zinnananà. Storie di bande e musicanti, Edizioni Youcanprint, Lecce, 2020, pp. 18 e 205.
  18. ACS, serie Mandati di pagamento, anno 1861, Mandato di pagamento 8 dicembre 1861.
  19. ACS, serie Mandati di pagamento, anno 1869, Mandato di pagamento 26 marzo 1869.
  20. ACS, serie Mandati di pagamento, anno 1870, Mandato di pagamento 2 maggio 1870.

 

 

Iscrizioni latine a Spongano. Quando le epigrafi raccontano la storia.

INTERVISTA di Donato Nuzzaci a Giuseppe Corvaglia, Filippo G. Cerfeda, Giorgio Tarantino, autori del libro: ISCRIZIONI LATINE A SPONGANO

 

di Donato Nuzzaci

 

Come è nato il progetto di raccogliere le iscrizioni latine a Spongano?

Giuseppe C.: l’idea è nata tantissimi anni fa e si era arenata. Negli ultimi tempi l’Associazione Panara Antica ha pensato di riprendere un’iniziativa del passato e ridare vita a una Collana, “Nuove note di storia locale”, che riprende una vecchia iniziativa dell’Amministrazione comunale. Questo libro sulle iscrizioni latine ci è sembrato il viatico migliore per partire.

In questa prospettiva ci siamo ritrovati e abbiamo lavorato alacremente senza farci spaventare dai problemi di ognuno e dalle distanze: io a Loano, Filippo a Padova e Gino a Spongano, un triangolo dal perimetro di centinaia di chilometri.

È chiaro che la tecnologia ci ha aiutato molto: trent’anni fa questi supporti ce li saremmo sognati. D’altra parte, questa intervista stessa la stiamo realizzando con un incontro a distanza…

 

Quante iscrizioni avete raccolto?

Gino T.: Sono più di 70 iscrizioni raccolte in 58 schede corredate da 160 foto.  Ogni scheda riporta il testo, la data, la traduzione, la collocazione e ne racconta la storia e il significato o anche dettagli e particolarità raccolte attraverso i documenti e le testimonianze orali dirette.

Epigrafe Torre dell’orologio già Sedile

 

Che senso ha oggi scrivere un libro sulle epigrafi latine?

Giuseppe C.: Meglio di quanto potremmo dire noi ha scritto Salvatore Rizzello nella prefazione dicendo: “…proporre un libro sulle iscrizioni latine non è un’operazione anacronistica, ma una “missione” che ha un triplice merito: far emergere il percorso carsico della storia e la continuità della conoscenza comune nei mutamenti generazionali, mettere in luce il sottile legame con altre comunità, anche molto lontane, di profonde radici identitarie, farci riconoscere per ciò che realmente siamo, viandanti nel tempo su sentieri tracciati e già percorsi.”

 

Di solito, dove venivano collocate le iscrizioni?

Gino T.: Ne abbiamo trovate in diversi posti scolpite, segnate sulle facciate e all’interno di case, chiese e luoghi sacri, in edifici privati e pubblici, su muri o su dipinti, una addirittura su una scultura d’arte moderna.

 

E i proprietari hanno collaborato al progetto di raccolta delle iscrizioni?

Gino T.: Abbiamo sempre trovato disponibilità da parte di tutti che non hanno esitato a fornirci informazioni, dati e notizie, ma abbiamo riscontrato anche la disponibilità di amici che si sono messi a disposizione. Per esempio, un amico ci aveva detto che c’era una epigrafe su Palazzo Stasi (Arcana tua et aliena tace) e io sono andato a cercarla, anche con una certa insistenza e quasi irritando il proprietario. Poi un giorno un altro amico va in farmacia, alza gli occhi e vede l’epigrafe che stava nel palazzo di fianco al palazzo Stasi dove la stavamo cercando.

Come puoi vedere senza la collaborazione di tutti questo libro non avremmo potuto realizzarlo.

 

Qual è stata l’iscrizione che più vi ha colpito tra tutte?

Giuseppe C.: Potrei dire “Arcana tua et aliena tace”, posta sulla facciata di un palazzo in via Diso, perché è un modo elegante per suggerire di farsi gli affari propri e penso che potrei parlare a nome di tutti e tre gli autori, ma a parte questa mi ha colpito molto l’epigrafe posta sul lato ovest della torre dell’orologio di Spongano che è una dedica mariana ed è ricomparsa dopo i restauri di qualche anno fa e già oggi si sta perdendo di nuovo per gli agenti atmosferici. Ci fa capire che il recupero delle testimonianze non è una cosa rinviabile perché può andare perduto facilmente. La stessa cosa possiamo osservare per alcune formelle del timpano del Calvario.

Arcana tua et aliena tace

 

Filippo, qual è stata l’iscrizione che ti ha interessato particolarmente?

Filippo G. C.: Molte iscrizioni hanno suscitato interesse e curiosità, ma in particolare una iscrizione mi ha coinvolto particolarmente: quella collocata sul palazzo della famiglia Marzo, oggi palazzo Polimeno.

Nella iscrizione l’aggettivo MARTIUM è un attributo di EMBLEMA che è neutro.

Con la sua traduzione vediamo la volontà di opposizione tra 2 stemmi gentilizi diversi: l’Ancora (simbolo di attività legata al mare o cognome di un’altra famiglia) e la Palma simbolo della vittoria (specie in battaglia perché Marte è il dio della guerra). Quindi la Palma è simbolo/ornamento di Marte, marziale e, per associazione di idee, dei Marzo, visto che vuole essere l’arme della famiglia Marzo.

 

Forse una competizione con un’altra famiglia di Spongano?

Epigrafe di Palazzo Marzo ora Polimeno

 

Gino, qual è stata l’iscrizione che ti è rimasta più impressa?

Gino T.: Dobbiamo dire che le epigrafi raccolte ci sono piaciute tutte e tutte hanno suscitato un vivo interesse in noi. Ogni epigrafe è stata una scoperta sia per informazioni che ritrovavamo, sia per il ritorno a maneggiare il latino che nel caso mio e di Giuseppe non si basava su una frequentazione consueta.

A me poi è piaciuta molto quella di Casina Stasi, “Pusilla domus…” perché esprime manifestamente il senso di ospitalità, di giorno e di notte, verso persone a cui si tiene molto ed evoca uno dei valori più belli che ci siano: l’amicizia. La casa, per quanto piccola è a disposizione degli amici, con generosità e affetto. Un motto che mi sentirei di fare mio.

Epigrafe Casina Stasi

 

Filippo, perché venivano realizzate queste epigrafi-iscrizioni?

Filippo G.C.: Un’epigrafe è un manifesto: dichiara una scelta di vita, una filosofia. Può essere anche ostentazione di ricchezza; a volte appare quasi come un comizio contro avversari veri o presunti; oppure è una preghiera, o una maledizione: è tante cose.

Nel momento in cui si edificava la casa o il palazzo, la massima che il proprietario voleva scolpita sull’architrave equivaleva ad un blasone di nobiltà intellettuale e morale, un blasone che diventava uno stimolo categorico a bene operare per sé e per i propri discendenti, per i vicini, per i parenti, per coloro che di là passavano e la leggevano, per la propria e le future generazioni. Essa aveva un valore assoluto in quanto nasceva da una profonda convinzione e da lunga esperienza di vita vissuta.

Le società del passato amavano ostentare il sapere, e non solo, ma anche il “fare”. Tutte le opere di misericordia materiale, le pie istituzioni, a vantaggio dei poveri, orfani, vedove e maritande: tutto ciò veniva “inciso su pietra”, come a perpetuare nei secoli la presenza e l’esistenza di quelle generazioni.

 

Gino, chi erano – di solito – i committenti?

Gino T.: Sicuramente nobili, borghesi e benestanti, ma anche la popolazione, attraverso il Comune e la Chiesa, per fissare nel tempo un evento importante per la comunità.

Quindi le iscrizioni spesso esaltavano nobili o possidenti, giammai singoli cittadini, vero? Oppure vescovi o uomini di chiesa, o ancora riportavano passi di testi religiosi particolarmente significativi?

Gino T.: Non sempre erano celebrative di nobili. Ricordo una iscrizione in lingua italiana su un vaso scolpito del cimitero che celebrava una bimba, figlia di un artigiano, morta prematuramente che esprimeva il dolore dei genitori. (“A GRAZIA RIZZELLO I GENITORI” “a soli tre anni ti perdemmo, chi ne consolerà”)

Inoltre, ne abbiamo trovata una che diceva MOLIRE UT MOLAM che poteva essere addirittura uno slogan pubblicitario di un frantoio o di un mulino.

Epigrafe chiesa madre

 

Filippo, qual è la differenza tra epigrafi e araldica? Entrambi possono o potevano andare spesso a braccetto?

Filippo G. C.: L’epigrafe è una iscrizione scolpita su pietra o vergata a mano mentre l’araldica è una disciplina, una materia specifica che studia gli stemmi e i blasoni nobiliari o vescovili. Quasi sempre negli edifici pubblici o residenze nobiliari le epigrafi erano sempre accompagnate con il blasone di famiglia, con lo stemma gentilizio o nobiliare che ostentava ricchezza e affermazione sociale. Soprattutto sugli altari o sui dipinti la presenza dello stemma di famiglia era indicativa della committenza della stessa opera d’arte.

 

Quali erano le funzioni delle iscrizioni?

Gino T.: Potevano avere una funzione informativa, didascalica, ma anche morale, dove l’epigrafe diventava un monito per il lettore.

Tuttavia, non mancava fra gli scopi anche quello di un tributo alla memoria di personaggi particolarmente importanti ed amati dalla collettività.

 

Quale tipo di pietra veniva usata?

Giuseppe C.: La pietra poteva essere la più diversa anche se la maggior parte veniva vergata su pietra locale, ma epigrafi si trovano su marmo e anche su tela o targhe di metallo o scritte su stucco o su intonaco.

 

La lingua latina era capita dal popolo oppure erano messaggi per le persone colte e pochi eletti?

Giuseppe C.: Il popolo non comprendeva la lingua latina, anche nelle preghiere spesso le ripeteva senza comprenderne il senso e addirittura nel ripeterle le corrompeva con elementi di dialetto o di volgare.

Il messaggio delle epigrafi era un messaggio solenne e autorevole e doveva servirsi della lingua istituzionale perché doveva essere tramandato a futura memoria.

 

Si può affermare che le iscrizioni erano i manifesti, i giornali o i “social network” del passato? E viceversa gli attuali social possono avere la funzione delle iscrizioni del passato?

Giuseppe C.: Il messaggio dei social network vuole dare visibilità a chi lo scrive, ma non dà l’eternità per via del fatto che i messaggi arrivano dappertutto, magari hanno una risonanza maggiore, ma sono effimeri, mentre l’epigrafe era destinata a perpetuarsi ben oltre la vita di chi l’aveva scritta. Pensa all’epigrafe per antonomasia, la scritta che Dante trova sulla porta dell’inferno “…io etterna duro…” ecco quello era lo scopo dell’epigrafe, i post dei social va ancora bene se durano qualche giorno.

 

Come mai oggi si realizzano sempre meno iscrizioni durature?

Giuseppe C.: Non direi. Pensiamo ai murales o alle iscrizioni dei writers che usano l’italiano, l’inglese, talvolta un loro lessico particolare e criptico… anche la strofa di una canzone o il verso di una poesia può diventare una epigrafe nell’ambito di un murales. Anche loro hanno una loro ragione e una loro efficacia comunicativa e anche quelle possono durare per sempre o per lungo tempo.

Si potrebbe fare un paragone tra le iscrizioni del passato e i tatuaggi sulla pelle?

Anche i tatuaggi sono un messaggio forte e inequivocabile, a volte esplicito ed a volte criptico, che riguarda la persona che lo porta e fa parte della sua identità, ma non è destinato a durare nel tempo, ma dura soltanto per la durata della vita di chi lo porta.

 

Come mai sono piuttosto rare le iscrizioni in lingua italiana? Ne esistono in lingua dialettale?

Giuseppe C.: Io credo che epigrafi in italiano ce ne siano tantissime. Pensa ai monumenti, alle lapidi dei cimiteri, alle lapidi commemorative… Abbiamo poi esempi di epigrafi in volgare anche molto antichi come quella di Minervino del 1473 (COMO LU LIONE ET[E] LO RE DELLA NIMALI CUSI MENERBINO ET[E]LO RE DE LI CASALI A.D. MCCCCLXXIII regnante Rege Ferdinamdos) e il distico di Corigliano d’Otranto del primo ventennio del ‘500 (HUMILE /SO/ ELLHUMELTA / MABBASTA/ DRACON/ DEVE(N)TARO/ SALCHU(N)/ ME/ TASTA), sono certamente le prime due testimonianze epigrafiche volgari più antiche del Salento.

Il dialetto non è usuale, ma anche quello viene usato, io stesso, per l’epigrafe della tomba di mio padre ho usato il dialetto sponganese.

 

Filippo, qual è la funzione delle iscrizioni nelle chiese e nei luoghi sacri come, ad esempio, nel Calvario di Spongano?

Filippo G. C.: Le iscrizioni nelle chiese o all’interno delle cappelle, pubbliche o private, quasi sempre mettevano in evidenza i diritti di patronato laicale (Jus patronatus laicorum) delle famiglie più influenti e cospicue, oppure le committenze. Le chiese parrocchiali e confraternali erano costruite publico sumptu (con denaro dei cittadini) e con la loro fatica e sacrificio: tutto ciò veniva “inciso su pietra”, perché Scripta manent, come a perpetuare nei secoli la presenza e l’esistenza di quelle generazioni.

La simbolicità del Calvario di Spongano (a forma di tempio circolare) ci dice che il cielo e la terra sono collegati con questo Calvario, dove Dio si è abbassato fino alla morte per risollevare l’uomo fino al cielo. Inoltre, nel Calvario, ci sono altri due elementi che fanno di questo monumento un’autentica mistagogia ecclesiale, che introduce chi vi legge, nella comprensione più profonda del mistero stesso di Cristo; questi due elementi sono le epigrafi e le icone.

Nella tradizione della Chiesa cattolica i gesti dei sacramenti si esprimono “per ritus et preces”. Per “ritus”, ossia gesti simbolici, possiamo intendere le icone, mentre per “preces” possiamo qualificare le epigrafi.

Cupola interna del Calvario

 

Come continua oggi e come continuerà la tradizione delle iscrizioni in questa epoca di “social” dove sempre meno si lasciano segni scritti tradizionali e sempre più emergono rappresentazioni nella realtà internettiana, virtuale?

Giuseppe C.: La rete sarà la principale destinataria dei messaggi, ma credo che l’epigrafi non smetteranno mai di esistere, certo, non in latino, con modalità diverse, ma resisteranno perché chi passa da un luogo ricordi una persona, un evento, una lezione.

 

Cosa ha lasciato a voi tre questa esperienza?

Gino T.: Abbiamo imparato che è possibile lavorare in équipe anche in questo ambito. Lavorando insieme con pazienza e tenacia, mettendo in comune le proprie competenze e le risorse, rinunciando alle gelosie e agli interessi personali, un’idea è diventata un progetto fatto e finito che ha raggiunto uno scopo nobile, quello di offrire la conoscenza agli altri.

Abbiamo imparato che la lontananza fisica viene azzerata dalla tecnologia e la vicinanza dello spirito conta davvero, che chiedendo per scopi buoni, le porte si aprono e gli amici ci sono. Infine, abbiamo scoperto che lavorando si cresce e si può raggiungere una sana soddisfazione.

 

Avrete occasione di incontrare il pubblico? Quando?

Gino T.: Domenica 14 agosto 2022 nella bella cornice di Parco Rini a Spongano io e Giuseppe dialogheremo con Salvatore Rizzello dell’Università del Salento, e Dario Vincenti presidente della Società di Storia Patria Sezione Sud Salento “N.G. De Donno”. Filippo, che sarà assente, manderà un messaggio per i lettori.

 

Quale potrebbe essere l’iscrizione latina adatta per questo vostro libro?

Giuseppe C.: DONEC FERETRUM SEMPER DISCIMUS… AC FORTASSE ETIAM POSTEA , fino alla bara sempre si impara… e forse anche dopo.

 

Intervista a cura di Donato Nuzzaci

Agosto 2022

 

Zinnananà, un libro sulle bande

Intervista a Giuseppe Corvaglia

di Donato Nuzzaci

 

Siamo qui con Giuseppe Corvaglia, medico e scrittore, per parlare del suo nuovo libro Zinnananà- Storie di bande e musicanti, edito da Youcanprint.  

 

Da dove origina l’esigenza di scrivere un libro sulla banda?

Da ragazzo ho imparato a suonare il flauto traverso in un corso ad orientamento bandistico (dell’ANBIMA) e grazie a Giuseppe ed Oronzo De Giorgi ho fatto una esperienza sul campo che mi ha fatto conoscere un mondo speciale: quello delle bande.

Era un mondo che mi attirava da bambino come una calamita e che, ancora oggi, da adulto, considero come una bellacosa della vita per le gioie che evoca.

Molte volte ho provato a parlarne con racconti, articoli e altri scritti e più volte gli amici mi hanno sollecitato a parlarne, finché ho pensato che un modo nuovo di raccontare la banda era quello di raccontarla dal di dentro, di raccontare la vita quotidiana dei musicanti, le cose belle che si vedono viaggiando di paese in paese e ho capito che per farlo potevo descrivere la mia piccola esperienza che, però, rispecchia l’esperienza della gran parte dei musicanti.

 

Perché hai aperto il libro con la Banda di Galatina, un canto popolare salentino?

La Banda di Galatina, intendo la canzone, è un piccolo rifugio del cuore della mia cerchia di amici. È una canzone popolare che è diventata l’inno della nostra combriccola, ma anch’essa racconta la storia di una banda strampalata che suona sempre la stessa musica…

 

Zinnananà …

Si, Zinnananà, come il titolo del libro. È una storia buffa, ma è anch’essa evocativa. Vedi, nel libro racconto la mia storia di bandista e propongo tante storie di musicanti con i racconti, ma narro storie di banda  anche con le interviste, fatte a Maestri e Capobanda,  con gli articoli, le note esplicative…

 

Che anno era quando hai cominciato?

Era il 1975, avevo 13 o 14 anni. Come ho detto, è stata un’esperienza significativa e formativa. Per qualcuno era disdicevole, come un vagabondaggio da zingari, ma per noi che giravamo l’Italia, che dormivamo in branda, come se fosse un campeggio, che avevamo delle responsabilità e guadagnavamo qualche soldo, era gratificante, ci faceva sentire adulti.

 

Pensi che la Banda stia esaurendo la sua funzione di diffusione della musica colta?

Questa domanda l’ho fatta anche ai Maestri che ho intervistato. La banda fa musica dal vivo e di buon livello, che propone con un insieme di trenta o quaranta persone e ci offre un repertorio complesso e variegato che va dalla musica operistica adattata, alla musica sinfonica, alla musica moderna, fino alla musica pop, con un’intensità paragonabile, con i dovuti distinguo, a quella di un’orchestra.

Oggi occasioni di musica dal vivo sono tante: piccoli ensemble, complessini… Anche il bar di un paesino può proporre musica dal vivo, ma siamo sicuri che quella musica sia paragonabile alla musica proposta dalle bande? Secondo me no. Le bande propongono opere, sinfonie, marce sinfoniche che prendono l’anima e fanno vibrare il corpo senza potenti amplificatori.

Il problema è capire cosa è realmente la banda. In Italia ci sono bande amatoriali, soprattutto al centro-nord, ma anche al sud, e poi ci sono le bande da giro del Meridione che sono delle vere e proprie imprese che cominciano il loro tour a Pasqua e lo finiscono a ottobre.

Alcuni dei Maestri che ho intervistato ne hanno parlato nel libro, spiegandone il meccanismo. Credo, però, che le funzioni di base delle bande siano due: la possibilità di fare musica d’insieme di alto livello e il diffondere musica importante, colta, come dici tu, anche in posti lontani dai teatri e dagli auditorium, e portarla ad animi sensibili che in teatro, magari, non ci sono mai stati.

 

Che differenza c’è con l’orchestra?

Le orchestre hanno personale più qualificato e si esibiscono nei teatri e negli auditorium. La banda, come la conosciamo, nasce grazie all’opera del Maestro Vessella che la costituisce con strumenti a fiato, sostituendo le parti dei violini con i clarinetti, di viole e violoncelli con sassofoni e adatta le parti di canto con ottoni: flicornino, flicorno soprano, tenore e baritono. In questo modo Vessella adatta musica classica, operistica, sinfonica a questi complessi. Tuttavia se senti alcune bande, come era Ailano, diretta dal Maestro Samale, o Conversano del Maestro Schirinzi o della Maestra Pescetti, ma molte e molte altre bande senza distinzioni, propongono pezzi complessi di Dvorak, Brahms, Puccini Verdi con ottimi risultati.

Certo se la banda viene considerata  un sottofondo per gente che chiacchiera ai tavolini è inutile. Più funzionale è uno stereo con altoparlanti o un piano bar, ma se la gente viene educata ad apprezzare il valore della musica proposta, allora la banda diventa essenziale.

Quando dico apprezzare intendo proprio attribuirle il valore che merita.

Immagina un Palazzo del ‘500; se lo consideri una cosa antica, preziosa, lo restauri e lo valorizzi, ma se lo consideri vecchiume, lo abbatti e lo sostituisci con una casa moderna.

Lo stesso vale per la banda, ma è da considerare obsoleto un complesso di fiati che esegue musica dal vivo in maniera eccellente? Per me no.

 

Pensi che sia necessario rilanciarla coinvolgendo anche i giovani e in quale modo?

Molti dei musicanti sono giovani: ci sono giovani che conoscono Brahms, Verdi, Beethoven, Mozart, Puccini, Berio… Non sono marziani. I giovani apprezzano la buona musica. La musica di qualità è meravigliosa, ma devi avere gli strumenti per assaporarla, per coglierne il significato reale e solo così la puoi apprezzare davvero. Ecco che ritorniamo al punto precedente: occorre una educazione del pubblico.

Vedi, assaporare la musica colta, la poesia, il teatro, un’opera d’arte, è importante per tutti. Non ti dà un vantaggio diretto per il tuo lavoro qualunque sia, ma ti migliora come essere umano, rende più gradevole e più degna la tua vita e se sei migliore come uomo o donna sarai migliore anche come medico, operaio o contadino.

Un giovane, che ha la possibilità di ascoltare nella piazza del suo paese Puccini, Dvorak, Bizet, dovrebbe considerarla un’opportunità.

Certo potresti dirmi c’è youtube, spotify e altre diavolerie, ma la musica dal vivo è qualcosa di diverso, evoca altre sensazioni.

Ripeto, un conto è ascoltare musica dal vivo e un conto è ascoltarla dal cellulare. Certo non è che si possa ascoltare tutti i giorni, però l’occasione della festa diventa un’occasione preziosa.

Mi piace ricordare i Maestri che hai intervistato: Samale, Guida, Gazzano, i fratelli de Giorgi, Paiano e Managò…

L’intervista ai Maestri l’abbiamo pensata con Salvatore Rizzello, perché non mi sembrava completo il libro solo con le storie raccontate e gli articoli. Abbiamo scelto alcuni Maestri di rango come Nicola Samale, direttore d’orchestra e compositore che ha completato con il terzo movimento la sinfonia incompiuta di Schubert; Giuseppe Guida, nostro compaesano, anche lui compositore, direttore d’orchestra e docente al Conservatorio, Paolo Gazzano che dirige la banda di Pietra Ligure e altre formazioni, i fratelli De Giorgi, figli di Oronzo, che poi hanno proseguito l’attività del padre come direttori o manager, il Capobanda Romeo Paiano, che ha fatto la banda ad alti livelli per 50 anni, e il Maestro Managò che insegna al Conservatorio di Vibo Valenzia e ha una instancabile attività di direzione e formazione di bande.

 

Dal tuo libro sembra che ai vostri tempi, con Giuseppe De Giorgi, la possibilità di una banda a Spongano potesse diventare realtà…

L’opera di De Giorgi fu meritoria e molto significativa: ci fece fare una bella esperienza che d’estate ci consentiva di suonare in una banda grande, qualcuno anche in Bande importanti con Maestri importanti, e d’inverno di guadagnare qualche soldo con gli spezzoni, ma non c’erano risorse per fare una banda vera e propria. In questo conta la sensibilità della cittadinanza e la volontà dell’Amministrazione comunale. Se chi amministra vede la banda come progetto si può fare, ma se non si ha progettualità non si può realizzare. Questo, però, non è necessariamente un difetto: ci può essere progettualità per una banda oppure progettualità per altro, come una squadra di calcio o di pallavolo, o per il teatro…

Ma pensi che ci siano i margini per promuovere una banda a Spongano a cui possano partecipare giovani e “giovani dentro”? Se sì, come e chi potrebbe organizzala e quali maestri potresti vedere oggi a guidarla?

Una scuola di musica popolare potrebbe essere la base di una costruzione, ma non mi sembra ci siano i presupposti per fare una banda, anche se i giovani, che potrebbero aderire, ci sono e credo che anche adulti, uomini e donne, con la passione potrebbero mettersi in gioco seriamente, ma perché si realizzi è necessario che ci sia una mente che ci creda e che abbia un progetto, può essere un Maestro che insegna ai ragazzi, ma anche un cultore che, magari non sa leggere la musica o suonare uno strumento, ma ha passione e capacità organizzative. Ci vogliono risorse, ma ci vuole soprattutto tanta passione e tanta pazienza.

 

Una banda a Spongano dovrebbe essere una banda “pura” o dovrebbe indulgere alla “contaminazione”, come adesso va di moda?

Il discorso della contaminazione, dipende dal Maestro. Il Maestro è l’anima della banda: è lui che sceglie il repertorio e che guida la banda. Se i musicanti lo seguono in queste scelte e lo fanno con entusiasmo sarà un successo, se non sono appassionati il repertorio non funzionerà.

Io l’ho visto anche con la banda di Pietra Ligure: Paolo Gazzano propone brani classici anche complessi, ma propone anche brani di cantautori come De Andrè e Gino Paoli o anche brani di compositori contemporanei, strizzando l’occhio anche al gusto del pubblico. La versatilità può essere utile. Persino se si decide di suonare la pizzica, la banda lo può fare; ci sono brani di musica popolare proposti con la banda, lo ha fatto Luigi Mengoli, anche bene. Dipende però dal Maestro che, come ho detto, è l’anima della Banda.

Quale pensi che possa essere il ruolo della scuola, a partire dalla scuola primaria, nell’avvicinare i giovani alla fruizione della musica? Penso alla musica classica, alla musica di banda, ma anche alla musica in generale .

L’educazione musicale non è solo una materia in astratto è qualcosa che arricchisce l’animo a prescindere dal mestiere che si è scelto di fare. La musica, come ho detto, fa star bene tutti gli uomini senza distinzione di censo, di ruolo, di capacità. Oggi le scuole fanno educazione alla musica in maniera concreta e c’è una sensibilità maggiore.

Sono tanti i progetti, già alle primarie, per intenderci quelle che erano le elementari, che coinvolgono i bambini a suonare, ma anche a conoscere e vivere l’opera lirica anche a teatro, come fanno i Fratelli Spedicato qui a Lecce, e le adesioni sono entusiasmanti.

Poi alle secondarie di secondo grado ad indirizzo musicale, le vecchie medie, si può fare un percorso suonando uno strumento specifico ed ecco che il gioco è fatto: suonando puoi sperimentare e capire da dentro la musica e anche il fruirla sarà diverso.

Ecco la scuola sta già facendo molto. Più di una volta i ragazzi della scuola “media” a Spongano hanno accompagnato il corteo delle Panare della scuola come una vera e propria bandicella. Poteva sembrare patetico, ma invece era un’esperienza importantissima, un risultato di eccellenza, che va oltre il solito saggio di fine anno.

 

Ma quindi chi potrebbe formare una banda a Spongano? Mengoli, Guida…

Sì, sono degli ottimi professionisti, capaci e non sono io a dirlo, lo dicono i fatti, ma hanno i loro progetti. Il problema è che non vedo i presupposti per fare una banda, manca la spinta dal basso, il mettersi in gioco, invece sarebbe molto piacevole e utile, trovarsi una volta alla settimana, provare e poi esibirsi, non solo per chi già suona nelle bande, penso a gente normale che può imparare a suonare uno strumento anche a 40-50 anni.

Castrignano del Capo, 1974, ritoccata con bordo

 

Secondo te, è opportuno che il lavoro, l’impegno e la professionalità dei bandisti siano adeguatamente  valorizzati sia economicamente, sia sotto il profilo delle tutele sociali oppure è bene che suonare nella banda rimanga un hobby?

Il lavoro deve essere sempre tutelato. In Italia, la Costituzione fonda la Nazione sul lavoro, ma nella pratica non sempre il lavoro ha la dignità che gli è dovuta e questo accade per tutti i lavori e anche per le bande.

Si pretende che i bandisti vadano via a notte inoltrata, si pretende che professionisti siano bravi, e lo sono, te lo posso assicurare, perché la gran parte di loro ha studiato o studia al Conservatorio, ma poi li si vuole retribuire con un cachet basso quando non irrisorio. Ripeto, come in molti campi, si pretende un buon prodotto, ma si tira sul prezzo, quando non si pretendono addirittura prestazioni al limite della dignità.

Poi ci sono le novità come le accensioni spettacolari delle luminarie, gli artisti noti per eventi spettacolari, cose belle, ma effimere che stornano risorse cospicue nella gestione della festa.

Anche la banda, a ben vedere,  effimera lo è. Non dico di escludere le altre cose, ma proviamo a farle convivere efficacemente. Ti faccio io una domanda: come sarebbe una festa senza la banda? Secondo me sarebbe completamente snaturata.

Chi ha fatto i disegni?

Nel libro ci sono anche disegni miei, ma la copertina è di Gianna Cezza che ho rincontrato e che è una disegnatrice, una fumettista di rango. Le ho chiesto di fare la copertina e questo ha ritardato un poco i tempi di pubblicazione, ma ne è valsa la pena: la banda esprime una simpatia incredibile e sul retro c’è il resto della festa come il goloso che mangia il croccante, o i bimbi che comprano noccioline e palloncini: una festa.

 

Un’altra considerazione riguarda la cassarmonica che era il centro della festa e ora tende a scomparire. Cosa ne pensi?

Il discorso della cassarmonica è complesso.

Secondo Samale la cassarmonica raccoglie i suoni e li restituisce solo alla banda o solo a chi sta nelle immediate adiacenze. Non so se questo accada nella realtà, ma so che negli ultimi anni l’accensione delle luminarie ha polarizzato l’attenzione del pubblico e la necessità di creare un ampio spazio scenico può aver penalizzato la cassarmonica che non è considerata più il centro della festa.

Io credo che, come dice Giuseppe Guida,  forse bisognerebbe dotare la banda anche di una amplificazione di modo da far arrivare anche lontano un suono nitido, ma occorre anche pensare all’esibizione della banda come a un concerto che richiede attenzione, non come un sottofondo da intrattenimento per gente che mangia noccioline o bimbi che vogliono i giocattoli.

Forse bisognerebbe ripensare un po’ tutto il meccanismo.

 

Hai delle date per presentare il libro?

Le limitazioni del COVID mi hanno condizionato, come tutti.

Alcuni amici mi hanno chiesto se si poteva organizzare una serata in diversi luoghi. Per ora l’unica serata a cui sto partecipando è quella organizzata dalla Proloco di Spongano a Parco Rini l’11 agosto prossimo alle 21,30, ma appena sarà possibile non mancheranno le occasioni.

Scatta e crepa Scinnaru!

 

di Marino Miccoli

Mia nonna materna Addolorata Polimeno, macellaia o meglio uccéra a Spongano sin dai primi anni del ‘900, era un vero e proprio archivio di cultura e saggezza popolare, che aveva recepito e poi tramandato oralmente ai suoi discendenti.

Tra i tanti stornelli e culacchi che mi ha narrato in dialetto sponganese ve ne era uno in cui ha spiegato il motivo per cui febbraio è il mese più corto dell’anno.

Con piacere mi accingo a raccontarvelo su questo lodevole sito “Terra d’Otranto” che dei proverbi e delle tradizioni popolari del Salento è un pregevole scrigno, e per questo ringrazio dell’impegno profuso da tutti coloro che lo alimentano e lo tengono in vita. Un pensiero riconoscente lo dedico al mio concittadino sponganese Giuseppe Corvaglia, per la sua instancabile quanto preziosa attività di autentico appassionato delle tradizioni popolari del Salento.
In origine, quando il mese di gennaio disponeva di solo 29 giorni, mentre febbraio era composto da 30 giorni, vi fu una vecchia pecoraia che proprio l’ultimo giorno di gennaio, al ritorno dal pascolo e subito dopo aver ricoverato le pecore del suo gregge nthrà lli curti, ebbe ad esclamare ad alta voce: “scatta e crepa scinnaru ca le pecure mei l’aggiu trasute de lu quadaru!”.

Lu quadaru era quel varco realizzato nel muretto a secco di recinzione dei fondi, che consentiva agli animali di entrarvi e uscirne.
Gennaio nell’udire l’invettiva di quella vecchia che gli aveva augurato di morire al più presto, fu molto amareggiato e si sedette per terra, in disparte, deluso ed offeso. Suo fratello febbraio lo vide così preso dallo sconforto e avvicinatosi gliene chiese la causa.
E no sai frate meu… nà vecchia pecurara, invece cu ringrazia Diu pe lu maletiempiu ca non aggiu purtatu st’annu, m’aje castimatu… cu scattu e cu crepu m’aje dittu… e sai percène? Ca su rrivatu alla fine de lu mese senza cu li more a iddhra mancu nà pecura!”
Febbraio mosso a compassione dal dolore del fratello gli rispose: “Statte scuscitatu frate meu ca te lu mprestu ieu nu giurnu… cusine crai li faci vidire tie a ddhrà vecchia discraziata ca t’aje castimatu!”
NU GIURNU NE LU MPRESTAU E NU GIURNU NE LU RRUBBAU… e fu così che gennaio nei due giorni seguenti ebbe la possibilità e la forza di scatenare una bufera di vento e neve con cui sterminò tutte le pecore di quella vecchia irriconoscente e maldicente. Questa vedendo tutti i suoi animali uccisi dal maltempo cadde a terra tramortita e se chianciu tutti li morti soi.
Da allora febbraio “FERBARU” rimase con 28 giorni ed ebbe a dolersi del comportamento di suo fratello gennaio “SCINNARU”, che con furbizia approfittò della sua bontà e compassione per aumentare i suoi giorni; per questo motivo con delusione esclamò: SE LI GIURNI MEI LI TINIA TUTTI, FACIA QUAJAR LU MIERU A NTHRA’ LE UTTI.

Tradizioni ed edilizia funerarie a Spongano

di Giuseppe Corvaglia

 

Nel 1600, come in tutti i paesi di Terra d’Otranto, a Spongano non c’erano cimiteri e i defunti venivano seppelliti nelle chiese. La Chiesa Madre aveva le tombe della comunità che, successivamente, saranno differenziate in: quelle per i sacerdoti, poste vicino all’altare maggiore, quelle per i nobili (sepulchra nobilium) anch’esse poste in prossimità dell’altare o vicino agli altari della famiglia, quelle delle vergini (tumbae virginum), quelle dei bambini (parvulorum sepulchrum) e quelle degli altri abitanti. La prima a essere sepolta in Chiesa Madre, nel 1604, fu una certa Domenica Gallona.

Ancora oggi si può osservare il pavimento della sacrestia, in parte ristrutturato, ma in parte ancora irregolare, deformato dalla pressione dei gas, formati dai processi di decomposizione dei corpi.

I nobili, come detto, avevano urne vicino agli altari, di cui avevano jus patronato, o una tomba vicino all’altare maggiore, ma alcuni di essi potevano essere sepolti nelle cappelle patrizie di proprietà.

Accadeva per gli Scarciglia e i Riccio, ad essi imparentati, che tumulavano i propri defunti nella Cappella di San Teodoro, fatta erigere da Don Pomponio Scarciglia, e per i Bacile che costruirono la propria cappella, prospiciente il Palazzo e dedicata alla Madonna dei sette dolori, grazie all’opera di Don Giuseppe Bacile, Arcidiacono della Cattedrale di Castro. In essa il primo ad esservi tumulato fu Giovanni Antonio, fratello del prelato.

Ricordiamo pure che nella piccola comunità era attiva una Confraternita della Buona morte che garantiva un funerale ai poveri che non potevano permetterselo e pregava in suffragio delle anime, avendo patronato su un altare della chiesa che, in seguito, verrà dedicato a Santa Vittoria.

Quando le fosse della chiesa si riempivano e quando la chiesa fu chiusa, per i lavori di restauro nel XVIII secolo, i defunti furono tumulati nella Chiesa della Madonna delle Grazie che oggi conosciamo come Congrega.

Se il numero dei morti diventava elevato, come accadeva in occasione di epidemie, quali: il colera nel 1836, il vaiolo nel 1880, la difterite nel 1886, la scarlattina, il morbillo nel 1888… si ricorreva al cimitero epidemico (Agro Sancto Epidemico) che si trovava sulla via per Surano, in Contrada Taranzano. La rivoluzione francese aveva affrontato il problema delle sepoltura con l’uso delle tombe comuni poste a distanza dai centri abitati.

A Spongano, come in tutto il Regno delle Due Sicilie, si comincia a parlare di Cimitero solo nel 1817, quando una legge, “per garantire la salute pubblica, ispirare il rispetto dei morti, e conservare la memoria degli uomini illustri”, dispose che i defunti venissero inumati o tumulati in luoghi appositi, chiusi da mura e da un cancello, distanti almeno un quarto di miglio dal centro abitato. A Spongano e nei comuni associati, Surano e Ortelle, si cercarono i siti per la costruzione del cimitero locale. Per Spongano si individuò un luogo detto “Vignamorello”, posto fra l’attuale piazza Diaz e la ferrovia, dove c’era una grotta, usata come neviera in disuso, che avrebbe consentito di inumare le salme più agevolmente.

L’iter fu travagliato e furono proposti, negli anni, altri luoghi, ma senza mai decidersi a realizzarlo, nonostante un altro dispositivo, il Real Rescritto dell’11 gennaio 1840, reso esecutivo in Terra d’Otranto il 25 gennaio 1840.

A questo contribuì l’opposizione, più o meno palese, del Clero, che traeva benefici economici dal tumulare i morti nelle chiese, la credenza dei fedeli che la tumulazione in Chiesa, vicino alle reliquie dei santi e luogo di preghiera, fosse migliore e, soprattutto, la necessità delle varie amministrazioni di stornare i fondi destinati ai cimiteri per spese più necessarie e urgenti, differendo la soluzione del problema.

Nel 1880 la Regia Amministrazione Sabauda ritorna alla carica con leggi apposite e stimola decisamente i Comuni a dotarsi di un Cimitero. In questa temperie, i Decurioni, nel 1883, decidono di costruire il nuovo cimitero acquistando all’uopo un fondo denominato “Campo San Vito” sulla via per Ortelle. Il progetto fu fatto dall’Ingegner Pasanisi e fu approvato dal Genio Civile nel 1885.

Il Camposanto fu inaugurato l’11 maggio 1885 e già il giorno dopo vi fu sepolto il primo sponganese, Ruggero Alamanno. Da allora non furono più seppelliti morti in chiesa (l’ultima salma fu tumulata in Chiesa il 1° maggio 1885).

Ingresso del cimitero di Spongano

 

Architettonicamente possiamo dire che, nel complesso, la parte più antica risente di quel gusto architettonico, molto in voga nell‘800 fino agli inizi del ‘900, chiamato Eclettismo, qui particolarmente evidente, che utilizza in libertà tutti gli stilemi architettonici del passato, come modelli di riferimento, per progettare edifici esteticamente belli che colpiscono il gusto del fruitore ancora oggi.

La facciata, austera, si ispira a un’architettura classicheggiante; in alto al centro è scolpito il chrismon con ai lati l’alfa e l’omega, all’apice una croce (caduta e non più ripristinata) con due fregi ai lati.

Statua di Cristo risorto di A. Marrocco

 

Sempre all’ingresso sono situate due epigrafi in latino che ammoniscono gli umani.

Una riporta “La mia carne riposa nella speranza” (CARO MEA REQUIESCET IN SPE) e l’altra dice “Il corpo corruttibile e mortale dell’uomo conduce all’immortalità”  (MORTALE INDUET IMMORTALITATEM).

 

 

Alcuni anni fa è stata posta, nel piazzale antistante, una bella statua bronzea dell’artista contemporaneo Armando Marrocco che rappresenta Gesù risorto.

Anche la tomba comune, dove trovavano sepoltura tutti i cittadini che non avessero una tomba propria, si ispirava a un sobrio classicismo. L’ingresso, sormontato da un timpano con un bordo modanato in pietra leccese, aveva due nicchie laterali e una porta centrale che conduceva a un semi-ipogeo, che ricordava le catacombe, dove vi erano i loculi che accoglievano le salme e una fossa comune (a carnara). In fondo, al centro, vi era un altare dedicato alla Madonna del Carmine, oggi restaurato. Negli scorsi anni è stata restaurata la tomba comune ricavando al piano terreno dei colombari nuovi e un ampio ambiente coperto; la nuova facciata riecheggia la forma della vecchia struttura.

Più o meno coeve sono diverse cappelle gentilizie, costruite con stili diversi, anch’essi liberamente ispirati all’Eclettismo.

Anche a Spongano, come in quasi tutti i comuni del Salento, le famiglie nobili, borghesi o benestanti, sentivano la necessità di costruire la propria cappella funeraria per custodire le spoglie dei propri cari, ricordarne la memoria, ma anche per ostentare il proprio stato.

La materia usata, prevalentemente, è la pietra leccese che, come dice Gabriella Buffo nel suo articolo su Fondazione di Terra d’Otranto, “Edilizia funeraria a Nardò e nel Salento”, “diventa il morbido tessuto su cui ricamare tutta la simbologia della morte”.

Entrando si può ammirare, sulla sinistra, la tomba della famiglia Rizzelli che sfoggia uno stile classico arricchito, da ghirlande di fiori, scolpite nella pietra leccese. La facciata è abbellita da due colonne sovrastate da un timpano semicircolare che si ripete sui quattro lati. Lo stesso stile classico si può osservare nella più discreta tomba dei Rini.

Cappella della famiglia Rizzelli

     

Particolare della cappella Rizzelli (lato nord)

  

Di fronte vi è la cappella della famiglia Coluccia che richiama uno stile neoromanico, come la cappella della famiglia Scarciglia che si trova più avanti. In quest’ultima, oltre al raffinato portale, che richiama le decorazioni di Santa Caterina in Galatina e di San Nicolò e Cataldo a Lecce, si nota un bel rosone con al centro una testa di leone.

Cappella Scarciglia

 

particolare con il rosone della cappella Scarciglia

 

Di stile neorinascimentale è la cappella dei Bacile, progettata da Filippo Bacile, architetto e umanista pregevole, sempre seguendo il gusto dell’eclettismo in voga. Il portale è protetto da un elegante loggiato, sormontato da una sorta di baldacchino, con un timpano, sorretto da due colonne, adorne di capitelli corinzi, che reca lo stemma di famiglia e un bordo con gli spioventi decorati a scacchiera, dove si alternano cubetti cavi a cubetti pieni. L’interno della cappella è semplice e le sepolture sono allocante in una parte semi-ipogea.

Cappella della famiglia Bacile

 

Cappella funeraria della famiglia Rini

 

Cappella funeraria della famiglia Coluccia

 

Nel corso degli anni il cimitero è stato ampliato e oggi si possono vedere tombe più moderne, alcune dallo stile essenziale, altre di pregevole fattura come quella che accoglie il Caporal maggiore Antonio Tarantino, caduto a Nassirya durante una missione di pace. La cappella, progettata dall’architetto Virgilio Galati, presenta sulla facciata uno squarcio che rompe due strati: quello del corpo (pietra leccese) e quello dell’anima (cemento). Un altro squarcio spacca la parete posteriore che, con la sua struttura a lamelle sovrapposte, sembra la corazza di un guerriero e quello squarcio diventa un finestrone irregolare che, orientato a est, accoglie la luce del sole che nasce. All’interno, sulla tomba del giovane milite, si ergono due possenti, ma al tempo stesso elegantissime, ali di angelo in marmo greco. La pavimentazione e la volta riproducono cerchi come pianeti di una costellazione. Il tutto esprime la tensione a volare in cielo, ma, allo stesso tempo, la crudele e dirompente realtà della fine di una giovane vita.

Cappella del caporal maggiore Antonio Tarantino, caduto a Nassirya

                      

particolare della cappella funeraria Tarantino

 

Interessante la cappella di un altro soldato, morto tragicamente mentre era in servizio, Claudio Casarano, figura eclettica di artista prestato all’esercito; in essa è possibile ammirare la riproduzione in marmo di Carrara di una sua scultura in legno d’ulivo, molto suggestiva che esprime il rinchiudersi in se stessi per non vedere la crudeltà del mondo. Interessante anche sulla facciata un sofferente crocifisso in ferro battuto, fatto dal milite nella sua attività artistica.

Particolare della cappella Casarano

 

Pure di interesse è la tomba Polimeno per gli infissi in ferro battuto di Simone Fersino, che si rifanno al mosaico di Pantaleone della Cattedrale di Otranto (l’albero della vita che poggia su due elefanti e Alessandro Magno sui grifoni), e un bellissimo angelo sull’altare, affrescato da Roberta Mismetti in foggia bizantina.

Altra tomba particolare è la tomba Corvaglia, progettata dall’Architetto Sigfrido Lanzilao, posta dietro la tomba Rini. Segno caratteristico è un piccolo arco a tutto sesto che richiama l’arco romano e poggia su due colonne a sezione quadrangolare (o a pilastro) e che, con armonia ed eleganza, sovrasta le tombe e accoglie un crocifisso in legno, ottenuto da un artista ligure con rami rimaneggiati dal mare. Le tombe ai lati sembrano due ali disposte come un abbraccio che accoglie; all’interno ci sono due fioriere una a forma di ciotola votiva e una che richiama un antico mortaio con i simboli della forza e del coraggio (zampa di leone), dell’estro e dell’allegria (uva), del genio e della tecnica (squadra) e della vita ottenuta dalla morte (spiga di grano) opera, come l’arco, di Bruno Polito.

Fino a qualche anno fa c’era un piccolo cenotafio, un vaso commemorativo, in pietra leccese, scolpito e decorato da un genitore affettuoso e valente artigiano, Oronzo Rizzello, per la piccola figlia Graziella, portata via da una malattia e sepolta in una tomba comune. Il vaso (su cui era scritto A GRAZIA RIZZELLO I GENITORI e poco sotto a soli tre anni ti perdemmo, chi ne consolerà) è stato rubato da mani sacrileghe, durante dei lavori di riposizionamento.

Ma il Cimitero non è solo l’insieme di note storiche, stilemi architettonici, lapidi e sculture: il Cimitero è, soprattutto, un crogiuolo di ricordi, talvolta intimi, evocati dai foto-ritratti o dagli epitaffi e di storie, talvolta, solo immaginate.

Tipico esempio di questa evocazione è il giro che si fa il giorno dei morti, quando si vaga senza uno scopo preciso, oltre le solite visite, per cercare un parente più lontano che ci ha lasciato o un amico che non c’è più e, talvolta, ci si perde a immaginare la vita della persona raffigurata in un ritratto antico.

Di quei giorni e di tante domeniche mi vengono in mente le discese veloci dalla copertura della scala della tomba comune, un piano inclinato, pavimentato di chianche, su cui ci si arrampicava e si scendeva d’un fiato. Il pensiero oggi mi fa rabbrividire per il rischio che correvamo, ma all’epoca chi ci pensava?

Anche un luogo così mesto poteva diventare divertente, come le coccole dei cipressi che diventavano biglie … o pallottole.

Io, poi, ogni volta che varco il portale dell’ingresso e vedo la porta sulla sinistra, non posso fare a meno di ricordare il mio bisnonno, Donato, che, come capomastro, partecipò alla costruzione di quel camposanto e, una volta ultimati i lavori, ebbe anche l’incarico di custode notturno che svolgevano a turno i figli i quali, per farlo, dormivano in una cameretta al primo piano sopra la camera mortuaria a cui si accedeva, appunto, da quella porticina.

Quando c’era un morto, gli si legava alle mani una cordicella che saliva fin nella cameretta e si collegava a una campanella che avrebbe suonato in caso di risveglio del trapassato, come accade nei casi di morte apparente (nell’architrave dell’ufficio del custode che una volta era camera mortuaria, è possibile vedere ancora la carrucola e il foro che portava alla cameretta del custode).

Donato Corvaglia capomastro muratore

 

Mi ricordo pure di un altro Donato Corvaglia, un caro amico. Era una persona speciale che, come impiegato comunale, svolse diversi ruoli: netturbino, archivista, messo comunale e alla fine custode del cimitero e “precamorti”. Di lui ricordo la bontà e la bonomia, la cura nell’insegnarci il catechismo, la semplicità e la sensibilità delle sue poesie che amava comporre in quella pace, ma anche la delicatezza e la discrezione nei momenti della sepoltura, quando il distacco fra il defunto e i familiari diventava lacerante. Lui mostrava sempre umana pietà, sensibilità, solidarietà e la giusta fermezza, tutte viatico per l’addio. Ha lasciato in eredità ai suoi colleghi un attrezzo da lui inventato che loro chiamano, affettuosamente, Mangone (era il soprannome patronimico) che serve a scardinare la lastra di pietra murata nelle dissepolture.

E poi, ai più attempati verrà in mente un altro Precamorti mitico: u Paulu.

“Paulu” viveva, praticamente, nel cimitero anche se aveva una sua casa in paese. Vestiva abiti dimessi, era solo e, spesso, accettava la carità di un pasto, offerto per “l’anima dei morti”, o anche solo un bicchiere di vino, due, tre….*

Lui accettava volentieri, ma veniva considerato uno sventurato e, spesso, i ragazzi lo prendevano in giro. Allora lui, quando si arrabbiava, urlava minaccioso: « A cquai ve spettu tutti!!!» ( Vi aspetto tutti qui!!! intendendo al Camposanto).

Aveva preso parte in una sacra rappresentazione della Passione di Cristo, rimasta memorabile, (quella, per intenderci, in cui Mesciu Carmelu Carluccio, cantore, era Gesù) interpretando un efficace e credibilissimo Cireneo che, su quelle spalle malferme, sbilenche, si caricava il segno della redenzione del mondo senza essere il Messia.

Altri aneddoti si raccontano su di lui. In particolare si racconta di una giovane vedova, innamoratissima del marito, morto prematuramente, la quale, ogni giorno, portava sulla sua tomba delle pietanze, come se fosse vivo. Paolo se le mangiava e lei ogni giorno non mancava di rinnovare il suo gesto affettuoso nei riguardi del marito. Un giorno di estate, nel caldo della canicola, era scesa nel colombario sotterraneo e non poteva immaginare che Paolo precamorti si fosse infilato in un loculo per sfuggire alla morsa di quel caldo soffocante. Quando lo vide uscire, per poco non rimase stecchita. Era una donna forte, molto cara, che non morì per lo spavento, ma concluse la sua vita in tarda età con la compagnia di due cani affettuosi per poi ricongiungersi al suo amato Salvatore.

 

 

*Piccola nota di costume.

Nel Salento si usa offrire delle cose da mangiare, specie a chi è più sfortunato, per ottenere delle preghiere in suffragio delle anime defunte. È quasi come offrirle al caro che non c’è più e, spesso, il cibo o il frutto offerto è quel cibo o quel frutto che piaceva particolarmente al caro estinto.

Talvolta si sogna un caro che manifesta il desiderio di un cibo e si cerca di soddisfarlo, dando quel cibo a qualcun altro che quel cibo può mangiarlo fisicamente. C’è chi racconta di aver regalato dei cibi a qualcuno e che il caro estinto sia andato poi in sogno, esprimendo soddisfazione per quel pasto.

In particolare una conoscente, riferiva di aver preparato e donato delle sagne col sugo da portare a una famiglia benestante che, però, non apprezzava particolarmente quel dono. La domestica, incaricata del servizio, un giorno aveva fame, si sedette e se le mangiò. Dopo aver mangiato si sentì ristorata e soddisfatta e, come si usava, pregò il riposo eterno ai defunti della donatrice. Nei giorni successivi, chi aveva donato il cibo sognò il defunto che mangiava le sagne, seduto su alcuni gradini. Quando la donna rivide la domestica, per ripetere il dono, le chiese se le sagne erano arrivate a destinazione. Di fronte alle domande insistenti, la donna raccontò la verità e il posto dove le aveva mangiate era lo stesso dove, nel sogno, il caro defunto si era seduto a mangiare. Da allora le sagne, quando preparate, furono destinate alla domestica.

Un’altra volta, un’altra massaia aveva mandato del pesce fritto da portare in dono e chi lo portava, inciampando, ne fece cadere, accidentalmente, alcuni. Non poteva rimetterli nel piatto, ma non voleva buttare quel ben di Dio. Così li pulì dalla polvere e se li mangiò con gusto pregando un Recumaterna alli morti sentito.

Giorni dopo la massaia sognò il defunto che raccoglieva del pesce da terra e se lo mangiava. Indagò e scoprì l’accaduto.

Come diceva il Commedantore del Don Giovanni Mozartiano: “Non si pasce di cibo terreno chi si pasce di cibo celeste…” e per noi uomini moderni è difficile credere che ci possano essere dei legami reali e sostanziali diversi da quella che può essere solo una suggestione.

Anche una richiesta, oggi domandata per favore, un tempo veniva perorata chiedendola “per l’anima de li morti toi”. Magari, se la richiesta era particolarmente importante, per meglio ottenerla, si chiedeva il favore per l’anima di un defunto particolarmente caro (Pe l’anima de lu Tata tou, o pe l’anima de la Mamma tua).

Inoltre ogni volta che si voleva ringraziare qualcuno si usava dire “Recumaterna alli morti toi” (in segno di ringraziamento, prego il riposo eterno per i tuoi cari defunti) o anche Ddhrifriscu de i morti, che vuol dire la stessa cosa oppure Ddhrifriscu de Diu che voleva dire che il Signore Iddio misericordioso conceda il riposo eterno ai tuoi defunti. Anche questo andava a consolare le anime che, secondo gli insegnamenti cristiani, potevano stare in Purgatorio in attesa della beatitudine.

Per contro, se si voleva offendere qualcuno in modo estremo, ci si rivolgeva a lui imprecando contro i suoi defunti.

 

Si ringraziano per le foto Mirella Corvaglia e Antonio Corvaglia

Spigolature sulla chiesa Madre di Spongano

di Giuseppe Corvaglia

 

La chiesa Madre di Spongano è dedicata a San Giorgio Martire. In origine era costituita da un’unica navata; così fu riedificata nella seconda metà del ‘700, mentre le due navate laterali furono edificate soltanto verso la metà del 1800; l’abside è posta a oriente e la chiesa è orientata sull’asse est-ovest.

Alla fine del ‘700 l’altare maggiore era dedicato all’Immacolata Concezione; venne poi rifatto nella forma attuale e dedicato a San Giorgio nel 1830. Di pregio sono gli stucchi dorati modellati da Vito Tedesco da Monopoli.

 

Sul lato destro della chiesa antica, a navata unica, c’erano tre altari: il primo, all’ingresso, eretto nel 1684, era dedicato a Santa Teresa ed era di patronato della famiglia Scarciglia; il secondo era dedicato a Sant’Antonio, di patronato della famiglia Bacile, ed era adorno di un quadro che raffigurava il Santo con il Bambino Gesù e una statua di pietra che ora è posta di fianco alla porta di ingresso laterale destra; il terzo altare era dedicato alla Madonna del Rosario ed era di patronato della famiglia Morelli.

La navata sinistra fu edificata successivamente, verso la metà del 1800, a spese della famiglia Bacile fino alle volte e fu completata, con le volte e gli altari, con il contributo della popolazione e il fattivo interessamento dell’Arciprete don Pietro Scarciglia.

Gli altari, in origine, erano tre: il primo altare, oggi sostituito dal Battistero, era dedicato alla Madonna Assunta con un quadro che può essere osservato sopra il Battistero stesso e raffigura, ai piedi della Vergine, San Giorgio che sottomette il drago e San Luigi Gonzaga; il secondo altare è dedicato a Santa Vittoria e il suo patronato apparteneva alla Confraternita della Buona Morte; il terzo è l’altare dedicato a San Giuseppe.

Proprio di quest’altare vi voglio parlare. È l’altare della navata più prossimo all’altare maggiore ed è dedicato, come detto, a San Giuseppe o alla Sacra Famiglia.

Fu costruito nel 1843, con il medesimo stile di quello dedicato a Santa Vittoria che è coevo.

Altare di San Giuseppe
Altare di San Giuseppe, dipinto della Narività

 

Il dipinto centrale è posto in mezzo a due colonne con capitelli corinzi, come in un proscenio di teatro, abbellito da elementi floreali e ghirlande, e rappresenta la Natività con l’adorazione dei pastori.

San Giuseppe, quasi defilato rispetto al centro del dipinto, mostra, con candido e genuino stupore, ai pastori e al popolo dei fedeli, il piccolo Gesù, vero centro dell’attenzione, su cui convergono gli sguardi di tutti gli astanti.

Ai lati vi sono due statue in pietra leccese, raffiguranti Sant’Anna e Santa Lucia, di recente fattura. L’ovale sulla mensa raffigura San Lazzaro, in abiti vescovili, ruolo che, dopo la morte di Gesù, può aver ricoperto.

Intorno all’effigie si legge l’epigrafe “LAZARUS FUERAT MORTUUS QUEM SUSCITAVIT JESUS” ([Sono] Lazzaro colui che era morto e fu resuscitato da Gesù Cristo).

Altare di San Giuseppe, San Lazzaro
Lecce, statua di San Lazzaro

 

Il Santo era venerato nel Salento. Qui, durante il periodo che precedeva la Pasqua, piccole compagnie improvvisate di musici e cantanti usavano proporre, in giro per le masserie, in una specie di questua di prodotti della terra, un canto chiamato “Santu Lazzaru” che, partendo dalla resurrezione dell’amico di Gesù, narrava la sua Passione e la sua Resurrezione.

Lazzaro morì giovane e fu resuscitato da Gesù, poi assistette alla sua dolorosa passione e dopo l’Ascensione del Signore, quando i discepoli si dispersero, con le sorelle Marta e Maria, secondo la Legenda aurea di Iacopo da Varagine, approdò a Marsiglia, dove si conservano ancora le sue reliquie. Qui Lazzaro convertì e battezzò molti pagani e resse, quale vescovo, la chiesa di quella città. Morì in età molto avanzata, ricco di meriti e di virtù. Un’altra fonte lo colloca a Cipro, a Cizio (oggi Larnaca), sempre come vescovo. Secondo questa versione le sue reliquie sarebbero state ritrovate a Cipro e portate in Francia dai Crociati.

In alto, nell’altro ovale, collocato sulla sommità dell’altare, è raffigurata la Sacra Famiglia.

Negli ultimi anni, proprio su questo altare, aveva trovato posto una pregevole statua in cartapesta della Sacra Famiglia fatta dall’artista salentino Antonio Papa e fortemente voluta e donata da Don Vittorio Corvaglia.

Sommità dell’altare di San Giuseppe

        

Chiesa del Carmelo a Loano: ai lati S. Teresa e S. Giovanni della Croce

 

Sempre sulla sommità dell’altare ci sono altre due statue che non hanno indicazioni.

Le statue sono rappresentate con abiti talari e un rosario in vita. Quella alla destra dell’osservatore rappresenta una religiosa con un angelo che la ispira, evidenza che si tratta di una donna Dottore della Chiesa, mentre quella alla sinistra rappresenta un religioso con una croce in metallo davanti.

Si può ipotizzare che siano raffigurati San Domenico e Santa Caterina da Siena: il primo, raffigurato con una croce nell’atto di predicare, e la seconda ispirata da un angelo.

Consideriamo però che la Santa senese è già effigiata da una delle statue in pietra, poste ai lati dell’altare di Sant’Antonio, e San Domenico viene in genere rappresentato con un giglio, una fiaccola o un cane.

In realtà sembra più plausibile identificarli con due mistici della famiglia carmelitana: San Giovanni della Croce e Santa Teresa d’Avila che riformarono l’ordine del Carmelo e che spesso si trovano raffigurati insieme, anche a Spongano, nella cappella del Carmine, di patronato della famiglia Ruggeri e ora di proprietà della famiglia Rini.

La devozione verso la Vergine del Carmelo a Spongano era molto sentita. Lo testimoniano la presenza di quadri, una statua processionale fatta modellare da Urbano Corvaglia e poi fatta restaurare negli anni ’50 da Emanuela Falco, edicole votive e altre espressioni della devozione popolare.

 

statua processionale della Madonna del Carmine

                                          

A Lei si rivolgevano preghiere e suffragi per la salvezza delle anime del purgatorio e Lei si invocava per non morire nel peccato in caso di morte improvvisa.

Un’espressione della devozione popolare era una giaculatoria rivolta a Lei per chi era in punto di morte o anche per sé stessi, pensando a quel momento di trapasso.

La Giaculatoria diceva:

“Madonna del Carmine,

mia bella Signora,

assistetemi Voi

nell’ultima mia ora .”

oppure “assistete – e qui si citava il nome dell’agonizzante – nell’ultima sua ora”.

Particolarmente devote alla Vergine del Carmine erano due famiglie patrizie di Spongano: i Ruggeri e gli Scarciglia che hanno annoverato fra i loro congiunti diversi parroci.(1)

Gli Scarciglia avevano patronato sul primo altare della parete di destra, nell’antica chiesa a navata unica, dedicato a Santa Teresa d’Avila e ornato da un quadro, oggi collocato nel cappellone con l’altare del Santissimo Sacramento che fu costruito dall’arciprete Pietro Scarciglia (2), figlio di Gerolamo, con il contributo della madre e del fratello, dottor Fisico Giuseppe, proprio per trasporre il patronato dell’altare di Santa Teresa.

Nel quadro la Santa in estasi viene raffigurata nell’atto di ricevere il velo monastico da San Giuseppe e dalla Madonna.

Santa Teresa riceve il velo dalla Madonna e da San Giuseppe

 

Ritratto di Don Pietro Scarciglia

 

Un altro quadro della stessa famiglia si può ammirare in sacrestia e raffigura la Madonna del Carmine con le anime purganti fra San Giovanni Battista e S. Oronzo.

I Ruggeri dedicarono alla Madonna del Carmine la propria cappella gentilizia che si trova in via Carmine, di fronte al loro palazzo, Ruggeri ora Rini.

particolare di Palazzo Ruggeri

 

Il tempio fu costruito da Francesco Antonio Ruggeri, padre di Giovanni Tommaso che fu Arciprete di Spongano dal 1714 al 1751, e la consacrò nel 1690. Per costruirla, Francesco Antonio aveva comprato, nel 1687, due fondi e la dotò pure di due vigneti e tre orte di vigna, oltre ad altri fondi, che costituivano un legato per 52 messe delle quali una parte doveva essere celebrata con canti, primi e secondi vespri, nei giorni in cui si festeggiava la Madonna.Nelle visite pastorali viene sempre lodata per arredi e paramenti; ancora oggi, dopo i restauri voluti dal Dottor Gaetano Rini e dalla moglie Anna Rizzelli, mostra nella sua bellezza quello stile barocco con cui era stata concepita.

Della Dedicazione alla Madonna del Carmelo è attestazione l’epigrafe posta sulla porta di ingresso (D(EO) O(PTIMO) M(AXIMO)/ DIVAE MARIAE A CARMELO/ D(OMINUS) IO(ANN)ES THOMAS ROGGERIUS DICAVIT/A(NNO). D(OMINI). MDCXC – Traduzione: A Dio Ottimo Massimo/ E alla Madonna del Carmelo/ Don Giovanni Tommaso Ruggeri dedicò (questo tempio) / Nell’Anno del Signore 1690).

Don Bernardo Ruggero

 

Don Scipione Ruggero

 

All’interno si nota la volta a botte in pietra viva e un altare barocco, sfarzoso per stucchi e colori, che accoglie un quadro che raffigura la Madonna con il bambino mentre porge lo scapolare a due santi in ginocchio: San Giovanni della Croce, con una Croce adagiata presso le sue ginocchia, e Santa Teresa d’Avila che reca i simboli della passione di Cristo, fra cui la canna con alla sommità una spugna, infilzata per dissetare il Redentore sulla Croce, e la lancia con cui i romani ne trafissero il costato.

 

Note

(1) Nella famiglia Ruggeri, oltre a Giantommaso, parroco dal 1714 al 1751, ricoprirono il ruolo di Parroco a Spongano anche Scipione e Bernardo (1771-1779), mentre nella famiglia Scarciglia, oltre a Pietro, fu parroco anche Girolamo dal 1679 al 1684.

(2) Il quadro raffigura Don Pietro Scarciglia, parroco di Spongano dal 1826 al 1836. L’epigrafe recita: D(ON) PETRUS SCARCIGLIA ARCHIPRESBYTER SPONGANI, PIETATIS AC RELIGIONIS LAUDE MAXIME ENITENS, OMNIBUS DESIDERATISSIMUS. OBIIT DIE 18 NOVEMBRIS 1836 AETATI- che vuol dire “Don Pietro Scarciglia, arciprete di Spongano che merita la lode più grande per pietà e religione, ricercatissimo da tutti. Morì il 18 novembre 1836 all’età di …” (Il libro aperto cita la lettera di San Paolo agli Ebrei). Don Pietro Scarciglia fu Arciprete per quasi tre decenni, in due periodi, dal 1808 al 1825, quando decise di dimettersi dalla carica per poi riaccettarla nel 1826 fino al 1836, anno della sua morte. Questi furono anni intensi per la progettazione e la costruzione della navata sinistra con gli altari citati. La Famiglia Scarciglia, originaria di Minervino, si stabilì a Spongano nel ‘600 con Pompomio Scarciglia, che fece costruire la cappella di San Teodoro. Il palazzo principale della famiglia è quello che si trova di rimpetto alla chiesa e fu costruito nel 1620 ma anche gli altri palazzi a sinistra sullo stesso lato di via chiesa, sono della famiglia Scarciglia. Su questo palazzo è posta una epigrafe che recita Hic sunt patera frondes.

 

Si ringraziano Antonio Corvaglia e Mirella Corvaglia per le foto che mi hanno fornito e si ringrazia l’Ufficio diocesano per l’arte Sacra e i Beni Culturali per le autorizzazioni alla pubblicazione delle immagini

L’associazionismo giovanile negli anni 70 a Spongano

di Giuseppe Corvaglia

Negli anni ’70 i giovani a Spongano, sperimentarono una modalità di aggregazione ancora nuova che, con nome anglofilo, chiamarono Club. All’epoca, sembrava non facessero più presa né le esperienze associazionistiche tradizionali come l’Azione Cattolica, i partiti politici, le Confraternite, né quelle più moderne, figlie del ’68, come il Circolo Studentesco Ricreativo.

L’esigenza dei giovani era quella di avere un posto, diverso dal bar o dalla piazza, dove stare insieme a chiacchierare su quanto succedeva nel paese o su quello che capitava a scuola oppure ancora un luogo dove scambiarsi opinioni, confrontarsi e divertirsi in vari modi con poco. Una sorta di “nido” che li facesse sentire a proprio agio, a “casa propria”, senza gli occhi degli adulti addosso che dicessero cosa fare o cosa non fare.

I giovani si associarono per classi d’età o per interessi comuni: fra questi non era trascurabile quello di incontrarsi con le ragazze per conoscersi meglio, senza fomentare chiacchiere.

Allo scopo recuperarono vecchie case non più abitate, talvolta con pavimenti sconnessi o pareti scrostate, e ne fecero accoglienti luoghi di ritrovo e aggregazione.

Club Universal 1977

 

Queste associazioni prosperarono a Spongano mantenendo una sana laicità sia nei riguardi della Chiesa, sia nei riguardi delle Istituzioni e dei Partiti, che non significava rifiuto o rivolta nei loro confronti, ma solo sana voglia di sentirsi liberi e indipendenti. In ogni club c’erano militanti di destra, di centro e di sinistra, anche agguerriti, e ragazzi che della politica non si interessavano affatto, ma tutti convivevano senza problemi di sorta.

Il Club era un posto riservato, ma sapeva accogliere e questo lo si vedeva nella frequentazione di amici dei soci oppure, in estate, quando arrivavano dei ragazzi forestieri che trovavano nei club un punto di riferimento per incontrare amici nel breve periodo delle vacanze sponganesi: era così che nascevano amicizie care e solide.

In queste associazioni, i giovani, spesso minorenni, riuscivano con i propri risparmi a pagare l’affitto, a comprare uno stereo, i dischi, gli addobbi e le prime luci psichedeliche, aggiustate alla bell’e meglio dal componente del club più esperto o dall’amico che si interessava di elettronica.

Nei Club ci si autogestiva, si cresceva, si cercava una propria emancipazione per liberarsi dalla angusta realtà di un paesino, facendo insieme esperienze importanti. Si ascoltava soprattutto musica che spesso esprimeva emozioni e sensazioni meglio di tanti discorsi.

Anche l’approccio con l’altro sesso era facilitato (senza che venissero meno un essenziale rispetto e un sufficiente pudore), ma trovavano posto pure la discussione e il confronto fra pari, la responsabilità di tener fede agli impegni presi e di portare a termine un lavoro, nonché la possibilità di creare cose nuove spesso proposte alla comunità, vivacizzandone la vita routinaria.

In questo modo scaturirono momenti che portarono queste piccole comunità a uscire dalla monotonia di tutti i giorni e a esporsi al pubblico con attività come il teatro della Nuova Compagnia del Teatro Popolare o gli Scuola-quiz del Club Jolly o i Piccolo Festival del Club Royal o, ancora, la Corrida del Club Universal.

Ogni club cercava di organizzare eventi, spettacoli, iniziative, per esprimersi al meglio e per caratterizzarsi rispetto agli altri gruppi, ma anche per rimpinguare le casse del club stesso e trovare le risorse per i propri progetti (per quanto ci si inventasse anche alternative come per esempio una stagione di coltivazione di tabacco posta in atto dal club Jolly). Il fulcro di questi spettacoli era la Sala Parrocchiale, ma talvolta gli eventi erano accolti anche nel Cinema Italia di via Ariosto.

La spinta a realizzare questi eventi era sì un’esigenza economica, ma anche l’intenzione di trovare una propria peculiarità, cercando, magari, un approccio culturale che non fosse solo di semplice intrattenimento.

La Nuova Compagnia del Teatro Popolare, che aveva sede in una casa di via Chiesa, quasi all’angolo con la farmacia, scelse il teatro. Inizialmente propose una commedia, inventata dagli stessi componenti: U Furese, firmata da Claudio Casarano e Italo Stefanelli, ma realizzata con il contributo di tutti i componenti. Successivamente misero in scena altre rappresentazioni teatrali leggere, come U Requenzinu ‘nnamuratu, o drammatiche, come Una madre d’Italia e la Passione di Gesù.

La NCTP in una rappresentazione de U Furese con Claudio Casarano protagonista

 

Il Club Jolly, ubicato in via San Leonardo, si inventò gli “Scuola-quiz”, ispirandosi al famoso “Chissà chi lo sa” di Febo Conti. I ragazzi del club selezionarono delegazioni di classi della Scuola media per sottoporle a domande di cultura generale e scolastica, sfruttando anche la grande simpatia che il pubblico aveva per i quiz e la inevitabile competizione che si veniva a creare fra i concorrenti, solleticando pure la vanità dei genitori che accorrevano a fare il tifo per i loro piccoli campioni.

Il Club Royal, situato in via Giovanni XXIII, toccò lo stesso tasto, ammiccando alla sensibilità dei genitori, facendo gareggiare con canzoni dello zecchino d’oro, e non solo, piccoli cantanti in erba in eventi chiamati “Piccolo festival”.

Nessuno dei componenti del club allora suonava, ma si ingegnarono e coinvolsero Uccio Zippo con la sua chitarra (chi potrà dimenticare la mitica Apache!) e quella che allora si chiamava Musical Band, realizzando spettacoli sicuramente gradevoli e partecipati.

Le edizioni del “Piccolo Festival” potevano sembrare una cosa semplice da fare, ma richiedevano un’organizzazione non indifferente: occorreva reclutare i “mini cantanti”, vincendo la resistenza dei genitori, andare a prenderli per le prove e riportarli a casa, essendo essi piccoli, e tutto questo significava mostrare impegno e un adeguato senso di responsabilità.

La Corrida Sponganese

 

Il Club Universal, che aveva sede in un vicoletto di Via Chiesa, riunì per la maggior parte musicisti in erba che già si erano aggregati a formare la Musical Band e poi la Mini Orchestry per cui impostarono i loro eventi sulla musica.

Lo spettacolo più riuscito, che poi diventò una tradizione, fu laCorrida Sponganese”, che riscosse grande successo e portò alla ribalta personaggi di cui, all’epoca, i più ignoravano le qualità artistiche.

I concorrenti cantavano, suonavano, sfoggiavano una discreta, quando non ottima, abilità, ma talvolta alcuni competitori, se pure mostravano scarse doti tecniche o artistiche, ispiravano una simpatia e una verve comica ineguagliabili, suscitando curiosità e raccogliendo il plauso del pubblico.

Talvolta il concorrente riusciva ad aggregare una claque che travalicava gli angusti confini della famiglia. Ricordo ancora oggi lo straordinario numero di tifosi che accorse ad applaudire Vittorio Papa: familiari, colleghi di lavoro, simpatizzanti, portandolo, con il loro sostegno appassionato, alla vittoria finale.

Spesso questo tifo “popolare” poteva anche penalizzare chi era più bravo tecnicamente, ma non riusciva a captare la benevolenza del pubblico, come capita, ancora oggi, di vedere alla Corrida televisiva dove è il pubblico a decidere le sorti della gara.

Mini Orchestry a un Carnevalissimo

 

I componenti del club Universal che suonavano erano Nicola Paoli clarinettista e poi batterista, Raffaele Rizzello clarinettista e sassofonista, Giuseppe Guida Trombone, concertatore e curatore delle parti, Raffaele Corvaglia che suonava il flicorno soprano, Franco Marti che suonava la tromba e il sassofono soprano, e il sottoscritto, Giuseppe Corvaglia, che suonava il flauto traverso e il sassofono, per una breve stagione.

A questi si aggiungevano Carmelo Paiano e Vittorio Donadeo, più di una volta presentatori degli spettacoli proposti, Giacomino Picci e Luigino Rizzo, spesso protagonisti di esilaranti scketch, Walter Erriquez, risorsa per la soluzione di problemi tecnici ed elettrici, Pino Ragusa, esperto, per quella cerchia, di musica rock e assiduo lettore di “Ciao 2001”, Nino Giannuzzo, Vito Lazzari, Alfredo Rizzello, Giorgio Buffo, Salvatore Gambino, Giovanni Marti. Ognuno trovava il modo di essere utile, anche perché l’organizzazione di questi eventi non era solo quello che si vedeva sul palco, ma anche: predisporre le prove, cercare gli sponsor, provvedere alla stampa dei manifesti, trovare l’amplificazione, magari senza pagarla, spostare gli strumenti, interloquire con la SIAE, contrattare la gestione del teatro… la buona riuscita dell’evento era il risultato del gioco di tutta la squadra e questo valeva per tutti i Club e per tutti gli eventi.

Oltre alle varie Corride, il Club organizzò anche serate di intrattenimento in occasione del Carnevale (Carnevalissimo) sulla scia di uno spettacolo organizzato inizialmente dal Club Royal con il medesimo obiettivo: guadagnare creativamente soldini per il club.

Negli ultimi tempi, il complesso nostrano venne integrato da elementi esterni e poi subentrarono gli S.R.C. (Società Riunita in Concerto), un gruppo pop-rock di Marittima che ha curato le musiche delle ultime edizioni della Corrida sponganese.

Un’altra cosa che il Club Universal organizzò fu un torneo di Calcio (ripetuto per 3 o 4 anni) che però non riuscì a vincere mai, nonostante giocassero fra le sue fila giocatori di buona caratura, per la bravura di una squadra chiamata Imperador (praticamente un club senza sede), ma anche per le puntuali autoreti di un socio, che puntualmente infilzava il proprio portiere, ma poi si faceva perdonare con le splendide prestazioni da libero.

Un anno fu pure ingaggiato come “commissario tecnico” Salvatore Corvaglia, gloria del calcio locale, ma non ci fu niente da fare: l’Imperador, che ha rifornito di calciatori le squadre locali, era più forte, calcisticamente, si intende.

Ai Club citati è giusto aggiungere anche il Club Genesis sito in via Congregazione, che non si espresse con particolari eventi pubblici come gli altri club, ma mostrò una maggior apertura nella cerchia dei soci ivi comprese le ragazze che negli altri club erano di casa come frequentatrici, ma non come socie.

Ognuna di queste associazioni ha accolto tanti piccoli uomini vogliosi di crescere, di trovarsi, di sentirsi grandi, mostrando fantasia e creatività, capacità e operosità, impegno e senso di responsabilità, qualità che poi nella vita servono sempre.

Bei ricordi di una specie di Happy Days casareccia senza Fonzie.

 

Foto da raccolte di Raffaele Corvaglia, Felice Rizzello, Raffaele Rizzello

Spongano. Un presepe di anime e terre

Presepe di anime e terre. Un presepe vivo e attuale che parla, in silenzio, di anime all’anima

di Giuseppe Corvaglia

 

Il Presepe di Anime e Terre, inaugurato giovedì 20 dicembre e che potrà essere visitato fino al 13 gennaio 2019, è una mostra del fotografo Francesco Congedo, ospitata nella meravigliosa cornice dell’Ipogeo Bacile che mostra sempre più la sua duttilità e la sua capacità di accogliere arte in tutte le sue forme.

Le foto di Congedo ci mostrano un mondo di anime raccolte in questa cavità che, come grembo della madre terra, le accoglie come vita.

L’evento si giova delle atmosfere sonore di Giovanni Corvaglia, musicista elettronico, curatore pure dell’allestimento e della direzione artistica, che ci accompagnano come una sorta di tappeto volante, di cuscinetto che ci sospende in un mondo nuovo, sconosciuto, eppure assolutamente familiare, noto.

Il risultato è un presepe ideale che parla dello stupore che genera una nascita, che è vita, e di un mondo che è vita esso stesso. E la vita genera sempre stupore.

Il Presepe, che nasce come rievocazione della Natività e della Maternità, ci mostra un neonato e la sua Mamma, ma ci mostra anche tanti sprazzi di vita che comprendono attività quotidiane, emozioni significanti, rapporti e dinamiche sottese.

Nella Bethlem del Presepe si incontrano le figure più disparate, dagli abitanti ai mercanti e poi ancora pastori, Ebrei che arrivano per essere censiti, curiosi che vogliono vedere il Salvatore del mondo, come i Magi. E le foto di Congedo ci restituiscono con pregevole semplicità le più variegate ed eterogenee realtà del mondo di allora riunite attorno a quella stalla che ospita il neonato Redentore, con immagini di uomini e donne contemporanei a noi.

L’artista ci mostra una umanità con molteplici interpreti, diversi per etnia, classe sociale, costumi, pure bisognosa di salvezza, che non vuole dire ricchezza o consumismo, ma la ricchezza che serve davvero anche a noi: la pace, quella pace in terra agli uomini di buona volontà annunciata dall’angelo ai pastori.

Il centro della mostra ci presenta una madre bambina con il suo piccolo e due angeli, proprio come ce la descrive il Vangelo apocrifo quando arrivano i Re Magi a Bethlem. («… Nel vedere la stella, i magi si rallegrarono di grande gioia , ed entrati nella casa trovarono il bambino che sedeva in grembo alla madre… – Vangelo dello pseudo Matteo , Cap XVI, par. 1 e 2, “I vangeli apocrifi”, a cura di M.Craveri, Einaudi 1969).

Il presepe del mondo di Congedo è fatto di commercianti che propongono la loro mercanzia con un gesto o uno sguardo, da pastori seduti in cerchio attorno al fuoco, da comari affaccendate nelle loro incombenze quotidiane o colte in un attimo di sano ozio, da piccoli che resistono nel tipico stupore dei bambini pur avendo conosciuto anche i lati più truci e oscuri della vita.

Le immagini ci invitano ad un viaggio ideale tra l’Africa e l’Asia, ma al tempo stesso ci fanno scoprire un viaggio reale, quasi palpabile, che ci mostra una umanità vera e varia che può arricchirci se la sappiamo accogliere guardandola negli occhi e riconoscendo in quegli occhi l’anima, quella scintilla di divino che ci accomuna tutti. Farci prendere dalla paura dell’altro e chiuderci all’accoglienza, ci priva di quella ricchezza.

Il viaggio evocato dalle immagini ci arricchisce e ogni personaggio incontrato diventa parte di un mondo e cattura lo spettatore che, entrato quasi in comunione empatica col soggetto raffigurato, trova difficile staccarsi da quegli sguardi, da quei gesti, da quelle pose.

Queste fotografie, davvero evocative, sono un suggestivo presepe delle anime che, con le pregevoli musiche e l’ambiente che le accoglie, ci porta a meditare sul mistero della vita.

Di questi volti impressionano gli sguardi che il reporter ha saputo cogliere nella loro essenza, capaci di coinvolgerci, accusarci, accoglierci, respingerci, rapirci … Il percorso della mostra così delineato diventa un momento di conoscenza del mondo e dell’uomo, ma diventa anche un’ occasione per conoscere sé stessi.

Particolarmente interessanti sono le sculture luminose di Gabriele Pici che, con le loro forme ispirate alla natura e le loro lucine tremolanti, ci trasportano nella placida atmosfera tipica della notte di Natale e del presepe.

Una esperienza da gustare, da assaporare in ogni sua immagine visitandola, magari, anche più volte.

I frantoi e i luoghi dell’olio a Spongano

Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna

trappitu ipogeo “maniju”, Spongano, via S. Leonardo

 

G. Corvaglia, B. Pedone, R.C. Rizzo, G. Tarantino, I frantoi e i luoghi dell’olio a Spongano

in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno V, nn° 6-7, 2018, pp. 369-377

 

ITALIANO

Questo studio, frutto di un’approfondita ricerca su fonti scritte e testimonianze orali, analizza la centralità dell’olio e dei suoi derivati nella storia di una piccola comunità del basso Salento, quella di Spongano. Partendo dalle prime testimonianze cinquecentesche, passando attraverso i catasti di fine Seicento e del Settecento e approdando infine al Novecento con le memorie degli ultimi frantoiani ancora in vita, gli autori esaminano le influenze, non solo economiche, ma anche culturali e sociali, avute sulla comunità sponganese dai frantoi e più in generale dalle molteplici attività legate all’olio e agli altri prodotti della molitura.

 

ENGLISH

This study, fruit of a close examination on written sources and oral testimonies, analyses the centrality of the olive oil and its by-products in the history of Spongano, a small community in the south of Salento. Beginning from the first sixteenth-century testimonies going through the end of the seventeenth century and the eighteenth century and coming finally to thetwentieth century with the last living oil pressers’ memories, the authors examine not only the economic, but also the cultural and social influences made on the Spongano community by the oil-presses and by the numerous activities connected with the oil and the other oil-press’s products.

 

Keyword

Giuseppe Corvaglia, Bruno Pedone, Rocco C. Rizzo, Giorgio Tarantino, Spongano, frantoi, olio

Le Panare di Spongano

ph Giuseppe Corvaglia
ph Giuseppe Corvaglia

 

Le Panare di Spongano 2017: il tempo passa e la festa cambia pelle   

di Giuseppe Corvaglia

Le Panare sono una festa dei frantoi di Spongano che, come festa dei frantoi, ha rischiato di scomparire ma che, diventando festa di tutta la comunità, è rifiorita da circa mezzo secolo e oggi è un evento.

Le panare sono ceste di canne tagliate a listarelle e intrecciate a una struttura di polloni di ulivo che servivano a trasportare tante cose, ma che, per l’occasione, i frantoiani riempivano di sansa con una modalità particolare tale da consentire di porre al centro della panara il fuoco.

La festa è stata sempre una gioia della comunità, anche se in origine gli unici che facevano le Panare erano i frantoi: tanti frantoi tante Panare.

E a Spongano di frantoi ce n’erano tanti, come si evince da una ricerca di prossima pubblicazione sul Delfino e la Mezzaluna, ma anche quando le panare le facevano solo i frantoiani era sempre una festa della comunità, sia perché molte famiglie del paese avevano frantoiani che in quel giorno uscivano dalla “nave”, che era il frantoio, e potevano godere della loro presenza, sia perché la maggior parte della popolazione era parte del processo di produzione dell’olio, dalle olive al frantoio.

I frantoi erano tanti e chi non lavorava nei frantoi lavorava negli uliveti per la raccolta dei frutti. Poi c’erano i “ccatta e binni”, mediatori che compravano e vendevano olive per consentire a chi non ne avesse abbastanza per una molitura di realizzare in soldi il raccolto o di completare la quantità di frutti per fare una “vascata” (4 tomoli o 160 Kg di ulive). C’era chi raccoglieva la morchia, residuo dell’olio, per rivenderla ai saponai; c’era chi nelle Saponiere ci lavorava e c’erano le famiglie che vivevano dei proventi di tutti questi lavori.

ph Antonio Chiarello (2006)
ph Antonio Chiarello (2006)

 

La festa poi consentiva per quel giorno di ascoltare musica, ballare, cantare, stare in compagnia e in allegria, sfidando il freddo e il buio dell’inverno.

Nei tempi andati oltre alle fiammelle delle Panare si allestiva anche un falò che scaldava la piazza e consentiva ai paesani di portare a casa, in recipienti di metallo o terracotta, della brace, partecipando a quel fuoco comune che rinsaldava i legami comunitari.

Intanto, tra le note dei musicanti e i balli dei giovani, le Panare si consumavano lentamente, sotto la sorveglianza dei frantoiani che “governavano” il fuoco facendolo durare anche fino al giorno dopo.

ph Adriano Rizzello (1983)
ph Adriano Rizzello (1983)

 

Circa quarant’anni fa ci fu la prima vera rivoluzione: un gruppo di amici realizzarono la prima Panara che non partiva da un frantoio. Era gente che nei frantoi aveva lavorato e sapeva cosa erano e come si realizzassero le Panare, le quali, con l’avvento di nuove tecnologie, diventarono più rare, come accadeva per i frantoi.

Da quel momento la panara fatta al di fuori dei frantoi fu sdoganata e paesani, gruppi di amici, famiglie, associazioni, si sono cimentate a creare la lpropria Panara, ognuno mantenendo la struttura tradizionale e addobbandola come meglio sapeva e poteva. La tradizione vuole che gli ornamenti siano combustibili, perché la panara deve consumarsi lentamente, ma deve anche bruciare completamente.

L’aumentato numero delle Panare è una bella cosa, ma porta, talvolta, a qualche inconveniente specie quando la gestione della fiamma non è adeguata: infatti se si alza troppo deve essere domata con pezzuole bagnate di acqua e se tende ad affievolirsi con pezzuole bagnate di un combustibile lento, come olio o nafta. La benzina potrebbe avvampare tutto e l’acqua sulla sansa che arde provoca un fumo denso e fastidioso. Oggi non è che l’esperienza dei conduttori delle panare sia aumentata, ma ognuno si attrezza perché nel centro della panara, al posto dello spurtiddhru, con il fuoco vivo ci siano i più sicuri lumini o lanterne che mostrano la fiamma, certamente meno rischiosi.

Dalle poche Panare di un tempo oggi se ne contano fino a 40 o 50, e qualche anno di più, disposte in uno scenografico serpentone colorato e vivace che si forma a partire dalla Casa Cranne, il Palazzo Bacile, da dove è sempre partito il corteo.

ph Antonio Chiarello
ph Antonio Chiarello

 

Nel primo pomeriggio la banda parte dalla piazza e va al citato Palazzo, dove prende la prima delle Panare e da lì andrà a prendere tutte le altre, secondo un percorso stabilito dal Comitato dei festeggiamenti e dalla Polizia Municipale.

In passato la banda raccoglieva tutte le Panare e i frantoiani pretendevano che ognuna di esse fosse accolta nel corteo con una marcetta e tutti gli onori. La bandicella che le aveva accompagnate si rifocillava alla fine del percorso nel Palazzo baronale con stuzzichini e l’ottimo vino di casa Bacile; oggi imprenditori o privati cittadini generosi apprestano dei piccoli rinfreschi in itinere.

ph Giuseppe Corvaglia (2003)
ph Giuseppe Corvaglia (2003)

Se quarant’anni fa la gestione dell’evento era possibile con due membri del comitato e un vigile urbano, oggi necessita di una vera e propria macchina organizzativa che studia il percorso, i punti di raccolta, la gestione del traffico, col coinvolgimento anche della Protezione Civile per domare eventuali incendi.

Anche la Panara delle Scuole è una iniziativa lodevole e ormai consolidata, con il coinvolgimento delle diverse classi cittadine.

1991. Prima Panara della scuola: la acconciano Pippi "Scorcia" Rizzello e Luigi Stefano Rizzello (ph Giorgio Tarantino)
1991. Prima Panara della scuola: la acconciano Pippi “Scorcia” Rizzello e Luigi Stefano Rizzello (ph Giorgio Tarantino)

 

Un altro piccolo, ma significativo, cambiamento avvenne trent’anni fa quando un gruppo di amici decise di riproporre la Panara come si faceva una volta, prima dell’avvento di carri motorizzati.

Gli amici, da sempre attenti alla cultura e alle tradizioni popolari, decisero di proporre la panara ponendola su un carretto rigorosamente trainato a mano. Un altro elemento della festa sono, infatti, i mortaretti e qualsiasi bestia al loro scoppio potrebbe imbizzarrirsi con effetti imprevedibili.

La Panara partì da via Torquato Tasso, proprio da quello che era stato negli anni ’50 un frantoio della famiglia Casarano, e l’impresa riuscì grazie alla collaborazione di Arcangelo Corvaglia che allestì la struttura della Panara e di Salvatore Bramato che ci prese per mano e avviò un percorso che sembrava estemporaneo e dura ancora.

All’epoca la festa si concludeva con la deposizione delle Panare nel punto di raccolta . La banda, dopo essersi rifocillata, andava nella piazza principale e suonava ancora qualche marcetta e poi una coda fatta di ballabili con i pochi musicanti che si fermavano, ma poi la festa finiva.

Oggi la serata fredda è riscaldata dal fuoco, ma anche dal buon vino e da buona musica con un palcoscenico che, negli ultimi anni, ha visto gruppi di rango della musica salentina, ben diversa da quel rimorchio di trattore e da quei musici pieni di buona volontà, e la festa diventa una buona occasione per stare insieme all’aperto anche in una serata invernale.

Anche il piccolo rinfresco offerto dai Comitati fatto di taralli e lupini per “appoggiare” un buon bicchiere di vino nel tempo si è evoluto con aggiunta di pittule prima impastate e fritte dalle donne della Fratres, poi con la Confraternita dell’Immacolata, che alle pittule ha associato vin brulè, poi il brudinu di pipirussi e cucuzze siccate e dopo i pezzetti di cavallo…

La festa, insomma, si è evoluta, come è giusto che sia, mantenendo il connotato di festa comunitaria e diventando un evento che accoglie un discreto pubblico che di anno in anno va aumentando.

ph Giuseppe Corvaglia (2009)
ph Giuseppe Corvaglia (2009)

 

Anche l’atteggiamento della Chiesa è cambiato. In passato non riconosceva questa festa, tant’è che la messa di Santa Vittoria con il bacio della reliquia era contemporanea al corteo e anche il titolo di Panare de Santa Vittoria era sbagliato, attribuito solo perché il Comitato della festa della Santa organizzava anche le Panare, oltre al fatto che parte delle Panare fra gli addobbi avesse anche una immaginetta della santa. Oggi c’è un’attenzione diversa e il parroco partecipa alla festa con una benedizione delle Panare e del fuoco.

Quest’anno il programma sarà davvero ghiotto e stimolante.

Ad accompagnare gioiosamente con la musica le Panare sarà la banda Città di Racale che alle 15,30 partirà dalla piazza per raccogliere le Panare, prima fra tutte quella di Palazzo Bacile.

Sarà presente fra le tante associazioni, istituzioni e gruppi di privati cittadini, anche l’Associazione Panara Antica con la tradizionale Panara trainata a mano e il variegato gruppo che ormai da trent’anni non manca mai all’appuntamento, così come non mancheranno partecipanti di vecchia data e giovani che per la prima volta si misurano con questa esperienza.

Il corteo si prevede partecipato e allegro con le Panare adornate al meglio con addobbi che bruceranno con esse, ma che le rendono belle come altri ornamenti e che ravvivano il carro che le trasporta.

A fine corteo, mentre le Panare si consumano riscaldando l’ambiente col fuoco, Spongano festeggerà e accoglierà gli Ospiti.

Il Comitato offrirà , come da tradizione, lupini, magari sponzati e salati nell’acqua di mare, mentre la Confraternita dell’Immacolata proporrà pittule e vin brulè, il Comitato dei Rioni proporrà patatine fritte normali e a spirale e sarà presente uno stand di carne arrostita, ma non mancherà vino buono e buona birra artigianale.

La musica che farà pulsare il cuore della festa quest’anno sarà quella degli Aprés la Classe già noti al pubblico sponganese per uno strepitoso concerto di una notte bianca rimasta nei ricordi di molti, ma prima del concerto alcuni amici e compagni di cantate renderanno omaggio a Pippina Guida con quei canti che l’hanno vista gioiosa protagonista che sarà pure un momento per ricordare quei Cantori che con lei hanno saputo restituirci un patrimonio di suoni, voci, ricordi, cuore e memoria.

La Pro loco, sempre attenta e partecipe, organizzerà un mercatino dei prodotti artigianali e locali che si prevede interessante e stimolante specie in un periodo che fa pensare ai doni.

Altra attrattiva della serata sarà una percorso multimediale curato da Ada Manfreda che valorizza foto e video provenienti da archivi o da collezioni private, che darà un’idea della festa in tutti i suoi aspetti.

Una ideale prosecuzione delle Panare sarà Il viaggio del Nachiro il 23 e il 24 dicembre, evento teatrale itinerante che ha fatto il giro del Salento e si conclude proprio nel frantoio ipogeo di Palazzo Bacile con Fabio Bacile di Castiglione, medico e scrittore, nachiru d’eccezione, che parlerà dei segreti del frantoio.

E quei giovanotti, ora un po’ attempati, che da trent’anni tirano una panara sul carretto come “somarelli”, pensando che l’esperienza sia faticosa, che possa finire a ogni anno che arriva, alla fine si ritroveranno circondati da altri formidabili giovanotti che sentono come propria l’esperienza, che la rendono viva , godendo del vino buono che sul carretto non manca, gustando le pittule e il brudino, mozzicando alli panini, assaggiando le purpette e vivendo un’esperienza autentica.

Finche dura l’avventura … ce piacere ci nci sta.

panare

Eventi nell’ipogeo Bacile – Teatro Sotterraneo a Spongano

Con i primi due incontri di “Per adesso resto nel Salento” presso il Castello di Corigliano D’Otranto e Sante Le Muse – agriturismo a Morciano, La Scatola di Latta continua a crescere e a navigare tra storie di imprese, associazioni resilienti, ascoltando con piacere le numerose storie di ritorni ed esperienze dirette, conoscendo le realtà che animano il nostro territorio. E’ sempre più convinta che questa sia la strada giusta e vi invita ad un nuovo incontro che si terrà domenica 11 dicembre all’interno di Ipogeo Bacile – Teatro Sotterraneo a Spongano.
Già dichiarato luogo di interesse storico-artistico dalla Sovrintendenza ai Beni Artistici e Culturali di Puglia, l’Ipogeo di Palazzo Bacile ospita eventi culturali di diverse forme ed espressioni di creatività che in questo luogo ricco di storia trovano relazione e creano dialogo: esposizioni d’arte, rappresentazioni musicali e teatrali, rassegne letterarie.  Il frantoio come custode dell’anima del nostro Paese, torchio di molitura, luogo di sperimentazione e di raccolta delle idee racchiuse nella nostra terra.
Camminando nel frantoio ricco di storia, tra le ombre e le volte dolcemente illuminate, ci è sembrato di attraversare la pancia di una nave. E’ forse da qui che deriva la parola Nachìro, dal greco “padrone, conduttore della nave” nonché colui che dirigeva tutti i lavori del frantoio. E da qui “Nachìria – idee ipogee”, una nave di idee, perché tutti noi siamo nachìri: chi ha deciso di restare, di prendere in mano il proprio timone, cambiare rotta e tornare in Salento dedicando tutto il proprio tempo. Proprio come Bacile, che con “intraprendenza, impegno e intuizione” trasformò per primo il suo frantoio, lo rese funzionale e ne ricavò un olio buono, un’innovazione all’epoca. Sulle sue orme oggi Fabio Bacile immagina lo stesso frantoio come “contenitore culturale” e gli da forma passo dopo passo, una sfida per nuovi nachìri.
Domenica 11 dicembre, dalle ore 16.30 fino alle 21 l’Ipogeo si trasformerà in un “mercatino delle idee“ che accoglierà agricoltori, artigiani, artisti, associazioni e imprese. Ogni partecipante al mercatino avrà modo di esporre e presentare le proprie opere materiali ed immateriali in modo creativo.

Ingresso libero per chi porterà con sé entusiasmo, libri, strumenti musicali e idee da condividere.
Sarà presentata la mostra fotografica sulle “Grotte del Salento” a cura di Giorgio Nuzzo. L’evento rientra nella programmazione @Fortezza in Opera a cura di Salvatore Della Villa.

Per info contattateci via facebook o via mail a: scatoladilatta2014@gmail.com

A tutti gli agricoltori, artigiani, artisti, associazioni e imprese: 

PER ESPORRE E PRESENTARE LE PROPRIE OPERE O PROGETTI scriveteci o contattateci entro sabato 3 dicembre a scatoladilatta2014@gmail.com .

APS La Scatola di Latta

Custodiamo storie e sensazioni dei paesaggi, paesini e paesani del Salento. Promuoviamo azioni di CulTurismo Sociale ed Ambientale

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Aldo De Bernart e la foresta di Supersano

supersano-celimann
Cripta di Coelimanna a Supersano

di Maria A. Bondanese

 

Un dì

per queste balze  

salmodiando salian

di buon mattino

barbuti monaci di S. Basilio.

Li accompagnava

un timido raggio di sole  

tra le rame del Bosco Belvedere

e il cinguettio gioioso degli uccelli      

saltellanti nella guazza.

 

Sembra di vederli quei monaci pensosi, evocati dal verso gentile¹ di Aldo de Bernart che alla profonda cultura, alla perizia di storico, al rigore di studioso univa la dedizione per i nostri luoghi, la cui identità ha insegnato ad amare e riscoprire. Luoghi in cui specchie, dolmen e pietrefitte rinviano ad epoche remote, a un tempo immobile, circolare ed arcano, laddove chiese, torri e castelli, densi di memoria, raccontano come dalla periferia vengano i fili alla trama della grande storia.                                                                                   Il tratto armonioso, l’eloquio dotto e persuasivo, Aldo de Bernart era solito sbalzare fatti e personaggi della realtà municipale con dovizia di particolari e vivida precisione, così da significarne il ruolo nella storia di questo territorio, segnato da lenti ma inarrestabili mutamenti nel suo patrimonio architettonico, viario e paesaggistico. Casali e masserie costellano la campagna salentina offrendosi testimoni silenti di un sistema insediativo antico ma residuale, come tratturi e sentieri, stretti tra filiere di muretti a secco, appaiono relitti di suggestive ma ormai desuete percorrenze.

La via misteriosa, via della ‘perdonanza’, serba però ancor oggi intatto l’incanto che l’esatta e suasiva descrizione fattane da Aldo de Bernart² riesce a trasmettere al lettore. In età medievale, quando viandanti e pellegrini si muovevano «per mulattiere insicure e per sentieri alpestri»³, la via misteriosa o «via degli eremiti»⁴ incardinando, tra le ombre della boscaglia, le chiese rupestri della Madonna di Coelimanna (Supersano) e della Madonna della Serra (Ruffano), costituiva quel percorso di crinale che dai dintorni di Supersano si snodava lungo il Salento delle Serre fino a S. Maria di Leuca.

«Legato alla primitiva antropizzazione di questo territorio quando, presumibilmente, solo dalla sommità delle Serre si poteva avere un quadro territoriale significativo, mentre le valli erano coperte fittamente di boschi e di paludi»⁵, il percorso di crinale lambiva la ‘foresta’⁶ plurimillenaria di Belvedere sulla quale amabilmente, in più di un’occasione⁷, Aldo de Bernart ha voluto soffermarsi, catturato dal fascino dell’immenso latifondo di querce, pressochè scomparso.

Pochi esemplari ne attestano ancora la superba bellezza ma la sua storia è narrata nel “Museo del Bosco”(MuBo) di Supersano, nato dall’esigenza di far conoscere questo particolare ecosistema del territorio salentino, attestato storicamente almeno dall’età romana fino agli inizi del secolo scorso.

quercia spinosa
quercia spinosa

L’eccezionale polmone verde ricadeva nel feudo di sedici Comuni : Supersano, Scorrano, Spongano, Muro, Ortelle, Castiglione, Miggiano, Poggiardo, Vaste, Torrepaduli, Montesano, Surano, Sanarica, Botrugno, San Cassiano e Nociglia, che vi esercitavano gli usi civici, ossia i diritti minimi riservati alle popolazioni a fini di sussistenza. Il Bosco era dunque «fonte di ricchezza e per questo oggetto di desiderio e di contesa tra le popolazioni confinanti»⁸ come attesta, tra l’altro, il conflitto che nel XVI secolo oppose contro il feudatario di Supersano gli abitanti di Scorrano, «che lamentavano la soppressione d’alcuni diritti che essi vantavano da tempo immemorabile sullo splendido Bosco del Belvedere» , come quelli di «acquare, pascolare e legnare senz’alcuna servitù»⁹.

La caccia, la pesca, la raccolta di frutti e legna, di giunchi e canne palustri, la coltura di lino e canapa, l’allevamento di pecore e suini erano le attività più praticate all’interno del Bosco, assieme alla produzione di carbone. Tali le risorse del magnifico Belvedere, da conferire ai casali che di esso disponevano un valore di stima superiore a quelli che ne erano privi. Aldo de Bernart ricorda come «Fabio Granai Castriota, barone di Parabita, quando nel 1641 vende a Stefano Gallone, barone di Tricase, la Terra di Supersano con il bosco Belvedere e con il feudo di Torricella e della sua foresta, con i relativi diritti feudali, realizza il prezzo di 40.000 ducati»¹⁰. Cifra ragguardevole per i tempi e addirittura doppia rispetto all’ “apprezzo” che, nel 1531, ne aveva fornito Messer Troyano Carrafa nella compilazione dei feudi confiscati in Terra d’Otranto ai baroni schieratisi contro la Spagna.

La relazione¹¹, contenuta nell’ Archivio General de Simancas, rientrava nei lavori della commissione incaricata, nel 1530, dall’imperatore Carlo V di redigere l’elenco e la stima dei beni sottratti ai nobili ribelli, durante l’annoso conflitto tra francesi e spagnoli in Italia, che aveva travolto anche l’assetto feudale di Terra d’Otranto e giungerà a conclusione solo nel 1559. Al di là delle umane traversie, il Bosco continuava a prosperare lungo una superficie di oltre 32 kmq., delimitata da una linea quasi elissoidale di circa 40 km. di giro, ricca di acque alluvionali che sboccavano, come ricordava il ruffanese Raffaele Marti, «in ramificati canaloni, spesso fiancheggiati dal rovo, dal frassino, dalla vitalba, dalla marruca, dalla brionia» che, intricandosi, ombreggiavano stagni «albergo di scodati e caudati batraci, di luscegnole, d’orbettini, e spesso di bisce d’enormi proporzioni»¹².

Nel fitto bosco di querce, tra cui il maestoso farnetto, la roverella e la virgiliana, si ergevano anche olmi, lecci, castagni, persino il frassino maggiore e il carpino bianco, cui facevano corona piante e fiori del sottobosco e della macchia mediterranea quali alloro, corbezzolo, lentisco, mirto, viburno, pungitopo, rosmarino, gelso, rose di San Giovanni e senza che vi mancassero mele, pere, sorbe, nespole, uva allo stato selvatico. “Delizie” definisce perciò Aldo de Bernart l’incanto e le rigogliose varietà del Belvedere¹³, in cui trovavano asilo cervi, volpi, lontre, caprioli, scoiattoli, lepri, conigli, tassi, martore e puzzole accanto ai voraci lupi e ai possenti cinghiali, di cui l’ultimo sarà abbattuto nel 1864. Paradiso dei cacciatori per l’abbondanza di fagiani, tordi, beccacce e pernici, il Belvedere ospitava anche trampolieri che svernavano presso la palude di Sombrino, formata dalle acque piovane abbondanti in autunno ma che, stagnanti in estate, emanavano «miasmi deleteri, che spandevano la loro influenza pestifera fino a Supersano »¹⁴, propagando l’azione malarica in tutta la zona mediana della provincia. Motivo per cui il Giustiniani, descrivendo “Suplessano” ai primi dell’800, aveva annotato che è «in luogo di aria non sana»¹⁵ .

Nel 1858, uno scavatore di pozzi di Soleto, Giuseppe Manni, riesce a bonificare l’area facendo confluire le acque del Sombrino entro una voragine da lui creata: «e come d’incanto/scomparvero l’acque,/non senza rimpianto./Ne sorsero i campi/fiorenti di Bacco/ma tu Supersano,/per fato divino/perdesti il tuo lago/il lago Sombrino»¹⁶. Supersano, tra l’altro, acquista d’allora fama di località salubre tanto che l’Arditi, rispetto al più antico etimo – Supralzanum – di origine prediale, avanzerà l’ipotesi che il suo nome potesse essere «una pretta ed accorciata traduzione del latino Super sanum, più che sano»¹⁷, con chiara allusione alla bontà del clima.

Ma il Bosco, il cui legname pregiato nel 1464 era stato richiesto per riparare le porte del Castello Carlo V di Lecce¹⁸, subisce un progressivo e drastico impoverimento al punto che lo stesso Arditi nel 1879, scriveva :«Era questo forse nella Provincia il bosco più vasto e vario per essenze arboree, ma oramai non rimangono più di arbustato e di ceduo se non poche moggia a Nord-Ovest verso Supersano; tutto il resto è ridotto a macchia cavalcante od a terreni coltivati a fichi, vigne e cereali»¹⁹. Non estranea comunque alla fine del Bosco la sua suddivisione in quote, seguita alle leggi eversive della feudalità del decennio riformatore francese.

Dopo lunga contesa con i Principi Gallone, in possesso del Bosco di Belvedere che assicurava loro «la pingue rendita di L.42.500»²⁰, nel 1851 venne eseguita l’ordinanza di divisione del patrimonio boschivo fra i comuni che vi esercitavano gli usi civici.

«Le complesse vicende storico-giudiziarie associate alla Questione demaniale del Bosco Belvedere, dal punto di vista territoriale innescarono profonde conseguenze geografiche nel paesaggio così investito da rapidi mutamenti che, nel volgere di pochi lustri, a far data dalle operazioni di divisione in massa dell’ex-feudo Belvedere e della Foresta, ebbe ad assumere un connotato non più silvano ma decisamente caratterizzato dalle colture agrarie, viepiù affermantisi nella seconda metà del XIX secolo»²¹. Mutato il contesto paesistico, solo il Casino della Varna, stupendo ritrovo di caccia d’impianto seicentesco tuttora esistente nell’agro di Torrepaduli, la cui «mole si staglia in una brughiera odorosa di timo, solcata da un’antica carrareccia scavata nella macchia pietrosa», non più luogo d’incontro di nobili per lieti conviti, «rimane oggi l’unico testimone muto dei fasti e della bellezza selvaggia del Bosco Belvedere»²². La cui memoria però, intesa non come semplice conservazione e inerte deposito di dati ma piuttosto azione creativa e trasfigurazione del passato, è custodita nel Museo del Bosco di Supersano.

Nella memoria, infatti, tutto ci è coevo²³: il monaco filosofo Giorgio Laurezios di Ruffano, insegnante di filosofia morale per i novizi che “salmodiando salian” alla chiesa-cripta della Coelimanna, in una Supersano fantasma del XIII secolo con appena 120 abitanti terrazzani sparsi per le campagne, come ci ha spiegato Aldo de Bernart, maestro di vita, arte, letteratura, la cui missione educatrice e culturale resta operante nella mente e nell’animo di quanti hanno avuto il privilegio di conoscerlo.

 

pubblicato nel volume antologico Luoghi delle cultura Cultura dei luoghi, a cura di Francesco De Paola e Giuseppe Caramuscio, Grifo Editore

 

Note

¹ A. De Bernart, Notizia su Giorgio Laurezios di Ruffano e la sua scuola di filosofia nella Supersano medievale, «Memorabilia» 28, Ruffano, aprile 2011, riportato anche da «Il nostro Giornale», a. XXXV- n.75, Supersano, 25 dicembre 2011, p. 20

² Cfr. A. De Bernart-M. Cazzato, S. Maria della Serra a Ruffano, Galatina 1994. Di Mario Cazzato è doveroso sottolineare la lunga e fruttuosa collaborazione con Aldo de Bernart nella valorizzazione del patrimonio architettonico e paesaggistico salentino.

³ Ivi, p. 23

⁴ Cfr. C. Sigliuzzo, Leuca e i suoi collegamenti nel Basso Salento, in Nuovo Annuario di Terra d’Otranto, Vol. I, Galatina 1957,               pp.73-76

⁵ A. De Bernart-M. Cazzato, S. Maria della Serra a Ruffano, cit., p.15

⁶ Così la chiama il Conte Carlo Ulisse de Salis Marschlins che, percorrendo le contrade del Salento nel 1789, annota come «nella foresta di Supersano sono allevate due razze equine appartenenti al Marchese di Martina e al Duca di Cutrofiano, le quali forniscono buonissimi cavalli da sella e da tiro. Vi sono anche degli armenti, ed assaggiai qui una nuova qualità di formaggio fatto di latte di capra, che è davvero eccellente» (C. U. de Salis Marschlins, Viaggio nel Regno di Napoli, a cura di G.Donno, Lecce 1999, p. 140-141).

⁷ Cfr. A. De Bernart, La foresta di Supersano, «Il nostro Giornale», a. IV-n. unico, Supersano, 8 maggio 1980; A. de Bernart, Torrepaduli Belvedere in A. de Bernart-M. Cazzato-E. Inguscio, Nelle Terre di Maria d’Enghien, Galatina 1995, pp. 29-34

⁸ F. De Paola, L’effimero volo delle aquile dei Gonzaga sulle terre salentine (1549-1589) in M. Spedicato, I Gonzaga in Terra d’Otranto, Galatina 2010, n. p. 85

Ivi, pp. 84-86. In merito alla controversia, l’Autore cita la “provvisione regia” del 1582 con cui la Gran Corte della Vicaria di Napoli si espresse a favore dei cittadini di Scorrano contro Scipione Filomarino, allora barone di Supersano

¹⁰ A. de Bernart, Torrepaduli Belvedere, cit., p.31

¹¹ Cfr. F. De Paola, “O con Franza o con Spagna…” Note sulla geografia feudale di terra d’Otranto nel primo Cinquecento , in               M. Spedicato (a cura di) Segni del tempo. Studi di storia e cultura salentina in onore di Antonio Caloro,Galatina , 2008,                       pp. 85-87

¹² R. Marti, L’estremo Salento, Lecce 1931, pp. 21-23

¹³ A. de Bernart, Torrepaduli Belvedere, cit., ivi

¹⁴ C. De Giorgi, La Provincia di Lecce- Bozzetti di Viaggio, 1882, rist. Galatina 1975, Vol. I, p.148

¹⁵ L. Giustiniani, Dizionario geografico-ragionato del Regno di Napoli, 1797-1805, rist. an. Bologna 1984, tomo IX, p. 120.

¹⁶ R. De Vitis, Le “Vore”e il Lago Sombrino in Soste lungo il cammino, Taviano 1990, p. 116.                                                                                                             Per le bonifiche delle zone paludose in Terra d’Otranto, fra cui quella di Sombrino, a ridosso dell’Unità d’Italia,                                              cfr. M.A. Visceglia, Territorio feudo e potere locale. Terra d’Otranto tra Medioevo ed Età moderna, Napoli 1988, p. 25

¹⁷ G. Arditi, Corografia fisica e storica della Provincia di Terra d’Otranto, rist. an. Lecce 1994, p.577

¹⁸ Cfr. G. Fiorentino, Il Bosco di Belvedere a Supersano: un esempio di archeologia forestale, tra archeologia del paesaggio ed archologia ambientale in P. Arthur-V. Melissano (a cura di), Supersano Un paesaggio antico del Basso Salento, Galatina 2004, pp. 23-24

¹⁹ G. Arditi, op. cit., p. 65. L’Arditi aveva conosciuto nelle sua varietà e bellezza il Bosco di Belvedere perchè, nel 1851, aveva ricevuto l’incarico di tracciarne la mappa e stabilire la divisione in quote tra le parti interessate.

²⁰ A. De Bernart, La foresta di Supersano, cit.

²¹ M. Mainardi, Il Bosco di Belvedere, «Lu Lampiune», a. V, n. 3, 1989, p. 108

²² A. De Bernart, La foresta di Supersano, cit.

²³ Cfr. Maria A. Bondanese, Sul tempo ed altro, «Il nostro Giornale», a. XXXV- n.75, Supersano, 25 dicembre 2011, p. 21

Il Calvario di Spongano sito in contrada Santa Marina

 

Calvario di Spongano (lato nord) (ph Giuseppe Corvaglia)
Calvario di Spongano (lato nord)
(ph Giuseppe Corvaglia)

di Giuseppe Corvaglia

 

Il Calvario è un monumento presente, se non in tutti, nella gran parte dei paesi del Salento.

Il modello più comune è quello a semicupola o a edicola absidata, all’interno della quale ci sono degli affreschi che raffigurano i momenti principali della passione di Gesù, come la crocifissione, la deposizione, ma anche la preghiera nell’orto degli ulivi, la flagellazione alla colonna  o il cammino verso il Golgota.

In alcuni, come a Diso e Vignacastrisi, nella parte bassa viene raffigurato anche Gesù morto, deposto nel sepolcro; a Montesano e in altri posti viene riportata  la deposizione dalla croce. Ai lati vengono spesso raffigurati il buon ladrone e il mal ladrone.

Di forma ad edicola absidata ne troviamo molti nel circondario (Botrugno, Castiglione, Diso, Vignacastrisi, Vitigliano, Montesano, Ruffano, Montesardo, Miggiano, Tiggiano e Tricase).

Ci sono poi Calvari a edicola poligonale (come quello di Andrano), a emiciclo o a esedra curva   (come quello di Parabita) o ad esedra poligonale (come quello di Depressa), a recinto (come quello di Maglie) o, ancora, a portico, detto anche monoptero (come quello di Ortelle) o, infine, a tempietto, come quello di Spongano.

Calvario di Montesano (ph Giuseppe Corvaglia)
Calvario di Montesano
(ph Giuseppe Corvaglia)

Il monumento non è stato concepito in origine per pregare solo nella Settimana Santa, ma voleva essere un monito per tutti i giorni, finalizzato al culto pubblico per il beneficio spirituale di tutta la comunità cittadina locale.

Ricordo ancora la giaculatoria da recitare quando si passava davanti: «Gesù Crocefisso, liberatemi dalle fiamme dell’inferno e dal morire dalla morte improvvisa».

 

La Cappella di Santa Marina

A Spongano siamo abituati a definire la zona che da piazza della Repubblica porta alla stazione, come a susu Calvariu oppure a su Santa Marina; il primo riferimento è intuitivo, ma il secondo resta solo come toponimo, perché della chiesetta di Santa Marina non c’è più traccia.

Nella zona vicino al tempietto del Calvario, a Spongano, esisteva in passato un’antica cappelletta, dedicata a Santa Marina. Di questa cappelletta l’ultima vestigia è un quadro della Santa, conservato presso la nostra Chiesa Parrocchiale.

Santa Marina

La cappella, esistente già nel ‘700, fu demolita, essendo diventata fatiscente, e agli inizi del XX secolo fu costruita l’attuale cappella dedicata al Sacro Cuore di Gesù, inaugurata nel 1911.

interno della cappella (ph Antonio Chiarello)
interno della cappella (ph Antonio Chiarello)

In prossimità di questa cappella si teneva ogni anno, a luglio, una fiera con vendita  del bestiame e la celebre cuccagna, in cui si cimentavano i giovani più agili del paese, sopravvissuta fino agli anni ’50.

 

Il Calvario

Il Calvario di Spongano si distingue da tutti gli altri Calvari salentini. L’iconografia di questa opera, particolare nel suo genere, non si affida ad immagini dipinte, ma alle formelle del timpano e viene scandita dalle epigrafi lapidee nucleo del monumento.

Il monumento, che celebra la Passione di Gesù Cristo, venne costruito nel 1871, probabilmente sulla spinta delle predicazioni dei Padri Passionisti, grazie ai fondi raccolti dalla popolazione e a un contributo della Civica Amministrazione che consentì il compimento dell’opera.

Calvario a Montesano (ph Giuseppe Corvaglia)
ph Antonio Chiarello

Redasse il progetto Filippo Bacile di Castiglione che elaborò un Calvario originale.

Il valente architetto, incline alla moda dell’eclettismo, scelse un’architettura classicheggiante che rievocasse il periodo storico contemporaneo a Gesù e la simbologia della passione e morte del Redentore.

Il monumento è dato da un tempietto circolare aperto e formato da colonne, disposte in cerchio, sormontate da un timpano, sovrastato da una cupola, con lesene dove sono scolpiti simboli rievocanti episodi della Passione,.

Al centro sono posti cinque parallelepipedi sormontati da croci che, da qualunque parte le si guardi sembrano tre. Sulle facce di questi parallelepipedi ci sono delle epigrafi che raccontano la vicenda di Gesù, la cui evocazione viene completata dagli oggetti scolpiti sulle lesene del timpano. Il maestro scalpellino esecutore del lavoro fu Giuseppe Pisanelli.

 

Epigrafi

Le Epigrafi sono il nucleo del monumento.

ph Giuseppe Corvaglia
ph Giuseppe Corvaglia
ph Giuseppe Corvaglia
ph Giuseppe Corvaglia

La lapide principale è quella dedicatoria che dice: TRIUMPHALI CRUCIS VEXILLO IN CALVARIA PRIMUM EXPLICATO  SPONGANENSIUM PIETAS COLLATICIA STIPE AN. MDCCCLXXI P ( posuit) cioè “la Pietà degli Sponganesi, che raccolsero i necessari fondi per la costruzione, dedicò quest’opera nell’anno 1871 a quel trionfale vessillo che è la Croce mostrata al mondo come tale per la prima volta sul monte Calvario”.

In alto, nella parte interna, a livello del timpano, è dipinta la scritta REGNARE NESCIENS NISI IN CRUCEM REX NOSTER vale a dire “il nostro Sovrano sa regnare solo nel segno della Croce”.

Sulle restanti facce dei parallelepipedi ci sono iscrizioni che si riferiscono allo svolgersi della passione, riprendendo i cinque misteri dolorosi del Rosario.

Cupola interna e croci (ph Antonio Chiarello)
Cupola interna e croci (ph Antonio Chiarello)

La prima epigrafe, Orans sanguinem in sudorem emittit, fa riferimento alla preghiera che Gesù recita nell’orto degli ulivi quando, mentre sta  pregando, dalla fronte geme insieme sangue e sudore.

La successiva (OBOEDIT) evidenzia come il Figlio dell’uomo abbia obbedito anche di fronte alle immani sofferenze che sapeva di dover sopportare.

La seconda iscrizione (Flagellis caeditur ad columnam) fa riferimento alla flagellazione patita da Gesù per ordine di Ponzio Pilato.

La terza parla di come sia stato incoronato con una corona di spine (Spinea redimitur corona) per dileggio.

La successiva lapide mostra ancora una sola parola, DILEXIT, che vuol dire amò, perché solo chi ama fino in fondo può sottoporsi a così dura prova.

La successiva (Crucem bajulat in Calvariam) fa riferimento alla Via Crucis quando il Redentore porta sul Monte Calvario lo strumento del suo supplizio.

L’ultima (Affixus Cruci moritur) racconta l’epilogo della vicenda che vede Gesù, crocefisso, morire sul Golgota.

 

Le formelle del timpano iconografia della Passione di Cristo

Il Calvario di Spongano, come abbiamo detto, è diverso dagli altri Calvari salentini, perché non affida il racconto della Passione ad immagini dipinte, ma a epigrafi e bassorilievi, scolpiti in pietra, nelle lesene del timpano, raffigurando oggetti rievocanti episodi della Passione, come nelle croci processionali usate nei riti del Venerdì Santo.

Croce passione Spongano
ph Giuseppe Corvaglia

 

In queste formelle si possono vedere il vaso di unguenti, usato dalla Maddalena in casa di Simone per profumare anzitempo il corpo e i capelli di Gesù, la brocca e la bacinella con cui Pilato si lava le mani e le insegne del potere romano, la corona di spine, i flagelli, il pugno di ferro e la colonna dei supplizi, ma anche le lanterne e i fasci portati dai soldati andati ad arrestare Gesù nel Getsemani, e ancora la tunica tirata a sorte dai gaglioffi sotto la croce, i dadi, la lancia e la canna con la spugna, usate per dissetare e trafiggere il Crocifisso, il calice amaro della passione, il compenso e il cappio del traditore, il sudario della sepoltura e così via.

ph M. Preite
ph M. Preite

Oggi

Da tempo il Calvario compare sulle guide turistiche del paese, viene illuminato di notte e posto in bell’evidenza, ma cominciava  a mostrare le crepe del tempo che si allargavano viepiù fino a metterne in pericolo la sua stabilità e la sua conservazione.

Le formelle del timpano, su cui sono scolpiti i simboli della Passione, cominciavano a deteriorarsi, alcune per l’erosione della pietra, altre per crepe nella pietra stessa.

Un albero, che casualmente si chiama Albero di Giuda (Cercis siliquastrum), aveva esteso le sue radici fin sotto i gradini del tempietto, sollevandone  alcuni, e forse proprio questa spinta dal basso può essere stata la responsabile delle crepe.

Le stesse radici spingevano la balaustrata del lato sud verso l’esterno rendendola instabile. Dal lato est (lato verso la piazza) un possente pino sconvolgeva la balaustra e forse spingeva anche lui dal basso il tempietto e anche da nord l’inoffensivo e bellissimo skynus (o finto pepe) spingeva pericolosamente la balaustra e il tempietto, perché la roccia sotto di lui ne impediva la naturale propagazione delle radici .

ph Giuseppe Corvaglia
ph Giuseppe Corvaglia

Spongano, paese pieno di devozione e generoso, non meritava la perdita di questa importante memoria dei nostri padri, particolarmente originale e significativa.

Tuttavia non ci sono state iniziative e l’Amministrazione Comunale, non essendo proprietaria del bene, ha solo potuto tagliare e rimuovere  il maestoso pino, responsabile in gran parte della instabilità della balaustra.

Non si è neppure costituito un comitato che, come hanno fatto i nostri padri nel 1870 con la raccolta di fondi per costruirlo, potesse dar vita a una iniziativa per salvarlo.

E’ vero che quando si tratta di intervenire su un bene culturale è necessaria perizia e grande competenza, non ci si può improvvisare, e bisogna dare atto che i cittadini di Spongano, in particolare quelli di S. Marina, come si chiama la zona circostante, si sono spesi per ridare dignità al luogo come hanno potuto.

Oggi il recupero di Calvario è una realtà grazie a un progetto di don Vito Catamo, emerito parroco di Spongano, progetto auspicato anche dal compianto sindaco Luigi Zacheo e coordinato dall’attuale parroco don Donato Ruggeri i quali, d’intesa con la Soprintendenza ai beni artistici e culturali e l’Ufficio diocesano dei beni culturali, hanno contribuito a realizzare un progetto che ristabilisce la stabilità e l’integrità di un monumento tanto delicato.

Calvario oggi Preite
ph Antonio Chiarello

A compiere i lavori è stata l’impresa GEM di Marco Preite, non nuova a questo tipo di opere, avendo già ristrutturato una casa del ‘700 in via S. Leonardo e il pregiato frantoio ipogeo di Palazzo Bacile.

Così oggi il Calvario di Spongano, liberato delle insidie delle piante, ormai troppo ingombranti, e riadornato del muro perimetrale, ricostituito con il recupero della balaustra, si può ammirare nella sua nuda bellezza senza sospirare per la sua precarietà.

Ci sarà da lavorare per restaurare il tempietto e valorizzare sempre più il pregevole sito. Per quello ci auguriamo che la devozione e la generosità degli Sponganesi di oggi sappia emulare quella SPONGANENSIUM PIETAS dei loro avi, così che un domani si possa restituire il Calvario all’antica bellezza.

 

 

Bibliografia:

  1. G. Corvaglia, Il Calvario di Spongano sito in contrada S. Marina- Note di storia locale, 2003 Erreci Edizioni Maglie – Comune di Spongano
  2. http://www.comunemontesanosalentino.it/fenomeno-calvari-nel-salento

Santa Vittoria Vergine e Martire: storia di una devozione a Spongano

 

Santa Vittoria, da  http://www.comune.ficulle.tr.it/it/senza_titolo_1.html
Santa Vittoria, da
http://www.comune.ficulle.tr.it/it/senza_titolo_1.html

di Giuseppe Corvaglia

(dall’intervento del 22 dicembre 2006 ai bambini della scuola elementare di Spongano)

 

La devozione verso Santa Vittoria degli Sponganesi non è presente alle origini del paese.

E’ nel ‘600 in seguito alla Controriforma e soprattutto sotto l’influenza di Vescovi, come il vescovo di Castro Francesco Antonio De Marco che dona alla comunità una reliquia della Santa, che si cerca di far radicare il culto di Santi romani rispetto al culto di Santi di origine greca molto diffuso nel Salento per ragioni storiche e politiche.

A Spongano, a parte il culto mariano, erano oggetto di culto diversi Santi di origine greca: San Giorgio, titolare della parrocchia, Santa Marina, San Teodoro.

Nel XVII secolo viene introdotto a Spongano il culto di Santa Vittoria vergine e martire,fanciulla della nobiltà romana tesa verso una vita felice, promessa sposa ad un giovane nobile e brillante la quale si avvicina però alla buona novella cristiana grazie agli insegnamenti della cugina Anatolia. La fanciulla rinuncerà alle liete prospettive di una vita agiata e desiderabile e si donerà completamente a Cristo e alla carità verso i fratelli affrontando con fortezza e fede salda il martirio.

Gli Sponganesi provarono grande simpatia e devozione per questa giovane donna che rinuncia a una esistenza lieta, spensierata per insegnare l’amore senza paura di affrontare la morte e il 20 luglio 1766 con riunione del Capitolo parrocchiale e  un’adunanza del parlamento cittadino,  acclamano Santa Vittoria “special Protettrice e Padrona di questa terra di Spongano” ufficializzando una devozione sincera e sempre più crescente. Il parroco dell’epoca era don Crispino Bacile.

La Sacra Congregazione dei riti, sotto il papa Urbano VIII, il 21 febbraio 1767 concede di festeggiare la Santa nella seconda domenica di agosto.

La devozione è davvero sentita e così lo stesso anno il clero e il popolo chiedono il permesso di cantare il responsorio, scritto da un anonimo devoto sponganese, Salve Christi sponsa electa, un canto suggestivo giunto fino ai giorni nostri con intatta capacità di evocare intensa devozione. Il testo canta la storia e le virtù della santa giocando molto sul nome Vittoria e sul suo significato.

Negli anni successivi viene anche avanzata la richiesta di poter festeggiare la Santa anche il 23 dicembre data del suo martirio, secondo il martirologio romano, e il 3 agosto 1785 il Vescovo di Castro Agostino Gorgoni acconsente alla richiesta.

A Spongano, Santa Vittoria viene invocata contro il terremoto, la grandine, il maltempo e i fulmini. Probabilmente questo è da porre in relazione con alcuni episodi accaduti uno dei quali il 2 settembre 1779 e un altro il 13 agosto 1884 entrambe nella Chiesa Madre.

Un altro prodigio viene riferito, con aura di leggenda, durante la celebrazione per la festa patronale quando un fulmine entrò dal finestrone centrale della facciata con grande strepito, attraversò tutta la navata centrale piena di gente, come il resto della Chiesa, e andò a schiantarsi sul braccio del simulacro della Santa. Si dice che alcuni dei presenti videro il braccio della statua lignea protendersi verso la saetta quasi a proteggere la gente radunata in quel luogo sacro.

I tempi cambiano e nel 1951, in occasione del XVII centenario del martirio della Santa, il parroco dell’epoca, don Antonio Ligori, scrive un inno alla Santa in italiano con il quale si invoca la sua protezione sulle persone più deboli come i malati (la sofferente età), gli anziani (la declinante età) e su l’umanità intera. ma anche sui giovani (la giovanile età) bisognosi di sostegno e di guida. Santa Vittoria è ricordata infatti per l’opera di apostolato rivolta soprattutto ai fanciulli e ai bambini mentre era prigioniera a Trebula nell’agro romano; anche per questo la Santa è protettrice della gioventù femminile di Azione Cattolica.

Questo inno resta attuale anche se da alcuni anni è in auge un pregevole inno, composto dal Prof. Antonio Rizzello, più moderno, orecchiabile e coinvolgente ma non per questo meno autorevole.

Il testo evoca la storia della Santa e invoca la sua protezione sugli sponganesi e, nel ritornello, assume il nome, Vittoria, con il suo proprio significato. (Vittoria avrà chi crede in Te e dona a dio la sua libertà).

Come si può vedere ancora oggi la devozione verso questa Santa a Spongano non si è per nulla attenuata e non solo per la sontuosità dei festeggiamenti in suo onore, ma soprattutto per la sentita partecipazione del popolo di Spongano alle funzioni e alla affollata processione.

Pubblicato su Villaggio Salento Agosto 2007

 

RESPONSORIO IN ONORE DI SANTA VITTORIA v. m.

(anonimo sponganese  1767)

 

Salve Christi sponsa electa

Coeli sedibus invecta

Thriumphans Victoria

                                             Rit.      Deum pro nobis deprecare

                                                         Ut possimus reportare

                                                         De mundo victoria

Forti pectore expulisti

Et insaniam repressisti

In tui amore Eugenii.

                                              Rit.       Deum pro nobis deprecare……

Te fortiorem admiramur

Dum constantem contemplamur

In tormentis Decii

                                               Rit.      Deum pro nobis deprecare

Duplex hostis debellatur         

Duplex tibi preparatur

Palma in coelis gloriae.

                                              Rit.      Deum pro nobis deprecare

Gloria Patri et filio                                                         

Et Spirito Sancto

Traduzione

 

Salve, o eletta sposa di Cristo,

Vittoria,

condotta in cielo in trionfo.

                                                          Rit.      Intercedi per noi presso Dio

                                                                     affinché possiamo essere                     

                                                                     vittoriosi sulle malvagità

                                                                    e le avversità del mondo

                                                                    

Esprimesti un cuore saldo

E vincesti l’insensatezza

dell’amore per il tuo Eugenio.         

                                                                  Rit.

 Ti Ammiriamo fortemente

 e ti  contempliamo sicura

 nei tormenti  subiti per ordine di Decio

                                                                                               Rit.     

 Hai vinto un doppio nemico

 E per questo ti è stato preparata

Una duplice gloria  nei cieli.

                                                                                               Rit.    

Gloria al Padre e al Figlio

E allo Spirito Santo

                                                                                               Rit.     

 

INNO A SANTA VITTORIA NEL XVII CENTENARIO DEL MARTIRIO

                                                               (1951)

Scritto da Mons. Antonio Ligori

Musica di Padre Raffaele Letizia

Santa Vittoria Martire che il cor sacrasti a Dio

E nella fede intrepida sprezzasti il mondo rio

Salve o Vittoria Vergine; dal ciel di tua beltà

Mira con occhio tenero la giovanile età. (2 volte)

 

Il petto tuo virgineo offristi con ardore

Al duro acciar che celere ti trapassava il core;

fecondo allor spandevasi tuo fior di castità;

mira con occhio tenero la sofferente età. (2 volte)

 

Tuo nome ognor rivelasi presagio di vittoria

E col passar dei secoli assurge a nuova gloria .

I figli erranti e trepidi invocan tua pietà

Mira con occhio tenero la declinante età (2 volte)

 

Da questa terra turgida d’odio, di sangue ed onta,

guida nostr’alme misere al Ben che non tramonta;

fa che seguiamo docili le vie dell’amistà;

mira con occhio tenero tutta l’umanità. (2 volte)

 

Del dolce Cristo inebriaci Vita dell’alme e Via,

forti ci renda e impavidi la Santa Eucaristia;

Del cieco invano cercasi del Ciel la chiarità,

deh, Tu ci appresta vigile tua tenera bontà. (2 volte)

 

Spongano fedelissima dei Padri alle memorie

Nel centenar con giubilo inneggia alle tue glorie.

Tu a Cristo questo popolo tua dolce eredità

Consacra e un dì festevole Vittoria canterà (2 volte)

 

 

Inno a Santa Vittoria 

parole e musica del Prof Antonio Rizzello

Martire della fede,

O vergine Vittoria,

Cantando la tua gloria

Ci rivolgiamo a Te.

 

Tu consacrasti a Dio

Il fior degli anni tuoi

Vigila su di noi

Dall’alto della tua santità

 

Rit.      Vittoria avrà

Chi come Te

Consacra a Dio la sua libertà

Esempio Tu di fedeltà

di sacrificio e di carità.

 

Andasti al tuo martirio

Col tuo Signore in cuore

Il tuo terreno amore

Donasti al tuo Gesù.

 

L’esempio tuo risplenda

In tutti noi tuoi figli

La tua virtù consigli

A non tradire la verità.

 

Rit.      Vittoria avrà

Chi come Te

Consacra a Dio la sua libertà

Esempio Tu di fedeltà

di sacrificio e di carità.

Un libro sulla chiesa confraternale di Spongano

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di Giuseppe Corvaglia

 

Così è finalmente arrivato il nuovo libro di Filippo Giacomo Cerfeda: “Loquar ad cor eius – La chiesa confraternale dell’Immacolata di Spongano e l’omonima Confraternita”.

La passione per la storia e i documenti lo spinge sempre a farci conoscere aspetti della nostro passato che ci fanno sentire più completi e aumentano l’orgoglio di appartenere a questa comunità.

La storia serve a farci capire da dove veniamo, è la radice che ci ancora a questo mondo e che ci rende saldi nel cammino, ci rende forti quando è tempo di spiccare il volo ed è la meravigliosa sensazione che ci fa sentire a casa anche in capo al mondo. La storia dei nostri luoghi è parte fondamentale della nostra identità e dobbiamo ringraziare chi arricchisce questo patrimonio.

Questa volta, però, il lavoro di Cerfeda mi è sembrato particolarmente eccellente perché, oltre a parteciparci dei documenti nascosti in archivi polverosi, ha saputo raccontarci la vita della Congrega dell’Immacolata di Spongano dagli albori della sua esistenza fino ai giorni nostri mostrandocela come una creatura che, nonostante i 360 anni trascorsi dalla sua fondazione, è ancora vitale e pulsante, capace animare l’aspetto devozionale senza far mancare un apporto diverso alla comunità, e a far sentire viva questa vita di fratellanza al lettore.

L’autore, da archivista fine e appassionato, ci mette a disposizione tutti i documenti che ha trovato negli archivi vicini e lontani e anche in quelli smembrati (come quello della diocesi di Castro diviso fra gli archivi parrocchiali di Poggiardo, Castro, Marittima e Diso e l’archivio diocesano di Otranto), ma, da didatta, non tralascia di spiegare il senso e il succo di questi documenti.

Ne restano perciò appagati sia gli estimatori appassionati, che possono gustare i documenti per loro inaccessibili, sia i lettori comuni che vogliono conoscere la storia e il senso attuale di questa Confraternita.

Ma questo libro ha un altro pregio, quello di proporci documenti attinti a fonti diverse: dall’Archivio diocesano, che Filippo Cerfeda conosce bene, agli archivi citati, compresi quello della Confraternita e della Parrocchia. Ci propone, infatti, anche molti documenti notarili che ci spiegano meglio alcuni aspetti frequenti dei tempi andati, quando le Confraternite, oltre alla formazione spirituale e al suffragio dei morti, erano dedite anche al soccorso degli associati concedendo dei prestiti o l’uso dei terreni di loro proprietà.

Il percorso propostoci dall’Autore ci racconta l’evoluzione della confraternita che, nata come associazione devozionale, si trova ad avere a che fare anche con le leggi del mondo per cui verso la fine del 1700, quando la stessa deve essere riconosciuta dallo Stato, si chiede l’assenso del Re per la fondazione e le regole. L’ assenso verrà poi concesso il 15 marzo del 1778.

La supplica al Re è firmata da 67 cittadini, fra cui i sacerdoti della parrocchia, e ci fa vedere cognomi noti e magari anche quelli dei nostri avi.

I tempi cambieranno e altre volte la Confraternita dovrà chiedere il riconoscimento come persona giuridica sia nel 1925 sia nel 1992.

Un altro segno dei tempi che cambiano sarà nel 1820 l’approvazione di una regola, per una Fratellanza inizialmente solo maschile, che consenta di associare anche le donne, ancora oggi una importante parte dell’associazione. Tale disposizione verrà attuata da un decreto del Re del 1830.

Interessante poi l’excursus sulle diverse confraternite laiche della storia di Spongano che, rispetto a precedenti lavori, appare più completo, perché Cerfeda riesce a fare il punto della situazione, integrandolo con altre notizie, come per la Confraternita del Rosario che a un certo punto cessa di esistere, per cui il patronato dell’altare della Madonna del Rosario, restando la devozione, diventa di patronato popolare.

C’è da dire, come riconosce l’autore stesso e sa bene chiunque abbia cercato di interessarsi della materia, che soprattutto le nostre comunità, che facevano parte della diocesi di Castro, hanno patito una dispersione documentaria che per certi aspetti non ha favorito una ricerca mirata e puntuale; questo ha reso ancora più prezioso il lavoro e lo sforzo dell’autore.

Un aspetto, per me, molto interessane e allo stesso tempo sconosciuto è stato la scoperta di aggregazioni con altre confraternite che erano una forma di solidarietà fra confraternite che si scambiavano i suffragi per i propri confratelli defunti. Infatti in base a veri e propri accordi, la Confraternita di un paese ricordava nelle messe di suffragio anche i defunti di altre Fratellanze le quali, a loro volta, ricordavano i defunti di quella confraternita nelle messe di suffragio per i propri morti. Cerfeda ci mostra alcune di queste lettere che rammentano al priore in carica gli accordi chiamati anche alleanze, per meglio rendere l’idea.

Molto interessanti sono le notizie sul culto della Madonna Immacolata. A differenza del culto di Santa Vittoria, il culto mariano, e in particolare dell’Immacolata, lo troviamo già alle origini della comunità. Cerfeda ci ricorda che già nella vecchia chiesa parrocchiale c’era un altare dedicato e che il decreto di fondazione della confraternita intitolata a Maria Immacolata risale al 1653.

Altre notizie ci vengono date sulla cappella vera e propria, dalla sua origine alla sua riedificazione dopo dei danni prodotti verso la metà del 1700 da eventi atmosferici. Dai documenti non si evince chi sia stato il costruttore né colui che l’abbia riedificata, ma Cerfeda fa un lavoro di “investigazione”, riuscendo a formulare un’ipotesi sicuramente attendibile che riferisce alla famiglia Gambino sia l’iniziativa sia proprio la maestranza per la ricostruzione dell’opera.

Anche il capitolo degli arredi ci fa scoprire cose nuove ed inaspettate come il Calvario mobile dipinto da Alessandro Bortone e che speriamo non sia andato perduto.

Altro capitolo curato dall’autore è quello dei privilegi e delle concessioni dove cita e riproduce brevi e documenti papali che definiscono tali privilegi soprattutto nei giorni di festa per la Madre di Dio e per gli altri compatroni della confraternita: San Raffaele Arcangelo e San Luigi Gonzaga, le cui effigi troviamo ai lati del dipinto dell’Immacolata.

Bella poi la spiegazione dell’epigrafe posta sopra lo stesso dipinto che l’Autore utilizza in parte per il titolo di questo libro. Da esperto epigrafista non gli basta tradurre dal latino, ma ci propone alcune spiegazioni esegetiche davvero molto belle e ci fa capire quale poteva essere l’intento dei padri che l’avevano scelta come monito per tutti.

Penso che la spiegazione di Sant’Alfonso Maria de Liguori sia quella più appropriata, perché la preghiera è comunitaria, come quella della confraternita, ma è anche raccoglimento e meditazione di chi si porta in un luogo isolato e cerca un dialogo con Dio che parla al suo cuore.

Altre interessanti notizie Cerfeda ce la dà riguardo ai censi bullari e ai canoni: i primi erano prestiti erogati dalla Fratellanza e regolati da bolle pontificali che evitavano interessi da usura e che diventavano una risorsa specie per i confratelli meno abbienti e più esposti, i canoni erano gli affitti delle proprietà terriere, anche loro a prezzo agevolato.

Entrambe erano una cosa molto seria tanto che per stipularli era necessario un atto notarile e  proprio da questi atti, proposti dall’autore e ritrovati in archivi privati, come quello di casa Bacile, assumiamo tanti particolari che ci danno uno spaccato della vita di quei tempi.

E’ però degna di nota tutta la parte documentale che è apprezzata, per lo più, dagli addetti ai lavori. Qui diventa una lettura molto interessante specie nella parte che ci fa conoscere le regole  sia quelle della prima concessione reale del 1778 sia quelle della seconda concessione, fatta dopo la riforma del diritto canonico del 1925.

Sono regole interessanti da leggere e attualissime  per chi voglia chiamarsi cristiano e devoto ma anche per chi si vuole chiamare persona civile. Gli articoli XIII (Procurino li Fratelli amarsino l’un l’altro nel Signore ed esser fra loro uniti con sincera carità dando buon esempio a tutti con la buona vita e costumi ) e XIV (tutti fuggano con ogni diligenza le mali compagnie, l’ubriachezze, le bestemmie, le mormorazioni ed altri motivi di parole impertinenti e scandalose, schiferanno i giuochi di carte e dadi, e massimamente li luoghi dove si esercitano … e si fanno altre dissolutezze ed eccesso, giocando però per qualche loro onesta ricreazione lo faccino a giuochi leciti e con pochi denari) sono davvero illuminanti, ma anche gli altri non sono da meno.

Possiamo definire questo libro un lavoro bello, edificante e istruttivo, voluto tenacemente dal Priore e da tutti i confratelli che, a vario titolo, hanno contribuito alla sua realizzazione.

Investire, specie oggi, è difficile in tutti i campi, ma farlo nella storia e nella conoscenza è un investimento che non dà apparentemente frutti tangibili immediati, ma che arricchisce l’uomo di oggi e le generazioni future.

Un plauso va anche all’avvocato Paola Vilei per la nota sullo stato giuridico delle confraternite di oggi, semplice, ma molto puntuale ed esplicativa.

La lettura del libro è stata molto gradevole; mi hanno portato a leggerlo, sicuramente, la mia passione per la storia patria e l’attrattiva che da sempre hanno su di me i lavori di Filippo Giacomo Cerfeda, ma forse ha molto contribuito la nostalgia di un chierichetto che serviva messa alla Congrega col suo amico Luigino e si guadagnava un soldino dal priore. Che si confessava al volo prima di entrare per la messa con quel gran sacerdote, innamorato perso della Madre di Dio, che era Don Vittorio Corvaglia, che ti assolveva se volevi comunicarti dicendo:< Che peccati puoi aver fatto?> E aveva ragione: che peccati si possono fare a 10-12 anni?

Nostalgia allora , ma anche sana curiosità, direi anche soddisfatta pienamente, su una delle Istituzioni di Spongano.

Attenti a wikipedia: quando è scritta con i piedi aprite gli occhi

panare

di Giuseppe Corvaglia

Wikipedia è una grande risorsa e il concetto che esprime di raccogliere più informazioni con una serie di informatori diffusi nel mondo per metterle a disposizione di tutti è rivoluzionario e altamente democratico, ma talvolta vengono scritte delle inesattezze quando non proprio delle baggianate.

C’è chi riesce ad accorgersene e a porre rimedio ma chi non si rende conto o non sa? Continuerà a perseverare nell’errore.

Mentre cercavo delle notizie su Santa Vittoria, protettrice del mio paese natio, ho letto che venivano fornite notizie sul culto di Santa Vittoria a Spongano. La cosa mi ha lusingato ma dopo averlo letto sono rimasto di stucco e poi mi sono indignato non poco.

Il testo diceva così: A Spongano la festa viene celebrata il 23 dicembre: in paese si mette in scena una rappresentazione e recita della storia della santa e si perpetua il rito della bruciatura delle panare (le foglie dell’albero della palma). La patrona si festeggia anche durante la stagione estiva, con la festa del paese dell’8 agosto in onore dei turisti.

Ora è vero che la festa patronale è la festa più importante , la festa in cui anche i paesani emigrati ritornano, la festa in cui si ritrova la comunità ma è sempre in onore della Santa. Si possono fare sagre della granita, della cunserva mara, della pirilla, dell’addio e dell’accoglienza in onore dei turisti ma la festa patronale è un’altra cosa.

Ma vediamo le inesattezze riportate.

Il 23 dicembre intanto non si mette in scena alcuna rappresentazione e recita. Negli anni passati la rappresentazione sulla passio della Santa  venivano fatta occasionalmente in estate per la festa grande ma mai a dicembre. E si perché la festa principale a Spongano è quella dell’estate dal 1767 altro che festa fatta in onore dei turisti.  Fu la Sacra Congregazione dei Riti, sotto il Papa Urbano VIII, il 21 febbraio 1767 che concesse di festeggiare la Santa nella seconda domenica di agosto festa che poi nei secoli si è stabilizzata all’8 di agosto quindi molto prima dell’avvento dei turisti.

Solo più di un secolo dopo la Cittadinanza chiese di festeggiare la Patrona il 23 dicembre perché la data della sua memoria indicata dal Martirologio cristiano   era appunto il 23 dicembre e nel 1785 l’arcivescovo di Castro Agostino Gorgoni acconsentirà a tale richiesta.

Sulle Panare poi le informazioni rasentano l’assurdo. Le panare sono cesti, grandi panieri che al posto di avere un unico manico che va da un bordo all’altro, hanno due manici sul bordo per prendere la stessa quando è piena e pesante in due.

Per cui le Panare non sono fatte di palme. Tutti i cesti e tutti panieri vengono fatti di giunchi o di canne.

Le palme nelle Panare di Spongano c’entrano come ornamento al pari di festoni di carta, di edera, di bandierine, di aranci e mandarini etc. etc.

Come farebbero le foglie di palme a sorreggere il peso della sansa che riempie le Panare?

Insomma un pasticcio che mette a nudo un problema  vero: l’affidabilità di uno strumento preziosissimo per tutti noi.

Da qualche giorno con la collaborazione di Antonio Andrea Pedone abbiamo corretto le informazioni così: Spongano la festa principale  viene celebrata l’8 agosto in ricordo di fatti prodigiosi avvenuti a Spongano (uno di questi accaduto proprio nella chiesa madre il 2 settembre 1779). Qui era invocata contro il terremoto, la grandine, il maltempo e i fulmini. La Sacra Congregazione dei Riti, sotto il Papa Urbano VIII, il 21 febbraio 1767 aveva già concesso di festeggiare la Santa nella seconda domenica di agosto. [3] [4]. il 23 dicembre: (……Negli anni successivi viene anche avanzata la richiesta di poter festeggiare la Santa anche il 23 dicembre data indicata dal martirologio cristiano, e il 3 agosto 1785 il Vescovo di Castro Agostino Gorgoni acconsentì a tale richiesta).

Alla vigilia, il 22 dicembre, si svolge una festa detta delle Panare (ceste di canna e virgulti di ulivo riempite di sansa e addobbate con palme, edera ed altri abbellimenti combustibili) che nasce come festa dei frantoi e non ha un riferimento con la patrona anche se sulla gran parte delle panare viene posto un ritratto della stessa [1][2].

 

Ora a questo errore è stato posto rimedio ma sarebbe opportuno che tutti noi, specie le nuove generazioni qualche volta allergiche a ricerche più approfondite e talvolta inclini alla comodità, e wikipedia è comoda, si faccia attenzione e anche che i volontari appassionati che sono preparati sorveglino e che chi non è informato o preparato eviti di scrivere commenti senza fondamento e senza costrutto.

La cunserva mara

peperoncini

di Pino de Luca

 

“Laudato si’, mi Signore, per frate focu, per lo quale ennallumini la nocte, et ello è bello et iocundo et robustoso et forte.” Notissima questa Lode del Cantico delle Creature.

Frate Focu è bello, iocundo, robustoso e forte e, se siamo a Scorrano anche molto molto saporito. Già Frate Focu è il nomignolo che è appioppato ad una delle salse più straordinarie che offra il Salento: in tutti gli altri comuni, in particolare a Spongano, detta Cunserva Mara.

Prodotto di origine almeno seicentesca da annoverare tra quelli di lunga durata[1] visto che utilizza le solanacee come elemento costitutivo e il calore come elemento conservativo. La salentinità è specificata dall’Olio d’Oliva come elemento protettivo.

È noto che le solanacee (quasi tutte) hanno provenienza esotica, precisamente dalle Americhe e che, a parte numerosi studi che ne predatano la scoperta da parte dell’Europa, solo con le caravelle cominciano gli scambi intensi e le traversate comode dell’Atlantico.

Le solanacee sono notoriamente velenose[2] ma è altrettanto noto che la solanina è termolabile e quindi il potere venefico scompare con il calore.

Due fra di esse sono i componenti della “Cunserva mara”: il peperone e il pomodoro.

Del peperone, in ragione della parentela con “frate focu” si usa una varietà dolce e una varietà ricca di capsaicina, anch’essa venefica (dicono) ma tanto tanto saporita …

Infatti “mara” non è sinonimo di amara bensì di piccante e la piccantezza è derivata dalla percentuale di “tiaulicchi” con il quale si confeziona “Frate Focu”.

Secondo il protocollo dei prodotti tipici di Puglia le percentuali tra peperone e pomodoro devono essere rispettivamente 70% e 30%, ma non v’è proferito verbo sulla divisione tra “pipe russu” e “piparrussu” che sembrano uguali solo che il primo è dolce come una carota e il secondo arriva facile facile al centinaio di migliaia di Scoville[3].

Diciamo che un 70-30 tra dolce e piccante da una salsa alla quale tutti si possono approcciare. Sul 50-50 comincia a diventare “Frate Focu” …

Il materiale da utilizzare per la Cunserva mara è dunque costituito da peperoni rossi dolci, peperoncini rossi piccanti e pomodorini fiaschetti. Tutti questi ingredienti devono essere ben lavati, privati del picciolo e dei semi e sminuzzati. Posti quindi in una grande pentola, allungati con un fondo di acqua fresca e una manciata di sale, coperti per bene e lasciati a bollire a fuoco lentissimo per 4-5 ore, fino a quando i pomodori (ricordarsi che devono essere privati di semi) non si spappolano completamente.

Quando la marmellata è bella cremosa essa va passata con una macchinetta per fare la salsa e la passata va posta in ampie terrine di terracotta per alimenti. Devono essere molto ampie e poco profonde poiché vanno esposte al sole protette da zanzariere a trama sottilissima per evitare gli insetti e la polvere.

L’esposizione avverrà tutti i giorni dall’alba al tramonto fino a quando la “Cunserva Mara” non assumerà un colore mogano scuro e sarà abbastanza dura.

Quando la salsa si è essiccata la si pone in un vaso profondo (limmu o limbu) sempre di creta vetrificata, la si copre con un telo di lino e la si lascia al fresco per due o tre giorni, la cunserva si ammorbidirà riassumendo una certa pastosità.

È tempo della “spatolatura”: poco alla volta si aggiunge Olio Extra Vergine di Oliva (OEVO) e con una “cucchiara” di grandi dimensioni si mescola l’olio alla cunserva. In dieci-dodici giorni avremo una crema densa ma molto cremosa e spalmabile che può essere trasferita in vasetti di vetro sterili e coperta con un filo di OEVO.

Compagna inimitabile di friselline, sagne ‘ncannulate e, fidatevi, di arrosti alla brace e formaggi semistagionati, la Cunserva Mara fa da companatico di per sé.

La Cunserva Mara e Frate Focu sono festeggiati appositamente e rispettivamente a Spongano e Scorrano.

 



[1]      cunserva viene senza dubbio da conservare, “cum serbare” ovvero mezzo con il quale proteggere

[2]      Autoproducono la solanina, un alcaloide glicosidico che utilizzano per proteggersi da funghi e insetti.

[3]      La scala Scoville è quella che misura, in maniera organolettica, la “piccantezza” di un peperoncino, vi sono altre scale più oggettive ma la Scoville è ancora la più usata. Per avere una misura i valori tra 2500000-5200000 della scala indicano gli spray della Polizia. Un peperoncino molto piccante arriva a 50000-70000 Scoville, tranne i super campioni come Habanero che può arrivare a 800000 o all’Infinity Chili che arriva a 2000000. Diciamo che dopo i 100000 siamo al limite del commestibile anche se vi sono persone che riescono ad usarlo serenamente.

Il sansificio di Spongano. La manna dei cieli maledetti

stabilimentu[1]
ph Giorgio Tarantino
di Corinna Zacheo Campi

 

Era con questa citazione letteraria che noi, scherzosamente, parlavamo della pioggia continua di fuliggine nera  che si posava sulle lenzuola immacolate di bucato, stese ad asciugare; che si infilava in casa da qualsiasi fessura; che forzava il blocco del paravento per disporsi in sottili filari ai lati estremi di porte e finestre.

Te la trovavi dappertutto.

Sulle terrazze poi, si accumulava in tutti gli angoli, dove il vento ci giocava a disegnarvi curiose dune ma che mani irrequiete usavano per tutt’altro divertimento.

Infatti, che ci stava a fare lì tutta quella sabbia nera che sporcava l’acqua piovana che andava dritto in cisterna e serviva a dissetarci e a liberarci dall’arsura di estati torride?

Bisognava far pulizia, e, una volta, ricordo mi misi a scagliare già ripetute manciate di fuliggine.

Il bello o il brutto fu che in quel momento sfilava una squadra di giovani avanguardiste….(1942?) tra le quali c’era mia madre, che, come insegnante, era tenuta a indossare la divisa e a partecipare alle parate del “sabato fascista”.

Successe un po’ di finimondo, perché qualcuna s’accecò e in casa piovvero proteste del gerarca, del podestà, della guardia municipale: che mi tenessero a bada, che non mi permettessi più di compiere simili irriverenze.

Certo è che dovetti prendermi un bello spavento; forse per questo il ricordo è rimasto fisso nella mia  mente, di cui mi vanto, anche perché mi fa testimone di tanta storia.

Erano i tempi in cui frequentavo, forse, ancora l’asilo o le prime classi delle elementari, e, di questa piccola industria, che mi trovavo sotto casa, la “macchina” per antonomasia o lo ”stabilimento”come lo chiamavano i miei compaesani, mi godevo il movimento, il via vai dei traini, che arrivavano dai frantoi dei paesi vicini, e che sostavano sotto le finestre di casa mia.

Mi divertivo ad ascoltare i discorsi dei carrettieri  ed aspettavo con ansia mista a paura, che i cavalli superassero l’ingresso, dal selciato  scivoloso, in salita.

Era un momento difficile e occorreva tutta la perizia del carrettiere, che, a suon di frustate, “aiutava” il cavallo a prendere la rincorsa e a bloccarsi di colpo, subito dopo sulla stadera oscillante. I cavalli sbavavano, annaspavano, e non era raro il caso che qualcuno….cadesse. Allora era un’impresa farlo risollevare con tutto il carico e…. lo spettacolo si faceva interessante.

Intanto sullo spiazzo adiacente, il cumulo di sansa cresceva sempre più e diveniva montagna. Sopra, per tenerla ben pressata, vi facevano passeggiare una coppia di buoi che tirava avanti e indietro una specie di rullo perché schiacciasse e comprimesse il cumulo, che non franasse.

Io controllavo il tutto dall’alto della terrazza; infatti lì vi passavo la maggior parte dei pomeriggi; bastava che non piovesse: studiare in terrazza mi pesava di meno, tanto il diversivo era assicurato. Infatti c’era un continuo andirivieni di gente.

Nelle ore di punta, poi, l’orario in cui il portone s’apriva per il cambio di turno degli operai, era consuetudine vedere gente accalcarsi, far la fila, litigare per qualche precedenza carpita prima del dovuto.

Ciascuno era attrezzato con qualche vecchio secchio ammaccato, con qualche mezzo bidone, o con qualche bacinella di ferro smaltato ai cui bordi era legato un filo di ferro filato per agevolar la presa, a mò di manico… e la genialità del popolo era imprevedibile nel trasformare qualsiasi rudere in un comodo contenitore. Guadagnato l’ingresso a forza di gomitate e qualche volta a suon di “secchiate” o di capase o di qualunque altra ferraglia…. che servisse a farsi largo, il “fortunato” ne usciva e si allontanava orgoglioso, col suo caldo bottino …. di  fuoco … e che importa se procedeva affumicato ed asfissiato? Erano gli scarti della sansa combusta e fumigante, che bisognava lasciar fuori di casa, sul limitare, per strada, perché la brace decantasse e smettesse di fumare.

I più raccomandati, i vicini, perché non reclamassero – c’era già sentore di protesta – avevano un trattamento particolare: ricevevano brace scelta senza fumo e, lì, dove si poteva ricorrere al sotterfugio, riuscivano a farla in barba, magari a chi attendeva da ore e non voleva sentir ragione di cedere il suo turno a chicchessia.

Noi eravamo tra quelli fortunati…, non venivamo respinti in malo modo, ma, ammiccanti, i vari incaricati di aprire e chiudere la porta, ci concedevano favori speciali; una vera fortuna, a detta dell’invidia di certe amiche. Chi invece non aveva voglia di scherzare era mia madre, che, già avanti negli anni, avvertiva più di noi i malefici effetti dell’ossido di carbonio e di altri gas dilaganti nell’aria che, ad aprir porte e finestre si finiva solo ad aggravare la situazione.

< Mi avvelenano, – brontolava –  non posso respirare, altro che fuoco e fortuna!>

E doveva uscire di casa e andare da una sua collega che aveva la buona ventura di abitare più lontano.

Noi non le badavamo gran che e, intanto, su quel ben di Dio rovente ci mettevamo a cuocere di tutto dal pane abbrustolito alla… “pignata”.

Io, nelle lunghe serate d’inverno, temperavo la fatica dello studio col caldo tepore, a pochi centimetri dalla brace.

Di solito smettevo alle 23; avveniva a quell’ora il cambio del turno notturno degli operai .

Il loro vociare, sotto casa, spesso, però, era una sveglia da un comodo sonno sui libri.

Torpore? Forza d’inerzia? Così mi sentivo rimproverare dai miei!

Mi resi conto più tardi, quando cominciai a capire, che ogni sera avevo rischiato un avvelenamento da ossido di carbonio, e… intanto sentivo mia madre lamentarsi  sempre con maggiore insistenza.

Nelle belle giornate di tramontana, quando il vento del Nord, che dava il cambio allo Scirocco che ci aveva inzuppato per settimane di umido e di pioggia, doveva portare aria pulita, fresca, frizzante, invito imperante ad aprire bocca e narici e riempire i polmoni d’aria pura… bisognava chiudere porte e finestre e uscir di casa, andare lontano,  per l’asfissia.

Le lenzuola, nei giorni di scirocco, non si asciugavano e, nei giorni di tramontana si riempivano di fuliggine.

Le donne di casa erano disperate, tutti, del vicinato presero a lamentarsi,  ad imprecare.

Lo stabilimento, si diceva con preoccupazione, era stato ampliato e nuove tecniche e nuovi  solventi chimici ne acceleravano  i processi di lavorazione della sansa e d’estrazione dell’olio combustibile; giacevano grossi depositi di materiale infiammabile.

Correva voce che quello stabilimento, posto lì, al centro del paese, era un serio pericolo per tutti.

Già aveva fatto le sue vittime, al suo nascere. Lo stesso Ingegnere F. Rizzelli, primo proprietario, mi raccontava mia madre, era morto, sepolto da brace rovente, per via dello sportello di una fornace, che si era aperto all’improvviso . La paura cresceva. Qualcuno prese l’iniziativa di un ricorso, non so a chi.

Per tanto tempo non se ne fece niente …. finchè… un giorno … un boato: era scoppiato qualcosa. Un operaio ne uscì quasi torcia umana e…. s’andò a spegnere sotto la fontana vicina. Fu soccorso, portato in ospedale e….  dopo mesi di degenza, vivo per miracolo.

Da quel giorno, però, la preoccupazione per il candore del nostro bucato e per i mal di testa, per l’aria sempre satura di veleni,  passò in second’ordine.

La paura che tutto potesse esplodere si tramutava in ansia quotidiana, d’ogni ora, d’ogni minuto. Il minimo rumore sospetto ci faceva trasalire.

Io, intanto, avevo cambiato casa, ma solo per peggiorare la situazione: mi trovavo in una strada adiacente , larga appena cinque metri e su cui incombeva il muro cieco dello stabilimento alto due piani: quasi addossati al muro le fornaci e i macchinari “ronfanti”. A quel ritmo sordo ci eravamo pur abituati; sapevamo anche che, a certi intervalli, avveniva una specie di decompressione, come nelle vecchie locomotive dei treni all’ingresso della stazione, per chi ne abbia ricordo; era un boato sordo, lungo e , da certi sfiatatoi, finestri grigliati a mezzo metro dal terreno, si spargeva nella strada una nuvola densa di vapore caldo. Ma guai, se questi ritmi subivano la benché minima alterazione.

La paura diveniva incontrollabile: il cuore saltava in gola… si era come nell’ attesa dell’inevitabile.

E… in piena notte, un boato, una fiammata: qualche voce concitata per strada e…. la sentenza : era meglio allontanarsi, l’esplosione poteva propagarsi a tutti i depositi; sarebbe stata la fine…. Meglio non immaginare. Bisognava fare in fretta. Feci scendere dal letto i miei tre figli mezzi addormentati; misi addosso qualche scialle e…. uno in braccio, gli altri per mano li trascinai sonnolenti e piagnucolanti (tutti e tre insieme non dovevano superare i 10 anni) in casa di mia madre, che… distava qualche metro più in là.

Da quel giorno lo Stabilimento non funzionò più. Dopo qualche anno, quando ormai mi ero trasferita altrove, la “macchina” fu demolita a poco a poco: ora sfuggono al mio ricordo le tappe di questa demolizione che, certamente sarà lenta,  lunga e…. anche triste.

In fondo tutto ciò che gli stava intorno ha fatto parte della mia infanzia e della mia giovinezza. Forse, anche pèr questo, la memoria ha rimosso ogni traccia. Adesso, passando per andare a scuola, – percorro sempre la stessa strada, – non vedo più l’alta ciminiera, né i muri ciechi e… mi sembra un sogno guardare l’amena villetta che ha preso il suo posto.

La strada si è raddoppiata, anzi triplicata e fa da comodo parcheggio.

L’aria è pura …. I cieli hanno rotto il maleficio e, se pur non largiscono latte e miele, almeno ci concedono di godere, senza ansie e  paure, del vero colore del volgere delle stagioni.

Passando accanto alla villetta mi piace indugiare tra le aiuole, almeno col pensiero, visto che la frenesia moderna non ci permette soste, incredula quasi di una realtà che , in altri tempi non avrei osato sognare.

 articolo

Pubblicato da Nuovo Spazio il 22 aprile 1995.

La devozione per la Madonna di Lourdes a Spongano

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di Giuseppe Corvaglia

La devozione mariana a Spongano cambia nel tempo aspetti ma resta una costante dell’impianto devozionale, un pilastro per la fede degli Sponganesi come ci ricorda Filippo Casarano in un articolo pubblicato sul giornale del Comune qualche anno fa (Il culto della Madonna – Note di storia locale. Spongano periodico dell’Amministrazione Comunale – Anno V 25 aprile 2001).

Il patronato di Spongano viene chiesto per Santa Vittoria nel 1766 e non è stato mai richiesto per la Madre di Dio, ma è evidente una grande devozione per essa.

Intanto ce lo testimonia già agli albori del paese la presenza di una chiesa dedicata alla Madonna delle Grazie, che ospita una confraternita dedicata alla Madonna Immacolata, e la devozione per la Madonna del Buon Consiglio (festeggiata nei tempi andati il 26 aprile).

Alla Vergine con questo titolo, che ricorda il miracolo di Genazzano, in chiesa è dedicato un altare e si può vedere la statua processionale conservata sopra la porta della sacrestia. In paese, poi, non è raro trovare testimonianze di devozione popolare, come le edicole poste all’angolo fra via S. Leonardo e via Fulvio Bacile e via S. Angelo e via Montegrappa.

Ma verso la fine del 1800 un nuovo impulso viene dato da monsignor Gaetano Bacile dei Baroni di Castiglione, ancora giovane parroco del paesino natale, che, dopo un pellegrinaggio a Lourdes, viene affascinato dagli eventi che ivi sono accaduti e che hanno sconvolto il mondo intero, non solo religioso.

Il mondo è cambiato. Il Positivismo e la scienza vagliano con attenzione gli eventi miracolosi e anche la Chiesa deve mostrare cautela. Ma di fronte a quella contadinella ignorante che parla di una Signora che prega insieme a lei con il Rosario e che si definisce Immacolata Concezione non si riesce ad archiviare tutto come allucinazione, visione o frottola.

Poi ci sono i miracoli che mettono in crisi anche i medici e gli scienziati più laici, quando non atei.

In questa temperie il giovane parroco di Spongano sente che la devozione alla Madonna di Lourdes è la modalità più bella per incanalare la sincera, filiale devozione degli Sponganesi per la Madre celeste.

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Così mette in campo entusiasmo, fede, estro creativo, cultura e conoscenza e progetta un percorso che vede ancora gli Sponganesi in cammino.

Il progetto prevede l’acquisto di una statua, la costruzione di un santuario e l’elaborazione di uno strumento per elevare lo spirito come un libretto di preghiere.

La statua viene commissionata nel 1876 allo scultore napoletano Reccio che a maggio di quell’anno la ultima e la fa arrivare a Spongano. In  seguito la pregevole opera verrà allocata in una nicchia sopra l’altare del cappellone decorata come se fosse la grotta di Massabielle.

Anche il santuario vedrà la luce con la costruzione del cappellone posto a sud e inaugurato dallo stesso monsignor Bacile, diventato Vescovo di Castellaneta, nel 1884.

L’altro punto il curato lo realizza sempre nel 1876 prestissimo stampando un libretto di preghiere a lei dedicato, che contiene anche un Inno che ancora oggi viene cantato solennemente dalle Figlie di Maria (associazione di preghiera) durante il momento topico della festa religiosa.

 

L’inno

L’inno “Orsù dunque festosi e giulivi” penso che abbia suggestionato e continui a suggestionare gli sponganesi di tutte le età. Viene cantato durante la processione della vigilia quando la statua giunge in piazza Vittoria, dove si ferma la processione.

E’ un omaggio alla Madonna ma anche un modo di affidarsi a Lei come madre ed assume lo stesso significato che in altri paesi ha la consegna delle chiavi della città.

La voce di tutta la comunità è quella delle giovani Figlie di Maria, che per l’occasione si vestono con gonna blu, camicetta bianca e foulard azzurro.

Ma a rendere particolarmente solenne il momento è la strumentazione per banda che accompagna l’inno sacro. La banda prova al mattino con le Figlie di Maria e, quando si arriva in piazza ci si ferma, ci si dispone e poi si attacca. Dopo un’introduzione solenne parte il coro di giovani donne che viene accompagnato dalla musica e, davvero, sembra sgorgare dal cuore.

L’inno comincia con un’esortazione a venerare la Diva di Lourdes decantandone i miracoli fatti ma, soprattutto, esaltandone i pregi del suo amore verso di noi.

Ella infatti per le tribolazioni (plaghe) del genere umano (dei fidi Adamiti, figli di Adamo) fornisce un rimedio meraviglioso (dolce medela): quello di manifestarsi e dire agli uomini che Lei è con loro e che le loro preghiere possono essere ascoltate.

Così Monsignor Bacile cerca di sbalordirci come lo è Bernadette al momento dell’apparizione.

Dice: squarcia il monte e se  stessa rivela a Bernarda dal candido cor.

In realtà la roccia non si apre, la grotta di Massabielle esiste già e Bernadette non sente rumori ma solo un soffio di vento. Ma quella Signora luminosa (dal suo volto raggiante fulgor), vestita di bianco con una fascia azzurra (ceruleo color) in vita, che ha fra le mani un rosario e sui piedi due rose dorate è più eclatante di un tuono, più roboante di un terremoto per quella semplice fanciulla.

Il ritornello è un’accorata preghiera ad accogliere il devoto omaggio della popolazione che viene esaltato dagli ottoni e dalle percussioni, così da diventare un grido liberatorio che si alza in cielo e si chiude con il punto coronato della banda.

E’ questo l’acme della festa, il momento principale che corona le preghiere, la processione, i fuochi, le luminarie, la banda. Senza questo momento di affidamento la festa non sarebbe la festa de la Madonna.

Questo momento negli anni è stato preparato molto spesso dal Prof. Antonio Rizzello, maestro di rango, che sa sempre guidare le giovani voci coordinandole con i musicanti che, da professionisti, ogni anno con poche prove riescono ad offrire un momento davvero emozionante e unico.

 

Orsù dunque festosi e giulivi

La gran Diva di Lurd veneriamo

I prodigi di lei ricordiamo

E i suoi pegni più cari d’amor.

Alle piaghe dei fidi Adamiti

Ella appresta una dolce medela;

squarcia il monte se stessa rivela

a Bernarda dal candido cuor.

                    Ritornello : O Vergin di Lurd

                              Regina d’amor

                              Accogli l’omaggio

sincero del cuor!

 

Questa ascolta e guardando sorpresa

La rimira di neve vestita,

ampia zona le cinge la vita

di un vivace ceruleo color.

Un Rosario la Diva ha fra le mani

Ai suoi piedi germoglian le rose

E rivela le grazie nascose

Dal suo volto raggiante fulgor.

                    Ritornello : O Vergin di Lurd

                              Regina d’amor

                              Accogli l’omaggio

                              sincero del cuor!

 

Per ascoltarlo in una esecuzione pubblica diretta dal Prof. Antonio Rizzello

Le Cacàgnule di Spongano

cacagnule

Le prime elezioni amministrative dell’Italia repubblicana a Spongano attraverso alcuni componimenti in vernacolo

di Giuseppe Corvaglia

 

Spongano, come altri paesini, vede periodicamente comparire mediante affissione, volantinaggio, corrispondenza o altre forme di pubblicazione, componimenti anonimi in dialetto o in italiano simili alle “Pasquinate” ma dette qui “Cacagnule”* da una serie di tali componimenti uscita negli anni ’80. Essi erano e sono ispirati a fatti politici o di costume d’interesse prettamente locale, esprimono opinioni personali o denunce e sogliono uscire, per lo più in concomitanza con elezioni amministrative comunali.

Ve ne proponiamo alcuni usciti nel 1946 in occasione delle prime elezioni amministrative della Repubblica scelti sia per la finezza e l’arguzia di qualcuno di essi sia per cercare, attraverso i medesimi, di comprendere il clima di quell’epoca.

 

Terminata la seconda guerra mondiale si rese necessario un ricambio della classe dirigente.

Si respirava un’aria nuova e con essa s’intravedeva anche la possibilità di operare dei cambiamenti nella società. Strumenti per fare ciò erano il suffragio universale (con il diritto di voto esteso, per la prima volta, anche alle donne, istituito dalla Consulta nel febbraio 1946) e la libertà di votare per più liste fino a quel momento soffocata dal fascismo.

Molti rappresentanti di spicco delle diverse classi sociali ritennero importante scendere in campo sia per contribuire  direttamente   alle scelte che avrebbero portato al rinnovamento della nazione sia perché, finalmente, si poteva operare nell’ambito della cosa pubblica senza compromettersi con un regime che aveva mostrato a pieno la sua faccia crudele e opprimente.

Bisognava voltare pagina.

Come dice F. Barbagallo nel suo libro “Dal 43 al 48- La formazione dell’Italia democratica” “… C’era da ricostruire uno Stato e una società e prima ancora bisognava ridefinire i fondamenti etici e culturali della convivenza civile, della comunità nazionale.  Un tale processo, come tutte le vicende storiche, non si sviluppa in asettici laboratori o in isolati circoli intellettuali; ma si svolge sul terreno aspro del confronto e del contrasto fra i diversi ideali, progetti, interessi, speranze. E’ questo un periodo molto ricco proprio perché fondativo di un nuovo ordinamento politico e sociale preparatorio di rinnovati valori morali, espressioni e comportamenti culturali.”

Anche Spongano divenne laboratorio e molti cittadini si sentirono di dover partecipare a quest’atto costitutivo della società e dello Stato che andavano rinnovandosi.

Le elezioni che si svolsero nella primavera del 1946, nonostante in molte città si sarebbe votato in autunno, furono importanti per verificare l’effettiva rappresentatività dei partiti politici che fino a quel momento erano stati rappresentati pariteticamente nel Comitato di Liberazione Nazionale oppure erano restati fuori dal governo come il Partito Repubblicano e il Partito dell’uomo qualunque.

Nel   marzo   del   1946 si tennero   a   Spongano  le prime   elezioni   del dopoguerra.

Così come in tutta Italia, anche a Spongano si presentò la Democrazia Cristiana proponendosi quale alternativa popolare sia alle destre sia alle sinistre, ma non fu considerata con grande benevolenza dalla ricca borghesia e dall’aristocrazia che a Spongano, durante il ventennio fascista, aveva espresso la classe dirigente.

Si può dire, tuttavia, che non faticò a raccogliere consensi grazie all’appoggio della Chiesa che si rese concreto in una propaganda capillare e di sicuro effetto su gran parte della popolazione. Oltre all’opera diretta del Clero fu importantissima l’attività dell’Azione Cattolica.

Non si trattava ancora della campagna anticomunista messa in atto nel 1948 quanto piuttosto di una propaganda volta a conseguire un obiettivo comune con le sinistre che era quello di evitare che i fascisti riprendessero le leve del potere, magari riciclandosi. Già si cominciava a intravedere quello che diventò poi il motivo ricorrente della propaganda democristiana caratterizzata da antifascismo e da anticomunismo e che utilizzerà a scopi elettorali immagini terrificanti e vistosamente esagerate.

Non si presentò a Spongano nella tornata elettorale del 1946 una lista di sinistra così come non furono aperte sezioni del PCI o del PSIUP. C’era qualche elettore o qualche giovane che faceva propaganda ma senza effetti significativi.

A Spongano la DC nello scegliere i candidati evitò accuratamente e, direi scientificamente, rappresentanti dei grandi proprietari terrieri. L’unico di questi a figurare nella lista,  Pantaleo Alemanno detto Terno,  non era sicuramente tra i più rappresentativi della classe.

Nella stessa lista si candidarono pure l’insegnante Antonio Alemanno, fra l’altro il più votato con 765 voti, Salvatore Monti, che nel 1949 diventerà Sindaco dopo la morte di Pantaleo Alemanno, Donato Montagna, piccolo commerciante che era  considerato all’epoca per essere stato, con successo, più volte priore della festa di S.Antonio, o Luigi Spagnolo detto Scicchi, uomo molto stimato fra la gente  e gestore di un negozio di generi alimentari che di sera diventava luogo di ritrovo, e poi ancora artigiani, commercianti e contadini. In questo modo la DC si presentò come il partito del popolo, quello che voleva e poteva contrastare il potere della classe padronale.

E’ difficile, per qualcuno, pensare alla DC come partito popolare specie per chi ha conosciuto la stessa come partito di potere e di governo tuttavia in quell’occasione la popolazione sponganese, al di là della pressione clericale che pure era notevole, in mancanza d’altri partiti d’estrazione popolare, ritenne la D.C. uno dei partiti più affidabili per la tutela dei propri interessi.

All’epoca, infatti, i grandi possidenti e in particolare i baroni Bacile di Castiglione decidevano tutto: dal prezzo delle derrate alla paga giornaliera dei braccianti e grande era il desiderio che ci fossero regole giuste applicabili a prescindere dalla volontà dei padroni. Non è che la popolazione fosse propriamente oppressa da tutta la classe padronale  anzi  bisogna dire che,  nel complesso,  ad essa derivavano buoni vantaggi dal fatto che, oltre a un grande proprietario terriero, a Spongano ce ne fossero anche altri sebbene non tutti campioni di correttezza. In quegli anni, infatti, la manovalanza per il lavoro nei campi poteva essere reclutata a Spongano anche per lavori nei feudi degli altri paesi e questo faceva sì che la maggior parte degli sponganesi avesse di che lavorare.

Ancora oggi, poi, si tramanda generalmente un buon ricordo della famiglia Bacile in special modo di Domenico, don Mimmi, e della moglie, donna Johanna Grossmayer, donn’Hansa,  che in tempi veramente difficili seppero aiutare alla bisogna i più poveri. Per non parlare poi di Filippo uomo poliedrico che, oltre a studiare metodi per il rimodernamento della produzione dell’olio, prestò la sua opera indefessa perché Spongano avesse il privilegio di fruire della ferrovia e, ancora, di altri membri della famiglia da Monsignor Gaetano fino a Fabio ai nostri giorni.

Ma al di là delle simpatie e del dovuto rispetto, c’era una voglia di libertà, di affrancarsi, di camminare da soli soprattutto dopo esperienze tragiche, dolorose e devastanti come la guerra e la dittatura.

Alla D.C. si opposero tre liste: una di ex combattenti e reduci di guerra, spesso nostalgici del vecchio regime, una lista civica guidata da Donato Stasi, di ispirazione conservatrice, rappresentata da un orologio e un’altra lista contrassegnata da una spiga di grano guidata da Giovanni Bacile.

Fu questa lista la vera antagonista della D.C. e raccolse gli esponenti della borghesia e della nobiltà sponganese nonché altre persone di popolo che, contrarie all’avvento della sinistra o di un partito controllato dalla Chiesa, vedevano un rischio e un pericolo di asservimento ancora più grande che quello creato dal manganello e dall’olio di ricino nell’opera di persuasione svolta dal parroco e da persone a lui vicine. E’ illuminante al proposito un frammento  raccolto   oralmente   dall’autore  nel  quale  “Chicco”    personaggio protagonista di alcune pasquinate, dice, rivolgendosi alla propria moglie (Carmela detta ‘Mmela): – “Quannu Cristu morse an Croce \ certu, ‘Mmela, no pinzava \ ca nu giurnu qualche boia\ su ‘ddhra Croce speculava“.-

Di questa lista facevano parte oltre a Giovanni Bacile, padre del barone Fabio, Antonio Rizzelli, altro proprietario terriero e dello stabilimento di trasformazione della sansa, Luigi Marsella già segretario comunale nonché persona colta ed esperta di leggi, regolamenti e dei fatti sponganesi e l’ingegnere Giuseppe Alemanno. Simpatizzava per questa lista tra gli altri Gino Stasi gentiluomo colto di cui si tramanda l’arguzia.

Il verdetto delle urne premierà la Democrazia Cristiana e Pantaleo Alemanno sarà eletto Sindaco.

L’andamento delle elezioni sarà condizionato non solo dal grande attivismo dell’Azione Cattolica e della Chiesa ma anche da una certa sicurezza di tenere la situazione sotto controllo che la lista della Spiga aveva ma che poi alla resa dei conti non si rivelò così sicura.

In questo lavoro vi presentiamo due dei tanti componimenti usciti in quell’occasione, che per la maggior parte sono andati perduti e di cui si ricorda qualche frammento tramandato oralmente. E’ probabile che questi due si siano salvati perché, stampati in tipografia, abbiano avuto una diffusione maggiore mentre gli altri , passati “brevi manu” oppure affissi, sono probabilmente andati perduti o, come dicevo, sopravvissuti in frammenti tramandati oralmente.

Non si conoscono gli autori di questi componimenti; sono state fatte ipotesi e girano voci di popolo ma niente di preciso non essendo gli stessi firmati se non con pseudonimi. E’ però evidente la parte politica per cui essi tengono.

Infatti se “Pe le elezioni te lu 46” è evidentemente pro D.C. “La ‘Mmela e lu cumpare Arciprete “ prende invece le parti della lista della Spiga e, per celia ma anche per simpatia, di quella dei reduci.

Proprio quest’ultimo componimento è interessante per la forma che l’autore sceglie, oserei dire “sceneggiata”.

Questi, infatti, non proclama le sue idee e i suoi programmi ma li mette in bocca a un’ingenua popolana che spiega all’autorità religiosa le sue convinzioni, poche in vero, e quelle del marito Chicco. Questi sostiene che la spiga è un tesoro per tutti e le tre spade sono quelle che hanno difeso la patria dai nemici ma l’orologio è tutto scombinato e fa le sei e mezza (prima di vedere i simboli delle liste pensavo che fosse un modo per ironizzare visto il palese doppio senso invece le lancette raffigurano proprio quell’ora .N.d’A.) mentre la Croce sul simbolo della D.C. è stata inventata solo per mettere zizzania.

Quindi dice che in Paradiso certamente non si sarebbero intristiti qualora Pantaleo Alemanno su questa terra non fosse diventato Sindaco di Spongano; d’altra parte il Padreterno non sarebbe stato così ingenuo da scambiare un fattore per angioletto oppure da far entrare in Paradiso un proprietario di mulino. Anzi, se avesse potuto, avrebbe preso tutti a colpi di ramazza e per primo proprio l’Arciprete.

La ‘Mmela continua poi spiegando come la D.C. pensi di mantenere la tassa sulla famiglia o in ogni caso di sobbarcare gli altri di tasse. Alla fine inviterà l’Arciprete a interessarsi delle cose di Chiesa e, provocatoriamente, a votare per la Spiga o per l’Elmetto. Non c’è solo un intento provocatorio in quest’invito ma c’è, come dicevo la sicurezza di poter governare gli eventi, di poter contare sulla gran parte dei cittadini tanto da tollerare anche  che alcuni voti, che col senno di poi avrebbero potuto essere importanti, verso un’altra lista.

Il secondo componimento è meno teatrale e si presenta sotto forma di proclama. Colpisce l’uso di un dialetto che sembrerebbe più vicino al dialetto della zona limitrofa a Maglie (…nu spettati n’addhra fiata… -… ma de l’addhri ci fattore…) rispetto all’altro componimento che sfoggia un dialetto sponganese più puro.

Qui il primo lapidario commento è per la lista di Stasi che l’autore dice, ironicamente, di ammirare. Poi l’autore parla della lista dei reduci che però accusa di non essere quegli eroi che dicono di essere. Molti infatti, secondo l’autore erano rimasti imboscati al paese oppure avevano disertato.

Non erano perciò molto simpatici a chi la guerra l’aveva fatta sul serio oppure vi aveva perso una persona cara. L’accusa può sembrare legittima ma va ricordato che proprio nell’ultima parte della seconda guerra mondiale disertare spesso significava salvarsi la vita ed evitare i campi di concentramento.

Quindi si passa alla vera controparte: la lista  della Spiga.

L’autore dice che alcuni dei candidati di questa lista non sono affidabili essendo incapaci di sbrigare i propri affari personali o essendo troppo impegnati per interessarsi delle faccende pubbliche. Poi accusa questa lista di voler caricare la povera gente di tasse grazie alla machiavellica abilità di Luigi Marsella e di utilizzare un membro della famiglia Bacile, influente e ben voluta, come espediente per gabbare la povera gente.

Il tema delle tasse è sollevato da tutte le fazioni ed usato come spauracchio per screditare l’avversario in realtà tutti sono coscienti che l’imposizione di pesanti tributi, considerata la disastrata situazione del paese, sarà una dolorosa necessità.

Proprio per questo non si può fare a meno di notare la “faccia tosta” dell’autore che evidenzia le cattive intenzioni della lista antagonista ma subito dopo si affretta a dire che i candidati della D.C. non sono tutti stinchi di santo e che se pure avessero dovuto sbagliare non ci sarebbe stato di che preoccuparsi perché Dio avrebbe visto e provveduto.

Non ci è dato sapere se il Padreterno abbia provveduto alla D.C. sicuramente il responso delle urne, qui come in tutta Italia, aiutò De Gasperi a rafforzare la sua leadership e quella della D.C. per le elezioni politiche che si sarebbero tenute di lì a poco e a Spongano la Democrazia Cristiana governò fino al 1964, grazie sempre alla provvidenza del Padreterno.

 

* Le Cacagnule propriamente dette escono intorno a Pasqua dell’82 e prendono il via da un concorso per applicato per il Comune. A seguire, però toccheranno diversi argomenti. Esse sono la reazione ad un’amministrazione che aveva lottato alacremente per vincere su una lista civica guidata da Fernando Erriquez in auge per 15 anni criticato per una gestione clientelare e poco ortodossa, e  rappresentano una certa insofferenza verso chi si era proposto come giusto e incorruttibile e su un concorso mostrava i vecchi metodi clientelari e spartitori.

Il Sansificio di Spongano

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 di Giuseppe Corvaglia

 

Nel 1926 l’ingegnere Francesco Rizzelli impiantò a Spongano un opificio per l’estrazione dell’olio dalla sansa, residuo solido della molitura delle olive.

L’impianto raccoglieva la sansa dei frantoi vicini e, all’inizio, estraeva un olio di scarsa qualità, avendo circa il 40% di acidità, che veniva utilizzato come combustibile (olio lampante) o come substrato nei saponifici.

La ragione di questa scarsa qualità era legata alla tecnologia e in particolare al solvente usato, la trielina. Con il tempo, utilizzando il benzene come solvente, si ottenne un olio migliore, con una acidità ridotta al 15%. Quest’olio veniva acquistato da alcune industrie del nord, fra cui la Costa di Genova e un’altra grande azienda di Firenze (forse la Carapelli), dove veniva ulteriormente raffinato per uso alimentare e immesso sul mercato.

L’attività dell’impianto, durata per circa cinquant’anni, fu anche funestata da diversi incidenti in uno dei quali, il 24 novembre 1927, lo stesso fondatore, l’ingegnere Francesco Rizzelli, perse la vita carbonizzato in un incendio. L’opera fu continuata dal fratello, l’ingegnere Raffaele, che apportò anche importanti modifiche tecnologiche tali da consentire di prolungare per tutto l’anno il ciclo produttivo, prima riservato alla sola stagione olivicola.

Una delle innovazioni più importanti fu il progetto di un grande silos dove la sansa veniva stipata dopo l’essiccazione, consentendo un ridotto utilizzo del solvente ed una maggiore resa in termini di qualità e di quantità.

deposito di sansa nel sansificio di Spongano
deposito di sansa nel sansificio di Spongano

La sansa, proveniente dai frantoi che adottavano la spremitura a freddo delle olive, veniva accumulata in un’area dell’opificio e prelevata da un sistema di secchielli per essere poi convogliata nell’essiccatore. Da qui, asciutta e priva di impurità, poteva essere depositata nel silos o versata direttamente nell’estrattore, dove veniva riscaldata a temperature elevate (circa 100°) e quindi sottoposta a vaporizzazione di solvente (benzene), ottenendo finalmente il prodotto da distillare.

Nello stabilimento erano collocati tre estrattori, ognuno dei quali poteva trattare quarantacinque quintali di sansa, in un ciclo lavorativo di circa sette ore, che richiedeva quasi sette litri di benzene. Una maggiore umidità avrebbe fatto aumentare la quantità di solvente necessario per il procedimento, per questo l’efficienza produttiva era maggiore con la sansa essiccata e depurata.

L’olio ottenuto con tale procedimento veniva poi distillato, con una resa finale di circa sette quintali rispetto ai quarantacinque  di sansa, pari dunque a circa il 13%.

Il residuo della lavorazione, la sansa esausta, veniva riutilizzato come combustibile sia per le caldaie e i fornelli degli essiccatoi dello stesso stabilimento, sia per altri scopi, fra tutti l’utilizzo nelle carcare di Taurisano, fornaci dove venivano cotte zolle di pietre calcaree per ottenere la calce. A Spongano, ma anche in altri comuni del Salento, la sansa veniva usata anche per rendere più morbido il fondo dei campi da calcio in terra battuta.

Traini

Negli anni Ottanta lo stabilimento fu dismesso, in parte per il rischio dovuto all’uso di grandi quantità di solventi portati ad elevate temperature, ma anche per l’ubicazione in pieno centro abitato e per l’inquinamento che derivava dai processi lavorativi.

Forse, però, la ragione più importante è da ricondurre al progresso tecnologico che, intanto, aveva cambiato i presupposti produttivi per quel tipo di opificio. Iniziavano, infatti, ad essere attive le cosiddette mulinova: impianti a ciclo continuo, con un procedimento di molitura delle olive da cui si ottiene  una sansa di qualità diversa.

Nella spremitura a freddo, infatti, la pasta, ottenuta dalla frangitura delle olive, viene distribuita su fiscoli, diaframmi di corda, in fibra naturale (cocco) o sintetica (naylon), che poi vengono impilati e sottoposti a spremitura per mezzo di presse idrauliche. Nella spremitura con il sistema delle mulinova la frangitura può essere fatta con le tipiche mole che macinano le olive nella vasca oppure da un frangitore a martelli. La pasta ottenuta passa in una macchina detta gramolatore che agevola la rottura dell’emulsione di acqua e olio per la successiva fase di estrazione. L’estrazione, in questo caso, avviene in una macchina a centrifuga detta decanter che, sfruttando la forza centrifuga e una temperatura più alta rispetto alla molitura a freddo, separa la parte solida, sansa, dal mosto di olio e da un residuo acquoso, detto morchia. La sansa che viene ottenuta è sbriciolata e meno sfruttabile per l’estrazione di nuovo olio.

Quando lo stabilimento sponganese era ancora attivo, si spargeva nei dintorni un odore acre, particolare, liberando nell’aria un pulviscolo che creava non pochi disagi ai residenti, per qualche problema respiratorio, e alle massaie, disperate per il bucato messo ad asciugare.

Molto interessante, a proposito, è il racconto La manna dei cieli maledetti di Corinna Zacheo che per anni ha vissuto vicino all’opificio e che descrive bene cosa significava vivere accanto a questo “pachiderma brontolone”.

Il racconto inizia così:

 

“Era con questa citazione letteraria che noi, scherzosamente, parlavamo della pioggia continua di fuliggine nera che si posava sulle lenzuola immacolate di bucato, stese ad asciugare; che si infilava in casa da qualsiasi fessura; che forzava il blocco del paravento per disporsi in sottili filari ai lati estremi di porte e finestre.

Te la trovavi dappertutto.

Sulle terrazze poi, si accumulava in tutti gli angoli, dove il vento ci giocava a disegnarvi curiose dune ma che mani irrequiete usavano per tutt’altro divertimento […] che ci stava a fare lì tutta quella sabbia nera che sporcava l’acqua piovana che andava dritto in cisterna e serviva a dissetarci e a liberarci dall’arsura di estati torride?”[1]

 

Il racconto descrive anche piccoli momenti di vita quotidiana di chi ci lavorava, soffermandosi particolarmente sulla motivata preoccupazione degli operai in occasione del difficoltoso ingresso dei cavalli nell’opificio, costretti a varcare la soglia in liccisu, leggermente scoscesa e scivolosa. L’autrice ricorda anche la montagnola di sansa, depositata prima dello stoccaggio nei silos, sulla quale “transitavano una coppia di buoi che tirava avanti e indietro una specie di rullo perché schiacciasse e comprimesse il cumulo, di modo che non franasse”[2].

Sull’alta ciminiera, di forma tronco-piramidale, era situato l’unico parafulmine del paese, quanto mai necessario per impedire che una qualsiasi saetta potesse scaricarsi sul deposito dei solventi infiammabili.

Ma il maltempo spingeva comunque a prendere le dovute precauzioni, staccando l’energia elettrica, interrompendo il lavoro con l’allontanamento delle maestranze fino alla normalizzazione delle condizioni atmosferiche, rammentando agli astanti e a quanti risiedevano nelle immediate vicinanze che tutti si era in continuo pericolo.

Infatti chi abitava vicino all’opificio viveva con la paura di dover scappare ad ogni rumore particolarmente sospetto, anche di notte, in pigiama con una coperta addosso.

Per la popolazione, però, lo stabilimento non era solo un inquinante o una sorta di bomba. Era anche una risorsa non solo per chi ci lavorava.

La miseria dei tempi e le tristi condizioni di vita venivano alleviate di tanto in tanto quando veniva concesso agli operai ed ai paesani di portarsi in casa un secchio di quella sansa incandescente che, riposta in capaci contenitori in metallo, consentiva di cuocere una pignatta di legumi o riscaldare le abitazioni umide e fatiscenti.

Continua ancora la Zacheo:

 

“…nelle ore di punta, poi, l’orario in cui il portone s’apriva per il cambio di turno degli operai, era consuetudine vedere gente accalcarsi, far la fila, litigare per qualche precedenza carpita prima del dovuto. […] Ciascuno era attrezzato con qualche vecchio secchio ammaccato, con qualche mezzo bidone, o con qualche bacinella di ferro smaltato ai cui bordi era legato un filo di ferro filato per agevolar la presa, a mo’ di manico […] e la genialità del popolo era imprevedibile nel trasformare qualsiasi rudere in un comodo contenitore. Guadagnato l’ingresso a forza di gomitate e qualche volta a suon di “secchiate” o di capase o di qualunque altra ferraglia […] che servisse a farsi largo, il “fortunato” ne usciva e si allontanava orgoglioso, col suo caldo bottino …. di  fuoco … e che importa se procedeva affumicato ed asfissiato? Erano gli scarti della sansa combusta e fumigante, che bisognava lasciar fuori di casa, sul limitare, per strada, perché la brace decantasse e smettesse di fumare. I più raccomandati erano i vicini, e perché non reclamassero avevano un trattamento particolare…”[3]

 

Collegata allo stabilimento, ma indipendente dal ciclo produttivo, funzionava una ghiacciaia per la produzione di blocchi di ghiaccio. Quel ghiaccio, che mia nonna chiamava ancora nive, serviva a bar e ristoranti, specie in estate, ma anche in casa per alcune cerimonie o per preparare deliziose granite e veniva custodito in cassapanche di legno, avvolto con sacchi di juta e paglia. Anche dalla ghiacciaia, come in inverno con la sansa incandescente, qualche vicino e qualche paesano cercava di ottenere in regalo qualche pezzo di ghiaccio in estate quando frigoriferi non ce n’erano.

Là dove sorgeva l’opificio, demolito negli ultimi mesi del 1982, oggi c’è piazza della Repubblica; un parcheggio, un giardinetto e un mercato dismesso hanno soverchiato quella che fu fiorente realtà industriale sponganese.

Del sansificio resta solo uno sbiadito ricordo nei più grandi e nulla nei più giovani che non hanno conosciuto l’odore acre della sansa surriscaldata e la fuliggine che si spandeva per l’aria, “manna dei cieli maledetti”, così come ci è stata raccontata da Corinna Zacheo .

 

Si ringraziano di cuore, per la gentile collaborazione, Raffaele Gravante, Claudio Miccoli, Marcello Bramato e Giorgio Tarantino.

Pubblicato su Il delfino e la mezzaluna n°2.

 


[1] C.ZACHEO, Manna dei cieli maledetti

[2] Ibidem

[3] Ibidem

Le Panare, Santa Vittoria e Spongano (Lecce)

La nascita e le origini delle “Panare” si perdono nel tempo e sarebbe suggestivo farle risalire alle feste del fuoco che nell’antichità si svolgevano in prossimità del solstizio d’inverno tra cui quella paganissima del Sole Invitto su cui si è poi innestato Natale.

 

LE PANARE

di Giuseppe Corvaglia

Una storia precisa delle “Panare” sarebbe difficile da tracciare e questo lo sa bene chiunque abbia cercato con curiosità appassionata tra le carte (che non ci sono) e nella memoria collettiva della nostra comunità.

E’ innegabile che questa sia una festa propria della cultura contadina e racchiude, probabilmente, i due significati tipici di queste feste: il ringraziamento per il raccolto dell’annata e la propiziazione per il raccolto dell’anno successivo.

La nascita e l’origine delle “Panare” si perdono nel tempo e sarebbe suggestivo farle risalire alle feste del fuoco che nell’antichità si svolgevano in prossimità del solstizio d’inverno tra cui quella paganissima del Sole Invitto su cui si è poi innestato il nostro Natale.

E’ probabile che la nostra festa possa essere annoverata tra quelle che si celebravano per ottenere la benevolenza del Dio Sole e che presentavano come elemento caratterizzante il culto del fuoco come apportatore di salute, benessere, ricchezza e vita.

Le analogie sono innegabili: ad esempio il gesto rituale di raccogliere del fuoco dal falò acconciato dalle “Panare” per portarlo nel braciere di casa propria era non era solo un’esigenza dettata dalle povertà ma un vero e proprio atto propiziatorio (si diceva per devozione) con cui ogni famiglia rinsaldava i suoi legami con l’intera comunità prendendo parte alla prosperità generale.

In altri paesi sono ancora in uso oggi riti del tutto simili dove al centro delle feste invernali c’è il ceppo di Natale o “Confuoco” nome nel quale è messo bene in evidenza il legame fra i vari nuclei familiari della comunità intera.

Un significato analogo va ricercato nel legame tra le Panare e la protettrice Santa Vittoria, legame tenacemente ricercato dalla fantasia popolare fino a cambiare il martirio della giovinetta, che venne trafitta con la spada in un rogo di cui le “Panare” sarebbero il simbolo.

Ho potuto constatare ultimamente la tenacia degli sponganesi nel difendere questa versione ascoltando un adattamento che è un compromesso delle due versioni.

Il racconto ammetteva il martirio tramite la spada ma solo perché le fiamme del rogo rifuggivano dalla Santa. Non c’è che dire: proprio incorreggibili.

Certo da tempo immemorabile su tante “Panare” viene messo un ritratto di Santa Vittoria ed anche il comitato che si occupa della festa del giorno dopo in onore della Santa organizza pure le “Panare”.

Tuttavia un nesso vero e proprio non c’è e lo dimostra il fatto che ancora oggi la messa importantissima con il bacio della reliquia è in contemporanea con il corteo delle “Panare”, per cui partecipare ad una festa significa escludere l’altra. D’altra parte in una festa il cui significato preponderante è quello propiziatorio di favorire un buon raccolto è naturale che trovi spazio una Santa Protettrice così amata e venerata.

A Spongano era tradizione che il 22 dicembre, nel pieno della stagione olearia, ogni frantoio attivo preparasse queste ceste intrecciate appositamente per sostenere un peso discreto, riempiendole con sansa a “paddhrotte” e decorandole al meglio con elementi naturali o, comunque, combustibili come mandarini, arance, festoni d’edera e fiori e bandierine di carta colorata. Così acconciate venivano caricate su un carretto, almeno prima dell’avvento di camion e trattori, e portate la sera in un giro di raccolta per le vie del paese.

Ogni panara, anche se il frantoio era decentrato rispetto al percorso, aveva il diritto di uscire accompagnata dalla musica di una bandinella; la banda andava a prenderla ed essa si metteva in coda al corteo che proseguiva nella raccolta delle rimanenti.

La prima panara era ed è ancora quella della “Casa  cranne” vale a dire del palazzo del barone Bacile, o più precisamente del suo frantoio; e per lungo tempo proprio piazza Bacile è stato il punto d’arrivo del corteo. Non è stato tuttavia l’unico sito utilizzato per l’occasione anzi ve ne sono stati diversi : dalla piazza principale, quando si chiamava piazza Mercato (probabilmente cambiata perché all’epoca troppo piccola) a via Fratelli Rosselli o al largo vicino al Mercato coperto in tempi più recenti.

Il numero delle panare indicava se l’annata era stata buona o grama poiché corrispondeva al numero dei frantoi in attività.

A cavallo degli anni Ottanta le “Panare” hanno conosciuto un momento di scarsa partecipazione: erano infatti poche (molti dei tradizionali frantoi rimanevano inattivi con l’avvento delle moderne mulinove in grado di molire più ulive con costi più bassi) e l’entusiasmo della gente per questa festa si era ridotto in parte per l’uso smodato dei mortaretti che pure, se usati con criterio, fanno parte della tradizione.

E’ in questo periodo che un gruppo di persone, pur non facendo parte di un frantoio ma comunque pratiche del mestiere, decise di fare una sua Panara. Quello che poteva sembrare una rottura della tradizione ha rappresentato invece l’inizio di una partecipazione più attiva da parte della gente del paese.

Nel 1987 il Gruppo di Ricerca e Sperimentazione- musica  popolare –, inserendosi in questo spirito nuovo, ha voluto riproporre la Panara quanto più vicina alla tradizione e l’ha acconciata su un carretto tirato dai suoi componenti, sotto la supervisione di Salvatore Bramato.

Per l’occasione il gruppo in collaborazione con il comitato per i festeggiamenti, ha intrattenuto, con il suo spettacolo di musica popolare, la cittadinanza prolungando ben oltre la festa.

Da qualche anno poi le scuole elementari hanno voluto fare le “Panare dei bambini” che sono una lodevole esperienza didattica e un’occasione per i più piccoli di partecipazione in prima persona.

Dopo quelle esperienze la festa si è andata allargando e la cittadinanza oggi partecipa sempre più attivamente sia acconciando le “Panare”, sia prendendo parte ai vari intrattenimenti che i vari comitati approntano.

In questo modo la Panara è diventata occasione di aggregazione non solo per le varie associazioni ma anche per gruppi di amici o vicini di casa. In questo sembra rivivere l’atmosfera dei tempi andati quando la competizione fra le tante persone coinvolte nel lavoro dei frantoperciò protagoniste di questa festa, poteva portare a risultati lodevoli o a vere e proprie marachelle.

La Panara, infatti non doveva spegnersi e anche dopo che era stata scaricata veniva sorvegliata durante tutta la notte poiché il farla consumare lentamente era indice di maestria.

Si doveva inoltre badare acchè qualcuno non vi gettasse dentro qualche mortaretto con le conseguenze immaginabili.

Oggi la partecipazione è cresciuta ma la maestria non è andata di pari passo: non di rado, infatti, si vedono Panare che inquinano  con il loro  fumo eccessivo dovuto ad una cattiva gestione della fiammella  posta al centro. Il “fuochista” ha a disposizione sul carro due secchi, uno contenente pezzuole imbevute di nafta (combustibile lento) e uno con acqua: le prime servono ad alimentare il fuoco quando minaccia di spegnersi, mentre l’acqua, come si può immaginare, viene usata per temperare gli eventuali eccessi della fiamma.

Oggi l’inesperienza porta ad eccedere con la nafta e a dover correre ai ripari con l’acqua troppo spesso.

La sansa troppo umida, però, provoca a contatto col fuoco, un denso fumo che disturba la festa e può anche arrecare danni alle persone.

Una festa come questa non potrebbe trovare una collocazione migliore se non a Spongano che  in passato è stato un centro dove si effettuava la lavorazione di ogni parte o residuo dell’oliva, dall’olio alla sansa, alla morchia.

Oltre ai frantoi, fino a non molto tempo fa, era operante uno stabilimento per la trasformazione della sansa, progettato dall’ing. Rizzelli, dove veniva distillata la sansa in modo da ottenere l’olio di sansa. Non bisogna poi dimenticare che la sansa veniva pure utilizzata come combustibile non solo per il riscaldamento delle abitazioni ma anche per i forni o per le “carcare” dove si ottengono le pietre di calce.

E’ poi opportuno ricordare l’attività di saponai che era diffusa a Spongano tanto da porlo in concorrenza con S. Pietro in Lamis, altro centro produttore di sapone dalla morchia o dai fondi dei recipienti dell’olio. Il sapone prodotto a Spongano si differenziava da quello di San Pietro non solo perché era duro , mentre quello era quasi liquido, ma anche per l’idrossido usato nel processo di saponificazione: nel nostro paese si usava l’idrossido di sodio (soda) mentre i nostri concorrenti usavano invece l’idrossido di potassio (putassa).

 

 

Pubblicato su Nuovo spazio del 22 dicembre 1994. Anno 12 n°11.

 

Si veda anche:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/12/22/la-festa-delle-panare-a-spongano-ovvero-quando-il-contenitore-prende-il-sopravvento-sul-contenuto/

 

 

Le panare di Spongano per la festa di Santa Vittoria

di Rocco Costantino Rizzo

 

A Spongano resiste la tradizione  delle “Panare” e si rinnova ogni 22 dicembre in occasione della festa di Santa Vittoria.

Purtroppo cominciano a venire meno gli esperti della Panara, per cui ci pare utile rammentare come avviene la sua preparazione.

 

 

Spongano (Lecce). Una delle panare esposte in occasione della festa
Spongano (Lecce). Una delle panare esposte in occasione della festa

La panara o cista è costituita da vinchi di ulivo e canne tagliate perpendicolarmente, in modo da formare degli intrecci robusti e flessibili. I vinchi di olivo sono necessari per la base della panara, per il telaio e per le impugnature: da essi dipendono la robustezza e la finitura della stessa.

Le panare, trai recipienti più comuni della tradizione contadina, avevano utilizzi diversi in base alla capienza, in base alla quale venivano distinti in panari e panareddhri. Entrambi utilizzati nella raccoltadelle olive, dei pomodori, dei fichi e di altri frutti, i secondi si differenziano per avere un’impugnatura più centrale e più grande.

Ancora più capienti erano invece le panare, utilizzate dal popolo per riporvi il pane e le friselle, al momento della consegna a domicilio dopo la cottura nel forno pubblico. A Spongano esse sono strettamente legate ad una singolare tradizione, che i cittadini rievocano in occasione della festività di Santa Vittoria, il 22 dicembre.

Ma come si realizza una panara?

Se ne sceglie una alquanto capiente, il cui tronco di cono capovolto sia ben definito e più o meno simmetrico. Si fissano perpendicolarmente, ai vertici di un trapezio ideale, circoscritto dalla base maggiore della panara, le quattro barre di legno, le varre.

Ho preso come esempio i vertici di un trapezio e non di un quadrato perché, secondo l’esperienza di Salvatore Bramato, costruttore di panare e governatore del fuoco, le varre che servono per sostenere le palme, sistemate in questo modo, permettono un migliore aspetto frontale ed una maggiore comodità al fuochista, che si pone nella parte posteriore.

Ultimato il lavoro di fissazione delle varre con del filo di ferro, si versa nella panara della sansa spriculata (prodotto ottenuto dalla spremitura a freddo di olive mediante mulinova o sansa a paddhrotte sbriciolata), che serve unicamente per zavorrare la panara e darle una solida base, tale da poter reggere l’intero addobbo (anticamente si usava zavorrare anche con pietre o tronchi di ulivo).

La panara con i quattro rami di palma ben fissati
La panara con i quattro rami di palma ben fissati

Si inserisce, quindi, al centro, un tubo o un tronco dal diametro di circa 15/20 cm, in modo tale che le paddhrotte di sansa vengano sistemate attorno al tronco sino ad una certa altezza: ciò fatto, si procede alla rimozione del tronco o del tubo. Questa operazione è necessaria per creare una sorta di camera d’aria che consenta una riserva di ossigeno, da sfruttare per favorire in seguito la combustione. Lo spazio lasciato vuoto dal tronco o dal tubo viene coperto alla base con altre paddhrotte di sansa, quindi si inserisce un cestello (cisteddhru o cistarieddhru), realizzato con fil di ferro, che viene utilizzato come braciere per tutto il percorso.

Il  cisteddhru è preparato con cura dal nachiru o fuochista, così che abbia la certezza che la panara  arrivi indenne: essendo le paddhrotte altamente infiammabili, basta un attimo di distrazione perché prenda fuoco tutta la panara. Il cisteddhru viene comunque occultato sistemandogli intorno altre paddhrotte, che vengono fissate con corde di fìscoli (tappeti circolari di canapa che insieme a dei dischi di acciaio permettono di pressare le olive macinate ed ottenere così l’olio).

A questo punto la panara è pronta per essere piazzata sul mezzo di trasporto (trattore, camion o traìno) e si dà inizio all’addobbo delle quattro palme già fissate. La parte inferiore, generalmente spoglia, viene rivestita con tralci di edera, fiori, ramoscelli d’olivo, e tra le due palme anteriori si colloca l’immaginetta  di Santa Vittoria. Quindi si addobbano i rami con bandierine, palle natalizie, luci, fili dorati, mandarini, arance, secondo il gusto di chi la prepara e che ha tutta la libertà di dare sfogo alla sua fantasia per un migliore effetto scenico.

Spongano (Lecce). Si sistemano gli ultimi addobbi di una delle panare poste sula carro
Spongano (Lecce). Si sistemano gli ultimi addobbi di una delle panare poste sula carro

Durante il percorso del corteo occorre prestare massima attenzione a che il fuoco non si spenga ed è per questo che il nachiro prepara delle bende imbevute d’olio o nafta che, una volta accese, sistema nel cisteddhru. Per evitare che le fiamme si propaghino a tutto l’addobbo si è soliti “addomesticarle” bagnando con acqua le paddhrotte poste intorno al braciere o versandovi del tufo inumidito.

A fine percorso, che coincide con il mercato coperto di Spongano, la panara viene tolta dal mezzo di trasporto; il fuochista tira fuori il cisteddhru e con un bastone rompe le paddhrotte che chiudevano la buca della camera d’aria, favorendo così la combustione.

Le panare bruciano lentamente...
Le panare bruciano lentamente…

La panara resterà dunque accesa sino al suo lento e completo consumo.

 

22 dicembre. La festa delle panare a Spongano

Oggi le tradizionali “Panare” a Spongano

di Raimondo Rodia

dal sito del comune di Spongano

Il 22 dicembre, come ogni anno, si tiene a Spongano un’antica tradizione legata al culto del fuoco e a quello di Santa Vittoria: la Festa delle Panare.  Un rito tradizionale antico e sentito da parte della popolazione del piccolo paese salentino.

Si rinnova così a Spongano la tradizionale festa delle “Panare”.

Le panare sono cesti di vimini intrecciati con listelli di canne e riempite di sansa, residuo della molitura delle olive e adornate di festoni, fili dorati, bandiere di carta colorata, mandarini, palme da dattero ed altro ancora.

La festa inizia nel pomeriggio quando la Banda che apre il corteo invita a mettere fuori le “Panare” preparate un tempo solo dai frantoi. Oggi partecipano singoli cittadini, associazioni, l’Amministrazione Comunale ed il Comitato Festa. Le Panare così addobbate vengono raccolte in corteo nei vari punti del paese per essere portate tutte insieme in un posto prestabilito, dove vengono fatte bruciare in onore di Santa Vittoria, protettrice di Spongano.

La serata continua con momenti di sano spirito paesano allietato dalla musica popolare, avendo a disposizione taralli e vino per tutti, fino a notte tarda.

Quest’anno il programma prevede: alle 15.30 l’inizio del corteo con la partenza tradizionale da Palazzo Bacile. Poi intorno alle 20.00 l’arrivo di tutte le Panare nei pressi del Municipio, in piazza Vittoria. Subito dopo partono i festeggiamenti. Quest’anno concerto di musica popolare con il gruppo Menamenamò. In mattinata, dalle 10, la sfilata delle “panare” confezionate dai ragazzi delle scuole e dell’asilo, accompagnate dalla banda musicale formata sempre dagli alunni.

Venerdì 23, alle 7,30, sarà celebrata la prima Messa, mentre alle 15,30 si snoderà la processione accompagnata dalle note del Piccolo Concerto Città di Conversano (Ba). Al rientro, lo spettacolo dei colorati fuochi pirotecnici.

Un tempo le panare erano realizzate da artigiani o semplici contadini per poter comodamente raccogliere i frutti dagli alberi e avere un solido recipiente con il quale trasportarli a casa, dato che di solito si andava in giro in bicicletta o a piedi. Oggi è uno dei prodotti più venduti nelle fiere artigianali che si tengono nei vari comuni del Salento.

Furono i baroni Bacile di Castiglione a portare nel Medioevo il culto della santa romana Vittoria a Spongano, eletta poi a Patrona del paese in seguito ad una serie di miracoli che salvarono i raccolti da funesti eventi meteorologici. Gli stessi Bacile chiesero poi all’arcivescovo di Otranto di poter festeggiare la santa in due occasioni, una a Dicembre e l’altra ad Agosto.

Spongano. Il busto di Santa Vittoria portato in processione (dal sito del comune)

Con il culto alla Santa è nata anche la festa delle panare, una delle più antiche del Salento, anche se sono in molti a ritenere che una forma ancora più antica di questa tradizione fosse già presente.

Le panare per l’occasione vengono riempite di sansa, una sostanza di scarto ottenuta dalla lavorazione delle olive, nella fase di spremitura da cui si ottiene poi l’olio. Il materiale è composto dunque da pezzi di noccioli, bucce e altri residui che rimangono dopo l’estrazione dell’acqua vegetale dall’oliva. Questa sostanza emana un odore molto forte e pungente ed è usata anche come combustibile. La sansa usualmente viene sottoposta a 2 o 3 procedimenti a ripetizione, detti ripassamenti, al fine di ricavare la massima quantità possibile di estratto liquefatto.

Le panare sponganesi vengono decorate con grandi fiori e foglie, le si dà fuoco in modo che ardano lentamente e poi vengono trasportate su carri accuratamente decorati condotti in processione per le vie del paese. Alla fine della processione le panare vengono riposte tutte insieme nello stesso luogo per attendere che prendano fuoco del tutto.

A conclusione della serata vengono distribuiti ai presenti lupini, tarallini e vino, consumati durante l’ascolto della musica.

Con questa festa si celebra il fuoco in una terra dalla lunga e profonda tradizione olearia. Ed attraverso il fuoco la cultura contadina del Salento ha trovato il modo di manifestare la sua riconoscenza per la produzione agricola nell’anno appena trascorso, auspicando un proficuo raccolto per quello successivo.

Santa Vittoria, la santa cattolica a cui è stata associata questa tradizione, fu una donna che si oppose alla nozze con un patrizio di nome Eugenio, rinunciando inoltre ai suoi oggetti e ai suoi gioielli che donò ai poveri. Ad Eugenio, che voleva principalmente impossessarsi del patrimonio della santa, questa cosa non piacque e per punizione rapì Vittoria, la esiliò nella sua tenuta e la uccise. La morte di Vittoria non avvenne direttamente per mano del suo sposo rifiutato ma per quella di un commissario imperiale. Questo fu inviato su richiesta di Egidio dopo che Vittoria, accogliendo una supplica di aiuto della popolazione locale, scacciò un drago che terrorizzava gli abitanti della stessa terra in cui venne esiliata. Questo drago era una bestia molto feroce e incendiava tutto, case e raccolto, con il solo respiro. Nel luogo che il drago scelse come sua dimora la santa chiese che le fosse costruito un oratorio e che delle vergini si fossero unite alla causa cristiana come sue discepole. Dopo questi eventi Vittoria fu richiamata all’ordine dal commissario che le ordinò di prestare fedeltà e di venerare un’effige della dea Diana. Il suo rifiuto le costò la vita, che perdette perendo di spada.

Il fuoco delle panare di Spongano è stato associato agli incendi che il drago provocava ai raccolti della popolazione salvata da Vittoria.

La tradizione vuole che si festeggi anche il 7 e 8 agosto, data in cui la santa salvò Spongano da una  grandinata.

La combustione lenta delle Panare dura a lungo a volte fino a Natale, e passata la mezzanotte, inizia la caccia al fuoco, perchè ognuno vuol portare nella propria casa un po’ della brace, oltre che per scaldarsi, quale benevolo segno di un lieto futuro.

La festa delle panàre a Spongano, ovvero quando il contenitore prende il sopravvento sul contenuto.

di Armando Polito

La panàra è una specie di cesta alta e rotonda e la voce è da pane con aggiunta di suffisso aggettivale indicante pertinenza con effetto finale sostantivato di natura strumentale (contenitore per il pane), come per farnàru (setaccio) da farina, per puddharu (pollaio) da un inusitato puddhu (pollo), per cranàru (granaio) da cranu (grano), etc. etc.

Se il contenuto originario e per eccellenza era il pane, così com’è successo con tanti altri contenitori, la panàra ha finito per accogliere fin da tempi antichi  anche altri ospiti, soprattutto i frutti e a Spongano, addirittura, la sansa. In occasione delle festa di S. Vittoria, il 22 dicembre, le panàre vengono riempite di sansa, decorate con fiori e foglie, poi si dà loro fuoco perché brucino lentamente trasportate in processione su carri per le vie del paese. La tradizione ha origini medioevali ma sicuramente ha ereditato l’antica vocazione per il culto del fuoco, elemento nello stesso tempo di purificazione e di propiziazione, che trae alimento dal residuo della lavorazione del frutto che ci connota in Italia e nel mondo: l’oliva. E gli aspetti devozionali e, in un certo senso, utilitaristici s’intrecciano con leggende cristiane popolate anche da draghi, il cui significato allegorico non sempre è facile cogliere. In questo la leggenda di S. Vittoria che scaccia dalla regione in cui era stata esiliata un drago che imperversava bruciando col suo fiato cose e persone sembra essere la versione riassuntiva  di quella di San Giorgio e della principessa col drago al guinzaglio.

E come nel mondo antico sull’altare venivano bruciate per essere offerte alla divinità le parti più scadenti (quelle migliori, a cottura avvenuta e prima che bruciassero completamente, approdavano in bocche tutt’altro che divine) degli animali sacrificali per convincere la divinità a favorire la crescita di esemplari ancora migliori, così viene bruciata la sansa  e pure il suo contenitore perché il raccolto di olive dell’anno successivo sia felice e il pane non manchi…tanto per realizzare una nuova panara basta qualche canna e qualche inchiùlu.

La mia ironia non vuole essere blasfema ma è solo tesa a far recuperare alle coscienze, alla mia prima di tutto, il valore profondamente sentito che queste feste avevano soprattutto presso i più umili (quelli, per intenderci, ai quali, nel mondo pagano,  immagino fosse precluso dare un piccolo morso alla parte nobile dell’animale sacrificato). Nell’era del consumo abnorme ed egoistico e, comunque, dello spreco delle risorse, la crisi può rappresentare paradossalmente (come in passato lo era la guerra; lungi, comunque, da me l’idea che essa possa mai costituire la pulizia del mondo…), se gestita correttamente, la nostra fortuna, il trampolino per il riscatto di una umanità più degna di questo nome. E se alla fine della festa a Spongano (il discorso vale, naturalmente, per tutte le feste in ogni angolo della Terra) verranno distribuiti solo lupini, tarallucci e vino, S. Vittoria sarà senz’altro più contenta e i partecipanti ne avranno senza dubbio guadagnato in salute…, mentre una volta tanto il contenuto (devozione religiosa) avrà prevalso sul contenitore (la festa nei suoi connotati esteriori, compresi anche quelli goderecci e culinari…).

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