Schifiltosi, incoerenti, ingrati e pure ignoranti…

di Armando Polito

Prima che la chimica applicata all’agricoltura facesse strage di parassiti e simili era tutt’altro che rara fino a vent’anni fa la presenza nelle nostre campagne delle cozze munaceddhe. Una ghiottoneria da intenditori che, tuttavia, non interessa al sottoscritto. Probabilmente le mie papille gustative si sono evolute a tal punto da diventare incompatibili col gusto del nostro animaletto; ma sono (anzi, ero) rimasto un primitivo sotto un altro aspetto, quello della caccia e della predazione, se a partire dalla metà di maggio, quando la munaceddha s’interra, puntualmente mi recavo alla sua ricerca. Per lo più bastava rivoltare le pietre presenti in un campo e, laddove si notava una leggera protuberanza del terreno (lu cappùcciu), a meno di due centimetri c’era il rifugio estivo della nostra preda. Bastava con la punta di un coltello far saltare quella specie di volta e immediatamente era visibile, per lo più, l’opercolo bianco che insieme col colore del guscio ha dato il nome alla munaceddha (piccola monaca). A quel punto la sua estrazione dal rifugio era un gioco da ragazzi e, messala da parte, si andava a rivoltare un’altra pietra per ripetere l’operazione. Per lo più la presenza di cappucci era direttamente proporzionale allo sviluppo della superficie della pietra, sicché non era raro trovare sotto una lastra di adeguata estensione anche sette o otto cappucci. E una di quelle lastre mi resterà impressa per tutta la vita. Era lì, ad un passo da me e nel rivoltare altre pietre mi ero ripromesso di chiudere la giornata in bellezza. Quando decisi di farlo sollevai la lastra abbastanza agevolmente perché nonostante le sue dimensioni era piuttosto sottile e, con un gesto collaudato, la ribaltai. Rimasi all’istante paralizzato da quello che si presentò ai miei occhi: una topolina stava allattando i suoi piccoli. Dopo la paralisi dei primi istanti subentrò in me lo smarrimento e la preoccupazione di rimediare al più presto possibile. La cosa incredibile era che nel frattempo la topolina mi guardava fisso negli occhi e continuava imperterrita la sua attività. Eroismo di madre o consapevolezza che non volevo assolutamente fare del male a lei e ai suoi figli? Evitando movimenti bruschi mi inginocchiai, presi due pietre e le collocai alla distanza giusta perché fungessero da brevi pilastri; poi, strisciando fino alla lastra, la sollevai con circospezione e la rimisi al suo posto. Un rapido sguardo, un “auguri!” silenziosamente rivolto all’intera famiglia, e mi allontanai. Fu l’ultima volta che andai a cercare munacèddhe

In onore di quella famiglia da me salvata e per la lezione da essa ricevuta spenderò qualche parola su quest’animaletto che alle signore (e non solo…) procura qualche ribrezzo. Lo farò a modo mio, cioè privilegiando, come al solito, l’aspetto filologico.

Comincerò dall’italiano:

topo è dal latino *taupu(m), dal classico talpa=talpa; il femminile topa è sinonimo di vulva. Lo stesso destino ha subito sorcio [dal latino sòrice(m), connesso col greco hurax (l’aspirazione iniziale è stata soppiantata in latino da s-], dalla cui forma letteraria obsoleta sorco è derivato sorca, sempre sinonimo di vulva. La connotazione negativa raggiunge il suo apice in zoccola [probabilmente da un latino *sòrcula(m), diminutivo femminile di sorex/sòricis, del quale il precednte sòrice(m) è il caso accusativo] che indica non solo il topo di fogna ma anche la prostituta, continuando nei nessi topo d’albergo, topo d’appartamento e far vedere i sorci verdi.

Passo ora al dialetto neretino: sòrice è tal quale dal citato latino sòrice(m); zzòccula ha lo stesso etimo dell’italiano zoccola.

Non mi soffermo nemmeno un attimo sulla prima parola del titolo (schizzinosi), ma, a dimostrazione della seconda (incoerenti), non posso non ricordare Il topo di città e Il topo di campagna, una delle più note favole di Esopo (VI secolo a. C.), il successo nazionale di Topo Gigio (il pupazzo) e quello universale di Topolino (il personaggio dei fumetti) e, rinnovato nel tempo, della Topolino (l’auto): tutte cose che non fanno schifo a nessuno…

E poi: l’italiano muscolo è dal latino mùsculu(m), diminutivo di mus=topo, per i movimenti guizzanti; alla stessa idea è connesso ratto [dal latino ràpidu(m)].

Non è finita: sorcino è un aggettivo che in zoologia indica il colore cenere scuro con le estremità nere del mantello equino e come termine comune è usato per ciò che ha il colore del sorcio; nel XVI secolo era una voce popolare per indicare il soldato di fanteria, probabilmente dal colore grigio del suo cappotto; Renato Zero adottò involontariamente la stessa voce (che al plurale si sarebbe pure prestata per indicare i componenti di un corpo non più militare ma musicale) per indicare i suoi fans soltanto perché negli anni ’80 in sella ai loro motorini in delirio per lui gli sembrarono tanti piccoli sorci. Cosa dire, poi, del topo di biblioteca (con riferimento all’uomo l’accezione, secondo me, non è completamente negativa)?

Per quanto riguarda la terza voce del titolo (ingrati) ricordo la cavia (dal portoghese brasiliano çaviá, letto erroneamente senza cediglia, dal tupì saviá=topo), roditore largamente usato nei laboratori scientifici come animale da esperimento e poi, per estensione, animale o persona usata come soggetto di esperimenti scientifici e non solo.

Quanto all’ultima (ignoranti), lascio spazio ai giornali:

 

 

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