Migranti dalla Puglia

di Gianni Ferraris

Il treno merci è sul binario. Lunga la strada che deve percorrere. Lecce, Brindisi, Taranto, Bari, Foggia, Torino. Il percorso che era dei migranti che dalla Puglia partivano con le loro valigie di cartone, con arance e formaggi e pane. Sicuramente senza gioia, certamente con l’angoscia per quel che si lasciavano alle spalle e la speranza in un futuro che fosse rassicurante, che portasse la certezza della sopravvivenza. La mostra “Migranti”, è organizzata dalla Regione Puglia. Simbolicamente proprio su un treno.

Si entra con curiosità, piano piano scende la malinconia che si trasforma in angoscia e rabbia nel vedere quelle fotografie,  ascoltando la colonna sonora che accompagna i visitatori. Non è musica, non solo. Sono le voci narranti di Michele Placido (Foggiano), di Mario Perrotta (leccese), di Sergio Rubini (da Grumo di Puglia – BA) di Cosimo Cinieri (tarantino) che leggono e narrano storie di migrazione, di lacerazioni, di uomini e donne. E sono spezzoni di film sull’emigrazione. Quelli che hanno fatto la storia del cinema italiano. Passano fotogrammi di “Così ridevano”, di “Rocco e i suoi fratelli”, di “Pane e cioccolata” e si termina con “Lamerica”.

Il percorso nei vagoni si snoda in tre settori:

-L’emigrazione pugliese negli Stati Uniti,

-Quella in Europa e nel nord Italia,

-L’immigrazione.

Arrivando alla fine, al settore immigrazione, successiva alla caduta del muro di Berlino, si vedono immagini di navi stracariche all’inverosimile, in modo disumano, di Persone. E sono le stesse immagini dell’inizio della mostra, quando altre navi portavano altre Persone negli Stati uniti. Stipate nello stesso modo, con sguardi simili, rassegnazione mista e volontà di farcela.

Il catalogo, molto bello e ricco, cita Francesco Compagna e il suo “Terroni in città” (Laterza, 1959) dove dice “Certo, la strada dell’emigrazione è tanto dolorosa quanto antica, dura sempre, rischiosa spesso, qualche volta tragica; ma chi si incammina su di essa lo fa di propria deliberata volontà perché non vuole più restare sulla piazza del paese, intorno alla fontana”.

Così il sogno americano  fa imbarcare migliaia di Persone per il nuovo continente che li accoglie spesso con disprezzo. Già il viaggio era disumanizzante.

“La mortalità infantile, durante la traversata, a causa del morbillo, della scarlattina e della varicella, rappresentava la metà dei decessi… Per non soffrire il freddo e l’umidità, sui materassi si stava vestiti e con le scarpe, e in qualche modo il posto letto si riduceva ad una cuccia per cani. A viaggio compiuto, quando non veniva cambiato, era un sudiciume di insetti pronto a ricevere un nuovo emigrante…. Chi sfuggì al colera a Napoli nel 1911, rischiò la morte per colera durante il viaggio… A bordo si serviva solo un pasto al giorno, cibo appena accettabile, ma per molti era l’aspetto migliore del viaggio, abituati com’erano a patire la fame. La traversata per le americhe poteva durare anche un mese…”

E all’arrivo le visite mediche e le domande di rito:

“Come si chiama? Da dove viene? Perché viene negli USA? Quanti anni ha? Quanti soldi ha? Dove li tiene? Me li faccia vedere. Chi ha pagato la sua traversata? Ha firmato in Europa un contratto per venire a lavorare qui? Ha degli amici qui? Parenti? Qualcuno può garantire per lei? Che mestiere fa? Lei è anarchico?” 

Non pochi vennero rispediti indietro per sospetti sulla salute fisica, mentale, sulla politica. Quei respingimenti che causarono anche molti suicidi di chi non poteva rientrare sconfitto e decise di gettarsi in mare. La storia che si ripete. Gli ultimi ricacciati a mare da chi, senza ragione alcuna, si crede primo.

Per chi rimaneva iniziava una vita fatta di lavoro duro, di riscossa, di scontri con il razzismo e la xenofobia dilagante.

Gli italiani erano considerati “non white”, una via di mezzo fra la razza bianca e quella nera.

E solo pochi anni fa l’ex presidente guerrafondaio Richard Nixon arrivò a dire  : “Non sono come noi. La differenza sta nel fatto che hanno un odore diverso, un aspetto diverso, un comportamento diverso. Il guaio è che non se ne trova uno solo che sia onesto”

E un suo predecessore:

Abbiamo bisogno che ogni immigrato porti un corpo forte, un cuore robusto, una buona testa e una grande determinazione a compiere bene il proprio dovere. Non vogliamo e dovremmo rifiutare questi italiani, russi ed ebrei sporchi. Abbiamo già abbastanza sporcizia, miseria, crimine, malattie e morte per fatti nostri senza doverci accollare pure questi” (Franklin Delano Roosevelt, presidente USA dal 1933 al 1945).

Per gli americani, i nostri immigrati erano “BAT (pipistrello) perché considerati mezzi uomini e mezzi uccelli, Guinea con chiaro riferimento al fatto che erano visti come negri mezzi africani, WOP dal duplice significato di Guappo e come acronimo di Without Official Permission (senza permesso ufficiale)”.

Non andava meglio nell’America meridionale dove i contadini trovavano lavoro. Portavano con loro la voglia di tornare in Italia. Per questo venivano soprannominati “Golondrinas” (rondini).

E questa voglia di tornare dava diritto ai fazenderos di tenere gli italiani in vera e propria schiavitù. Spesso incatenati, bastonati, le donne violentate nelle piantagioni di caffè del Brasile e del Venezuela dove arrivavano con biglietto prepagato per il ritorno.

 La seconda parte della mostra riguarda l’emigrazione in Europa e nel nord Italia, anche qui Persone stipate in treni stracarichi diretti in Svizzera, Francia, Belgio, Torino, Milano, Genova. Nella sezione dedicata a Marcinelle campeggia il famigerato manifesto rosa e le fotografie di uomini e bambini neri di carbone, di donne che pregano mentre i soccorritori scendono nelle gallerie.  

E ancora la Germania e la Svizzera. Bambini nascosti nei bagagliai delle auto perché il lavoratore non poteva portare famiglia in territorio elvetico fino agli anni 70. Bimbi che non potevano uscire di casa. Che frequentarono scuole elementari e medie clandestine, sotto la protezione delle parrocchie e delle comunità religiose. Gli italiani soprannominati “Cincali” (zingari, dispregiativo) o “Macaroni”. In Germania vivevano in sobborghi. Veri e propri ghetti. Erano poveri, spesso analfabeti.

L’immigrazione è storia recente, attuale. Dopo la caduta del muro di Berlino, la Puglia si trovò ad accogliere navi stracariche di umanità. Il sogno dell’Italia paese libero, delle cinque reti televisive con una scintillante Raffaella Carrà e ballerine seminude, era la meta. La voglia di libertà sta in quella fotografia della ragazza albanese con un cartello  con scritto in pennarello:  “we whant tu be free” (vogliamo essere liberi). Conosceranno l’Italia, quella che accoglie e quella che respinge. Soprattutto conosceranno l’Italia che sta davanti allo schermo, non dietro le telecamere.

Il catalogo si chiude con una citazione dell’antropologo Levi Strauss sulla quale è bene riflettere:  “E’ necessario preservare la diversità delle culture in un mondo minacciato dalla monotonia e dall’uniformità. La tolleranza non è una posizione contemplativa, è un atteggiamento dinamico, che consiste nel prevedere, nel capire, nel promuovere gli sviluppi di ogni cultura. La diversità delle culture umane è dietro di noi, attorno a noi, davanti a noi.”

E’ una mostra da vedere, magari con le scuole. Chi, al nord, vorrà recarsi a Torino, potrebbe adottare per qualche ora un leghista, fargli vedere le sue radici (fra il 1900 e il 1940 il Piemonte era al secondo posto come immigrati con 1.413.589 persone, dopo la Sicilia con 1.624.517). Se capirà sarà una buona azione verso l’umanità intera, se non comprenderà il messaggio vuol dire che ha poche speranze di progredire, con buona pace per l’evoluzionismo.

 n.b. Le parti in grassetto sono citazioni del catalogo.

La visita alla mostra è gratuita. Il catalogo è in vendita a € 15.00.

Le date:

Lecce 20 – 24 febbraio – Brindisi 25 – 28 febbraio – Taranto 1 – 4 marzo – Bari 5-11 marzo

Foggia 12 – 15 marzo – Torino 18 – 21 marzo

Il sito : www.migrantipuglia.it

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