Seclì e un suo figlio dimenticato del secolo XVII

di Armando Polito

La vita è molto strana. È toccato proprio a me, laico fino a tal punto da considerare tutte le religioni come favolette consolatorie e illusioni nemmeno tanto pie, viste le guerre che ancora oggi scatenano, di imbattermi casualmente nel personaggio genericamente evocato dal titolo ma che ora specifico appartenere alla sfera ecclesiastica. Nello sfruttare per ricerche di altro tipo le immense risorse della rete ho acquisito un dato che ho ritenuto meritevole di essere partecipato ad altri. Forse qualcuno ha colto in quel dimenticato del titolo una nota di rimprovero. Non è così, ho solo voluto approfittare di una fortuita quanto fortunata circostanza per colmare una lacuna  che nella ricostruzione del passato è sovente legata alla maggiore o minore importanza, reale o presunta, attribuita ad un personaggio, concetto che ribadirò nella domanda finale.

Se, infatti, sono ben note le figure di altri figli di Seclì del XVII secolo, quali Padre Francesco e Suor Chiara1, di Padre Marcellino nulla sapremmo se non fosse possibile leggere la sua biografia in un libro  del 17322, che è, credo, l’unica fonte per chi abbia voglia e tempo di saperne di più. Anzi, alla riproduzione del frontespizio faccio seguire quella delle poche pagine coinvolte (184-186).

Abbastanza scontato è il repertorio di dettagli che ne esaltano le virtù e, purtroppo, l’unica data riportata è quella della morte avvenuta il 26 ottobre 1702 all’età di 65 anni, dato che consente di collocarne la nascita al 1637.  ll titolo Venerabile Servo di Dio che si legge all’inizio fa pensare ad un processo canonico di beatificazione già avviato. Se è legittimo pensare che alla data del libro non si fosse concluso, sarebbe interessante conoscerne l’esito. A costo di essere accusato di maliziose allusioni chiudo lasciando al lettore l’adesione, la contestazione o l’indifferenza che suscita la domanda: se Padre Marcellino avesse pubblicato qualcosa, avrebbe avuto la notorietà di Padre Francesco e, se fosse disceso da nobili lombi, la sua biografia avrebbe avuto l’estensione di quella di Suor Chiara, scritta in ben quattro tomi (di seguito il frontespizio del primo) da Francesco Maria Severino (de’ Duchi di Seclì, Conte di Tamarano, come si legge nella dedica)?

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1 Il primo (1585-1672), teologo, fu autore molto prolifico:

Paragone spirituale, Giacomo Gaidone, Bari 1634

Viaggio di Gierusalemme nel quale si have minuta, e distinta notitia delli Santi Luoghi, Pietro Micheli, Lecce, 1639

Discorso, e conchiusione, che la religione futura de’ catenati profetizzata dal padre frat’Ugone da Dina, e la congregatione futura de’ Cruciferi di Giesu Cristo, profetizzata da Santo Francesco da Paola, Pietro Micheli, Lecce, 1670

Regola e vita, che denno osseruare li fratelli della congregatione de’ catenati nouellamente eretta nella diuotissima citta di Gallipoli, Pietro Micheli, Lecce, 1670

Paradiso terrestre del molto reuerendo padre fra Francesco da Secli. Trattato breue, non men dottrinale, che curioso, nel quale si proua con autorita, che detto luogo durera sino al giorno del Giudicio, e che hoggi e nell’istesso essere, mel quale in principio fu piantato dal mistico agricoltore, Dio, Pietro Micheli, Lecce, 1671

Suor Chiara (1618-1693), al secolo Isabella D’Amato, era figlia del duca Francesco e della marchesa Caterina D’Acugno, feudatari di Seclì e Temerano.

2 Arcangelo da Montesarchio, Cronistoria della riformata provincia di S. Angiolo in Puglia, Mosca, Napoli, 1732.

Seclì: il suo abitante si chiama “seclioto”?

di Armando Polito

 

Se c’è un campo di formazione delle parole in cui regna l’anarchia ed è tutt’altro che agevole individuare la paternità, è quello degli etnonimi. Le differenze spesso sono sottilmente legate a vicende storiche intrecciantisi con evoluzioni fonetiche e suggestioni semantiche, il che, innocente all’inizio, finisce per assumere una valenza dispregiativa, se non razzista.

Per esempio: italiota, usato per stigmatizzare certe caratteristiche negative riguardanti non pochi italiani, prima fra tutte l’insofferenza per le regole. La voce è da ᾿Ιταλιώτης (leggi italiotes), con cui i Greci indicavano più di due millenni e mezzo fa il connazionale delle colonie dell’italia meridionale; Σικελιώτης (leggi sicheliotes) per il colono di Sicilia), da cui siceliota o siciliota o sichelota.

Ho sentito più di un ignorante, anzi idiota (per lui sì, il suffisso –iota assume valore dispregiativo …) usare italiota con gratuita allusione dispregiativa ai meridionali. Debbo, tuttavia, dire che anche il campanilismo locale con lo stesso intento ha sfruttato, forse inconsapevolmente, un altro suffisso greco (-ιάτης, leggi –iates): Nardiati per gli abitanti di Nardò, Sichiliati per quelli di Seclì.

Queste due forme (che sembrano, lasciando da parte il suffisso greco, participi passati di verbi fantasiosamente pittoreschi ed icastici da usare quasi come un marchio a fuoco; per Seclì, inoltre, la costruzione è avvenuta sulla forma dialettale Sichilì) hanno avuto pure l’onore della citazione in Miscellanea Giovanni Mercati Studi e testi 126, Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano, 1946, p. 520.

Tornando a Seclì: non so chi abbia inventato seclioto, che è l’unica forma registrata da un vocabolario per l’italiano indubbiamente affidabile tra quelli fruibili in rete perché della stessa matrice di quelli per il latino e il greco che, per l’uso continuo che ne faccio, ho avuto modo di apprezzare (https://www.dizionario-italiano.it/dizionario-italiano.php?lemma=SECLIOTO100).     

Seclioto utilizza chiaramente il suffisso greco e questo ci può pure stare poiché strettissimi sono i rapporti di Seclì con la cultura greca, in particolare bizantina. L’inventore di questa forma, però, ha rovinato tutto il suo dotto procedere italianizzando il suffisso greco mediante la sostituzione di a finale con o in funzione distintiva rispetto a un femminile secliota, come se italiota fosse femminile di un inesistente italioto e non bastasse nel riconoscimento del genere il semplice articolo: il secliota/la secliota. Unica eccezione alla regola, ma sconsiglio di usarla come giustificazione …,  è l’italiano antico idioto per idiota, che, non a caso, è dal latino idiota(m), a sua volta dal greco ἰδιώτης (leggi idiotes).

Disperata impresa sarebbe quella di individuare la data di nascita di seclioto, anche se questa difficilmente servirebbe ad individuarne l’autore. Con il pur formidabile aiuto dei motori di ricerca non son riuscito ad andare più indietro del 10-8-1998, come mostro nel dettaglio tratto dalla Gazzetta ufficiale Serie generale n. 185 di quella data.

Oltretutto rimane un dubbio: se non si fosse trattato di una società ma di un ristorante avremmo letto ristorante Il secliota o Il seclioto?

A questo punto qualcuno potrebbe ironicamente dirmi: – Dottor sottile, quale sarebbe la sua proposta? Non sa che la lingua la fanno i parlanti? -.

Rispondo prima all’ultima domanda, perché ciò che dirò è funzionale rispetto alla risposta che darò alla prima.

È incontrovertibile che la lingua la fanno i parlanti (tutti), ma sarebbe ora che anche gli scriventi (non tutti, me, forse, compreso) avessero voce in capitolo, con la funzione di filtrare e depurare la lingua parlata dalle eccessive libertà che essa da sempre ha il diritto di prendersi. E per questo non è necessario essere un novello Dante o Petrarca o Boccaccio, basta aver coltivato lo spirito critico, quello che motiva le sue sentenze …, ed avere un minimo di buongusto e di buonsenso.

Passo alla seconda risposta. Ho già dimostrato come il creatore di seclioto abbia perso l’occasione di coniugare il ricordo della storia col rispetto della grammatica e, in riferimento a italiota (e non italioto), dell’analogia. E proprio da questa muoverò per quelle che a me sembrano le più sensate  e corrette alternative.

Diamo un rapido sguardo ad alcuni altri toponimi che presentano forma tronca: Nardò, Castrì, Patù

Per Nardò l’etnonimo è neritino o neretino, dal nome latino della città (Neretum) attestato da Ovidio (Metamorfosi, XV, 5O) e dallo stesso etnonimo (Neretini) attestatato da Plinio (Naturalis historia, III, 105). La forma attuale, però, non deriva dal latino ma dal bizantino Νερετόν  (leggi Neretòn) attestato da due pergamene un tempo custodite nell’archivio della curia vescovile di Nardò, oggi perdute ma che Francesco Trinchera fece in tempo a trascrivere ed a pubblicare nel suo Syllabus Graecarum membranarum, Cattaneo, Napoli, 1865. Da notare che il prima citato Nardiati si rifà al nome moderno e non al latino Neretum (che pure si mostra nella forma volgare Nerito o Neritono o Neritone prima dell’affermazione di Nardò), il che rivela una formazione relativamente recente.

Castrì ha come etnonimo castrisano, distinto da castrense, etnonimo di Castro. 

Patù ha come etnonimo patuense o veretino (il primo utilizza un suffisso latino, il secondo è da Veretum, città che sorgeva nel suo territorio).  

Bastano questi tre esempi per dare ragione dell’anarchia di cui ho detto all’inizio. Tra tutti e tre il toponimi Castrì è il più sorprendente, perché avrebbe potuto benissimo avere come etnonimo, valendo anche qui i legami con la cultura bizantina, castriota, non adottato, forse, per evitare confusione con l’omonima famiglia di origini albanesi.

Sempre in nome dell’analogia e in parallelo con Patù l’etnonimo di Seclì alternativo a secliota potrebbe essere sicliense, dal latino moderno ecclesiastico Sicliensis, usato nelle visite pastorali (nelle stesse il topoimo è Siclium).

Morale, valida sempre, per il passato, per il presente e per il futuro, della favola: se per un intervento chirurgico molto impegnativo ci si affida (mi riferisco a chi può permetterselo …) all’esperienza di un luminare, nella creazione di un qualsiasi neologismo, particolarmente nell’intricato campo campo in cui oggi mi sono avventurato, chi ha l’incarico ufficiale di provvedere deve (tanto più che le eventuali spese saranno a carico della collettività) affidarsi a chi ha competenza per farlo.

Seclioto non è stato partorito certo oggi ma, a differenza di un intervento chirurgico con esito nefasto, si può sempre rimediare, tanto più che l’avvicendamento del colore politico ha portato finora, soprattutto nella toponomastica viaria, a cambiamenti radicali che mi sembrano una comoda damnatio memoriae, cioè la trionfale e tronfia vendetta di un’ideologia, qualunque essa sia, su un’altra, qualunque essa sia.

A proposito di soprannomi

il palazzo ducale di Seclì
il palazzo ducale di Seclì

di Alessio Palumbo

 

Leggendo, in calce alla poesia “L’innamorato imbranato”, lo scambio di commenti tra Armando Polito e Alfredo Romano sui nomignoli legati alla provenienza cittadina, mi è tornato alla mente un episodio riguardante il mio paese d’origine: Aradeo.

Da ragazzino irrequieto ed eccessivamente vivace qual ero, non di rado mi sentivo appioppare l’appellativo di “taratiaulu”. Il fatto che fossero più persone ad utilizzare quel termine mi incuriosì e, dopo un po’ di tempo, riuscii a risalire al motivo del soprannome, chiaramente frutto dell’unione tra la parola “taraddotu” (ossia aradeino) e “tiaulu” (diavolo). Tutto ha origine dalla inveterata rivalità tra aradeini, seclioti e nevianesi.

Vuoi la vicinanza reciproca, vuoi gli stretti vincoli parentali, vuoi le dimensioni demografiche non eccezionali, sta di fatto che Aradeo, Neviano e Seclì, da secoli, sono strettamente legati tra di loro. Tempo fa, un pescatore gallipolino in vena di canzonare, venendo a conoscere le mie origini aradeine mi chiese:

“Come ve la passate negli Stati Uniti?”

“Gli Stati Uniti?” chiesi io

“Si! Aradeo, Neviano e Seclì…gli Stati Uniti del Salento”

Insomma, tre paesi federati, con una cantina sociale comune, un frantoio comune, iniziative comuni ma, soprattutto, una stazione ferroviaria in comune. Un piccolo parallelepipedo giallo, come tanti altri in Terra d’Otranto.

Come ci insegna la storia e l’esperienza comune, le convivenze non sono mai facili: a dimostrazione di ciò, si potrebbero citare le vecchie poesie di scherno reciproco tra i paesi[1]; oppure vi sarebbe bastato assistere, qualche anno fa, ai derby Aradeo-Seclì ( “li ciucci contru li cavaddhri” diceva qualcuno, ma non sto qui a specificare quale delle due squadre fosse composta da asini) per capire come la federazione non avesse per nulla sminuito le rivalità campanilistiche. Ma torniamo al casus belli, la piccola stazione: proprio questo edificio è stato motivo di accese rivalità tra i tre paesi o perlomeno così tramandano alcuni.

Immediatamente dopo la sua costruzione, sorse un problema di enorme gravità: in quale ordine piazzare i nomi dei paesi? Ovviamente nessuno avrebbe accettato di venire dopo gli altri. Seclì pretendeva il primato in quanto la stazione ricadeva nel proprio feudo. Neviano portava a proprio favore la maggiore vicinanza del centro abitato. Aradeo, infine, cercava di far valere il maggior peso demografico ed il fatto che il terreno dove era sorta la stazione fosse stato espropriato ad un aradeino. Dopo mesi di discussioni, la decisione finale fu: Seclì, Neviano e Aradeo. Un tremendo smacco per gli aradeini.

Ma la faccenda non finì qui e, proprio dagli episodi che seguirono, derivò l’appellativo di “taratiauli” ancora oggi usato da qualcuno.

Tutto si deve ad un imbianchino di Aradeo, incaricato di pitturare sulla facciata dell’edificio i tre nomi. Memore dello smacco ricevuto, l’imbianchino preparò due miscele diverse: una indelebile e l’altra con uno strano composto (si dice con fuliggine). L’aradeino rispettò l’ordine dei nomi oramai stabilito, ma utilizzò la tinta alla fuliggine solo per Seclì e Neviano e quella indelebile per Aradeo. Bastarono le piogge di pochi mesi a smascherare il trucco: la stazione passò ben presto da Stazione di Seclì, Neviano, Aradeo a Stazione di…Aradeo. Una trovata diabolica, secondo i rivali di sempre: “roba de taratiauli”  insomma.

 


[1] Gli aradeini usavano ad esempio recitare: “Ssichijatu cciti patucchi/vai alla chiesa e nu te ngianucchi/ nu te cacci lu coppulinu/ ssichijatu malandrinu”

ROBERTO SPAVENTA – Successioni feudali a Seclì dal XIII al XIX secolo

Abstract

 

Questo studio, che rientra nell’alveo di una più generale ricerca sulla presenza feudale in terra d’Otranto nel Medioevo e primo Rinascimento, è rivolto ad integrare o correggere, seguendo una rigorosa metodologia di ricerca, quanto finora è stato elaborato in merito alla successione feudale nel piccolo paese salentino di Seclì. Più in particolare, la bibliografia esistente poco ha scritto relativamente ai primi secoli di esistenza del casale (dal Duecento al Quattrocento), mentre i contributi riguardanti i secoli successivi abbondano anche a causa della presenza all’interno della famiglia ducale dei D’Amato della Venerabile suor Chiara. Particolare attenzione è stata quindi prestata allo studio delle poche fonti superstiti riguardanti questo periodo (atti della Cancelleria angioina ed aragonese estratti anche da opere erudite di noti genealogisti) riferite al possesso del casale di Seclì, chiamato nel medioevo Sficli. Dall’esame della documentazione esistente si è giunti alla scoperta di alcune famiglie aristocratiche il cui possesso su Seclì non era stato finora chiaramente o per nulla delineato.

 

 

ENGLISH

 

This essay, part of a broader research about feudal presence in Terra d’Otranto in Middle Ages and early Renaissance ,is intended to supplement or correct, following a rigorous research methodology,what has been developed  so far about the feudal succession in Seclì, a Salento village. More particularly, existing bibliography didn’t write much concerning early years of existence of the farmhouse (between 1200 and 1400), while contributions about subsequent centuries abound also due to the presence within  D’Amato ducal family of Venerable Sister Chiara.Special attention was therefore given to study few surviving sources about this period (Angevin and Aragonese Chancellery certificates also drawn by erudite works by famous genealogists) related to possession of farmhouse of Seclì, called Sficli during Middle Ages.An examination of existing documents has led to discover some aristocratic families whose possession of Seclì was not yet been clearly outlined or at all.

Seclì. La chiesetta della Madonna di Luna

La chiesetta della Madonna di Luna

Uno scempio storico-artistico tra Seclì, Galatone e Aradeo

 

di Annunziata Piccinno

 

Nelle campagne salentine sono disseminate le cappelle e le edicole votive; di alcune di queste spesso si ignora l’esistenza o le radici storiche, altre invece sono conosciute e frequentate, altre ancora, sebbene si conoscano le radici storiche e l’importanza che hanno avuto anche in un recente passato, sono abbandonate a se stesse in uno stato di precaria conservazione. La grande quantità di testimonianze del passato, se da un lato ci riempie di orgoglio, dall’altro ci pone di fronte a delle responsabilità nel custodire questa grande mole di opere che i nostri avi hanno saputo realizzare.

Il nostro presente non può esistere senza il passato, e noi abbiamo il dovere di conservare e tutelare ciò che abbiamo ricevuto per trasmetterlo alle nuove generazioni.

In un saggio del 1997 il sovrintendente ai beni culturali, Giovanni Giangreco, denunciava il senso di impotenza ad operare per ragioni magari comprensibili, come la carenza di risorse, ma che non cancellano la nostra responsabilità storica. E scriveva:«Che fare? Questa domanda diventa sempre più pressante col passare degli anni perché le nuove generazioni incalzano […] Bisogna allora individuare la causa di tale impotenza e, se le leggi non aiutano, bisogna adoperarsi con la cultura e con la fantasia per tentare strade nuove che portano alla risoluzione di questi problemi»[1].

Problemi che si ripropongono ogni qual volta veniamo a conoscenza o constatiamo direttamente il degrado in cui certi monumenti sono caduti, nonostante la ricerca storica e il vincolo. Un caso esplicito è la piccola chiesa rurale della Madonna di Luna, in agro di Seclì.

facciata principale (ph A. Piccinno)

Abbandonata a se stessa versa in uno stato di deplorevole degrado, ridotta quasi a un rudere; riconoscibile a malapena da chi ne ricordasse le primigenie sembianze, non tanto per il logorio dei secoli, ma soprattutto per l’incuria e il vandalismo cui è stata soggetta in questi ultimi anni[2].

La storia della chiesa la conosciamo attraverso le ricerche del sacerdote Sebastiano Fattizzo, pubblicate nel suo volume sul Crocifisso di Galatone[3] e in seguito riproposte in un saggio edito dal Comune di Seclì[4].

Sulla scia delle ricerche del sacerdote galateo, è facile tracciare brevemente le vicende della chiesetta, a partire dall’inusuale intitolazione alla Madonna di Luna.

Probabilmente nell’area dell’attuale edificio esisteva un sacello già in epoca pagana. Il titolo dunque deriverebbe da un luogo di culto dedicato alla dea Luna, consacrato alla Vergine una volta scomparso il paganesimo. Ecco perché la festa della titolare, fino a pochi decenni addietro, veniva ancora celebrata alla fine di agosto o ai primi di settembre, in prossimità della luna piena. Nei pressi della chiesetta, del resto, vi era un grosso macigno in pietra viva, chiamato pietra di luna, posto sul ciglio di un quadrivio campestre e poi gettato nel fondo della cava, ormai esaurita, della Masseria Gentiluono. Sarebbe una reliquia dell’antico tempio pagano, o addirittura un resto dell’ara su cui si immolavano sacrifici alla dea.

Sta di fatto che la fantasia popolare dei galatei non disdegnò di imbastire leggende su quello strano cimelio. Così recita una strofa dialettale, che l’ignoto scopritore della pietra avrebbe trovato incisa sul retro, dopo averla rivoltata:Iata a ci mi ota!

E mò ca m’ha bbutàta

M’aggiu totta ddiffriscàta.

Òtame e sbòtame ‘n’addha fiata.

che si traduce così:

Beato chi mi volta!

E ora che mi hai voltata

mi sono tutta rinfrescata.

Voltami e rivoltami di nuovo.

La chiesa, come accennato in precedenza, è sita nei limiti di feudo tra Seclì (appartiene territorialmente a questo comune), Aradeo e Galatone.

prospetto laterale

L’originaria costruzione è di indubbia antichità, anche se ricostruita ed ampliata nel corso degli anni. La chiesa, nell’Inventario dei Beneficji Ecclesiastici di Galatone, redatto nel 1678, appare esistente dal 1657. Ivi si apprende che, in quella data, tal Francesco Buia ristrutturò un’antica cappella preesistente, la ampliò e la dedicò, per una sua particolare devozione, alla Madonna di Costantinopoli; il popolo, però, continuò a chiamare la chiesa con il suo vecchio nome di “Madonna di Luna” e così fino ad oggi.

La chiesetta, sollevata sul piano stradale di circa un metro e mezzo, è a due vani con volta a botte. Nel vano rettangolare, addossato al muro, vi era un altare sormontato dall’affresco della Madonna con in braccio Gesù Bambino. Era dotata degli arredi sacri e di una pregevole acquasantiera. Sul fronte dell’edificio, affacciato sulla strada principale, vi era (e oggi se ne può vedere solo una parte) un piccolo campanile a vela con una campana. Questo fino ad una ventina d’anni fa.

Un campanello di allarme sullo stato del monumento trillava già in un articolo del 1989 dove, tramite un altro scritto di Sebastiano Fattizzo, si denunziavano le pessime condizioni dell’affresco e la necessità di provvedere alla custodia della chiesa:

«[…] l’affresco […] è circondato da una magnifica cornice di pietra scolpita: se non si provvederà quanto prima a riparare il guasto, qualche piromane brucerà i vecchi scanni rimasti dentro la chiesa… ed altri sfonderà l’altare e il pavimento… ed in questo modo tutto sarà sfasciato…».

Profezia che purtroppo si è avverata!

Il monumento, sottoposto dalla Soprintendenza a vincolo di tutela con declaratoria del 19-08-1987, è beneficio dell’Insigne Collegiata di Maria SS.ma Assunta di Galatone. Per tale motivo i canonici galatei avevano l’obbligo di celebrarvi un certo numero di messe e di impegnarsi nella manutenzione e conservazione del monumento. Oggi, messo da parte tale obbligo morale, la chiesa è quasi del tutto inesistente se non per le mura, anch’esse percorse da numerose e profonde crepe. Soggetta a furti ripetuti, da quanto ho potuto personalmente appurare, dell’antico corredo la chiesa non conserva nulla. Durante un mio sopralluogo nel 2001 notai che l’altare era stato asportato e mancava l’acquasantiera. L’affresco della Vergine, picconato giù dalla parete, era a terra, fatto a pezzi, ridotto a un cumulo di frammenti informi; coperti da strati di polvere e calce, si potevano riconoscere come tessere di un mosaico il manto azzurro della Vergine, i piedi del Bambino e altri particolari[5]. Ora neppure questo. È lo scempio più totale! È addirittura arduo e pericoloso poterci entrare, giacché l’architrave è lesionata, così come la volta, e a terra vi sono pietre disseminate dappertutto. Uno scheletro che a malapena si mantiene in piedi, così è disgraziatamente ridotta la chiesetta.

Intanto, a braccia conserte, si resta a guardare. Che ne sarà di Luna? Ai posteri l’ardua sentenza.


[1] G. Giangreco, La Chiesa di S. Angelo De Salute in Galatone o l’eredità culturale del passato, in L’oro di Galatone, Lecce 1997, 135.

[2] Cf M. Grasso, Li petre ti luna, in «Il giornale di Galatone», 29 (2000), 11.

[3] S. Fattizzo, Il Crocifisso di Galatone, Galatina 1982, 484-492.

[4] S. Fattizzo, La leggenda della pietra di luna, in Seclì. Almanacco di storia arte e società 2003-2004, a cura di V. Zacchino, Galatina 2003, 105-113.

[5] A. Piccinno, La Chiesa di “Madonna di Luna”nella Visita Pastorale di Mons. Antonio Sanfelice del 1719, in «Piazza San Paolo, periodico di Seclì», 4 (2001), 9.

 

pubblicato su Spicilegia Sallentina n°6

Seclì, 19 luglio 1739: festività di S. Antonio. Botte da orbi tra Galatonesi e Seclioti

 

di Marcello Gaballo

Più volte ho avuto modo di riferire su fatti e cronache di qualche secolo fa, che il solito prodigo Archivio di Stato di Lecce ci propone nello spoglio degli atti notarili in esso conservati. Buona parte di questi generalmente tratta di compravendite, concessioni, donazioni e altri rogiti più o meno interessanti, ma di uno sono rimasto particolarmente colpito, se non altro per la sua originalità.

Mi piace raccontarlo, perché è giusto che si abbia modo, come lo è stato per me, di riflettere su come i tempi cambino, ma il carattere e i vizi umani restino sempre, anche se adeguati ai costumi dell’epoca in cui si vive.

La vicenda si svolge dunque a Seclì nel 1739, in occasione della festa di S. Antonio (la “festa cranne”, per distinguerla dalla “piccinna” del 13 giugno, come ancora si pratica)  per la quale erano “a tal’ effetto concorse diverse persone di Galatone e di altri luoghi convicini”, tra cui un tal Carmine d’Amici di Aradeo e Giuseppe Donadei di Neviano.

Seclì, prospetto principale del palazzo ducale realizzato dai D’Amato

I due dichiarano di fronte al notaio di aver assistito personalmente “che in detto giorno, a circa l’ore venti una, si attaccò fra alcune persone cittadine di Seclì e di Galatone littigio avanti la porta di Seclì“.

L’occasione della lite nasceva dal fatto che alcuni galatonesi si erano opposti alla carcerazione di “un di loro concittadino di nome Marco Longo, come si pretendeva da quelli di Seclì”. Riusciti dunque a ottenerne la liberazione, pur con la viva opposizione dei Seclioti, ne nacque una rissa e nel pieno dei litigi “comparve il magnifico Carlo Guida di Galatone, che cavalcava una giumenta, il quale fattosi mezzo alla calca della gente che ivi era accorsa, fra quali anche esistevano Diego Carlucci di Seclì, che portava in mano un legno seu margiale, Diego Farlisci, il quale con una pietra grossa che afferrò da terra minacciava di tirare, senza che essi suddetti constituti avessero potuto indagare a chi, e Sigismondo Sizari di Seclì, il quale con una scialla in mano nuda faceva segno di dare”.

Il nobile a cavallo tentò inutilmente di sedare i rivoltosi e poco dopo lo si vide allontanarsi per andare nel paese a riferire al Duca, sperando che almeno quello riuscisse a quietare gli indomiti. Tornato tra la folla “che continuava a stare avanti la porta sudetta di Seclì” spese ancora qualche tentativo per componerla e quietarla.

Nel frattempo ecco “comparire dalla parte della chiesa di S. Antonio il magnifico Giuseppe Arnesano, che anche andava a cavallo, e nell’approssimarsi verso la porta di Seclì, se gli fece avanti molta della gente di Galatone che aveva procurato la libertà del detto Longo”.

Seclì, la chiesa “vecchia”, restaurata di recente

Il signorotto, fattosi avanti, “posto mano a una voglina (scudiscio) scaricò più colpi con quella sopra diverse persone di Galatone, sgridandogli d’imprudenti e malandrini, ed incaricandogli la quiete“.

Ottenuta un po’ di calma l’Arnesano si ritrasse poco lontano col notaio Orazio Latini e conversò a lungo, quindi tornò tra i facinorosi e riprese a dare scudisciate con la stessa “voglina”, ottenendo finalmente quiete.

Lo stesso giorno, sempre di fronte al medesimo notaio, altra dichiarazione di due aradeini, Antonio e Nicola Blaco, che attestano di essersi recati la Domenica precedente, 19 luglio, “a visitare la chiesa di S. Antonio extra moenia di Seclì, dove si solennizzava la festività del medesimo Santo”.

Antonio stava sulla terrazza di don Francesco Stifani, “vicino la porta della terra di Seclì”, e Nicola davanti alla casa di Donato Calò, “anche vicino la porta sudetta”, quando “intesero grida e rumori avanti la riferita porta, occasionati, per quanto intesero, da persone di Seclì e Galatone per la carcerazione intendevano fare detti di Seclì, e che se gli contrastava da quelli di Galatone, di una persona sopranomata il Tignoso, fratello di mastro Filippo di Galatone”.

I due riferiscono i fatti già esposti, aggiungendo che i galatonesi si erano rivolti all’Arnesano per invocare la difesa di quanto reclamavano, cioè la liberazione del loro concittadino, senza tuttavia ottenere alcunché se non “più e più colpi di volpino, o sia vollina, che portava in mano”, oltre ad essere “caricate di parole e villanie come di bricconi”.

Suor Chiara D’Amato dei duchi di Seclì

di Raimondo Rodia
Seclì, chiesetta annessa all’ex convento francescano

Nella seconda metà del 500 (1550) divennero feudatari di Seclì con il titolo di duchi i D’Amato, nobili spagnoli venuti in Italia al seguito degli aragonesi, padroni dell’Italia meridionale. Con la famiglia D’Amato Seclì visse un periodo di sviluppo e benessere, trasformandosi da antica fortezza in residenza signorile, “la fortezza diventa palazzo”.

Del primo duca si hanno poche notizie. Il suo successore, Guido, fu un uomo coraggioso e colto. Partecipò alla battaglia di Lepanto, dove la flotta cristiana inflisse una durissima sconfitta alla flotta turca. Tornato nel suo feudo fece costruire il convento dei frati minori osservanti con l’annessa chiesa dedicata alla Madonna degli Angeli. Diede inizio alla costruzione del palazzo feudale ed ingrandì la chiesa matrice dedicata a S. Maria delle Grazie. Verso il 1610 a Guido successe Ottavio e a questi, verso il 1615 il figlio Francesco. Nel 1647, quando il popolo si ribellò alle numerose imposte dei signori spagnoli (rivolta di Masaniello a Napoli), l’ultimo dei D’Amato, Antonio, fu coinvolto in un episodio di rivolta popolare scoppiata nel Salento contro i signori locali. A seguito della rivolta scoppiata a Nardò, il duca neretino fece imprigionare don Antonio Bonsegna, alleato dei rivoltosi. II popolo neretino allora per ottenere la liberazione del Bonsegna mandò due frati francescani, del convento di Sant’Antonio da Padova di Nardò, dal barone di Seclì, Antonio D’Amato, minacciandolo che avrebbero sequestrato e poi bruciato la sorella Suor Chiara, se non avesse convinto il duca di Nardò, suo cugino, a rilasciare il Bonsegna. Questa rivolta ebbe fine con la liberazione del Bonsegna. Antonio era fratello di Suor Chiara, al secolo Isabella D’Amato duchessa di Seclì nata il 14 marzo 1618 e morta a Nardò il 7 luglio 1693, figlia del duca Francesco.
Isabella crebbe a Seclì nel palazzo paterno segnalandosi, fin dalla prima infanzia, per dolcezza, pietà e semplicità. Decisivi per la sua formazione furono i rapporti con i frati minori osservanti del locale convento di S. Antonio, dai quali apprese la narrazione degli eroici martìri subiti dai missionari francescani. A dieci anni la bambina aveva già deciso di dedicare la propria vita a Cristo e, di giorno in giorno, rafforzava il suo ardore cristiano e la sua spiritualità, che accompagnava con digiuni rigorosi e severe pene corporali. Trascorreva la sua giornata raccogliendosi in preghiera nella cappella di famiglia dove ebbe l’apparizione della Madonna. Era vestita di bianco e aveva una collana d’oro. Da allora le visioni non si contarono più.
Nel 1636, all’età di 18 anni, Isabella entrava nello storico monastero di S. Chiara a Nardò insieme alla sorella minore Giovanna. Dodici anni più tardi, il 10 agosto 1648, ella poteva finalmente prendere i voti con il nome di Suor Chiara. Ispirandosi a S. Caterina da Siena di cui assume il nome, Suor Chiara conduce la sua vita di clarissa all’interno della comunità monastica neretina, in preghiere, veglie penitenziali, autoflagellazioni, ratti, deliqui, bassi sfaccendamenti a favore delle consorelle, febbri a rischio mortale, e insperate guarigioni. Le sue estasi, aggiungendosi a costanti digiuni, le causavano forti debilitazioni e spossatezze che la gettavano solitamente in uno stato di profonda prostrazione. Esse arrivavano improvvise, “alle volte con il boccone in bocca”, e suor Chiara scoloriva e impietriva per ore, ridestandosi solamente quando la superiora la richiamava all’obbedienza.
Seclì, statua della Vergine conservata nella chiesetta

Durante l’estasi Suor Chiara si assentava dal mondo e senza rendersene conto, veniva assorbita completamente dalle visioni in cui si immergeva la sua mente. Talvolta mentre era in trance manifestava straordinarie qualità divinatorie e profetiche che le permettevano di vedere in anticipo eventi anche personali, come la sua stessa morte, in ogni dettaglio. Ma anche vicende fuori della sua portata relative a persone che non conosceva. Quelle estasi non di rado si accompagnavano alla levitazione, esattamente come succedeva al conterraneo San Giuseppe da Copertino. Ad una di quelle estasi fu presente il Cardinale Vincenzo Maria Orsini, il futuro Papa Benedetto XIII, nel corso di una sua visita a Nardò all’amico vescovo Orazio Fortunato.

Suor Chiara morì martedì 7 luglio 1693, dopo aver ricevuto l’estrema unzione e la benedizione papale “in articulo mortis” dal vescovo. Si aprì subito il processo di beatificazione che purtroppo non fu mai concluso. In una visione a Suor Chiara le appariva Gesù con due cuori nelle mani, uno era di carne, l’altro era di materiale lucente come il cristallo. Suor Chiara diceva di non avere il cuore perché le era stato tolto da Gesù ricevendo il suo che era lucente come il cristallo.
Erano trascorsi sette anni dalla morte di Suor Chiara ed il vescovo Mons. Orazio Fortunato ordinò la traslazione della salma dalla cripta alla sepoltura comune delle monache. Il vicario Orazio Giocoli, ricordandosi della confessione di Suor Chiara, volle accertarsi se tutto ciò fosse vero. Ordinò al medico De Pandis di aprire il petto e ricercare il cuore. Tutti gli organi erano al loro posto, il cuore non c’era.
Dopo la sua morte si diede inizio al processo di beatificazione, avendo Suor Chiara vissuto tutta la vita dedicandosi interamente a Dio e al prossimo e avendo compiuto numerosi miracoli. Si dice che qualche giorno dopo la sua morte, non avendo della defunta alcuna immagine, le consorelle decisero di riesumare il cadavere, conservato nella cripta del convento per far eseguire ad un pittore il ritratto.
Erano trascorsi oltre 8 giorni dalla morte, eppure il cadavere, estratto dal sepolcro, non era rigido, non presentava il “rigor mortis”, anzi il corpo si prestava facilmente ai movimenti che le suore gli facevano fare per metterlo seduto sulla sedia della cella, davanti al tavolo in adorazione del crocifisso, per il ritratto.
Quando il pittore cercò di mettere in una posizione più corretta il volto di Suor Chiara, questo si ritrasse quasi disapprovando di essere toccato dalle mani di un uomo. Fatto il ritratto, il processo di beatificazione ebbe inizio. I prelati incaricati per il processo dovevano vedere il corpo della suora, per questo si decise di riesumare nuovamente il cadavere di Suor Chiara. Ma aperto il sarcofago si vide, con grande stupore, che le spoglie di Isabella D’amato erano sparite e non avendole più trovate il processo di beatificazione non potette procedere.
Questo mistero fu spiegato solo molto tempo dopo, quando una suora del convento, in fin di vita, disse che Suor Chiara era stata sepolta dalle consorelle, dopo la riesumazione, in un luogo nascosto che sarebbe stato individuato dal ritrovamento di una lapide con il nome della defunta e la data della sua morte. Ma la lapide descritta dalla suora non si è ancora trovata.
Ancora oggi nel ristrutturato castello di Seclì, oggi di proprietà comunale, in quella che era la cappella di famiglia c’è come una macchia, sembra quasi di umido, accanto alla finestra, un ombra inginocchiata che non trova pace.
Molte storielle di fantasmi vengon raccontate sull’austero castello di Seclì ieri della nobile famiglia d’Amato ed oggi tornato a far parlare di sè.

Il palazzo ducale dei D’Amato a Seclì (Lecce)

Seclì, palazzo ducale

di Marcello Gaballo

Qualche anno addietro l’ Amministrazione Comunale di Seclì ha concluso una lunga trattativa per l’ acquisizione di uno dei più bei complessi esistenti in questo Comune, indissolubilmente legato alla sua storia ed alle sue vicende feudali: il palazzo dei duchi D’ Amato, poi dei Severino, quindi dei Papaleo, che hanno favorevolmente concluso la trattativa.

E’ lungimirante il gesto compiuto dagli Amministratori, che certamente avrebbero potuto investire in nuovi faraonici progetti, magari conclusi dopo decenni e senza il sapore dell’ antico e del vissuto, trascurando dunque le proprie radici e le motivazioni profonde che hanno portato all’ attuale.

L’ occasione è motivo di riflessione per tutti, cittadini e non del piccolo centro, per meditare sui beni culturali, specie in questi momenti di risveglio che sembrano attuarsi nel letargico Salento.

Il godimento e l’ uso responsabile di un bene come il palazzo d’ Amato, che dovrà essere adibito a sede municipale e centro polivalente, è un monito per molti altri centri, considerati assai più all’ avanguardia e poco sensibili al fascino dei propri centri storici.

Non è per niente copiosa la bibliografia di Seclì e le poche notizie storiche che la riguardano e sinora pubblicate sono spesso incerte e dubbie. Occorreranno appassionati cultori delle proprie memorie storiche andare alla ricerca delle fonti, per capire finalmente che non si tratta poi di un borgo così insignificante, come spesso si lascia intendere.

Posseduta per più secoli dai baroni Sambiasi di Nardò, Seclì nel 1399 era stata tolta al filofrancese Mello Sambiasi per essere ceduta a Nicola Pezzullo di Lacedonia, dal quale fu ricomprata dalla stessa famiglia e quindi venduta per 1000 ducati, nel 1567, a Sigismondo, capostipite salentino di una facoltosa schiatta napoletana, i d’ Amato, giunti in Terra d’ Otranto per motivi di parentela e feudatarii.

Da Sigismondo il possesso passa al figlio primogenito Guidone (detto anche Guiduccio o Guido), che in un atto dello stesso periodo si dichiara utili domino et patrono terre Secli, residente anch’ esso, come il padre ed il fratello Cesare, a Nardò nel vicinio di S. Maria della Misericordia.

Fu quest’ ultimo ad iniziare i lavori di costruzione del palazzo di famiglia, probabilmente servendosi delle celebri ed assai valide maestranze neritine, senza escludere possibili interventi dell’ ormai noto Giovanni Maria Tarantino.

Se il palazzo fosse sorto sulle rovine di un preesistente fortellitio è difficile da appurare, ma è possibile ipotizzarlo, vista la sua ubicazione nel centro di Seclì, nelle immediate vicinanze della chiesa matrice dedicata a S. Maria delle Grazie, che lo stesso Guidone fece ampliare. Per volontà della moglie Giulia Spinelli fu invece eretto nel 1592 il monastero di S. Maria degli Angeli, extra moenia, officiato dai frati Minori Osservanti [1], sebbene la coppia, residente a Nardò, già cinque anni prima avesse donato ai frati Domenicani della stessa città 100 ducati per la costruzione e ornamento di una cappella dedicata sempre a S. Maria degli Angeli.

A Guidone successe nel titolo di baroni di Seclì il figlio Ottavio, da cui il primogenito Francesco, che col suo strategico matrimonio celebrato nel 1612 con Caterina d’Acugno dei signori della Foresta di Gallipoli, accresce il prestigio della sua famiglia e, forte degli appoggi a livello centrale, riesce ad ottenere il titolo ducale su Seclì.

Dai due nacquero Antonio, primogenito, Blasco, Livia, Anna, clarissa, Adriana e Isabella, anche questa clarissa a Nardò, più nota come suor Chiara d’ Amato di S. Caterina da Siena dei duchi di Seclì, morta nel 1693 in concetto di Santità.

Già di Francesco nel 1639, Antonio d’Amato nel 1659 riceve conferma del titolo ducale con Real Privilegio ed a lui succede il fratello Blasco, da cui passò alla nipote ex sorore Porzia, duchessa di Seclì nel 1693.

Forse per il matrimonio di quest’ ultima con un esponente della nobile famiglia Severino o per vendita, il titolo passò a questi ultimi, che lo tennero sino al 1796, quando il feudo diventò dei Rossi, signori della terra di Caprarica, la cui ultima discendente, Angiola Rossi, lo trasmise al consorte Giacomo Papaleo da Bagnolo.

Le stringate vicende storiche sono occasione per meglio comprendere il palazzo di nostro interesse, prossima sede municipale, che risulta tra i più interessanti del territorio per l’ originale e bella soluzione angolare esterna, ubicata sul piano superiore, e fortunatamente sopravvissuta con ben poco altro.

particolare del palazzo con lo stemma di famiglia (ph M. Gaballo)

“Ardito montaggio di due arcate marcatamente ogivali -scrive l’ arch. Mario Cazzato- che dovevano contenere altrettante aperture balaustrate; in prossimità dello spigolo dell’ edificio l’ arcata relativa poggia su una cornice sostenuta da colonne ravvicinate impostate su un unico piedistallo. Questa soluzione gira sull’ altro lato dello spigolo realizzando una specie di edicola composta da un’ apertura quadrata, ora murata, inquadrata da due colonne per lato analoghe anche per le cornici e i piedistalli alle precedenti”.

Nell’ interno del palazzo, alla singolare soluzione corrispondeva una loggia tardo-cinquecentesca, le cui aperture, nonostante le varie modifiche apportate in più riprese, sono ancora identificabili e sottolineate da un fregio coevo scolpito che attraversa anche tutta la volta.

Sovrasta la cornice angolare esterna un importante stemma elmato, quindi nobiliare, purtroppo mutilo per un terzo, sul quale campeggiano due leoni controrampanti, di buona fattura.

Quasi certamente esso fu aggiunto in successivi lavori di ristrutturazione del palazzo, non coincidendo con l’ arme della famiglia ducale dei D’ Amato, dipinta in inquarto su una delle volte lunettate ed affrescate nell’ interno.

Qui, in ambiente completamente stravolto dai rimaneggiamenti di epoche diverse, fino a poche mesi fa era conservata un’ interessante tela raffigurante S. Oronzo, restando invece i soffitti di due delle stanze, affrescati, anche se ormai scoloriti e bisognevoli di importante restauro. Uno dei soffitti riporta lo stemma anzidetto, policromo ed inquartato, inserito centralmente tra decorazioni classiche ed arabeschi; l’ altro, lunettato, riporta i ritratti dei duchi d’ Amato e di numerosi imperatori dell’ antica Roma e di Spagna, inseriti in medaglioni tra figure allegoriche e putti, sempre dipinti.

mangiatoie recuperate di recente a pianterreno del palazzo

Piuttosto integri sono rimasti il bellissimo basolato dell’ atrio interno e gli ampi locali voltati a botte, sempre a pianterreno, di recente recuperati, un tempo adibiti a frantoio, palmento e deposito, nei quali potrebbero trovare posto uffici o esercizi di vario genere, magari collegati con l’ esteso giardino retrostante. Tra questi vani merita particolare studio quello situato, sempre a pianterreno, a lato della scala in muratura, che al suo interno lascia intravedere parte di un affresco policromo, ricoperto da incrostazioni e pitturazioni successive, raffigurante la Vergine col Bambino e con alcune iscrizioni da interpretare.

Seclì, recenti restauri del palazzo ducale e rinvenimenti nel pavimento del salone a pianterreno

Degna di menzione infine è pure la cappella privata al primo piano, di cui in vero resta ben poco dell’ originario, fatta eccezione per delle colonne con capitelli delimitanti l’ altare, pitturate di verde e probabilmente traslate da altre parti del palazzo. Su di esse risaltano enigmatici volti semivegetali, uno per parte, già visti per tre volte all’ esterno, ed in particolare sulla facciata del S. Domenico di Nardò.

L’ inevitabile richiamo alle similari decorazioni in carparo del più noto edificio neritino, sollecitano ipotesi su cui occorrerà certamente lavorare ed indagare, per meglio definire l’ attività del magister Jo: Maria Tarentino de Nardo, che, come accennato sopra, potrebbe avervi prestato la sua maestranza.

Sempre in questa cappella si conserva una imponente e piuttosto recente statua in cartapesta policroma raffigurante la Madonna degli Angeli, che, come ricorda l’ epigrafe marmorea collocata a destra entrando dai Papaleo, sarebbe apparsa alla predetta suor Chiara.


[1] gli anni passati era guardiano del monastero padre frà Giuseppe da Seclì. Il convento possedeva in Galatone una casa in loco detto Spirito Santo, che poi vendette a Pietro Marini (atti not. De Magistris di Galatone (39/2) 1647, c.95). Nell’ atto si legge che il convento, extra moenia, è dell’ Ordine di S. Francesco d’ Assisi degli Zoccolanti.

[2] Cedolari di Terra d’ Otranto , vol.21, f.32.

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