I simulacri lignei delle sante martiri e vergini, venerate nelle città di Latiano, Torre Santa Susanna ed Erchie

Busto reliquiario di Santa Lucia

 

di Domenico Ble

 

Il momento principale che riunisce ogni comunità cittadina è senza ombra di dubbio quello della festa patronale. Si tratta di un’occasione di grande coinvolgimento, gli abitanti di ogni comunità cittadina si sentono protagonisti e responsabili della buona riuscita del momento festoso.

Da molti anni, diverse feste patronali pugliesi sono divenute note, anche a livello nazionale, per delle peculiarità folcloristiche ed artigianali. Fra tutte le feste spicca, ad esempio, quella in onore di santa Domenica a Scorrano in provincia di Lecce, divenuta tappa di curiosi e turisti per le famose luminarie.

È importante sottolineare che il cuore di ogni festa patronale è la processione religiosa ossia il momento in cui il simulacro, raffigurante il santo protettore, viene portato in spalla per le vie del paese. L’arte torna ad essere oggetto dominante perché i simulacri, in argento, lignei o in cartapesta, sono veri capolavori dell’arte scultorea.

In questo saggio mi occuperò della devozione nei confronti di tre sante vergini e martiri, omaggiate in tre differenti comunità locali: santa Margherita d’Antiochia a Latiano, santa Susanna a Torre Santa Susanna e santa Lucia a Erchie.

Prima di proseguire nell’analisi dei simulacri, è doveroso accennare alla situazione dell’arte, nel Seicento e Settecento, nel Salento.

Nei territori della grande provincia di Terra d’Otranto, terra di confine rivolta ad Oriente, crocevia di grandi traffici commerciali e di scambi culturali, vi fu in questo periodo in ambito artistico, dal punto di vista pittorico, scultoreo e architettonico, una fusione di molteplici stili, ancora oggi osservabili sulle facciate dei monumenti e nei particolari delle opere mobili.

I contatti artistici non mancarono soprattutto con Napoli, capitale del regno e centro artistico principale del bacino mediterraneo. La committenza presente in Terra d’Otranto e nell’intera Puglia, composta principalmente dai feudatari, dal clero diocesano, dagli ordini sacri e dalle Università, commissionava alle botteghe presenti nella capitale e in provincia la realizzazione di tele, statue, manufatti di vario genere[1]. Fra le richieste, ovviamente rientravano anche le statue lignee, tra cui quelle raffiguranti i santi protettori a cui erano devoti i committenti. Una domanda ulteriormente accresciutasi alla fine del XVII secolo ad opera soprattutto della committenza ecclesiastica[2].

Busto reliquiario di Santa Susanna

 

Fra le varie tipologie di statue, erano molto richiesti i busti-reliquiari[3], i quali potevano essere lignei o di argento ed avevano una funzione devozionale, in quanto i fedeli, attraverso l’ausilio dell’immagine, rivolgevano le loro preghiere alla santa o al santo raffigurati. Allo stesso tempo, svolgevano anche la funzione di contenere le reliquie dei santi: erano questi i motivi per cui tali manufatti assumevano un grande valore artistico e religioso[4].

Santa Susanna è patrona dell’omonima città[5]. La devozione del popolo torrese nei confronti della santa martire, è legata a due episodi a cui è attribuita la sua intercessione per la protezione del popolo: il terremoto del 1743 e il colera del 1837[6]. La tradizione lega comunque il culto, in suo onore ad un episodio ambientato in epoca tardo-romana secondo il quale un soldato romano cristiano realizzò un disegno raffigurante la santa vergine e martire romana su una parete all’interno di una torre presente nel territorio. Non vi sono, tuttavia, fonti scritte che certifichino l’accaduto. L’unica certezza è che a mantenere vivo il culto, fu la presenza di un edificio sacro bizantino, situato poco fuori la città e dedicato a santa Susanna. Tale edificio oggi non è più esistente, tuttavia è bene menzionarlo in quanto dalle mura di questo luogo sacro nacque la città[7].

Santa Margherita d’Antiochia (foto di Vincenzo Doria)

 

Nella chiesa matrice di Torre Santa Susanna, nell’ultima cappella della navata di sinistra, all’interno della teca dell’altare, è conservato il busto-reliquiario ligneo raffigurante la giovane martire romana. In quest’opera la santa è rappresentata con il capo aureolato, rivolto verso l’alto. Con la mano destra tiene la torre, allegoria che ricorda la leggenda da cui deriva il nome della città, e con la mano sinistra la palma del martirio. Indossa un abito in stile seicentesco indorato. Al centro, sul petto, è collocata la piccola teca circolare al cui interno è posta la reliquia.

Nel 1664, in occasione della visita pastorale del vescovo Raffaele Palma,[8] viene riportata la presenza del simulacro all’interno di un armadio collocato nella sagrestia e si fa anche riferimento al colore dorato degli abiti.[9] L’opera potrebbe essere stata realizzata un decennio prima della data in cui la riporta il vescovo nella sua visita pastorale.

Nella vicina città di Erchie sorge il santuario di santa Lucia[10], vergine e martire. Il culto in onore della giovane siracusana ebbe inizio a seguito dello spostamento del corpo da Siracusa a Costantinopoli[11] per volere del generale bizantino Giorgio Maniace. Durante il tragitto, il Maniace e i soldati si fermarono nella foresta oritana, all’interno di una rientranza rocciosa nei pressi del villaggio di Hercle, odierna Erchie. La leggenda vuole che alcuni monaci basiliani che dimoravano lì vicino, visto il corpo della santa siracusana, appena i soldati lasciarono il luogo in cui avevano sostato, decisero di trasformare il posto in luogo di culto e affrescarono le pareti immortalando l’episodio[12]. Ben presto il luogo divenne meta di pellegrinaggio.

A questo luogo è legata un’altra leggenda, quella «della mucca», racconto risalente al XVI secolo. Durante un periodo di grande siccità, si narra, che un vaccaro abitualmente portasse le sue mucche al pascolo proprio vicino alla cappella (grotta). Mentre era nel luogo del pascolo, si accorse dell’allontanamento di una mucca dalla mandria. Questo accade per diversi giorni a seguire, il vaccaro decise di seguire l’animale scoprendo che si allontanava dalla mandria per andare a bere ad una fonte che sgorgava proprio vicino ad un quadro raffigurante santa Lucia. Il popolo di Erchie interpretò questo segno come un prodigio, rinnovò la cappella, collocando il quadro raffigurante la santa sull’altare[13]. Da qui fu poi edificato in epoca moderna l’odierno santuario.

Il simulacro ligneo vede Santa Lucia raffigurata a mezzo busto, con il capo aureolato rivolto verso l’alto. Indossa una semplice veste, con la mano destra regge un vassoio su cui sono poggiati gli occhi, un rimando al martirio ricevuto, mentre con la mano sinistra tiene la palma e un libro. Al centro, sul petto, si trova la piccola edicola in cui è conservata la reliquia.

Alla stessa maniera del busto-reliquiario di santa Susanna, ad esclusione delle mani e del volto, la parte restante è coperta dall’indoratura.

Il simulacro fu realizzato nel 1638, in sostituzione del quadro che era posto sull’altare maggiore e l’indoratura del busto fu effettuata solo dodici anni dopo la realizzazione del simulacro (1650). Questo fu possibile, stando a quanto scrive il Morleo, grazie alla vendita di una chiusura d’olive.[14] L’indoratura del simulacro, caratterizza questa tipologia di statue lignee realizzate per lo più nel XVII e nel XVIII secolo. Questa particolare colorazione veniva adoperata con lo scopo di impreziosire il manufatto, attraverso l’imitazione del metallo[15]. Stando alle fonti, si potrebbe ipotizzare che il simulacro raffigurante santa Lucia sia stato realizzato all’incirca nel primo quarantennio del XVII secolo.

Entrambi i manufatti sono di buona fattura e rievocano per alcuni versi quelli conservati nella chiesa di San Francesco a Manduria, realizzati nell’arco di tempo che va dal 1624 al 1633, e attribuiti a degli intagliatori napoletani[16]. Si potrebbe ipotizzare, che i simulacri di santa Susanna e santa Lucia, siano stati realizzati da autori differenti in quanto la staticità del busto raffigurante santa Susanna è contrapposta alla posa, quasi arcuata verso destra, del simulacro raffigurante santa Lucia. Anche i basamenti sono differenti: quello di santa Lucia è più basso rispetto a quello di santa Susanna che è più massiccio e soprattutto decorato.

A partire dal 1650, nella città di Latiano si venera come patrona Santa Margherita d’Antiochia di Pisidia[17]. Alle origini del culto c’è la famiglia Francone,[18] feudataria di Latiano dal 1511 al 1611[19].

Il nome Margherita ricorreva con grande frequenza all’interno della stessa famiglia e, come riporta lo storico Salvatore Settembrini, a Latiano vi era anche una chiesa intitolata a santa Margherita e posta sotto il patronato dei Francone,[20] i quali affidarono poi l’edificio ai frati domenicani. Agli inizi del Seicento, l’edificio fu demolito e nel 1678 fu edificata al suo posto una nuova chiesa annessa al convento. I frati diedero così un forte impulso alla diffusione del culto in onore della santa.

Nella chiesa madre, all’interno della nicchia posizionata sull’altare di sinistra del transetto, è conservata la statua raffigurante Santa Margherita d’Antiochia tuttora portata in processione ogni 20 di luglio per le vie del paese. Il simulacro vede raffigurata la santa tutta per intero. Questa rivolge lo sguardo verso il cielo, ha il braccio destro in avanti e con la mano sinistra tiene il lembo della veste e la palma. Dal braccio destro pende la catena con la quale tiene legato il diavolo, posizionato in basso ai suoi piedi e raffigurato con dimensioni inferiori e con le fattezze di un arabo. Sempre al braccio destro sono legate delle chiavi, che simboleggiano le chiavi della città di Latiano.

La giovane vergine, schiaccia con il piede sinistro il drago, un rimando figurativo all’animale fantastico che sconfisse in prigione, indossa una veste verde ed è avvolta da un manto rosso. Dietro al capo è posizionata la corona in stile barocco: si tratta di un riferimento alla corona del martirio. L’autore, ancora ignoto, ha raffigurato tutti gli attributi iconografici ad esclusione della croce.

In merito all’anno di realizzazione dell’opera, ipotizzo che possa risalire ai primi dell’Ottocento e questa risulta essere l’ipotesi più valida, in quanto in pieno XIX secolo si assiste in Terra d’Otranto al crescente successo delle statue in cartapesta. Ciò induce a pensare che la realizzazione lignea debba necessariamente essere avvenuta prima dell’affermarsi della cartapesta.[21]

La statua, di grande pregio e raffinatezza, è finemente resa nei minimi particolari, basti osservare il panneggio della veste, le mani, la gestualità e l’espressività del volto, da cui traspare l’emotività. A mio avviso, l’opera è di fattura napoletana, un restauro riporterebbe alla luce le giuste tonalità dei colori.

Come ben sappiamo, il gusto napoletano continuò ad affermarsi in maniera abbondante nel Salento, nel XVIII secolo, a seguito di una crescente richiesta da parte della committenza[22]. Il trionfo della scultura lignea, in area brindisina e tarantina, è confermato dalla presenza di numerose statue lignee, di maestri napoletani. Ad esempio, allo scultore Francesco Del Vecchio, vengono attribuite la Madonna della Fontana, custodita nella chiesa matrice di Francavilla Fontana[23] e l’Immacolata Concezione conservata nella chiesa matrice di Ceglie Messapica.[24] Ai fratelli Gennaro e Michele Trillocco viene attribuita la statua di San Gregorio Magno, conservata nella chiesa della S.S Trinità a Manduria.[25] Giuseppe Picano, realizza l’Immacolata nell’Oratorio del SS. Sacramento di Grottaglie e un’altra Immacolata per la chiesa di San Francesco di Manduria.[26]

Santa Margherita d’Antiochia (Foto di Vincenzo Doria)

[1] d. Pasculli Ferrara, Napoli e la Puglia in Arte napoletana in Puglia dal XVI al XVIII secolo, Schena, Fasano 1986, pp. 12-19.

[2] R. Casciaro, Napoli vista da fuori: sculture di età barocca in Terra d’Otranto e oltre in Sculture di età barocca tra Terra d’Otranto, Napoli e Spagna, a cura di R. Casciaro e A. Cassiano, De Luca Editori Arte, Roma 2007, p. 57.

[3] p. Leone De Castris, Sculture in legno di primo Seicento in Terra d’Otranto, tra produzione locale e importazioni da Napoli in Sculture di età barocca, cit., p. 23; P. Staffiero, Appunti per lo studio della scultura lignea in Simulacri Sacri. Statue in legno e cartapesta del territorio C.R.S.E.C (a cura di R. Poso), Grafema, Taviano 2000, p. 38.

[4] Dei pregiati esempi di busti reliquiari, validi esemplari non solo per la capitale ma anche per le province, sono quelli conservati nella lipsanoteca della chiesa del Gesù Nuovo di Napoli.

[5] Torre Santa Susanna. Originaria di Roma, la santa visse nel III secolo d.C. Dal punto di vista agiografico è difficile ricostruirne le vicende storiche nonostante le diverse testimonianze presenti. Durante il VI secolo fu composta una passio, in cui si racconta che Susanna era figlia del sacerdote Gabino, cugino dell’imperatore Diocleziano. La giovane fanciulla fu chiesta in sposa per Massimiano, il figlio dell’imperatore. Ella non accettò tale decisione e fu uccisa. (Bibliotheca Sanctorum, Vol. XII, Istituto Giovanni XXIII della Pontificia Università Lateranense, Città Nuova Editrice, Roma 1969, pp. 78- 79).

[6] Aa. Vv., Santi di casa nostra. La Puglia dei Patroni e delle feste patronali, Schena, Fasano 2000, p. 90.

[7] A. Trinchera, Torre Santa Susanna. Lineamenti Storici, Edizioni del Grifo, Lecce 2005, p. 79; M. Morleo, Torre Santa Susanna. Pagine sparse di storia e arte, Locorotondo, Mesagne 2013, p. 41.

[8] Mons. Raffaele Palma fu vescovo della Diocesi di Oria dal 1650 al 1674.

[9] M. Morleo, Torre Santa Susanna, cit., pp. 201-202.

[10] Santa Lucia, era di Siracusa e visse a cavallo fra III e IV secolo d.C. Nella passio, si racconta che durante un pellegrinaggio al sepolcro della martire Agata a Catania per implorare la guarigione della madre, le apparve la santa che le preannunziò il martirio. Ritornata a Siracusa decise di rinunciare al matrimonio e cominciò a distribuire i suoi beni ai poveri. Fu denunciata in quanto cristiana e dunque le furono afflitte diverse tentazioni affinché rinnegasse la sua fede. Fu torturata e nonostante questo non rinnegò. Alla fine, fu trucidata. (Cfr, Bibliotheca Sanctorum, cit., vol. VIII, pp. 242 – 258.). Jacopo da Varrazze in merito a santa Lucia scrisse: “Lucia deriva da luce. La luce infatti è bella da vedere, dato che come dice Ambrogio, essa è tale che fa risplendere tutte le cose belle. Si diffonde inoltre senza perdere purezza […] Con ciò si intende che la conformità del nome è dovuta al fatto che la beata vergine Lucia brilla della purezza della verginità senza alcuna macchia, infonde la carità senza amore che non sia puro, direttamente si rivolge a Dio, senza mai deviare, e sa seguire fino in fondo la via tracciata dalla volontà divina, senza mai adattarsi nella negligenza…” (J. Da Varrazze, Legenda Aurea, a cura di A. e L. Vitale Brovarone, Einaudi, Torino 1995, p. 34; iconograficamente viene raffigurata con la palma del martirio, la corona in testa e sulla mano mantiene il piatto con sopra gli occhi. Quest’ultimo attributo è per via della leggenda che vuole che alla santa siano stati strappati. Altri simboli associati, anche se con meno frequenza, sono il libro, la lampada, il calice e la spada.

[11] C. V. Morleo, Erchie, dalle origini ad oggi, Italgrafica Edizioni, Oria 1993, p. 165.

[12] Ibidem, 166.

[13] Ibidem, pp. 167-168.

[14] Ibidem, pp. 171-172.

[15] P. Staffiero, Appunti per lo studio, cit., p. 35. Raffaele Casciaro, in merito alla tecnica dell’indoratura, sui busti – reliquiari, ha scritto: “Il persistente successo della scultura dipinta, nonostante gli anatemi delle accademie, si deve indubbiamente all’efficacia devozionale delle statue colorate, che le province continuano a richiedere senza sosta, anche dopo l’estinzione delle dinastie degli scultori napoletani e oltre i limiti temporali della fortuna della cartapesta leccese.” (Cfr. R. Casciaro, Napoli vista da fuori, cit., pp. 49-50).

[16] R. Casciaro-A. Cassiano, Sculture di età barocca, cit., pp. 172-179.

[17] Santa Margherita, o Marina in Oriente, era una giovane di Antiochia di Pisidia, vissuta nel III secolo d.C. Secondo quanto narrato nella passio, Margherita era figlia di un sacerdote pagano e fu cresciuta da una balia cristiana che la educò al cristianesimo. Il padre, appena apprese della fede cristiana della figlia, la cacciò via. Un giorno mentre pascolava il gregge, fu notata dal prefetto Olibrio, che se ne innamorò subito e la reclamò come sposa. Margherita lo rifiutò e consacrò la sua vita alla fede. Il prefetto, la denunciò in quanto cristiana e fu arrestata. Subì diverse torture in prigione, fra cui anche la tentazione del demonio, che secondo la leggenda, gli apparve sotto forma di drago. Mostro che sconfisse con la croce. Le torture non le infliggevano alcun dolore e così le fu tagliato il capo; Bibliotheca Sanctorum, Vol. VIII, Istituto Giovanni XXIII della Pontificia Università Lateranense, Città Nuova Editrice, Roma 1967, pp. 1150 – 1166. Iconograficamente santa Margherita viene raffigurata con la palma del martirio, la corona sul capo, la croce e il drago.

[18]A. foscarini, Armerista e notiziario delle famiglie nobili, notabili e feudatarie di Terra d’Otranto, Forni Editore, Sala Bolognese, pp. 97- 98: “Nobile ed antica famiglia napoletana, le cui memorie risalgono al tempo de’ Re Angioini. Essa godette nobiltà in Napoli (al Seggio di Montagna), in Mesagne ed in Lecce, ove probabilmente fu importata sul finire del sec. XIV da Andrea Francone che sposò Antonia Lettere. Possedette questa Casa di Marchesato di Salcito; e, in Terra d’Otranto, i Casali di Castrifrancone e Trepuzzi col feudo di Terenzano e metà del feudo di San Donato, in territorio di Oria, sin dal 1396, tutti portati in dote al sudetto Andrea da sua moglie Antonia Letterem e i Casali di Latiano, Lizzano che Claudio Francone, nel 1592 comprò da Marco Antonio de Raho per ducati 29 mila, e Sava (1633). Oliviero su governatore di Lecce nel 1415. La famiglia Francone imparentò con Lettere, dell’Acaya, dell’Antoglietta, Mosco, Maresgallo, de Noha, Sanseverino, Caracciolo, Dentice, Sanfelice e altri. Arma: D’azzurro, spaccato; nel 71 al leopardo d’oro, armato e lampasato di rosso; nel 2. a tre rose di rosso, 1, 2”;

[19] S. Settembrini, Sindaci, notai e famiglie feudatarie di Latiano, Neografica, Latiano 2002, pp. 149-166.

[20] Ibidem, p. 9.

[21] Sull’introduzione e il successo della statuaria in cartapesta nel Salento, ne parla Giuseppe De Simone: “Il XIX secolo fu il secolo in cui la cartapesta leccese, ormai da tempo acquisita una propria identità, si rafforzò e si diffuse moltissimo […] Fu il secolo dei grandi maestri (capiscuola) attorno ai quali si avvicendarono molti discepoli che, a loro volta, divennero bravi statuari, che alimentarono una tradizione viva sino ai giorni nostri.” (G. De Simone, Tesori di carta. Le raffigurazioni in cartapesta nelle chiese antiche di Lecce, Edizioni del Grifo, Lecce 2002, p. 18).

[22] C. Gelao, La scultura in Puglia dal 1734 al 1799 in La Puglia al tempo dei Borbone. Storia e cultura, a cura di C. Gelao, Mario Adda Editore, Bari 2000, pp. 133-147.

[23] G.G. Borrelli, Madonna col Bambino in Sculture di età barocca, cit., pp. 308-311; E. VALCACCIA, Scultura lignea del Settecento a Napoli. Nuovi spunti e proposte, Nicola Longobardi, Castellammare di Stabia 2018, p. 49.

[24] R. Casciaro, Napoli vista da fuori: sculture di età barocca in Terra d’Otranto e oltre, in Sculture di età barocca, cit., pp. 69-70; E. Valcaccia, Scultura lignea del Settecento, cit., p. 57.

[25] Ibidem, p. 60.

[26] C. Gelao, La scultura in Puglia, cit., p. 146.

 

San Giuseppe in età barocca nel tarantino

 

Dubbio di S.Giuseppe, di Paolo De Matteis (1715)(400×280) ph Nicola Fasano

di Nicola Fasano

In occasione della ricorrenza di San Giuseppe presenterò per gli amici e lettori  alcune opere artistiche sul Santo presenti nel territorio tarantino. Nell’iconografia barocca (quella da me presa in esame) lo sposo di Maria Vergine, nonché padre putativo di Gesù, è raffigurato come uomo anziano con barba bianca nell’atto di sorreggere in braccio Gesù Bambino.

I suoi attributi principali sono gli attrezzi da falegname e la verga fiorita. Anteriormente al periodo barocco il Santo appariva in episodi legati all’infanzia di Cristo o in scene dedicate alla vita della Vergine e solo dopo la Controriforma, quando il suo culto fu promosso da Santa Teresa di Avila, il falegname potè godere di una raffigurazione autonoma.

A Taranto nella chiesa dedicata a Giuseppe (già Santa Maria della Piccola) è collocato nel controsoffitto un dipinto mistilineo di notevoli dimensioni raffigurante il Dubbio di  San Giuseppe. L’autore dell’opera è il celebre pittore napoletano Paolo De Matteis, artista molto richiesto dalla committenza nobiliare ed ecclesiale tarantina. Formatosi presso la scuola Luca Giordano, passò in seguito a Roma per comprendere la lezione del classicismo marattesco.

Le opere tarde come quella in questione, databile al secondo decennio del settecento, registrano uno stanco irrigidimento nelle posizioni classiciste, oltre un appiattimento qualitativo forse dovuto a commissioni meno prestigiose e in territori provinciali.

Il soggetto della tela tarantina fa riferimento all’episodio narrato dal Libro di Giacomo, ovvero la rassicurazione portata dall’arcangelo Gabriele a Giuseppe sul concepimento divino di Maria.

Isolata dalla Sacra Famiglia, è la figura in abiti nobiliari settecenteschi che prega guardando lo spettatore. Ritenuta erroneamente autoritratto del pittore, è più probabilmente il committente dell’opera (il priore della confraternita ? un nobile devoto al Santo ?).

Purtroppo alcune infiltrazioni di umidità dal soffitto (denunciate da anni senza risultati) hanno causato la caduta del colore, impedendo la piena leggibilità del dipinto.

Altra opera degna di menzione è il Transito di San Giuseppe, facente parte della collezione di quadri che il Vescovo di Nardò e Taranto Ricciardi donò al museo archeologico nazionale nel 1907, tramite legato testamentario.

Transito di S.Giuseppe (ph Paolo Buscicchio) da Storia di una collezione-i quadri donati dal Vescovo Ricciardi al Museo di Taranto

L’opera dopo notevoli vicissitudini e spostamenti, è finalmente fruibile al pubblico dopo il nuovo allestimento e la riapertura del M.AR.TA nel 2007.

Il soggetto del dipinto tratto dalla biografia apocrifa, raffigura la morte di Giuseppe all’età di 111 anni, assistito dalla Vergine, dagli angeli e dal figlio al capezzale del letto. Alle spalle del Santo morente l’Arcangelo Gabriele, abbigliato con armatura seicentesca, veglia sulla scena. La tela attribuita (generosamente, secondo il parere dello scrivente) dalla soprintendenza a Luca Giordano è probabilmente opera di Andrea Vaccaro (autore del bellissimo Salvator Mundi conservato nella stessa collezione museale).

Non bisogna farsi trarre in inganno dalla gamma cromatica dorata, dalla luminosità dei veneti cara a Rubens e ai cortoneschi, ripresa dal Giordano in dipinti di composizione simile, come la celeberrima Deposizione di Pio Monte della Misericordia o il Lot e le figlie di Dresda. La figura patetica di San Giuseppe ci conduce ad Andrea Vaccaro, pittore che lavorò a stretto contatto con Giordano negli affreschi di Santa Maria del Pianto a Poggioreale. Il dipinto quindi, testimonierebbe la congiuntura del Vaccaro con alcune prove giovanili del più celeberrimo e quotato pittore napoletano quali appunto la Deposizione del Pio Monte e quella di soggetto analogo della Gemaldegalerie di Oldenburg (come giustamente rileva il Prof. Galante)

Il terzo dipinto è un gioiellino di Corrado Giaquinto  raffigurante il Sogno di San Giuseppe conservato nel palazzo arcivescovile di Taranto[1] e proveniente dalla chiesa di San Domenico della città ionica.

Sogno di San Giuseppe, di Corrado Giaquinto (104 x 74), da Corradogiaquinto.it

L’angelo che irrompe sulla scena scuote il clima di intimità domestica, ordinando a Giuseppe di fuggire in Egitto con Maria e il Bambino a causa della persecuzione di Erode. Il pittore molfettese di educazione napoletana e romana, era presente a Taranto con un’altra tela di ragguardevoli dimensioni raffigurante la Natività di San Giovanni Battista. Quest’ultima opera conservata nella pinacoteca provinciale di Bari (a titolo di deposito…perenne, aggiungo io, se le istituzioni preposte non si attivano per chiederne la restituzione) fu commissionata da una nobildonna tarantina, per l’altare maggiore di San Giovanni Battista, chiesa poi abbattuta dal discutibile piccone risanatore negli anni ’30 del Novecento.

L’opera custodita nell’episcopio testimonia la maestria del pittore molfettese nei dipinti di piccolo formato, caratterizzati da delicate e cangianti sfumature pastello, dall’azzurrino, al rosa-lilla, al turchese, che apportano alla scena quella trasognante atmosfera onirica.

Il dipinto costituisce il modello per il bozzetto conservato nella pinacoteca di Montefortino (vero must per gli amanti del maestro) e nella collezione della Baronessa de Maldà a Barcellona, testimonianza del soggiorno spagnolo di Corrado.

Un altro protagonista del ‘700 napoletano presente a Taranto è lo scultore napoletano Giuseppe Sanmartino, il maggiore esponente della plastica a Napoli in età borbonica tra tardo barocco, rococò e protoneoclassicismo[2].

S.Giuseppe, cappellone di S.Cataldo, ph Nicola Fasano

La statua di San Giuseppe presa in esame chiude in ordine cronologico, insieme al San Giuseppe Gualberto, l’importante ciclo di sculture che l’artista realizzò per il cappellone di San Cataldo, nella Cattedrale ionica. L’opera di marmo, collocata nel vestibolo della cappella, fu commissionata nel 1790 dall’arcivescovo Capecelatro, il cui stemma è effigiato sul basamento. L’artista per l’approvazione della statua aveva inviato al presule un modellino di creta che, ratificato, perfezionò il contratto con la cifra pattuita di 700 ducati. Una probabile riproduzione in ceramica del bozzetto preparatorio è conservata al Getty Center di New York ed è stata attribuita a Gennaro Laudato[3].

San Giuseppe appoggiato ad un blocco roccioso regge Gesù Bambino con fare protettivo, afferrandogli delicatamente il piedino sinistro; il fanciullo sembra indicarlo o piuttosto fargli il solletico, senza però scomporre il padre putativo. Nonostante l’impronta personale del maestro, si nota l’apertura verso le già diffuse istanze neoclassiche, la scultura sembra affine alla pittura accademica dell’ultimo  De Mura.

Passando in provincia, va segnalata a Manduria la statua lignea di San Giuseppe col Bambino Gesù conservata nella chiesa eponima. La statua portata alla ribalta nella mostra leccese sulla scultura barocca del 2008, è  opera dello sculture Vincenzo Ardia che si firma sul retro della pedagna.

San Giuseppe, di Vincenzo Ardia (170x80x65)(ph Angela Mariggi)

Dello scultore vissuto a cavallo fra il 1600 e il 1700 è conosciuta in Italia soltanto un’altra statua, il San Francesco Saverio di Ghemme presso Novara (che ironia della sorte si lega alla cittadina messapica anche per l’ottima produzione di vini), esposta anch’essa alla mostra per fini comparativi.

San Giuseppe regge amorevolmente Gesù con la mano sinistra, mentre il fanciullo protende le braccine verso il padre quasi a chiedere protezione; il tutto è rafforzato da un complice gioco di sguardi[4]. Con il braccio destro il falegname regge il bastone da cui, secondo la tradizione agiografica, sbocciano fiori di mandorlo simboleggianti la scelta divina. Secondo altre interpretazioni il mandorlo in ebraico “shaked” presenta una forte assonanza con la parola “shakad”, che significa “vegliare”, come Giuseppe fece con Maria e Gesù; il frutto poi, duro esternamente e tenero e dolce internamente richiama il carattere protettivo del falegname.

L’accento plastico della statua è caratterizzato dall’incedere del Santo e dallo strabordante panneggio, che a fatica si raccoglie intorno alla vita. Il recente restauro curato dal laboratorio del museo provinciale di Lecce, ha messo in luce la ricca decorazione floreale che riveste il manto e la tunica; un vero e proprio campionario floreale che va dai tulipani, agli anemoni ai nontiscordardime, raro a vedersi nella scultura napoletana del periodo .


[1] In occasione delle giornate FAI di primavera, 26-27 marzo 2011, il palazzo arcivescovile di Taranto sarà aperto al pubblico. All’interno dell’edificio, oltre la tela del Giaquinto, sono conservati dipinti di Nicola Malinconico e altre  tele di scuola napoletana e locale.

[2] Tengo a sottolineare come lo studioso Catello, nella sua godibile descrizione monografica sul Sanmartino, dedica la copertina al San Francesco del cappellone di Taranto. Scelta coraggiosa ma apprezzabile, rispetto al bellissimo e celebre Cristo velato della cappella Sansevero a Napoli, a testimonianza del valore e della bellezza del ciclo scultoreo tarantino.

[3] Scultore coroplastico, molto rinomato nella Napoli borbonica.

[4] In origine il Bambino Gesù reggeva il globo terrestre.

Antonio Baldassarre e la Residenza dell’Amore

sculture08

di Paolo Vincenti

 

“Io che avevo dipinto sempre paesaggi, mi sono ritrovato  a scolpire e a dipingere scene di amore e di sesso come mai avrei pensato che sarebbe potuto succedere”. Così scrive Antonio Baldassarre, da Ruffano, sulla brochure di presentazione della sua “Residenza dell’Amore”, altare, tempio pagano, monumento  all’amor profano, sito in quel di Cardigliano di Specchia,  a metà fra castello sulla sabbia e cattedrale nel deserto. Come queste, infatti , il museo dell’erotismo di Baldassarre possiede le caratteristiche proprie di tutte le opere d’arte: l’inutilità e insieme la follia. E come tutti gli artisti, Baldassarre ha l’ambizione e insieme l’illusione che qualcosa possa durare per sempre, a dispetto della sua precarietà.  E chissà che Baldassarre,  in barba a pregiudizi  e scetticismo che seguono tutti i visionari, non abbia proprio ragione e che, al di là del suo artefice, il Museo dell’Amore non possa  avere quella memoria più duratura del bronzo e, meglio, quella vita perenne e quella fama immortale, utopia realizzata, cui aspira ogni facitore armato di penna , pennello o scalpello.

Cyrano e Rossana, Isotta e Tristano
Cyrano e Rossana, Isotta e Tristano

Antonio Baldassarre, classe 1950, nato e cresciuto a Ruffano, dipingeva le marine e le strade del nostro Salento, la vita vera di questa nostra terra come solo riesce a fare la sensibilità di chi proviene da una cultura contadina come lui e i colori predominanti erano il grigio e il verde informati ad un certo pessimismo, ma sicuramente di grande resa poetica. Il pessimismo di Baldassarre era quello tipico di chi vedeva come angusti i propri orizzonti e cercava una liberazione dall’amara realtà oscurantista e terragna del Salento di qualche decennio fa, una via di fuga, insomma, nell’arte. E a coronamento degli sforzi del pittore, certi suoi dipinti ad olio costituiscono davvero un effetto compositivo straordinario, trasmettendo con la tecnica dello sfumato e con il sapiente gioco di luci ed ombre, quasi commozione all’osservatore, per quell’aura di soffusa tristezza che sembra avvolgere certi desolati paesaggi. Pessimismo di rigetto, come è stato definito, quello del Baldassarre, sorretto da un impressionismo tanto istintivo quanto lirico.

Giulietta e Romeo
Giulietta e Romeo

Molte famiglie ruffanesi hanno in casa almeno un’opera del maestro Baldassarre ed anch’io ne ho  tre in casa mia. Gli anni Settanta e Ottanta sono stati quelli di più intensa produzione per Baldassarre che mi dice aver  venduto molto bene in quel periodo ma continua a vedere pure oggi  essendo ormai la sua firma molto quotata.  “Paesi e strade, case e campagne trattati con la spatola balzano vivi dalla tela quasi fossero animati”, scrive Giuseppe Albano, “ Sono paesaggi di Puglia cari all’artista che nel suo continuo vagabondare osserva con occhio d’amore gli uomini e le cose e li fa vivere autonomamente nel suo discorso pittorico. Di particolare interesse il contenuto cromatico delle sue opere: prevalgono i toni cupi ed anche se i cieli sono aperti è difficile scorgere in essi i colori festosi della nostra terra. E’ chiaro che l’artista ha l’animo tormentato e dà al nostro cielo il suo colore”.   Scrive Aldo de Bernart: “…I suoi paesaggi, i suoi fiori, i suoi scorci, le sue figure hanno una cromatica singolare, ottenuta quasi sempre con due colori con i quali l’artista sa ricavare le tonalità più intense e le sfumature più delicate. Ma ciò che più sorprende è il gusto con cui il nostro artista sa cogliere gli angoli del suo paese nativo e della sua campagna, pietrosa ed assolata, per trasfigurargli in scene a volte ariose a volte cupe, in un impressionismo non scevro da evidenti reminiscenze ma pur personale nel sentimento…”. I suoi dipinti ad olio, dalla grande armonia, hanno attraversato gli anni e continuano a sussurrare a chi li osserva di questo nostro paesaggio attraverso la loro calda cromaticità con un discorso pittorico nel quale Baldassarre ha intrecciato la sua meditazione intima con una resa estetica particolare, originale. Ma quello che colpisce nella carriera di questo ottimo artista nostrano è la svolta che egli ha impresso alla sua carriera. Infatti,  ad un certo punto della sua vita, Baldassarre , pur senza ripudiare la pittura, abbraccia la scultura e decide di dedicare all’amore sensuale ed appassionato un tempio, che chiama  “La Residenza dell’amore”: un’opera molto ambiziosa, unica nel suo genere, che,  fra pittura, scultura e mosaici, esalta il godimento  dei sensi ed i piaceri della carne. Baldassarre illustra con malcelata fierezza la propria opera, con stanze piene di affreschi e di gruppi scultorei che costellano anche il grande giardino, al centro del quale campeggia una grande “A” di amore ; e poi numerose sculture di donne ed uomini in atteggiamenti inequivocabili, scene orgiastiche di sesso sfrenato e sculture di grande o piccolo formato che hanno come ossessivo leit motiv  gli organi di riproduzione maschile e femminile, che ritornano in tutte le realizzazioni dell’ardito  complesso architettonico-scultoreo. Attraverso la pietra leccese, l’artista ha modellato vicende d’amore delle più disparate, fantastiche e reali, e poi i grandi amanti della storia e della letteratura come  Paolo e Francesca, Otello e Desdemona, Romeo e Giulietta, Dante e Beatrice, Tristano e Isotta,  tutti dominati dalla lascivia , arsi dal fuoco della lussuria. Dal ponte dell’amore,  sotto il quale scorre un fiumiciattolo quasi clandestino, come il sole che illumina questo orgiastico ritrovo, si può avere una visione d’insieme delle creazioni scultoree e della casa che si sposano amabilmente con il verde della natura circostante mentre lo sciabordio del fiumicello crea un piacevole sottofondo musicale all’estasi quasi mistica che rapisce gli esterrefatti visitatori. Tra realtà e mito, i corpi nudi che si intrecciano nell’osmosi della passione sembrano suggerire le movenze di una danza simile a quella che nell’antichità greca le donne simulavano nelle processioni falliche con le quali si propiziavano  la fertilità dei campi e la prosperità della città.  Tutti i soggetti maschili delle rappresentazioni di Baldassarre in effetti sembrano irrimediabilmente colpiti da priapismo, come il dio adorato nell’antica Roma, appunto Priapo, dall’enorme fallo, da cui il nome di questa malattia. E’ difficile  non provare una forte emozione di fronte a questo spettacolo che un uomo ha concepito e realizzato da solo, nonostante un grave problema di deambulazione che lo tormenta da sempre. Fatale quella delusione d’amore che ha portato l’artista Baldassarre a realizzare questa sua utopia, sfidando la morale imposta, preconcetti, ignoranza e finanche paura da parte della società , almeno di quella società che non ama chi non capisce e non capisce chi è diverso. Ma ogni artista è diverso, dagli altri ed anche da sé, un artista non sarebbe tale se non avesse dentro di sé un assillo, come un rovello, un tormento che lo spinge  a creare. Certo, non si può restare indifferenti la prima volta che si visita la residenza dell’amore, dopo una immersione totale nel  regno dell’Eros.

 

San Giuseppe in età barocca nel tarantino

 

Dubbio di S.Giuseppe, di Paolo De Matteis (1715)(400×280) ph Nicola Fasano

di Nicola Fasano

In occasione della ricorrenza di San Giuseppe presenterò per gli amici e lettori  alcune opere artistiche sul Santo presenti nel territorio tarantino. Nell’iconografia barocca (quella da me presa in esame) lo sposo di Maria Vergine, nonché padre putativo di Gesù, è raffigurato come uomo anziano con barba bianca nell’atto di sorreggere in braccio Gesù Bambino.

I suoi attributi principali sono gli attrezzi da falegname e la verga fiorita. Anteriormente al periodo barocco il Santo appariva in episodi legati all’infanzia di Cristo o in scene dedicate alla vita della Vergine e solo dopo la Controriforma, quando il suo culto fu promosso da Santa Teresa di Avila, il falegname potè godere di una raffigurazione autonoma.

A Taranto nella chiesa dedicata a Giuseppe (già Santa Maria della Piccola) è collocato nel controsoffitto un dipinto mistilineo di notevoli dimensioni raffigurante il Dubbio di  San Giuseppe. L’autore dell’opera è il celebre pittore napoletano Paolo De Matteis, artista molto richiesto dalla committenza nobiliare ed ecclesiale tarantina. Formatosi presso la scuola Luca Giordano, passò in seguito a Roma per comprendere la lezione del classicismo marattesco.

Le opere tarde come quella in questione, databile al secondo decennio del settecento, registrano uno stanco irrigidimento nelle posizioni classiciste, oltre un appiattimento qualitativo forse dovuto a commissioni meno prestigiose e in territori provinciali.

Il soggetto della tela tarantina fa riferimento all’episodio narrato dal Libro di Giacomo, ovvero la rassicurazione portata dall’arcangelo Gabriele a Giuseppe sul concepimento divino di Maria.

Isolata dalla Sacra Famiglia, è la figura in abiti nobiliari settecenteschi che prega guardando lo spettatore. Ritenuta erroneamente autoritratto del pittore, è più probabilmente il committente dell’opera (il priore della confraternita ? un nobile devoto al Santo ?).

Purtroppo alcune infiltrazioni di umidità dal soffitto (denunciate da anni senza risultati) hanno causato la caduta del colore, impedendo la piena leggibilità del dipinto.

Altra opera degna di menzione è il Transito di San Giuseppe, facente parte della collezione di quadri che il Vescovo di Nardò e Taranto Ricciardi donò al museo archeologico nazionale nel 1907, tramite legato testamentario.

Transito di S.Giuseppe (ph Paolo Buscicchio) da Storia di una collezione-i quadri donati dal Vescovo Ricciardi al Museo di Taranto

L’opera dopo notevoli vicissitudini e spostamenti, è finalmente fruibile al pubblico dopo il nuovo allestimento e la riapertura del M.AR.TA nel 2007.

Il soggetto del dipinto tratto dalla biografia apocrifa, raffigura la morte di Giuseppe all’età di 111 anni, assistito dalla Vergine, dagli angeli e dal figlio al capezzale del letto. Alle spalle del Santo morente l’Arcangelo Gabriele, abbigliato con armatura seicentesca, veglia sulla scena. La tela attribuita (generosamente, secondo il parere dello scrivente) dalla soprintendenza a Luca Giordano è probabilmente opera di Andrea Vaccaro (autore del bellissimo Salvator Mundi conservato nella stessa collezione museale).

Non bisogna farsi trarre in inganno dalla gamma cromatica dorata, dalla luminosità dei veneti cara a Rubens e ai cortoneschi, ripresa dal Giordano in dipinti di composizione simile, come la celeberrima Deposizione di Pio Monte della Misericordia o il Lot e le figlie di Dresda. La figura patetica di San Giuseppe ci conduce ad Andrea Vaccaro, pittore che lavorò a stretto contatto con Giordano negli affreschi di Santa Maria del Pianto a Poggioreale. Il dipinto quindi, testimonierebbe la congiuntura del Vaccaro con alcune prove giovanili del più celeberrimo e quotato pittore napoletano quali appunto la Deposizione del Pio Monte e quella di soggetto analogo della Gemaldegalerie di Oldenburg (come giustamente rileva il Prof. Galante)

Il terzo dipinto è un gioiellino di Corrado Giaquinto  raffigurante il Sogno di San Giuseppe conservato nel palazzo arcivescovile di Taranto[1] e proveniente dalla chiesa di San Domenico della città ionica.

Sogno di San Giuseppe, di Corrado Giaquinto (104 x 74), da Corradogiaquinto.it

L’angelo che irrompe sulla scena scuote il clima di intimità domestica, ordinando a Giuseppe di fuggire in Egitto con Maria e il Bambino a causa della persecuzione di Erode. Il pittore molfettese di educazione napoletana e romana, era presente a Taranto con un’altra tela di ragguardevoli dimensioni raffigurante la Natività di San Giovanni Battista. Quest’ultima opera conservata nella pinacoteca provinciale di Bari (a titolo di deposito…perenne, aggiungo io, se le istituzioni preposte non si attivano per chiederne la restituzione) fu commissionata da una nobildonna tarantina, per l’altare maggiore di San Giovanni Battista, chiesa poi abbattuta dal discutibile piccone risanatore negli anni ’30 del Novecento.

L’opera custodita nell’episcopio testimonia la maestria del pittore molfettese nei dipinti di piccolo formato, caratterizzati da delicate e cangianti sfumature pastello, dall’azzurrino, al rosa-lilla, al turchese, che apportano alla scena quella trasognante atmosfera onirica.

Il dipinto costituisce il modello per il bozzetto conservato nella pinacoteca di Montefortino (vero must per gli amanti del maestro) e nella collezione della Baronessa de Maldà a Barcellona, testimonianza del soggiorno spagnolo di Corrado.

Un altro protagonista del ‘700 napoletano presente a Taranto è lo scultore napoletano Giuseppe Sanmartino, il maggiore esponente della plastica a Napoli in età borbonica tra tardo barocco, rococò e protoneoclassicismo[2].

S.Giuseppe, cappellone di S.Cataldo, ph Nicola Fasano

La statua di San Giuseppe presa in esame chiude in ordine cronologico, insieme al San Giuseppe Gualberto, l’importante ciclo di sculture che l’artista realizzò per il cappellone di San Cataldo, nella Cattedrale ionica. L’opera di marmo, collocata nel vestibolo della cappella, fu commissionata nel 1790 dall’arcivescovo Capecelatro, il cui stemma è effigiato sul basamento. L’artista per l’approvazione della statua aveva inviato al presule un modellino di creta che, ratificato, perfezionò il contratto con la cifra pattuita di 700 ducati. Una probabile riproduzione in ceramica del bozzetto preparatorio è conservata al Getty Center di New York ed è stata attribuita a Gennaro Laudato[3].

San Giuseppe appoggiato ad un blocco roccioso regge Gesù Bambino con fare protettivo, afferrandogli delicatamente il piedino sinistro; il fanciullo sembra indicarlo o piuttosto fargli il solletico, senza però scomporre il padre putativo. Nonostante l’impronta personale del maestro, si nota l’apertura verso le già diffuse istanze neoclassiche, la scultura sembra affine alla pittura accademica dell’ultimo  De Mura.

Passando in provincia, va segnalata a Manduria la statua lignea di San Giuseppe col Bambino Gesù conservata nella chiesa eponima. La statua portata alla ribalta nella mostra leccese sulla scultura barocca del 2008, è  opera dello sculture Vincenzo Ardia che si firma sul retro della pedagna.

San Giuseppe, di Vincenzo Ardia (170x80x65)(ph Angela Mariggi)

Dello scultore vissuto a cavallo fra il 1600 e il 1700 è conosciuta in Italia soltanto un’altra statua, il San Francesco Saverio di Ghemme presso Novara (che ironia della sorte si lega alla cittadina messapica anche per l’ottima produzione di vini), esposta anch’essa alla mostra per fini comparativi.

San Giuseppe regge amorevolmente Gesù con la mano sinistra, mentre il fanciullo protende le braccine verso il padre quasi a chiedere protezione; il tutto è rafforzato da un complice gioco di sguardi[4]. Con il braccio destro il falegname regge il bastone da cui, secondo la tradizione agiografica, sbocciano fiori di mandorlo simboleggianti la scelta divina. Secondo altre interpretazioni il mandorlo in ebraico “shaked” presenta una forte assonanza con la parola “shakad”, che significa “vegliare”, come Giuseppe fece con Maria e Gesù; il frutto poi, duro esternamente e tenero e dolce internamente richiama il carattere protettivo del falegname.

L’accento plastico della statua è caratterizzato dall’incedere del Santo e dallo strabordante panneggio, che a fatica si raccoglie intorno alla vita. Il recente restauro curato dal laboratorio del museo provinciale di Lecce, ha messo in luce la ricca decorazione floreale che riveste il manto e la tunica; un vero e proprio campionario floreale che va dai tulipani, agli anemoni ai nontiscordardime, raro a vedersi nella scultura napoletana del periodo .


[1] In occasione delle giornate FAI di primavera, 26-27 marzo 2011, il palazzo arcivescovile di Taranto sarà aperto al pubblico. All’interno dell’edificio, oltre la tela del Giaquinto, sono conservati dipinti di Nicola Malinconico e altre  tele di scuola napoletana e locale.

[2] Tengo a sottolineare come lo studioso Catello, nella sua godibile descrizione monografica sul Sanmartino, dedica la copertina al San Francesco del cappellone di Taranto. Scelta coraggiosa ma apprezzabile, rispetto al bellissimo e celebre Cristo velato della cappella Sansevero a Napoli, a testimonianza del valore e della bellezza del ciclo scultoreo tarantino.

[3] Scultore coroplastico, molto rinomato nella Napoli borbonica.

[4] In origine il Bambino Gesù reggeva il globo terrestre.

Da Napoli a Gallipoli. Due statue processionali per la chiesa di Tricase

storia, ancora maestra di vita?

Uno spaccato di realtà socio-economica e di vita religioso-devozionale di fine ‘700

di Antonio Faita

Nella società in cui viviamo la velocità delle informazioni, il loro accumularsi e susseguirsi senza ordine e mediazione, lo stesso loro “bruciarsi” nell’arco di poche ore nell’interesse delle persone sembra testimoniare la fine della storia. Lo scrittore Daniele Del Giudice, in un’intervista diceva: «quello in cui viviamo è il vero degrado, è l’uomo senza qualità».

La storia può essere ancora considerata maestra di vita?

La concezione che abbiamo della storia riflette quella che abbiamo della società. Occorre, dunque, recuperare ai giovani la certezza del futuro della società. E’ allora che la storia ed il suo insegnamento tornano ad essere essenziali nella formazione integrale della persona.

Dobbiamo essere coscienti che il fatto storico acquista “valore” secondo  le idee di chi le interpreta. Conoscere il passato attraverso un’attenta riflessione è il richiamo continuo ai limiti delle nostre conoscenze. La scoperta ed il recupero agli studi di un immenso patrimonio d’arte e di oggettistica devozionale, nonché il reperimento di un notevole nucleo di documenti che consentono di approfondire la memoria storica delle nostre città a vari livelli di conoscenza, tentano di ricostruire un fenomeno, quello dell’associazionismo laicale, legato soprattutto al passato e che potrebbe sembrare controcorrente e un po’ passatista[1].

Ritengo opportuno, per la rara testimonianza dei documenti, riportare in questo articolo la trascrizione di due manoscritti, inediti per la loro caratteristica, pregni di un valore storico-sociale, devozionale, economico ed artistico, che rappresentano uno spaccato della vita religiosa del paese alla fine del ‘700.

Entrambi narrano le vicende di committenze ed arrivo di due simulacri lignei: il primo, del 1738, riguarda la statua della Madonna Immacolata, per

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