Giuseppe Giannuzzi (1841-1915), ovvero dell’alto diletto che tragghiam dall’arte. Linee per un Umanesimo salentino

 

 

di Renato De Capua

 

  1. Cenni biografici e produzione letteraria

Giuseppe Giannuzzi[1] nasce a Poggiardo il 1 aprile 1841. Durante l’infanzia, fin da subito, grazie all’incontro con il parroco Don Felice Rausa iniziò a coltivare un percorso umano e spirituale, che si risolse nel perseguimento della via sacerdotale e di un amore appassionato per il latino e per le lettere. Tra i primi dati biografici rilevanti sono gli anni 1856-1860, segnati dall’ingresso nella Compagnia dei Gesuiti a Napoli, dove Giannuzzi rimarrà dall’età di 15 anni fino al compimento dei 19. Già in questo periodo inizia a scrivere un piccolo volume[2] di composizioni latine, che si trova presso l’Archivio Parrocchiale di Acquarica del Capo (LE).

Le circostanze politiche e gli avvenimenti storici che avvengono nel Regno delle Due Sicilie, in particolare la caduta dei Borboni e l’avvento di Giuseppe Garibaldi, coinvolgono i Gesuiti, che vengono cacciati sia nel 1848, quando molti di loro furono costretti all’esilio, che nel 1860, con un decreto di espulsione proprio a firma di Garibaldi. Alcuni di loro rimasero a Napoli, riuniti anche in forme di organizzazione clandestina; altri continuarono il proprio percorso di formazione e di fede in Spagna e in Francia. Giannuzzi è nel centro dei Gesuiti a Balaguer, dove ha modo di studiare Retorica e Filosofia, come attesta l’Archivio Centrale dei Gesuiti nel Catalogus del 1862.

Per quanto riguarda gli studi teologici l’autore li compie nel Collegio Massimo Legionense nella città di Lèon (Spagna) e dal 1865 viene menzionato come “sacerdote” e non più come “studente”.

Non si dispone di dati precisi circa la sua ordinazione sacerdotale, ma l’ipotesi più attendibile sostenuta dagli studiosi (Brigante-Ventura 2007) è che sia stato ordinato sacerdote da mons. Callisto Castrillo Ornedo, vescovo della diocesi di Lèon nel periodo 1863-1869.

Successivamente completa gli studi teologici nel 1868. Come spesso accade, la lontananza dagli affetti più cari ispira anche nel Nostro alcuni versi dal titolo “Lamento di un esule” (1865), contenuti in una sua importante raccolta poetica[3], nei quali l’autore chiede a una “stridula rondinella” di salutargli sua madre che gli diede la possibilità di venire al mondo dal suo grembo; e ancora di salutare suo padre, immerso “nel sen del sommo Bene” di Dio, essendo venuto a mancare due anni prima.

Sempre nella stessa opera è contenuta un’ode del 1867 che egli scrive ad un amico poeta, condividendo con questi la triste notizia dell’esilio:

 

“La sorte ingiusta sia: non m’arrovello:

del nostro allor l’invidia non sfronda

l’incorruttibil fronda;

E se dar ne potrà guerra e martello,

Tor non potranno, né scemare in parte

L’alto diletto che tragghiam dall’arte”.

 

I versi citati appaiono ancor più significativi se contestualizzati nel clima soffocante e alienante dell’esilio: sebbene nel poeta sia ravvisabile una sorta di stoica rassegnazione dinanzi agli avvenimenti storici, premessa e causa scatenante della propria esperienza a Lèon, Giannuzzi traccia un’elegia dell’arte, ritratta come fonte inestinguibile dalla quale trarre un “alto diletto”, che non conosce impedimenti e dal quale egli si lascia guidare nelle azioni e nell’ispirazione letteraria.

Proprio l’ultimo verso tratto da quest’ode è stato scelto come titolo, nonché come proposta di contestualizzazione di una parabola poetica vissuta con strenua abnegazione e che riuscirà a giungere al suo culmine, come si vedrà.

Durante l’esilio Giannuzzi si dedica all’insegnamento in varie città europee dal 1870 al 1876. Egli insegna “lettere latine, italiane e spagnole nell’Istituto di Carrion de los Condes nella provincia di Valenza; indi nel Belgio, professore di spagnolo nel Politecnico di Anversa”.[4]

Dal 1876 al 1884 fa ritorno a Napoli e durante questo nuovo soggiorno napoletano, provvede al proprio sostentamento facendo il precettore nelle famiglie.

Come evidenzia sapientemente Donato Valli, anche Giannuzzi aderisce “a quella che era una legge fissa delle province meridionali, cioè il soggiorno napoletano per gli studi degli abbienti. Napoli era una tappa obbligata per i figli della buona borghesia dopo un primo periodo di istruzione domestica o presso uno dei numerosi collegi confessionali della provincia; tappa anche importante, che serviva da cura e da contagio: da cura di quella diffusa malattia che è la provincia o il campanile, da contagio delle idee nuove, spesso anticonformistiche, comunque più libere e aperte, agitatisi nella capitale meridionale, sempre così caotica e divisa nelle sue due anime di borbonica conservazione e di illuministica rivoluzione[5].

Successivamente scrive un dramma[6] composto da un prologo in tre atti in onore di San Quintino, patrono di Alliste (LE), su richiesta di un comitato.

Il 24 ottobre 1884 viene incardinato[7] nella diocesi di Ugento. Così ha modo di tornare ad Acquarica dove vive con il fratello Luigi e l’adorata madre Concetta.

Da alcuni documenti dell’Archivio Diocesano di Ugento e dalla lettura delle opere pervenuteci, si comprende che Giannuzzi continua a scrivere e a tradurre opere letterarie dal latino all’italiano e viceversa nel periodo 1884-1915. Tra i suoi alunni c’è anche Fortunato Capuzzello con il quale intrattiene un duraturo rapporto di stima e di amicizia; sarà lo stesso a tenere un discorso molto significativo in una commemorazione del 25 aprile 1916, della quale rimane fortunatamente memoria e di cui si parlerà più avanti.

Nel 1895 Giannuzzi pubblica la traduzione in latino[8] del Carme Dei Sepolcri di Ugo Foscolo e nell’anno scolastico 1895-1896 insegna italiano presso il Regio Liceo Ginnasiale Palmieri di Lecce[9].

Un altro dato biografico significativo si ha nel 1904 quando Carlo Villani lo attesta Rettore del Seminario Diocesano di Ugento[10]; mentre nel 1910 partecipa a una gara internazionale, avendo composto un poema in esametri latini sul terremoto che aveva distrutto Reggio Calabria e Messina nel 1908, ovvero il De Siciliae et Calabriae excidio carmen[11]. La competizione[12] in questione era il Certamen poeticum Hoeufftianum, il più prestigioso premio letterario di poesia in lingua latina esistente dal 1844 al 1978 ad Amsterdam. Il primo a vincere la competizione poetica nello stesso anno in cui vi partecipò Giannuzzi, fu Giovanni Pascoli con il componimento Pomponia Graecina.

Negli ultimi anni della sua vita Giannuzzi è ormai una figura ben radicata dal punto vista sacerdotale, sociale e letterario ad Acquarica, nonché punto di riferimento per la piccola comunità; a questo periodo si può ascrivere la pubblicazione della sua ultima opera ovvero L’Eneide di Virgilio tradotta in italiano e stampata dalla “Tipografia Donato Siena” di Matino nel 1913.

Giuseppe Giannuzzi muore all’età di 74 anni il 5 aprile 1915 per un problema cardiaco, lasciandoci in eredità tredici opere censite. Il lavoro di ricostruzione della bibliografia non è stato semplice in quanto alcuni testi sono stati ritrovati in negozi di antiquariato, altri in varie biblioteche nazionali ed estere. L’elenco che qui si riproduce è frutto di questo lavoro di rinvenimento delle varie opere ed è ripreso fedelmente dalla parte iniziale della seconda parte dello studio fondamentale e completo sull’autore (Brigante-Ventura 2007):

 

  1. Raccolta di poesie ad uso di Giuseppe Giannuzzi AN: DNI 1860.
  2. Specimen latinae italicaeque poeseos.
  3. San Quintino M. Patrono di Alliste.
  4. Le grandezze di Maria Vergine Madre di Dio svelate al popolo cattolico.
  5. Il giuoco degli scacchi.
  6. Le opere di Q. Orazio Flacco.
  7. Orazio e il suo secolo.
  8. AS. M. Umberto I°. Re d’Italia.
  9. Le satire di D. G. Giovenale.
  10. Dei Sepolcri.
  11. De Siciliae et Calabriae Excidio Carmen.
  12. L’Eneide di P.Virgilio Marone.
  13. Sulla Vergine greca venerata a Ravenna.

 

La notizia della dipartita del Nostro viene riportata sulla stampa del tempo, i cui contributi più importanti possono essere letti su “La Provincia di Lecce”[13], “il Corriere Meridionale”[14], “l’Ordine[15]”.

Si faceva cenno prima al rapporto tra Giannuzzi e Fortunato Capuzzello.

Proprio quest’ultimo nel suo discorso di solenne commemorazione avvenuto il 25 aprile 1916[16], ha definito Giannuzzi “un umanista contemporaneo in Terra d’Otranto”. Sarebbe auspicabile leggere in questa definizione l’invito a raccogliere la sfida di un impegno quantomai urgente e propedeutico alla visione di nuove prospettive. Pur nel rispetto della storiografia che colloca gli eventi in un ordine consequenziale e coerente, al fine di dare agli studi storici una struttura organica, si potrebbe riconsiderare la semantica del termine “Umanesimo”, cercando talvolta di applicarlo in un’indagine letteraria atta a rilevare il riverbero delle costanti dei suoi princìpi ispiratori. Se cercassimo di decontestualizzarlo per un attimo dall’uso denotativo più affermato, che lo vede indicativo della temperie culturale italiana del 400-500, incentrata sulla riscoperta dei classici e il recupero della loro lezione originaria mediante l’analisi filologica, potremmo effettivamente vedere la realtà filtrata attraverso la luce del suo significato; avverrebbe in questo modo la focalizzazione sull’opera di tante personalità che hanno arricchito di senso e sostanza la storia letteraria del Salento del secolo scorso, nonché l’identità di una Nazione giovane, che da poco aveva conosciuto la propria unità. E in questo impegno risiedono le ragioni di questo articolo e l’esigenza della narrazione.

 

 

II. Flos hibernus (Fiore d’inverno): un approccio traduttivo

Al fine di fornire un chiaro esempio del sentire poetico di Giannuzzi, ho scelto di concentrarmi sul componimento Flos hibernus (Fiore d’inverno), uno tra quelli presenti nello Specimen latinae italicaeque poeseos, un volume formato da poesie in latino e in italiano di vario genere e metro.

La traduzione ha cercato di rispettare quanto più possibile la sintassi latina, cercando di adeguarne le norme a quella italiana e alla ricostruzione emozionale di quella che può essere stata l’intima vocazione alla scrittura di Giannuzzi per questi versi.

In molte poesie dello Specimen si può notare un chiaro riferimento ai poeti latini Lucrezio e Virgilio per il loro amore per la natura, e nel caso specifico del componimento preso in esame, per lo sguardo attento ed esaminatore, che si posa ovunque possa scaturire una nuova forma di vita, anche contro lo schematismo del pensiero ordinario.

E allora ecco che un piccolo fiore che riesce a germogliare nella durezza dell’inverno, è capace di essere un fattore discriminante, un evento straordinario; diviene l’appropriato espediente elegiaco per ricordare all’uomo che alla base di ciò che gli è concesso avere facoltà ed esperienza, c’è l’amore. Quest’ultimo è inteso come archè (nel senso filosofico di “principio originario”, “origine cosmologica”), con la facoltà di dare quell’afflato vitale, che fa sì che una nuova vita possa palpitare e prosperare nell’atonia del gelo e del suo paesaggio incolore.

Nella parte conclusiva, oltre all’auspicio di un prossimo ricongiungimento con Dio, è presente il punto più alto della riflessione all’interno del componimento: là dove il corpo non possa superare gli impedimenti, che sia la mente a condurre l’io verso nuovi approdi. L’esortazione è alla vita attiva, nell’andare oltre le concrete asperità dell’inverno e di rivolgere la mente verso il cielo, affinchè l’opera di ogni uomo non sia mai cosa vana.

 

Flos hibernus[17]

(Testo latino di Giuseppe Giannuzzi)

 

Floscule, quem genuit tellus adoperta pruinis,

In quo censendum nil nisi dantis amor,

Munus eas gratum Puero qui lapsus Olympo,

Rupe sub algenti, victus amore, iacet.

I Rosa, virgineo vultum suffusa rubore :

Nescis ah! quales sis aditura manus!

At cave ne digitos ferias hirsuta tenellos,

Et cogas niveas imbre madere genas.

Vel cum te admoveat gremio, foveatque iocose,

Pectoris innocui spina cruentet ebur.

Est Puer ille Deus, tibi qui prodire sub auras.

Dum concreta rigent frigore prata, dedit.

Is te reginam praefecit floribus horti,

Et tibi odoratas sparsit honore comas.

Felix qui pueri tractabere, floscule, dextra,

Cuius ridet humus munere, et astra micant.

Cur ego non fieri subito mea munera possim,

Et regis regum protinus ire manus?

Irrita sed voveo! saltem vice fungere nostra:

Quoque ego non potero corpore, mente ferar!

 

 Fiore d’inverno

(Testo latino di Giuseppe Giannuzzi; Traduzione di Renato De Capua, novembre 2022)

 

Fiorellino, che generò la terra velata dalle brine,

in cui null’altro si deve stimare se non l’amore di colui che concede,

che tu giunga come dono gradito al Fanciullo che, caduto dall’Olimpo,

giace sopra la fredda roccia, vinto dall’amore.

Prospera, o Rosa, timida il viso di un virgineo pudore:

Ah, non sai! Quali mani stiano per avvicinarsi!

Ma bada a non ferire le dita delicate con la spina

E che tu non costringa le candide guance a essere bagnate dalla pioggia.

O quando ti avvicina al cuore, e ti accarezza per gioco,

che una spina non tinga di rosso del petto innocente l’avorio.

È un Fanciullo quel Dio che ti fece germogliare oltre i venti,

mentre i prati irrigiditi sono inerti dal freddo.

Egli prepose te regina dei fiori del giardino,

e a te concesse le chiome odorose con grazia.

Felice che toccherai, o fiorellino, i doni del fanciullo.

Per sua grazia è ridente la terra, e brillano gli astri.

Perché io non posso conseguire subito i miei doni,

e andare adesso nelle mani del re dei re?

Vani pensieri, ma faccio voto! Che almeno le nostre opere compiano le veci,

per ciò che io non potrò con il corpo, che sia condotto dalla mente.

 

Note

[1] Per uno studio critico completo della vita, del pensiero e della bibliografia delle opere di Giuseppe Giannuzzi è indispensabile il prezioso studio di Brigante A. – Ventura T., Giuseppe Giannuzzi. Poeta e latinista acquaricese, ed. Romeo Corchia, Presicce 2007. Il libro si articola in tre parti: nella prima vi sono le notizie biografiche (pagg.13-94); nella seconda la riproduzione delle introduzioni dello stesso autore alle opere (pagg. 95-169); nella terza si può trovare una breve antologia delle sue opere (pagg. 170-223).

Un altro contributo fondamentale è dato dallo scritto di Palese S., Inediti Giovanili di Giuseppe Giannuzzi, in Acquarica del Capo 1970, a cura di S. Palese, ed. Salentina, Galatina 1970, pagg. 65-69.

[2] Giannuzzi G., Raccolta di Poesie ad uso di Giuseppe Giannuzzi, AN: DNI 1860, APA.

[3] Giannuzzi G., Specimen latinae italicaeque poeseos, F.lli Tornese, 1887, p.169.

[4] Nuovo Annuario di Terra d’Otranto, Pajano Edit., Lecce 1957, p. 227.

[5] Valli D., Cento anni di vita letteraria nel Salento (1860-1960), Lecce, Milella Edit., Lecce, 1985, p. 21.

[6] Giannuzzi G., San Quintino M. Patrono di Alliste, Napoli, F.lli Tornese, 1877.

[7] ADU Ordinazioni Sacre/63, Incardinazione di D. Giuseppe Giannuzzi, 24 ottobre 1884.

[8] Giannuzzi G., Dei Sepolcri, Lecce, Garibaldi Tip., 1895.

[9] Archivio storico del Liceo Palmieri Lecce, Registro del Consiglio dei Professori, 3 maggio 1896.

[10] Villani C., Scrittori ed artisti pugliesi antichi, moderni e contemporanei, Trani, 1904, p. 414.

[11] Giannuzzi G., De Siciliae et Calabriae Excidio Carmen, Amsterdam, Mullerum, 1910.

[12] Il concorso era stato voluto dallo studioso olandese Jacob Hendrik Hoeufft. Il premio della gara era una medaglia d’oro per il primo classificato, più la pubblicazione dell’opera a spese dell’Accademia. Le altre composizioni, che alla giuria sembravano degne di nota, ricevevano la magna laus e la possibilità di pubblicazione a discrezione dell’autore.

[13] La Provincia di Lecce, Anno XXI n. 13 del 11.04.1915.

[14] Il Corriere Meridionale, Anno XXVI, n. 14 del 15.04.1915

[15] L’Ordine, Anno IX n. 13 del 16.04.1915

[16] Capuzzello F., Un umanista Contemporaneo di Terra d’Otranto, Matino, Siena Edit., 1918.

[17] Giannuzzi G., Specimen latinae italicaeque poeseos, F.lli Tornese, 1887.

Uno scrittore e la sua storia: Michele Saponaro

di Paolo Vincenti

Con Michele Saponaro cinquant’anni dopo  (Congedo editore), vengono pubblicati gli Atti del Convegno Internazionale di Studi tenutosi a San Cesario di Lecce e Lecce il 25 e 26 marzo 2010, per le cure di Antonio Lucio Giannone. Questo volume costituisce il punto d’arrivo di una intensa attività di ricerche sulla figura e le opere di questo importante letterato figlio della nostra terra salentina, brillantemente condotte da alcuni studiosi pugliesi fra i quali, in primis il professor Giannone, ordinario di Letteratura Italiana Contemporanea presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Lecce, al quale va ascritto il merito di aver dato l’imprimatur a questo fiorire di studi sulla figura del letterato sancesarino.

Michele Saponaro (San Cesario 1885-Milano 1959), conosciuto anche con lo pseudonimo di  “Libero Ausonio”, autore di numerosi romanzi, raccolte di novelle e biografie di uomini illustri , collaborava come giornalista con le più importanti testate nazionali, quali “Il Corriere della Sera”, “La Stampa”, “Il Giornale d’Italia”, ecc. Dopo la sua morte, però, nessuno più si interessò di lui, ad eccezione di Michele Tondo che, nel 1983, curò una ristampa del suo romanzo “Adolescenza” (Congedo Editore) e, a partire dal 2000, del già citato Giannone, con una serie di iniziative e scritti che sarebbe qui troppo lungo riportare. L’ultima pubblicazione degna di nota era stata “Uno scrittore e la sua terra. Omaggio a Michele Saponaro” (Manni Editore), a cura di A.L. Giannone, un agile opuscolo, voluto dal Comune di San Cesario, nel 2008. Già allora,

Letterati salentini/ Fra Serafino dalle Grottaglie (1623 – 1689)

S. Francesco d’Assisi. Mattonella maiolicata policroma del sec. XVII. Francavilla Fontana, chiesa della Croce

LETTERATI SALENTINI

 

FRA SERAFINO DALLE GROTTAGLIE

 Donato Antonio D’Alessandro (1623 – 1689)

di Rosario Quaranta

Tra i tanti letterati salentini che affollarono il Seicento letterario un posto merita anche Fra Serafino dalle Grottaglie, figura autorevolmente riproposta anni fa da Mario Marti nel volume sugli Scrittori Salentini di Pietà fra Cinque e Settecento (Galatina 1992), ma che ha trovato attenzione anche in altri studiosi e critici come Francesco Zerella, Francesco Tateo, Benigno Perrone.

Per Marti si tratta di un autore interessante sul versante  puramente lette­rario. Egli, originario di un centro di tutto rispetto quanto a tradizioni cultu­rali e religiose (si pensi almeno al poeta Giuseppe Battista, al teologo del Concilio Tridentino Anto­nio Marinaro, al canonista Giacomo Pignatelli, a S. Francesco de Geronimo), riuscì ad acquisire una preparazione umanistico-filosofico-teologica di primo piano, tale da imporlo all’attenzione di molti e da consentirgli una versatilità di interessi te­stimoniata da una abbon­dante produzione lettera­ria: poesia epica e melo­drammatica, esegesi bi­blica, moralistica e poli­tica.

Uno scrittore che, secondo  quanto scrive Marti, «può es­sere (anzi dovrebbe es­sere) recuperato alla storia letteraria nazionale in gra­zia dei tre più grossi impe­gni, giunti salvi fino a noi: il poema del Mondo re­dento, i Lamenti sacri e scritturali, e infine L’idea della vera e buona politica togata e militare apparsa in prima  redazione  (1680, Mollo, a Cosenza) col titolo di Lettere scritturali, con le postille politiche». Opera, quest’ultima, che ha tratto qualcuno in inganno, inducendo a considerare Donato Antonio  D’Alessandro un politologo del Seicento; in realtà si deve ricondurre anche  questa esperienza in una dimen­sione puramente letteraria «laddove ogni cosa è messa in versi e tutto gronda letteratura»; una tensione letteraria piegata, però, al fine moralistico ed edificatorio, in sintonia pe­raltro con l’atmosfera controriformistica   all’in­temo della quale Fra Se­rafino si distingue per l’in­sistenza sul dolore con­naturato all’umana specie e sulla passione e morte del Redentore che Marti definisce in maniera appropriata «passiocentrismo».

Ma chi era Fra Serafino dalle Grottaglie?  Donato Antonio D’Alessandro (così egli si chiamava al secolo) nacque appunto a Grottaglie il 17 settembre 1623 da Cataldo e da Isabella Quaranta. Fu battezzato lo stesso giorno da D. Marcantonio Scardino essendo padrini D. Claudio Antoglietta e Chiara Marangiulo.

Spinto probabilmente dal conterraneo P. Ludovico La Grotta anch’egli francescano ri­formato (che insieme con Giuseppe Battista, aveva curato la sua prima formazione culturale) entrò nel 1641 tra i  frati Minori Osservanti Riformati compiendo il noviziato nel convento di Seclì. Fu poi guardiano più

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