di Armando Polito
Le riflessioni che seguono vogliono essere solo un’integrazione al post del 29 u. s. a firma di Michele Stursi. Avrei potuto condensarle in un commento, ma la loro estensione avrebbe invaso troppo spazio, rischiando di superare quella dello stesso post originale, con la conseguenza di una minore visibilità che avrebbe forse leso, qualcuno direbbe maliziosamente, la mia reale o presunta voglia di essere il prezzemolo di ogni minestra, ma, ed è questa la cosa per me più importante (tanto a farmi male ci penso da solo…), non avrebbe certamente propiziato un contraddittorio ed ulteriori, voglio sperare, contributi.
“Ce suntu ‘sti Pindinguli, Zaranguli e Scisciariculi?”: alla domanda, cui nel post (cor)rispondono riferimenti formali e contenutistici, tutto sommato, generici, tento di soddisfare in modo più articolato, partendo dalla recensione che del libro è stata fatta nel post a firma di Mauro Marino, leggibile all’indirizzo :
http://salentopoesia.blogspot.com/2011/12/la-poesia-del-meno-che-niente-di-uccio.html
Cito la parte che darà l’avvio al mio tentativo:
“Pindingulu” vale per il Rohlfs (ad vocem) frangia, pendaglio, ossia ciò che è inutile, a cui non si assegna alcuna funzione essenziale, ornamento di cui si potrebbe fare a meno (…). Nell’accezione in cui viene comunemente usato il termine ha valore negativo, come accessorio di poco conto, orpello inutile, ecc. Giannini lo usa, oltre che nel titolo, una sola volta, in un testo del 1983 dal titolo «L’arvuru di Natale», dove i “pindinguli” stanno ad indicare degli addobbi che si appendono all’albero di Natale. Sul termine “zaranguli” il Rohlfs non mi è d’aiuto e neppure il Garrisi (Dizionario Leccese-Italiano): entrambi non riportano la voce; ma a Galatina è conosciuta la voce “zarangu”, usata nell’espressione “Nu n’aggiu ssaggiatu mancu zarangu”, che vale “Non ho mangiato neanche niente”. “Zarangu” è un “niente”, e “zaranguli”, il suo diminutivo, è un meno che niente (Piero Vinsper docet). Il titolo “Pindinguli” e “Zaranguli” nell’insieme varrebbe “pendagli e cose da nulla”, una sorta di dittologia con cui il poeta ha voluto designare la materia dei suoi versi.
Il secondo titolo, “Scisciariculi”, significa propriamente fiori di camomilla (si veda anche qui il Rohlfs, ad vocem), una pianta molto comune nelle nostre campagne, che vale poco a causa della sua facile reperibilità e abbondanza. In senso traslato, il termine è usato per indicare oggetti tanto comuni da non avere alcun valore (vedi la frase dialettale: “Ce bbindi, scisciariculi?”, “Cosa vendi, merce senza valore?”). Pure questo termine non compare nelle poesie, se non nel titolo di uno dei due fascicoli. Credo che dal significato dei titoli che Giannini volle dare alle sue poesie emerga chiaramente la volontà del poeta di presentare il suo lavoro in modo semplice e dimesso, come un “corpus” di composizioni di poco conto e senza valore”.
Su pindìnguli non ho nulla da aggiungere se non che esso è dal latino medioevale (Du Cange, Glossarium mediae et infimae Latinitatis, Niort, Favre, 1883, tomo VI, pag. 256) pendìculum, dalla radice del classico pèndere (da cui il salentino pindìre) con tecnica di formazione ampiamente collaudata (come in artus>artìculus); da notare l’epentesi, immediatamente prima del suffisso, della –n– della radice, forse anche per incrocio con peduncolo. Il lettore tenga presente il dato dell’unica ricorrenza.
Zarangùli: in Mariano Velázquez de la Cadena, A pronouncing dictionary of the Spanish and English languages, D. Appleton & Co., New York , 1853, pag. 667, consultabile all’indirizzo
è riportato il lemma spagnolo zarangùllo=mistura di peperoni, pomodori, etc.; in Esteban de Terreros y Pando, Diccionario castellano, En la Imprenta de la viuda de Ibarra, Hijos y Compañia, 1788, t. III, pag. 848, consultabile all’indirizzo
è riportata la variante zarangollo. Credo che zarangùli sia una creazione dell’autore, con scempiamento, rispetto alla voce spagnola, di –l– per far sì che il vocabolo sembri avere un suffisso diminutivo, come in pindìnguli. Faccio osservare come la definizione della voce spagnola ben si adatti al verbo (assaggiare) della frase citata, in cui compare zaràngu, e come zarangùlli non ricorre in nessuna delle poesie.
Scisciarìculi: lo stesso Rohlfs poco prima di questa voce riporta il verbo scisciàre=stracciare (da un latino *scidiàre, dal greco schizo); credo che la nostra voce sia ancora una volta un diminutivo creato, questa volta di sana pianta, dalla radice di questo verbo (secondo me i fiori di camomilla sono da escludere). Nemmeno scisciarìculi compare nel testo delle poesie.
Tre termini, insomma, con lo stesso suffisso allusivamente diminutivo, disposti in un climax discendente legato al loro uso effettivo nella lingua (non a caso solo il primo, pindìnguli, compare una sola volta nelle poesie, gli altri nemmeno una). Così il titolo diventa emblematico di una poesia che vuole essere dichiaratamente “diminutiva” e in cui la stessa creatività linguistica manifestata nel titolo (zarangùli e a scisciarìculi) finisce per coincidere con l’inesistenza, ultimo sviluppo dell’effimero (pindìnguli), il tutto ben in linea con l’intento “di presentare il suo lavoro in modo semplice e dimesso, come un corpus di composizioni di poco conto e senza valore”; e a tal proposito mi vengono in mente le nugae1 di Catullo, i Rerum vulgaria fragmenta2 di Petrarca e, in tempi a noi più vicini, le buone cose di pessimo gusto3 di Gozzano.
Chiudo con un rimpianto, quello di non potere avere conferma di quanto ho appena detto dalla viva voce dell’autore, e con una confessione ad effetto, apparentemente indegna: non ho letto neppure una delle poesie, peccato che resta veniale in attesa che lo faccia, anche perché qui la mia indagine era limitata solo all’aspetto filologico del titolo. E non è detto che il fortunato ritrovamento di qualche appunto dello stesso autore non getti nuova luce su quanto ancora, a tal proposito, continua a restare in ombra.
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1 Cose da nulla: così il poeta latino definì i suoi carmi.
2 Frammenti di cose scritte in volgare: così definì il suo Canzoniere il Petrarca, che considerava, invece, il poema in latino Africa come il suo capolavoro.
3 L’amica di nonna Speranza, I, 2.