Le more mi fanno impazzire…

di Armando Polito

Detto così sarebbe, se non fosse per la prima immagine certamente meno accattivante, forse, di quella di Manuela Arcuri, una di quelle esternazioni che, anche se fatte da un personaggio famoso, mi lasciano totalmente indifferente; e io famoso non sono, per cui debbo rinunziare a questa forma di autocompiacimento. E lo faccio con grande piacere, anche perché l’affermazione supporrebbe che le bionde e le rosse (se, poi, pensiamo ai colori artificiali e artificiosi la gamma sarebbe pressoché infinita) poco manca che mi facciano schifo. Le donne mi piacciono tutte (e non è questa esternazione da vip?; comunque, giacchè ci sono, è bene che esprima compiutamente il mio pensiero), anche se prediligo le brune. A questo punto mi pare di sentire il lettore scocciato proferire: -Ma questo, con questi discorsi, a quasi settanta anni, non si rende conto di essere grottesco? Non possiamo correre il rischio che per colpa sua (!), nel caso si desse alla politica e diventasse Presidente del Consiglio, lo spread tornasse a salire, come quando c’era Lui-.

Non è per glissare, ma la risposta rischierebbe, lei sì, di prolungare eccessivamente la digressione da tempo in atto. Dico perciò, senza perdere e far perdere ulteriore tempo, che le more alle quali mi riferisco sono quelle che nel dialetto neretino sono chiamate lùmbari (questa è la forma registrata dal Rohlfs che, però, come dirò più avanti, non mi convince), il frutto della scràscia (rovo); perché anche queste mi fanno impazzire, e non solo perché ne sono ghiotto, si capirà a breve.

Alla due voci avevo già dedicato il post Quando al Rohlfs diede alla testa il lùmbaru della scràscia (https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/07/21/tra-rovi-e-more-selvatiche/) ridimensionato nella sua irriverenza dal titolo redazionale Tra rovi e more selvatiche.

A distanza di quasi due anni torno sull’argomento e sottopongo alla gentile attenzione degli interessati un’altra ipotesi, totalmente diversa dalla precedente.

Intanto ecco qui tutte le varianti salentine, naturalmente tratte dal vocabolario del Rohlfs:

rùmula (nel Leccese a Novoli, Squinzano, nel Brindisino a San Pietro Vernotico).

rùmmula (a Lecce).

rùmulu (nel Brindisino a Brindisi, Latiano e Mesagne; nel Tarantino ad Avetrana, Manduria e Uggiano Montefusco.

rùmmulu (nel Leccese a Gallipoli e nel Tarantino a Sava).

lumbru (nel Brindisino ad Erchie, Francavilla Fontana, Oria e nel Tarantino a San Giorgio sotto Taranto).

lùmbaru (nel Leccese a Nardò). Debbo, però, dire che la forma corretta dovrebbe essere ùmbaru (anche se nato da lùmbaru per discrezione di l– inteso come componente dell’articolo: lùmbaru, l’ùmbaru>ùmbaru) perché al plurale ho sentiro dire li ùmbari.

lùmmiru e lùmmiru (nel Tarantino a Maruggio).

lumbre (nel Tarantino a San Giorgio sotto Taranto).

alùmbre (nel Tarantino a Ginosa).

umbru (nel Brindisino a Brindisi, Francavilla Fontana, Oria, San Pancrazio, Torre S. Susanna).

cararòmbula (nel Leccese a Corigliano).

cararòmbulu (nel Leccese a Galatina e Sogliano).

caròmbulu (nel Leccese a Neviano e Martignano).

caravòmbulu (nel Leccese a Galatina).

caratròmbulu (nel Leccese ad Aradeo)

scarabòmbulu a Bagnolo, Cutrofiano (localizzazioni presenti nel Rohlfs ma a me imperdonabilmente sfuggite) e a Collemeto in base alla preziosa informazione di Alfredo Romano che integra la prima scrittura in cui la voce era assente. All’amico spigolautore sono particolarmente grato anche perché la raccomandazione di nonna Maria Neve mi consente di ipotizzare che la prima parte sia ciò che rimane di scràscia/scaràscia e bòmbulu trascrizione dell’italiano bòmbolo (uomo piccolo e grassoccio, praticamente una palla…).

A costo di essere considerato pazzo… parto dalla fine affermando che lùmbaru potrebbe corrispondere all’italiano mòrula (stadio della segmentazione dell’uovo fecondato che si presenta come un aggregato di blastomeri, simile a una mora di gelso) che è dal latino scientifico mòrula, diminutivo del classico mora, neutro plurale di morum=frutto del gelso o del rovo.1

L’immagine spesso è più esauriente di mille disquisizioni e per rappresentare un probabile albero genealogico del nostro lùmbaru mi è sembrato che lo strumento più utile fosse il diagramma che segue, nel quale, partendo dalla considerazione che tutte le varianti sembrano sul piano fonetico tradire la stessa origine, ho considerato solo quelle che secondo me sono le tappe fondamentali nell’evoluzione del nome.

Se le cose sono andate veramente così il lummaru avrebbe avuto un’origine banale, meno complicata di quelle fin qui prospettate2, anticipando, addirittura, lo scientifico mòrula nato nel XIX secolo. Ma banalità, linearità e semplicità non sono, purtroppo, garanzia di verità…

______

1 Nel latino classico esiste mòrula=piccolo indugio, ma è evidente che si tratta del diminutivo dell’omografo mora=indugio, dal verbo morari=attardarsi (non avente  nulla a che fare con la nostra mora).

2 A complicare ulteriormente il quadro mi viene in mente il tedesco brombeere=mora di rovo; si tratta di una parola composta in cui il secondo componente (beere=bacca) è certo, mentre il primo (brom) potrebbe avere connessioni con il latino prunus=pruno.

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