Avetrana e Brembate

AVETRANA: SARAH SCAZZI - CERIMONIA TUMULAZIONE SALMA

di Stefano Manca

Sarebbe stato individuato l’assassino di Yara Gambirasio. Quando venne ritrovato il corpo della ragazza, i genitori chiesero da subito ai giornalisti riservatezza e rispetto, rivendicando con dignità il diritto di vivere il proprio dolore senza “condivisioni” esterne. Giornali e tv, salvo sporadiche eccezioni, in questi anni hanno seguito la “preghiera” dei coniugi Gambirasio. Mi torna in mente un altro omicidio: quello della piccola Sara Scazzi. Ad Avetrana, quanto a mass media, non andò come a Brembate. Mentre scrivo non ricordo come si chiama la madre di Yara ma so perfettamente i nomi dei parenti della piccola di Avetrana. Colpa dei giornali cattivi? Della tv del dolore? Non ci credo! Quasi tutte le interviste a familiari e vicinato di Sara erano concordate con i soggetti intervistati, che ospitavano in casa telecamere e taccuini. Alcuni operatori per riprendere Michele Misseri nel suo giardino salivano sul terrazzo dei vicini di quest’ultimo (con il permesso ovviamente dei padroni di casa, che facevano strada con encomiabile gentilezza). Tralasciando un attimo gli ascolti stratosferici, era la comunità di Avetrana ad alimentare il delitto di Avetrana. Intendiamoci: a chi dice che giornali e tv, alimentati o no, ad un certo punto si sarebbero dovuti comunque fermare o limitare, dico che probabilmente ha ragione. Però mi chiedo: come mai a Brembate l’omicidio di una ragazzina è stato trattato in maniera doverosamente più discreta di Avetrana? Telegiornali e giornali erano e sono sempre gli stessi: a Brembate sono diventati di colpo rispettosi?

Avetrana e il tristissimo dramma di Sarah: ricordi e riflessioni

di Rocco Boccadamo

L’idea di riaprire la pagina del tema nasce dagli ennesimi sviluppi giudiziari, chissà se di carattere definitivo, di questi  giorni.

Nel fondo degli occhi e in seno all’immaginario d’un terrone ragazzo di ieri e, più in generale, nella semplice e schietta visione e suggestione della gente del Tacco, Avetrana è sempre apparsa alla stregua di sito lontano, méta misteriosa, posto estraneo e avulso rispetto alle naturali e familiari luci e ombre fra mattino, giorno e notte, allo stesso scorrere del calendario e delle stagioni.

Intanto, un paese fuori provincia, prima tappa, è vero, del confinante ambito territoriale tarantino e, però, distante un abisso, quasi un’eternità di spazio e di tempo, dall’ultimo avamposto leccese, ossia Nardò. Due centri, collegati sì, l’uno all’altro, dalla statale “Salentina”, ma separati da un nastro d’asfalto di ben trentadue chilometri.

In mezzo, fino agli anni cinquanta/sessanta, il latifondo disabitato e, soprattutto, la “macchia d’Avetrana”, estensione vegetativa del genere sotto bosco, fitta, una volta parzialmente inesplorata, non a caso eletta a nascondiglio e rifugio da parte di loschi interpreti del malaffare, rapine, aggressioni.

Solo in un secondo tempo, grazie alla riforma fondiaria, quelle plaghe hanno gradualmente preso a popolarsi, dapprima con case coloniche spuntate e disseminate sui singoli poderi della piccola proprietà contadina, poi attraverso un vero e proprio agglomerato paesano, Boncore.

Tuttavia, continuava a sembrare interminabile il percorso delle mitiche autovetture Fiat 1400, cariche di poveri “ppoppiti” (abitanti del Capo di Leuca) migranti verso il Metapontino, per lunghi periodi di duro lavoro nella coltivazione del tabacco.

Così, essenzialmente, si fissava ed era recepita l’identità di Avetrana.

A titolo di cornice,  in concomitanza con i primi tempi dell’impiego di chi scrive nel capoluogo ionico, un fortuito tassello di riferimento correlato: l’assunzione di un giovane collega di Soleto (Lecce), il cui fratello maggiore, qualche anno prima,  aveva, a sua volta, lasciato il paese natio, trasferendosi, guarda caso, ad Avetrana, per assumere l’incarico di direttore della locale banca.

E il giorno d’oggi, cos’è, come si pone Avetrana? Beh, pur con i cambiamenti intervenuti negli ultimi decenni e tranne qualche saltuario intermezzo di discorsi, congetture, ipotesi e para progetti che vorrebbero la realizzazione, sul suo territorio, di una centrale nucleare, nella sostanza, lo scenario della località non si presenta granché rivoluzionato.

Come dire, “ permangono” tutti i trentadue chilometri di distanza sopra accennati, sebbene, ora, occorra decisamente meno tempo per coprirli.

Sennonché, purtroppo, fulmine a ciel sereno, nel pieno dell’ultima torrida estate, si è consumata la tragedia, la misera fine della quindicenne Sarah, evento che, a causa della bulimia e invasività dei moderni media, ha finito col fare di Avetrana un macabro palcoscenico di spettacolo e di coinvolgimento collettivo senza confini.

Laddove, clamore e commenti a parte, nella fattispecie,  esiste un unico, vero motivo per riflettere: la fine della ragazzina dal volto tenero è stata segnata in un degrado, anzi sconvolgimento, di relazioni addirittura familiari, dietro la molla del dualismo, di contrasti, della gelosia, al cospetto e/o prospettiva di un abbrivio affettivo, per la vittima, verosimilmente, appena sbocciato. Amaramente, nella veste di “esecutori”, sembrano in gioco alcune persone vicinissime, giovani e non, della piccola sventurata.

Una trama che, anche in situazioni di menti e cuori disincantati e disillusi, non può non portarsi dietro, obiettivamente, un alone di sgomento e iniettare flussi di sconforto e mestizia.

Si permetta, altro che mela di Elena, fra Menelao e Paride, qui, senza interi eserciti di caduti e immolati, ma, alla luce dei tanti, ormai quotidiani casi  di azioni ed eventi criminosi e spietati, si è di fronte ad una immane strage di valori e di civiltà. Bisogna ammetterlo con forza e soffrirne dentro.

Avetrana e dintorni

di Rocco Boccadamo

Un’evoluzione improvvisa e imprevedibile, una metamorfosi impensabile.

Da località agricola pressoché sconosciuta, ad una sorta di Mecca di comunicazioni e di immagini, impostasi in ogni angolo del pianeta cosiddetto civile, televisivo e informatico. In più, con richiamo di vere e proprie moltitudini, non di pellegrini, bensì di visitatori, curiosi, turisti della cronaca e del gossip.

E dire, che, sino alla metà del ventesimo secolo, al nome Avetrana era abbinata, addirittura, l’idea di lontananza, di altra parte lontana, di mistero. Ciò, almeno nel sentire e nella suggestione dei leccesi, forse a motivo degli oltre trenta chilometri che separavano, e tuttora separano, la località dalla cittadina di Nardò in direzione sud.

Meglio che di Avetrana di per sé, si sapeva della limitrofa Terra d’Arneo, un comprensorio ricadente su ben cinque comuni, ossia  Porto Cesareo, Nardò, Veglie, Leverano e, giustappunto, Avetrana.

Terra d’Arneo, a quell’epoca, stava per feudo, latifondo, in capo a ricchi possidenti che se ne curavano poco e niente da lontano e sulla carta, al punto da lasciare l’immensa area sotto forma e in condizioni di fitta macchia mediterranea, frequentata da greggi e, purtroppo, anche da malintenzionati, predoni, grassatori, piccoli briganti.

Un comprensorio, conseguentemente giudicato di estrema pericolosità da chi doveva transitarvi, tanto è che i trasportatori di merci (in specie generi alimentari, derrate agricole, olio, vino, farine, ma non solo) di allora, i quali, spesso, si avvalevano semplicemente di carri di legno, dalle alte ruote a raggi e dalle lunghe stanghe, trainati da cavalli, per prudenza e paura, non compivano il percorso da soli o in due o tre, preferendo, invece, formare consistenti carovane, in modo da poter fare massiccio e adeguato fronte difensivo e protettivo comune nell’evenienza di agguati e attacchi da parte dei delinquenti.

E, quando realizzabile, evitavano di coprire la tratta durante la notte.

Poi, fortunatamente, arrivarono le lotte delle popolazioni contro il latifondo, la riforma agraria, le operazioni di bonifica e la distribuzione delle terre, in piccole porzioni, ai contadini e, in tal modo, i malintenzionati furono indotti a disperdersi.

Come sopra, la sfaccettatura di un certo antefatto storico sociologico.

E adesso, da due mesi in qua, ancora in questi giorni, che cosa si va registrando nell’aria di Avetrana?

Fatto vivamente salvo e con tutto il rispetto per un dramma spietato, la risposta che ricorre o per lo meno domina sembra constare essenzialmente di una sola parola: bulimia.

Di cronache, servizi video, notizie, indagini, sospetti, pettegolezzi, pressioni sui protagonisti e sugli inquirenti, si tratta pur sempre di un’accezione, uno stato, che non dovrebbero piacere ad alcuno.

SCUSA, SARA!

di Rocco Boccadamo

Se, in quaranta e più giorni, nonostante i potenti e mirabolanti moderni mezzi a disposizione e l’encomiabile impegno delle Forze dell’ordine, degli inquirenti e dei volontari spesisi nelle ricerche, a livello di collettività, di famiglia sociale del 2010, si è primeggiato soprattutto, se non esclusivamente, sotto forma di chiacchiere, parole ripetute, congetture, sbirciate sulle pagine di un diario personale, annotazioni e commenti circa frequentazioni di pub e rientri alle prime ore del mattino e, addirittura, con la cornice finale di un programma TV, tua madre ospite, recante la comunicazione in tempo reale del tristissimo epilogo.

Se, passo dopo passo, come il solito distrattamente, non si è avuta la capacità di scorgere alcun segno, nemmeno una qualunque sequenza di minuscoli sassolini in funzione di sentiero o tracce d’indirizzo utili a raggiungerti. Purtroppo, l’intuito, una volta permanentemente e normalmente all’erta in ciascuno e, sovente, maestro risolutore di dubbi, incognite e difficoltà, ha oramai finito con l’atrofizzarsi ai minimi termini, perdendo completamente efficacia.

Se, tanto vano cincischiare si è posto all’antitesi, autentico pugno nello stomaco, rispetto al tuo forzoso e scomodo sonno, crudelmente indotto in una misera manciata d’attimi, per giunta per opera di una mano tanto ostile e spietata, quanto al contrario, avrebbe dovuto muoversi buona e carezzevole.

E’ accaduto, Sara, come se i tuoi quindici compleanni, anziché assommare aiole di fiori di campo, boccioli promettenti, ramoscelli protesi alla crescita semplicemente sotto la spinta di una linfa naturale, abbiano vissuto e attraversato una modifica, uno stravolgimento transgenico, con il drammatico e misero sbocco in una repentina recisione, nell’appassimento della chioma verdeggiante, nell’abbassamento muto e irreversibile di due palpebre.

Se l’ammissione di quel familiare è veritiera, reale e sincera, è successo,

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