Masseria San Lasi… a Salve

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di Melissa Calo’

 

Ci sono luoghi che ti accolgono con una carezza, con la gentilezza morbida dei petali dei mandorli. Ci sono luoghi che sembra tu abbia abitato da sempre, dove ritrovi il tempo vissuto da altri attraverso le pietre dei muri, la costolonatura di una trave; dove gli oggetti, per una sorta di commilitanza con i loro proprietari o di chi li ha toccati ed usati, sentano poi il dovere di raccontarne le vite, oppure lo fanno spontaneamente, per una sorta di proprietà transitiva.

Sullo specchio accanto al comò di noce, un riflesso, come un bagliore immaginato o già vissuto, svela un occhio nero di donna, l’onda garbata di capelli raccolti, mani che lisciano i vestiti seguendo le forme di un corpo che oggi è cenere o ricordo. Per il secondo anno consecutivo, ho la fortuna di riconnettermi a queste emozioni e lasciarmi attraversare da sensazioni difficili da spiegare alla festa di San Biagio, il 3 febbraio, alla Masseria di Santu Lasi.

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La Masseria non è, a differenza di tante altre costruzioni rurali delle campagne salentine, imponente o pomposa. È una “masseria delle piccole cose”, sorella dei furnieddhi – o come mi correggono qui, pajare” – degli spazi che si possono raccogliere quanto si può nei limiti di due ciglia. Ho sempre pensato, da salentina, che le nostre campagne, intendo quelle condotte a seminativo, abbiano una dimensione “familiare”; ma nel Capo di Leuca, dove le ossa e i denti della terra affiorano con più abbondanza e permettono di serrare ancora di più i vuoti, le campagne raggiungono una dimensione intima, quasi interiore. Persino la torre che si trova all’interno della masseria sembra chiedere scusa del suo statuto e adegua le forme e l’imponenza a questo sentire.

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Febbraio duemilasedici si è presentato all’appello tiepido come l’alito di un bue e ha fatto germinare semi ed erbe a profusione, prima del tempo lecito. Così, un tappeto morbido verdebambino ricopre il vialetto, corto in lunghezza e largo quanto basta, che porta ad un cancelletto spalancato verso un mondo tutto proprio. Hortus conclusus. Questo termine mi è sempre piaciuto, nella sua sonorità, nel suo significato. La masseria delle piccole cose è una masseria conclusa. Masseria degli spazi grandi-il-necessario. Costruzione che non può fare a meno della campagna, della chiesetta, ma contemporaneamente se ne separa. Masseria riccio di mare, che senza il mare non può vivere eppure difende da esso le sue preziose uova con gli aculei. Masseria semplicità e stupore, che ti chiedi perché tutto il Salento non respiri così, nel rispetto del vegetare e nella semplice funzionalità del vivere. C’è lo stupore di trovare fiorite le lavande, il bacio rosso di una rosa d’inverno stampato sulla parete alba di calce, “la regina arsa e concreta” di Vittorio. Il bianco. Qui è dappertutto. Bianco, ma meno llamativo, quasi rosato, è lo sposo che se ne sta all’ingresso della festa. Il grande mandorlo, con le dita inanellate di fiori, profuma appena appena di un’essenza leggermente amara, mentre lo scirocco di tanto in tanto lo pettina facendone cadere qualche petalo per simulare una neve, o forse i coriandoli, ché qui davvero per scherzo si è nel tempo dell’inverno.

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All’interno della piccola corte centrale, ci sono i convenuti alla festa. Uno strano miscuglio. Esattamente come ad una cerimonia di matrimonio, si ritrovano i parenti più prossimi, i curiosi, le facce conosciute, quelle che non vedi mai per sbaglio in strada ma che vedi sempre a proposito di queste occasioni; gli zii anziani, ma quelli proprio anziani anziani che sembrano i più titolati a stare lì, che da quei posti non sono mai partiti. Le cugine trendy e i cognati grassissimi. Sulla soglia di una porta, assisa in vimini, trovo una signora con le rughe che sembrano scassi per i filari dei vigneti. Assomiglia molto alla zia di papà, zia Rosa, che era veramente la moglie di un colono di Don Costa, ricco proprietario terriero. La masseria che custodiva, però, era più mastodontica, aveva pretese di salti di categoria, ambiva al rango di palazzo cittadino con la sua scala di ghisa e i marmi cipollini pretenziosi. Grandeur gallipolina alla quale la zia faceva abbassare la cresta coltivando piante di ciciri e tria accanto alle rose viola che profumavano di limone. Osservando le persone non posso fare a meno di pensare che la masseria di Santu Lasi sia oggi un campione rappresentativo dello spaccato socioculturale che si trova là fuori. Le campagne qui intorno sono pullulate da padovani, svizzeri e svizzerotti, ché certi giorni ascolti un fiorire di scìscì che nemmeno nel trevigiano. Innamorati sulla via di Damasco, loro comprano di tutto e ristrutturano di ogni. Pensionati pensionanti in queste terre, passano a svernare “nel bel suol d’amore” metà anno. Devo dire la verità, conosco della gente interessante. Meno male che ci sono. Sono contenta di questo meltin’pot, anche se spesso i locali si lamentano che “tuttu iddhi càttane”, tutto loro comprano, punta di invidia rabbiosa contadina per il contingente o diffidenza maturata da secoli di invasioni, chissà.

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Da questa mescolanza credo che nascerà un’eugenetica culturale, è sempre nato qualcosa di buono in questa terra dall’incrocio di razze e popoli. I grandi assenti invece sono i ragazzi, quella fascia di popolazione che va dai 18 ai 30 anni, ma del resto non ce ne sono nemmeno in paese, sono fuori, a cercarsi vite e fortune in qualsiasi posto sempre lontanissimo. Qualcuno è tornato, qualcuno resiste, come il gruppo di ragazzi e ragazze che hanno preparato il pranzo oggi. L’odore delle pittule, il sapore delle foje creste sapeva uguale oggi come in un giorno qualsiasi di un febbraio di fine ‘500. La banda attacca. Un momento epico, che commuove me e Milena. Ecco, sono sicura che l’”Uva fogarina”, nel 1577 o giù di lì, ancora non era stata composta.

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3 febbraio. San Biagio, martire armeno, e il suo culto a Nardò e in Puglia

particolare della statua di san Biagio conservata nella chiesa di Santa Teresa a Nardò

 

di Marcello Gaballo

Ancora un santo armeno nella città di Nardò. Dopo il culto e il protettorato di san Gregorio l’Illuminatore, che si festeggerà il 20 febbraio, i neritini festeggiano oggi il santo medico e vescovo vissuto tra il III e il IV secolo a Sebaste in Armenia (Asia Minore), con la tradizionale benedizione della gola nella chiesa di Santa Teresa da pochi giorni rimessa a nuovo. I sacerdoti infatti per tutta la giornata di oggi benedicono le gole dei fedeli, e dei bambini in particolare, accostando ad esse due candele, recitando: “Per intercessione di San Biagio, Vescovo e Martire, Dio ti liberi dal mal di gola e da ogni altro male. Nel nome del Padre e del Figlio + e dello Spirito Santo. Amen”.

Vetrata con S. Biagio a La Godivelle

Tra i quattordici santi ausiliatori, patrono degli otorinolaringoiatri, i fedeli si rivolgono al santo, che in vita fu medico, per la cura dei mali fisici e particolarmente per la guarigione dalle malattie della gola[1].

Il  martirio di san Biagio, avvenuto intorno al 316, è da ricollegare al rifiuto di abiurare la fede cristiana. La leggenda riporta che fu decapitato, dopo essere stato a lungo torturato con pettini di ferro che gli straziarono le carni. Lo strumento del martirio fu preso a simbolo del santo e poiché simile a quelli utilizzati dai cardatori di lana e dai tessitori, ecco che queste categorie lo vollero designare quale loro protettore.

Tra i diversi miracoli attribuiti il salvataggio di un bambino che stava soffocando dopo aver ingerito una lisca di pesce.

Il corpo del santo fu sepolto nella cattedrale di Sebaste. Nel 732 una parte dei suoi resti mortali furono imbarcati, per essere portati a Roma. Una tempesta bloccò il viaggio a Maratea (Potenza), dove i fedeli accolsero le reliquie, eleggendolo a protettore e conservandone i resti nella basilica sul monte San Biagio. Qui si conserva parte del torace, mentre a Carosino (Taranto), è custodito un pezzo della lingua, conservato in un’ampolla incastonata in una croce d’oro. A Ostuni si conserva un osso, venerato e posto sulla gola di ogni fedele che oggi si reca in pellegrinaggio al santuario dedicato al santo. Nella cattedrale di Ruvo di Puglia si venera una reliquia del braccio del Santo, esposta entro un reliquiario a forma di braccio benedicente, portato in processione dal Vescovo e esposto alla venerazione dopo la messa di oggi  in cattedrale.

san biagioIn provincia di Lecce, oltre al culto riservato a Nardò, è nota la devozione degli abitanti di Salve, nel cui territorio ricade la masseria e la cappella di Santu Lasi, termine dialettale con cui si designa il nostro santo. E’ del 1716 la chiesetta, riedificata sui resti di una costruzione altomedievale che ospita una coeva statua del santo. Nella masseria poco distante lo scorso anno si tenne una interessante mostra dal titolo “Santu Lasi / San Biagio: un santo, una cappella, una masseria” e si tenne la benedizione e la distribuzione dei pani di S. Biagio (provenienti da Ruvo e da Sant’Agata di Puglia, centri nei quali il san Biagio è patrono)[2].

Il motivo dell’antico patrocinio a Nardò non è da ricollegare, a mio parere, alla protezione per banali raffreddori o comuni tonsilliti, quanto per la grave malattia infettiva della difterite[3], di cui sono accertate epidemie nel XVII secolo in città, che procurarono non pochi lutti, specie tra i più piccoli, che morivano per l’asfissia determinata dalle “scrascie a ncanna” (rovi in gola)[4].

Ma ancora un motivo giustifica la particolare devozione dei neritini al santo, ricollegabile alla antichissima e nobile famiglia dei Sambiasi, il cui nome, fino al XVII secolo, era Sancto Blasio, per l’appunto San Biagio. Credo sia stata questa famiglia ad introdurne il culto, anche perché un ramo viveva accanto alla chiesa in cui tuttora si festeggia il santo armeno.

Hans Memling, S. Biagio, 1491, Sankt-Annen-Museum, Lubecca

Altri motivi mi portano a considerare veritiera l’ipotesi, dato che la stessa famiglia edificò ben due chiese in città dedicate al santo. La prima fu fatta costruire nel 1623 dal barone Giuseppe Sambiasi, nelle  vicinanze dell’antica chiesa di S. Nicola del Canneto, poi di S. Lorenzo, tra l’abitazione di Cesare Sambiasi da tre lati e la pubblica via dall’altro.

Figlio di Alessio Sambiasi, Cesare la istituì con atto notarile del 10 aprile, ad laudem et gloria di S. Biagio, sulla via pubblica in qua habet exitus ecclesia predicta, dotandola di 48 ducati di annuo censo. Nella visita pastorale del vicario Granafei (1637) il patronato era del sacerdote  Bernardino Sambiasi, figlio del fondatore. Nella visita del Sanfelice (1723) risultava cappellano Giuseppe Sambiasi ed il sacellum era posto iuxta domos M(agnifi)ci D(omi)ni Fabritio Sambiasi; in quella del Petruccelli (1764) il cappellano era Alessio di Guglielmo Sambiasi.

Il 9 novembre 1756 il barone Nicola Sambiasi vi fondò un beneficio omonimo di jus patronatus laicorum, col peso di sette Messe l’anno in perpetuo a beneficio della sua anima, per 160 ducati. Primo rettore e cappellano fu Vincenzo d’Elia, poi suo fratello Emanuele, apparentati entrambi col fondatore. Nel 1761 la chiesa era del barone di Melignano Giuseppe di Guglielmo Sambiasi, alle cui case era attaccata. Giuseppe nel suo testamento dispose che in essa in ogni domenica, quanto in ogn’altro giorno festivo dell’ anno, dovessero celebrare e far celebrare una Messa colla solita elemosina di un carlino, e ciò voglio che si osservi durante mundo ed in perpetuum e dette Messe le dovessero dire delle Messe del legato del barone Ruggiero Sambiasi

Della chiesa, aperta al culto fino alla metà del secolo XIX, ubicata sull’attuale via De Pandi, oggi non restano che i muri laterali e parte assai ridotta della volta. I fregi e i decori in pietra leccese sopravvissuti documentano quanto fosse graziosa e artisticamente valida.

L’altra chiesetta, comunemente detta di S. Biagio in Via Lata per distinguerla dalla precedente, fu edificata dalla medesima famiglia verso il 1700, nel vicolo omonimo di via Lata, dove risiedeva un altro ramo dei Sambiasi. Di media grandezza, con un solo altare, aveva un grazioso prospetto, reso tale da interessanti fregi e decori sulla porta, che fanno supporre una preesistente dimora cinquecentesca riadattata a sacro luogo. Non era dotata di beneficio ed il cappellano fu sempre della famiglia Sambiasi, cui spettava il diritto di patronato. Anche questa fu aperta al culto fino alla metà del XIX secolo, per essere poi adibita ad usi profani, quindi a civica abitazione. 

 
 
 
 
 

Due preziose testimonianze iconografiche su San Biagio a Nardò

La più celebre raffigurazione del nostro santo è certamente quella di Michelangelo nel Giudizio Universale della Cappella Sistina, con le famose “braghe” di Daniele da Volterra e gli strumenti del martirio; molto bello anche il noto ritratto del Tiepolo, in cui appare come santo vescovo.

Michelangelo, S. Biagio nel Giudizio Universale
Giovan Battista Tiepolo, San Biagio

 

Pur se non frequentissima, l’iconografia a volte lo ritrae come santo guaritore e intercessore, altre ancora nel momento del martirio, più spesso come vescovo, con mitra, pastorale e libro, a mezzo busto o a figura intera.

Ecco che allora gli attributi variano, associandogli ora il pettine di ferro con cui fu torturato, talvolta con la palma del martirio, più spesso con uno o due ceri incrociati, in ricordo del miracolo della guarigione del bambino.
A Nardò ho trovato due belle raffigurazioni del santo armeno, entrambe in cartapesta policroma. Una certamente proviene da abitazione privata, anche se attualmente custodita nella chiesa di S. Giuseppe, forse donata dal proprietario; l’altra è oggetto di venerazione da parte dei fedeli nella chiesa di S. Teresa ed è stata portata in processione il 2 febbraio.

Il gruppo scultoreo, sotto campana di vetro, secondo la tradizione popolare salentina di fine Ottocento, poggia su una base ottagonale di legno dorato, con il margine modanato, poggiante su otto piedini “a cipollina”. Del tutto originale, forse unica, è la campana ellittica in vetro soffiato, terminante a cupola che protegge il manufatto.

Del piccolo capolavoro ne scrissi già nel 1998, in occasione della mostra “Famulos tuos… Immagini della pietas popolare: Madonne e Santi sotto campana”, organizzata dalla parrocchia del Sacro Cuore in Nardò, in occasione della quale fu stampato un succinto catalogo delle opere esposte, introdotto da Mons. Vittorio Fusco[5].

La composizione raffigura il santo in piedi, leggermente proteso verso la donna che, inginocchiata, offre al suo cospetto il figlioletto moribondo. Con la mano destra sollevata impartisce la benedizione, mentre  la sinistra, a ricordo del celebre miracolo, è posta vicino alla bocca dell’infante, evidentemente bloccando il tragico percorso della lisca di pesce conficcata in gola.

Il santo è raffigurato in età avanzata, calvo sulla sommità del capo, con barba grigia fluente che ricade in morbidi riccioli, aureolato. Veste un’ampia tunica azzurra, fermata in vita da un cingolo, con risvolti dorati e bordature rosse, come i numerosi bottoncini. Ai suoi piedi, sul terreno, è posta la mitra dalle fini decorazioni arabescate.

Molto accurato anche il panneggio delle vesti della donna, che indossa una tunica marrone ed un corto mantello azzurro.

La fine esecuzione dei lineamenti e le intense espressioni dei volti, oltre l’estrema accuratezza nell’esecuzione del restante, ne fanno un pezzo di gran pregio, opera di uno dei più validi cartapestai leccesi. La mancanza di firma e data rendono impossibile l’attribuzione.


Di grandezza naturale è invece l’altra eccellente  cartapesta policroma conservata nella settecentesca chiesa di S. Teresa, sempre a Nardò, un tempo annessa al monastero delle carmelitane, in una nicchia addossata a lato del presbiterio. Un’iscrizione sul basamento documenta che fu realizzata a spese dei fedeli neritini (Neritonensium pietas) nell’anno 1888.

Il santo, a figura intera, caratterizzato dalla folta barba grigia, indossa i paramenti vescovili orientali, con la caratteristica mitra sormontata dalla croce, il pastorale dalle estremità ricurve verso l’alto, il classico omoforion o lunga sciarpa ornata di croci.

La mano destra rivolta in alto e l’espressione estasiata del bambino indicano che il miracolo è già avvenuto e il santo, pur continuando a fissare il piccolo, sembra congedarsi, dopo aver ringraziato il Padre per l’evento miracoloso appena compiuto.

L’ampia casula rossa non camuffa le giuste proporzioni corporee e, nonostante il rigido drappeggio, si contrappone molto bene con l’appiombo del camice, per i cui bordi sono state riutilizzate parti di indumento indossato da qualche prelato di alto rango, vista la ricchezza del decoro a motivi eucaristici e la finezza dell’intaglio.

parte inferiore della statua (la parte riutilizzata di un vecchio camice è stata applicata al contrario)

 

La resa plastica, i particolari assai curati e i tratti somatici delle due figure, ma anche l’equilibrio fra le parti e la posa ieratica del santo, portano a considerare anche quest’opera tra le migliori dei più bravi cartapestai leccesi.

La data sul basamento potrebbe rimandare ai validissimi Antonio Maccagnani (1807-1892) o al più giovane Achille De Lucrezi (1827-1913), ma lasciamo agli esperti un’auspicabile attribuzione, trovandoci di fronte ad una delle più raffinate opere in cartapesta presenti in città, ancora a torto considerate “arte minore”.

San-Biagio, immaginetta devozionale C.Poellath, cromolitografia Bayern, fine secolo XIX
San-Biagio, immaginetta devozionale C.Poellath, cromolitografia Bayern, fine secolo XIX

 

[1] dom Prosper Guéranger, L’anno liturgico. – I. Avvento – Natale – Quaresima – Passione, trad. it. P. Graziani, Alba, 1959, p. 784-785.

[2] http://www.salentoproloco.com/forum/viewtopic.php?f=26&t=71.

[3] La difterite è una causata dall’azione di una tossina (tossina difterica) prodotta da batteri che si trasmettono per via aerea. Solitamente la difterite inizia con mal di gola, febbre moderata, tumefazione del collo.
Molto spesso i batteri della difterite si moltiplicano nella gola (faringe) dove si viene a formare una membrana di colore grigiastro che può soffocare la persona colpita dalla malattia. A volte queste membrane si possono formare anche nel naso, sulla pelle o in altre parti del corpo.
La tossina difterica, diffondendosi tramite la circolazione sanguigna, può causare paralisi muscolari, lesioni a carico del muscolo cardiaco con insufficienza cardiaca, lesioni renali, fino a provocare la morte della persona colpita.

[4] In Italia, prima dell’avvento della vaccinazione di massa (al termine della seconda guerra mondiale) si registravano annualmente alcune decine di migliaia di casi di difterite con più di mille morti ogni anno.
I casi di malattia si sono ridotti, fino a scomparire quasi del tutto alla fine degli anni ’70, dopo che la vaccinazione antidifterica è stata praticata in forma estensiva in associazione con quella antitetanica (http://www.levaccinazioni.it/informagente/Vaccinazioni/difterite.htm.).

[5] Famulos tuos… Immagini della pietas popolare: Madonne e Santi sotto campana, a cura di M. Gaballo, Tipografia Bonuso – Nardò, pp.90, fuori commercio.

MASSERIA “SANTU LASI” (SAN BIAGIO): UN’ARCHITETTURA IN MINIATURA

di Vincenzo Cazzato

 

La masseria occupa il punto più elevato dell’estrema propaggine delle serre salentine – 102 metri sul livello del mare – ed è ubicata in una posizione intermedia fra la costa ionica e l’abitato di Salve.

Da un vialetto si accede in un primo recinto con alti muri a secco, alcune mangiatoie ricavate nello spessore murario, una rientranza per il ricovero del calesse; la vegetazione è costituita da mandorli, fichi d’India, melograni e piante aromatiche. In asse con il viale è il palmento, coperto con tetto a doppio spiovente; all’interno, lungo una parete, sono i resti di un apiario.

Attraversato questo primo recinto si perviene nel cortile sul quale prospetta la masseria vera e propria. Perfettamente orientata secondo i punti cardinali, occupa uno dei lati dello spazio di forma pressoché quadrata sul quale si affaccia anche una piccola torre cilindrica. Al centro è una cisterna, rialzata rispetto al piano di calpestìo, il cui orientamento differisce di poco rispetto a quello dei muri di recinzione.

Il fabbricato della masseria, in tufo e pietrame, databile al secolo XVI con aggiunte del XVIII, occupa un lato della corte; è a due piani con caditoie in corrispondenza degli ingressi.

Al pianterreno due arcate, precedute da colonne in pietra destinate a un pergolato, sostengono un balcone continuo al quale si perviene mediante una scala esterna che occupa un altro lato della corte e che, ramificandosi, consente di raggiungere anche il primo piano della torre colombaia.

Il piano inferiore era in origine destinato al massaro e alle funzioni produttive, quello superiore a residenza stagionale del proprietario.

I due ambienti a pianterreno, entrambi voltati a botte al pari di quelli superiori – presentano una originale pavimentazione in pietrame, nicchie scavate nella muratura, un camino con mensole, un angolo per la lavorazione del formaggio.

Il primo piano ripropone l’impianto planimetrico del pianterreno e ha una pavimentazione in battuto, un camino di fattura più raffinata, nicchie e finestre che si aprono su ampie visuali: da un lato verso il mare, dall’altro verso la campagna, i comuni limitrofi e la cappella di Santu Lasi.

Una scala a una sola rampa dà accesso al terrazzo sul quale è un monolite a terminazione piramidale, punto di riferimento trigonometrico e ora satellitare.

La torre cilindrica (1577), in uno degli angoli del recinto, presenta in alto una fascia di archetti che si alternano a mensole con decorazioni a motivi geometrici. L’ambiente a pianterreno, di forma pressoché rettangolare, è a botte; quello al piano superiore, circolare, ha una copertura cupoliforme. La torre ha assolto nel tempo a varie funzioni: torre colombaia e torre di difesa. La prima destinazione è denunciata dalla presenza all’interno di tufi disposti in modo da consentire l’alloggiamento dei colombi; la seconda da tracce di una caditoia sul versante che guarda il cortile.

Su un altro lato del recinto è un ambiente adibito in origine a mangiatoia, con pavimentazione a “chianche” di differenti forme e dimensioni, tetto a una falda con copertura a tegole.

Sul retro della masseria sono altri ambienti destinati al ricovero degli animali con mangiatoie, una “porticina” per l’ingresso delle pecore, un forno. La muratura è costituita da pietrame a secco rafforzato da colonnine di tufo.

Tutt’intorno sono vari recinti destinati al gregge e un frutteto, nel quale è un monolite; un vialetto bordato da grandi pietre si conclude con una cisterna nella quale confluiscono le acque del “chiancaro”, segnato da canali. In un terreno adiacente, accanto a una pajara, in un punto del Basso Salento particolarmente ventilato, sono due aie di forma circolare: una scavata nella roccia; l’altra posta su un terrapieno artificiale.

Con decreto del Ministero per i beni e le attività culturali del 12 maggio 2008 la Masseria Santu Lasi è stata dichiarata “bene di interesse culturale particolarmente importante”.

 

 

Bibliografia:

C. Daquino, P. Bolognini, Masserie del Salento, Capone, Cavallino di Lecce 1994.

A. Costantini, Le masserie del Salento: dalla masseria fortificata alla masseria-villa, Congedo, Galatina 1995.

A. Costantini, Guida alle masserie del Salento, Congedo, Galatina 1999.

Masserie: living & hosting, fotografie di Walter Leonardi, Congedo, Galatina 2007.

Salve. Santu Lasi e il restauro “leggero”

di Corrado Cazzato


Masseria Santu Lasi è un cantiere aperto di “pratica” di restauro rurale, per le continue cure di manutenzione ordinaria e straordinaria che periodicamente richiede, necessarie alla sua salvaguardia.

L’ampio e vario repertorio di forme, di materiali e di tecniche costruttive si lega strettamente al paesaggio circostante e alle trasformazioni antropiche di cui il luogo è stato oggetto nei vari periodi sino al giorno d’oggi.

Questa simbiosi ha agevolato il recupero di ogni sua parte; a partire dai muri a secco che, ove diruti, sono stati ricostruiti da mani sapienti con le stesse pietre informi che l’aratro ha rimosso per bonificare il terreno vegetale e con le stesse tecniche costruttive che ne assicurano la statica, mediante la sovrapposizione a incastro del pietrame e la rastremazione della sezione verso l’alto.

La “pratica” del muretto a secco ha consentito non solo il recupero dei recinti, ma anche quello dei paramenti murari – alcuni dei quali in materiale informe sistemato con malta a base di bolo argilloso (voliu), calce, coppi frantumati e paglia – risarciti nei giunti (dopo aver scarnito, rinzeppato con scaglie di pietra e sigillato le connessure con malta di tufina e calce) e poi scialbati, a tre passate di calce, che, come nel passato, assicura, all’interno come all’esterno, protezione, igiene e pulizia degli ambienti. Solo pochi elementi in pietra sono stati lasciati a vista: fasce di coronamento, antiche caditoie e alcuni motivi decorativi.

Frequente è stato il reimpiego di materiali – conci di tufo, pietrame informe e piromafu (pietra calcarea refrattaria) – allettati con malta di calce stilata sottosquadro nei giunti, senza ausilio di cemento.

In alcuni ambienti, come le stalle e l’ovile, particolare attenzione è stata riservata al recupero, funzionale alle attuali necessità abitative, di nicchie e mangiatoie; nel palmento l’antico apiario è stato trasformato in una semplice e discreta fonte di luce naturale.

Se per le coperture a falda delle stalle e del palmento la manutenzione ha richiesto inevitabilmente la rimozione e la sostituzione di puntoni e arcarecci e la riparazione del manto di copertura, per quelle a volta della torre e della masseria ci si è limitati alla revisione dei lastrici solari.

Con la stessa attenzione si è guardato alle pavimentazioni, mediante la posa in opera nelle stalle di basolato calcareo di recupero, il mantenimento del coccio pesto nel corpo principale, la ricerca all’esterno delle quote originarie di calpestìo in pietra affiorante, integrata con terreno vegetale o con ghiaia di varia pezzatura.

Per gli impianti si è optato per soluzioni e materiali rispondenti alle esigenze odierne ma, al tempo stesso, non invasivi; per il riscaldamento degli ambienti sono stati recuperati gli antichi camini. Per gli infissi, ove possibile, si è proceduto al restauro di quelli esistenti.

Masseria Santu Lasi è un piccolo, semplice ma chiaro esempio dell’amore e del rispetto che bisogna avere per la cultura di un luogo, specie se è la propria Terra.

Sentire il dovere di proteggerla; osservarla, in ogni momento, di notte e di giorno, con la pioggia e con il sole, con la tramontana e lo scirocco, in ogni stagione…

Riconoscente, con la sua antica saggezza, questa Terra ricambierà le attenzioni e si prodigherà per aiutare quanti sono interessati a quelle azioni di tutela e di salvaguardia di un territorio, che conferiscono dignità a una comunità e ne arricchiscono la sua storia.

Salve / La festa di San Biagio e “il pane dei Santi”

Come ogni anno, i festeggiamenti in onore di San Biagio promossi dal Comitato Feste della Parrocchia “San Nicola Magno” vengono celebrati a Salve il 3 febbraio nella cappella rurale e nella masseria di Santu Lasi. Dopo la Santa Messa nella cappella (ore 11.00), ci si potrà recare alla vicina masseria, che resterà aperta per l’intera giornata e sarà visitabile fino al tramonto.

In masseria, intorno alle ore 12.00, avrà luogo la consueta benedizione e distribuzione dei pani di San Biagio (quelli a base di anice prodotti a Salve, altri di forme varie – dal pastorale alle dita del santo in miniatura – provenienti da Ruvo, centro nel quale San Biagio è patrono) alla presenza del vescovo di Ugento.

Sarà anche possibile visitare una mostra dal titolo “Il pane dei Santi”,

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