Santu Pati: il santo della Fede, della fermezza e della virilità.
Il capodanno contadino nel Basso Salento
di Giacomo Cazzato
Quando si parla di feste patronali spesso ci si fossilizza sui particolari commerciali e di massa, utili per trasformare la festa in una occasione lucrosa, in contrasto con quelli che furono gli originali e sani valori cristiani, cari alla pietà popolare, motivo qui in Salento di ogni festività.
Quella genuinità originale la si può ritrovare intatta nella sua completezza, ancora in terra di Leuca e in particolare a Tiggiano, piccolo paese che si può elevare a paradigma del culto dei santi orientali e delle relative tradizioni popolari.
Sono molti i santi e le festività orientali nel capo di Leuca: Santa Sofia e San Biagio a Corsano, San Giovanni Crisostomo e San Pietro a Giuliano, San Michele Arcangelo a Castrignano, Sant’Andrea a Caprarica e Presicce, Sant’Eufemia e l’Assunta (prima Dormitio) a Tricase, Santa Marina a Ruggiano e Miggiano, San Nicola a Salve e Specchia.
Ad essere venerato a Tiggiano è invece Ippazio di Gangra (Paflagonia), vescovo del IV secolo lapidato a Luziana da eretici novaziani e padre conciliare a Nicea nel 325 d.C.
Il santo dal nome altisonante, di cui poco si conosce per via delle poche notizie desumibili dal martirologio romano, è titolare dell’unica parrocchia, la sola in tutta la chiesa cattolica, e della relativa Matrice in cui si può ammirare una bellissima tela tardo-rinascimentale ritraente il santo in età senile, datata al 1626. Ed è proprio nel secolo XVII nel passaggio del feudo di Tiggiano dai Gallone ai Serafini che nasce il culto unico di Sant’Ippazio, il cui nome verrà portato ripetutamente da più Baroni nella dinastia ormai estinta dei Serafini-Sauli.
Ma non è una sola la particolarità del Santo taumaturgo di Gangra; a lui è anche attribuito il potere della guarigione dall’ernia inguinale[1] e quello della fertilità, soprattutto di quella maschile. Mio padre, primogenito, così come tantissimi in paese, porta il nome del Santo Patrono in virtù della propria primogenitura, offerta poi come atto estremo di devozione e di augurio. Ad ogni modo qualsiasi nato non poteva scappare dalla pratica de “li sabbiti”: ogni sabato i bambini in fasce venivano portati sulla pietra sacra dell’altare parrocchiale per ricevere la benedizione per il patrocinio del santo.
Carovane di pellegrini e devoti giungevano e giungono a Tiggiano da ogni parte del basso Salento, molti dal casaranese, dall’idruntino e dal castrense,[2] dove ancora oggi i segni della devozione sono visibili nelle varie matrici.
La festività può essere considerata per le popolazioni del sud Salento una sorta di capodanno contadino, da contrapporre geograficamente alla festività di Sant’Antonio Abate a Novoli.
Oltre alla tradizionale fiera degli animali e alla vendita delle pestanàche e delle giuggiole, celebre è in tal senso il motto dialettale: “Pasca e Bifanìa tutte le feste porta via. Rispunne Santi Pati: e mie a ci me llassati? Se vota la Cannalora: ci su ieu e lu Biasi ‘ncora”[3]. Secondo questo detto a dare continuità diversa alle festività natalizie sarebbe Sant’Ippazio, cui succederà di lì a breve la Candelora (Specchia) e San Biagio (Corsano).
Le messe e l’afflusso di pellegrini si protraggono dall’alba fino alla sera, ma più di tutto è la processione ad essere il culmine della festività: dopo incessabili trattative l’asta dei portantini (che avviene ancora con il vecchio metodo del bastone) si conclude e ad aprire la processione nel suono delle campane a festa è lo stendardo del Santo Patrono, alto ben otto metri ed elevato con non poca dimostrazione di forza, dopo una lunga rincorsa su rullìo di tamburi, dal sagrato della matrice fino alla chiesa dell’Assunta. A seguire lo stendardo del Patrono è quello confraternale, alto parimenti otto metri, cui segue ancora il simulacro settecentesco di scuola napoletana. La benedizione con il reliquiario del santo conclude il tutto in un tripudio di popolo.
LA PESTANACA E LE GIUGGIOLE
Un discorso a parte meriterebbe invece la coltivazione della pestanàca, variante della daucus carota, conosciuta come pestanàca di Sant’Ippazio o carota giallo-viola di Tiggiano, prodotto di nicchia i cui semi vengono gelosamente custoditi dai nostri contadini e che viene venduto durante la festività.
Il frutto, violaceo e dolce, ricco di carotenoidi, è legato da forti fondamenti teologici alla figura del santo ed è simpaticamente ricondotto dal popolo, insieme alle giuggiole, proprio per la loro forma, all’apparato genitale maschile di cui il santo è Patrono.
La pestanàca, presente nell’iconografia bizantina soprattutto nelle cene angeliche o quelle in cui figura il Cristo con gli apostoli, è proprio il simbolo della fede nella natura umana e divina dell’Unigenito: l’inconsistente fragilità di un uomo nella cui profondità si scopre il frutto dolce e divino radicato fortemente nella terra. La tesi ariana combattuta nel Concilio di Nicea si contrappone dunque alla figura del padre conciliare Ippazio e all’immagine della pestanàca, la cui origine etimologica “pistis” indica, nonostante l’apparente espressione dialettale e contadina, il più grande insegnamento di questo santo: la tenacia del martirio per difendere la fede[4], una fede che a Tiggiano e nel Capo di Leuca trova espressione salda nella pietà popolare.
[1] “HYPATIO SOLVANT VOTUM QVOS HAERNIA TORQVET TAMMERTLA ALTA SVA – 1621” Così recita il fastigio dell’altare a lui dedicato.
[2] Muro, Scorrano, Andrano, Casarano, Ruffano, Taurisano, sono comuni in cui oltre alla presenza del nome nella popolazione, si conservano opere pittoriche e scultoree dedicate al santo.
[3] Sant’Ippazio è il 19 Gennaio,La Candelora il 2 e San Biagio il 3 di Febbraio.
[4] La difesa della fede è raffigurata nel simulacro dal dragone che cerca di rapire “il tesoro preziosissimo della grazia divina” (dalle preghiere del sacerdote Andrea Caloro).
La statua del santo nella parrocchiale di Tiggiano, restaurata di recente da Andrea Erroi