Libri| La Scuola e l’Arte. Scritti per Bartolomeo Lacerenza (1940-2019)

La Scuola e l’Arte. Scritti per Bartolomeo Lacerenza (1940-2019)

a cura di Marcello Gaballo, prefazione di Antonio Bini

Mario Congedo Editore, 2021

 

Una collettanea di studi dedicati a Bartolomeo Lacerenza (Monopoli, 1940 – 2019), già dirigente di Istituti d’Arte, poi Licei artistici, curata da Marcello Gaballo.
Contiene numerosi saggi inediti, prevalentemente di storia dell’arte, che riguardano soprattutto le città pugliesi di Galatina, Monopoli e Nardò, dove ha vissuto ed operato il dedicatario, per il cui nome è inserita un’ampia raccolta di raffigurazioni del santo.
Edito da Mario Congedo di Galatina (Lecce) il volume, in quarto, è riccamente illustrato, di circa 350 pagine, con inserti a colori, rilegato in brossura e con alette, dodicesimo dei supplementi della prestigiosa Collana della Diocesi di Nardò-Gallipoli.
Pregevoli le incisioni riprodotte, conservate nella Casanatense di Roma, e le miniature dell’Estense di Modena, ma non da meno sono le diverse pale d’altare poco note e presenti in remoti luoghi italiani.
L’edizione offre altresì immagini e foto di luoghi pugliesi, a corredo dei saggi, molte delle quali poco note al pubblico e di notevole arricchimento per la storia dell’arte italiana.

 

Indice
p. 5 ANTONIO BINI, Meuccio ovvero della scuola, dell’arte, della persona
9 RAFFAELLA LACERENZA, Ex abundantia cordis…
13 FULVIO RIZZO, Bartolomeo Lacerenza e la scuola del territorio Conoscere, curare, valorizzare il patrimonio culturale
17 DON SANTINO BOVE BALESTRA, Il preside, l’amico, il docente, il
pioniere
19 STEFANIA COLAFRANCESCHI, San Bartolomeo tra arte e devozione
49 DOMENICA SPECCHIA, Lineamenti storico-artistici delle architetture
nella città di Galatina nei secoli
65 ANTONELLA PERRONE, L’attività di Giovanni Maria Tarantino presso
la chiesa dei Battenti di Galatina. Appunti di cantiere
81 MICHELE PIRRELLI, Monopoli e il Salento: contatti dal Quattrocento
all’Ottocento
95 DOMENICO L. GIACOVELLI, L’epilogo “monopolitano” della sede di
Mottola e l’infelice sorte del suo palazzo vescovile
107 ARMANDO POLITO, Camillo Querno, l’Arcipoeta di Monopoli alla
corte di Leone X
121 RUGGIERO DORONZO, La giovinezza di “Alessandro Franzino [Fracanzano] Veronese” e l’Assunzione della Vergine a Monopoli
139 CLAUDIO ERMOGENE DEL MEDICO, La reale confraternita del SS. Sacramento di Monopoli e la particolare devozione all’Eucarestia degli
Acquaviva d’Aragona in Puglia
149 MARINO CARINGELLA, Addenda a Fabrizio Fullone, pittore martinese
del ‘600
171 MARCELLO GABALLO, San Bartolomeo dei Marra. Una chiesetta e
una tela secentesche nel cuore della città di Nardò
201 MICHELE MARTELLA, Due opere restaurate dell’oratorio dell’Annunziata di Castelspina di Alessandria
207 FABRIZIO SUPPRESSA, Nardò e i suoi campanili. Tra arte, storia e architettura
221 MARCELLO GABALLO – ALESSIO PALUMBO, La vigilia della rivolta:
Giovanni Granafei e le lotte di potere nella Nardò ante 1647

235 RUGGIERO DORONZO, Per Marianna Elmo. Il San Giovanni Battista
nel deserto a Nardò
243 MARCELLO GABALLO, Tra granai e dimore storiche nel 1600. Inventario dei possedimenti della nobildonna copertinese Elisabetta Ventura, vedova di Giovan Pietro Valentino
265 ARMANDO POLITO, Una “biblioteca” giuridica del 1600 in casa del
copertinese barone Valentino
283 MIRKO BELFIORE, Il sisma del 1743 in Terra d’Otranto nelle testimonianze dirette tra Nardò e Francavilla Fontana
297 PIETRO DE FLORIO, La pittura en plein air di Arturo Santo (1921-
1989)
305 BARTOLOMEO LACERENZA, I cromatismi di Petrelli
309 BARTOLOMEO LACERENZA, La coerenza temporale e ambientale di
Gianfranco Russo
315 BARTOLOMEO LACERENZA, Recuperato a Monopoli un dramma pastorale di Marco Gatti, letterato e riformatore dell’istruzione pubblica nel Regno delle Due Sicilie

Riti e commemorazioni della Settimana Santa a Nardò

Antiche memorie dei riti e commemorazioni della Settimana Santa a Nardò prima della Riforma Liturgica (Costituzione Dogmatica “Sacrosanctum Concilium” del Concilio Vaticano II (4.XII.1963)

 

di don Santino Bove Balestra

La Settimana Santa dai fedeli era considerata come il periodo della catarsi (“purificazione” dell’anima e del corpo da ogni contaminazione) corporale e spirituale, tanto che curavano con particolare attenzione l’igiene personale e la pulizia straordinaria della biancheria e suppellettili domestiche.

Ogni sera di questa particolare settimana in Cattedrale, la Chiesa Madre, quando non era ancora consentita la celebrazione della Messa Vespertina , officiava un padre predicatore con un sermone sulla Passione di N.S.G. detto “Passio”. Vi era grande concorso di popolo che partecipava con forte impatto devozionale ed ogni fedele portava con sé dalla propria abitazione una sedia o uno scanno, che lì sarebbe rimasto per tutto il periodo ad uso personale. I pochi banchi in dotazione alla chiesa erano riservati ai più anziani, che occupavano con largo anticipo rispetto all’orario prefissato.

Il solenne triduo era il momento più forte ed aveva inizio al mattino del giovedì santo, quando, nel Cappellone del SS. Sacramento, il Vescovo con il clero secolare e regolare   celebrava la Messa Crismale. Nel pomeriggio il popolo si recava in Cattedrale, nelle chiese parrocchiali e nelle rettorie per la tradizionale visita ai cosiddetti “Sepolcri” (repositori), debitamente allestiti dalle rispettive comunità e confraternite, osservando che il numero di quelli visitati fosse dispari. Lungo il tragitto si recitava il Rosario.

Una volta giunti davanti al SS.mo Sacramento si ripeteva la seguente giaculatoria: “Sipulcru isitatu, ti lacrime bagnatu ti la tesoreria della Vergine Maria”, recitata per  tre volte, seguita da altrettanti Pater, Ave e Gloria. Si invitava a fare altrettanto anche i fanciulli presenti, riponendo un obolo nell’apposita cassetta delle offerte da destinare alle spese di culto e all’acquisto della cera che bruciava. L’addobbo del “Sepolcro” era sontuoso e solenne, ornato con tessuti pregiati, damaschi e broccati scrupolosamente conservati di anno in anno. L’Urna era collocata in basso e la porticina del tabernacolo restava aperta, mentre in alto dell’altare era alloggiato il SS.mo Sacramento in posito contenitore. I gradini dell’altare, in genere scelto tra quelli laterali della chiesa, e la mensa erano ornati con piattini su cui nelle settimane precedenti erano stati fatti germogliare  semi di frumento, lupini, ceci, cicerchie (comunemente detta tolica ianca) e lenticchie, con aggiunta di colorati fiori di campo inseriti poco prima dell’esposizione.

Questa preparazione richiedeva esperienza e particolare accuratezza, anche perché la semina su tufo e bambace disposti a strati richiedeva tempi scadenzati, così da far coincidere la crescita con la festività. Prerogativa di questi “piatti ti sipurcu” è che quanto era germogliato dovesse essere candido, bianco, in pratica senza che si fosse avuta la fotosintesi ed il conseguente verde. Per questo subito dopo la messa a dimora dei semi nei piattini e l’adeguata umidificazione del supporto si tenevano al riparo, in locali assolutamente privi di luce, per almeno 15 giorni. Qualcuno li faceva germogliare e crescere nei cassetti dei comodini, innaffiandoli dopo il tramonto, per evitare che la luce solare vanificasse quel segno di rinascita e di purezza.

Il tempo concesso per la visita ai “Sepolcri” durava fino alla recita dell’Ora Terza dell’Ufficio delle Ore, che venivano cantate in latino in Cattedrale dal “Breviario o dal Liber Usualis” del Venerdì Santo. Occorrerà la Costituzione Dogmatica “Sacrosanctum Concilium” del Concilio Vaticano II, nel 1963, per l’approvazione, da parte dei Padri Conciliari , della celebrazione in lingua italiana della Messa avvenuta questa per la prima volta precisamente il 7 marzo 1965 e presieduta da S.S. Papa Paolo VI, nella parrocchia di Ognissanti dei Padri Orionini, in Roma, la stessa dove si reca annualmente Papa Francesco.

VENERDI’ SANTO

In Chiesa Madre, dopo la recita dell’Ufficio Liturgico dal Capitolo Cattedrale, si procedeva alla rimozione dei paramenti del “Sepolcro” e a partire dalle ore 13,00 esatte fino alle ore 15.00 si celebrava “l’Agonia di N.S.G.C.” Ogni anno veniva invitato dall’Arciprete del Capitolo, un valido padre predicatore, in genere un religioso (andavano per la maggiore i Missionari della Congregazione dei PP. Passionisti o i Padri Cappuccini), che dal pergamo della Basilica commentava “Le ultime sette Parole di Cristo”, intercalando alcune giaculatorie nel proclamare ogni singola parola (statio).

Si tramanda, da una delle poche testimoni oggi felicemente in buona salute (è alla vigilia del centesimo genetliaco!) (*) che correva l’anno 1930, quando fu introdotto il suggestivo ed emotivo rituale della “Schiodazione” del Crocifisso in cartapesta, oggi custodito nella Sagrestia della Basilica Cattedrale. Ciò avvenne davanti alla prima delle colonne in stile gotico, alla destra dello “Stipone delle Sante Reliquie dei Santi”. Si racconta, da parte di chi era presente e ne sia quindi oggi preziosa e rarissima testimone oculare, che alcuni fedeli a causa di istintive reazioni emotive, causate dalle forti grida emesse da alcuni presenti nell’assemblea, crollassero di colpo a terra privi di sensi. Tanto era forte la compulsione per il commento omiletico del racconto della morte del Nazareno, a maggior ragione scenograficamente rappresentata dal distacco delle membra dello stesso Crocifisso. Ciò accadeva soprattutto dopo la settima parola: “Nelle tue mani, Padre consegno il mio spirito!”, quando seguiva un forte terrificante rumore che sembrava scuotesse le mura dell’antico edificio sacro, simile ad un boato sismico, seminando tra gli astanti panico, pianto e tremore.

Terminata “l’Agonia”, seguiva la celebrazione della cosiddetta “Messa scirrata”, officiata da tre presbiteri, in maniera del tutto disordinata, senza tovaglia sulla mensa eucaristica, o posata in modo scomposto, sgualcita e non stirata, senza i candelieri (talvolta se ne faceva uso di uno solo, senza che il celebrante indossasse la stola della pianeta, oppure si invertiva l’ordine delle ampolline dell’acqua con l’altra del vino). La durata della celebrazione era più lunga del solito, poiché, secondo l’immaginario collettivo, i tre celebranti “perdevano i sensi” e quindi il retto incedere del rito, ciò provocato dalla sofferenza della morte dell’Innocente Redentore. A tarda serata, con il calare delle tenebre, si snodava la Solenne Processione di Cristo Morto.

Erano tenuti alla partecipazione, oltre che il Vescovo, il Capitolo Cattedrale, i sacerdoti e i religiosi, anche tutte le “Congreghe” e le Pie Unioni cittadine e che, secondo un gerarchico criterio, precedevano il Carro del Cristo Morto. Si univano molte altre corporazioni cittadine, dagli artigiani ad altre categorie di sodalizi urbani, che puntualmente facevano a gara per la cosiddetta “Asta”, dove al migliore sodalizio offerente, veniva concesso il privilegio di portare la bara del Cristo Morto. I portatori indossavano rigorosamente smoking nero con camicia bianca e cravatta nera.

Si tramanda che, alcuni portatori, non avendo la possibilità economica di acquistare l’abito nero, se lo facevano dare in prestito dagli sposi novelli di quell’anno! Seguivano i devoti e quindi la statua della B.V.Maria Addolorata, vestita in nero, e portata a spalle dalle “Pie donne”, anch’esse in elegantissimo tailleur nero e guanti. Seguiva la storica famosissima Banda Verde di Nardò,  e il coro delle voci bianche (donne, adolescenti e fanciulli), che cantavano il famoso Inno a Cristo Morto (“Sulla Salma insanguinata c’è l’ucciso Nazareno”), una marcia funebre composta dal Maestro Giuseppe Cacace (1828-1891) di Taranto intorno al 1850 e introdotto a Nardò dal suo concittadino il Vescovo neretino Mons. Giuseppe Ricciardi (1839-1908).

Il Venerdì Santo era solitamente – si racconta- una giornata uggiosa, fredda e con forti raffiche di vento, così denominata dalla gente di “Amarezza” tanto che si recitava un antichissimo detto: “Puru lu Signore sta chiange!”, riferendosi al cielo grigio e senza raggi di sole. La Processione terminava all’Alba del Sabato Santo, perchè percorreva quasi tutte le vie del Centro storico, e il suo arrivo era preannunciato dal triste rumore della “troccola” (è un idiofono a percussione diretta, un tipo di strumenti musicali popolari composti di una tavola di legno su cui sono installate delle “maniglie” in metallo. Agitando la troccola le maniglie metalliche percuotono il corpo in legno producendo un suono caratteristico. I fedeli che la suonano , ancora oggi, per rispetto si tolgono il cappello e al termine la baciano, in particolare nei punti in cui vi è impresso il simbolo della Passione. La troccola in alcuni luoghi prende il nome di crotola o crotalo).

SABATO SANTO

Era il giorno della Resurrezione e a mezzodì in punto tutti i fedeli, uomini e donne, si fermavano allo scoccare dello scampanio solenne delle campane – si diceva in vernacolo: “Quandu scapulavanu li campane!” che suonavano a festa per l’Annuncio di Pasqua. Tutti, indistintamente e obbligatoriamente, nessuno escluso, in qualsiasi luogo si trovassero, interrompevano ogni forma di attività per elevare la loro preghiera di lode e ringraziamento al Signore Risorto! I contadini, poi, nelle campagne, dismessi i loro attrezzi agricoli, si mettevano “a ginucchiuni”, prostrandosi a terra e togliendosi la “coppula”, antico segno di sudditanza feudale, diventato in quell’istante vero segno di sacra riverenza all’Unico Maestro e Signore Risorto.

*Un grazie speciale alla Signora Assunta – “Ninuzza” – Giaccari per il prezioso contributo reso alla stesura del seguente articolo, quale testimonianza vivente di quanto a noi trasmesso con ammirevole cristallina memoria.

Lettera aperta a San Cristoforo al tempo del Coronavirus

 

di don Santino Bove Balestra

 

Caro San Cristoforo,

non so se tu ti ricorderai di me come io di te. Ero un ragazzo che ti vedeva dipinto all’esterno di tante piccole edicole votive – le “cuneddhe” – di campagna del nostro Salento. Affreschi spesso sbiaditi, ma ben riconoscibili. Tu – omone grande e grosso, robusto, barbuto e vecchio – trasportavi il bambino sulle tue spalle da una parte all’altra del fiume, e si capiva che quella era per te suprema fatica e suprema gioia.

Mi feci raccontare tante volte la storia da una mia zia materna, che aveva frequentato la terza elementare agli inizi del Novecento, il secolo breve, e che non era poi chissà quale esperta di santi né tua devota, ma sapeva affascinarci, quali indomiti nipoti, con i suoi racconti.

Così non ho mai saputo il tuo vero nome né la tua collocazione ufficiale tra i santi della chiesa (temo che tu sia stato vittima di una recente epurazione, che ti ha degradato a santo minore o di dubbia esistenza). Ma la tua storia me la ricordo bene, almeno nel nocciolo. Poi, per un disegno della Divina Provvidenza, circa nove anni fa mi chiesero di venire a Parabita, prima come collaboratore parrocchiale e poi parroco della Chiesa Matrice, dove, appena arrivato in un arido e afoso pomeriggio di luglio, avvicinandomi al tempio mi accorsi di un grande affresco, sbiadito dal tempo, della tua “ciclopica” immagine dipinta sulla parete esterna destra dell’edificio sacro. Mi sembrò francamente un po’ esagerata! Ma tant’è!

Ebbene in questi giorni di pandemia e di forzata vita domestica ho ripensato a Te. Tu eri uno che sentiva dentro di sé tanta forza e tanta voglia di fare, che dopo aver militato – rispettato e onorato per la tua forza e per il successo delle tue armi – sotto le insegne dei più illustri e importanti signori del tuo tempo, ti sentivi sprecato. Avevi deciso di voler servire solo un Padrone, il Cristo, che davvero valesse la pena seguire, una Grande Causa che davvero valesse più delle altre. Forse eri stanco di falsa gloria e ne desideravi di quella vera.

Non ricordo più come ti venne suggerito di stabilirti sulla riva di un pericoloso fiume per traghettare – grazie alla tua forza fisica eccezionale – i viandanti che da soli non ce la facessero, né come tu abbia accettato un così umile servizio che non doveva apparire proprio quella “Grande Causa” della quale – capivo – eri assetato. Ma so bene che era in quella tua funzione, vissuta con modestia, che ti capitò di essere richiesto di un servizio a prima vista assai “al di sotto” delle tue forze: prendere sulle spalle un bambino per portarlo dall’altra parte, un compito per il quale non occorreva certo essere un gigante come te e avere quelle “gambone” muscolose con cui ti hanno dipinto.

Solo dopo aver iniziato la traversata ti accorgesti che avevi accettato il compito più gravoso della tua vita e che dovevi mettercela tutta, con un estremo sforzo, per riuscire ad arrivare di là. Dopo di che comprendesti con chi avevi avuto a che fare e che avevi trovato il Signore, che valeva la pena servire, tanto che ti rimase per sempre quel nome che ora ti porti addosso e che significa “portatore di Cristo”.

Perché mi rivolgo a te, in quest’anno 2020? Perché penso che oggi in molti siamo in una situazione simile alla tua e che la traversata che ci sta davanti richieda forze impari, non diversamente da come a te doveva sembrare il tuo compito in quella notte, tanto da dubitare di farcela. E che la tua avventura, oggi, possa essere una parabola di quella che sta dinanzi a noi. Ormai pare che tutte le grandi cause riconosciute come tali, molte delle quali senz’altro importanti e illustri, siano state servite, anche con dedizione, e abbiano abbondantemente deluso. Quanti abbagli, quanti inganni e auto-inganni, quanti fallimenti, quante conseguenze non volute (e non più reversibili) di scelte e invenzioni ritenute generose e provvide.
I veleni della chimica, gettati sulla terra e nelle acque per “migliorare” la natura, ormai ci tornano indietro: i depositi finali sono i nostri corpi. Ogni bene e ogni attività è trasformata in merce, e ha dunque un suo prezzo: si può comperare, vendere, affittare. Persino il sangue (dei vivi), gli organi (dei morti e dei vivi) e l’utero (per una gravidanza in “leasing”). Tutto è diventato fattibile: dal viaggio interplanetario alla perfezione omicida di Auschwitz, dalla neve artificiale alla costruzione e manipolazione arbitraria di vita in laboratorio.

Il motto dei moderni giochi olimpici è diventato legge suprema e universale di una civiltà in espansione illimitata: citius, altius, fortius, più veloci, più alti, più forti, si deve produrre, consumare, spostarsi, istruirsi… competere, insomma. La corsa al “più” trionfa senza pudore, il modello della gara è diventato la matrice riconosciuta ed enfatizzata di uno stile di vita che sembra irreversibile e incontenibile. Superare i limiti, allargare i confini, spingere in avanti la crescita, ha caratterizzato in misura massiccia il tempo del progresso dominato da una legge dell’utilità definita “economia” e da una legge della scienza definita “tecnologia” – poco importa che tante volte di necro-economia e di necro-tecnologia si sia trattato.

Che cosa resterebbe da fare ad un tuo emulo oggi, caro San Cristoforo? Qual è la Grande Causa per la quale impegnare oggi le migliori forze, anche a costo di perdere gloria e prestigio agli occhi della gente e di acquattarsi in una capanna alla riva di un fiume? Qual è il fiume difficile da attraversare, quale sarà il bambino apparentemente leggero, ma in realtà pesante e decisivo da traghettare?

Il cuore della traversata che ci sta davanti è probabilmente il passaggio da una civiltà del “di più” a una del “può bastare” o del “forse è già troppo”.

Dopo secoli di progresso, in cui l’andare avanti e la crescita erano la quintessenza stessa del senso della storia e delle speranze terrene, può sembrare effettivamente impari pensare di “regredire”, cioè di invertire o almeno fermare la corsa del citius, altius, fortius. La quale è diventata autodistruttiva, come ormai molti intuiscono e devono ammettere (e sono lì a documentarlo l’effetto-serra, l’inquinamento, la deforestazione, l’invasione di composti chimici non più domabili, la xilella… e un ulteriore lunghissimo elenco di ferite della biosfera e dell’umanità, fino al maledetto virus covid19 di questi ultimi mesi che ha imposto a tutti i sapiens e a noi italiani soprattutto delle norme governative obbligatorie e coercitive per il bene della salute pubblica).

Bisogna dunque riscoprire e praticare dei limiti: rallentare (i ritmi di crescita e di sfruttamento), abbassare (i tassi di inquinamento, di produzione, di consumo), attenuare (la nostra pressione verso la biosfera, ogni forma di violenza).

Un vero “regresso”, rispetto al “più veloce, più alto, più forte”. Difficile da accettare, difficile da fare, difficile persino a dirsi. Tant’è che si continuano a recitare formule che tentano una contorta quadratura del cerchio parlando di “sviluppo sostenibile” o di “crescita qualitativa, ma non quantitativa”, salvo poi rifugiarsi nella vaghezza quando si tratta di attraversare in concreto il fiume dell’inversione di tendenza. E invece sarà proprio ciò che ci è richiesto, sia per ragioni di salute del pianeta, sia per ragioni di giustizia: non possiamo moltiplicare per 5-6 miliardi l’impatto ambientale medio dell’uomo bianco e industrializzato, se non vogliamo il collasso della biosfera, ma non possiamo neanche pensare che 1/5 dell’umanità possa continuare a vivere a spese degli altri 4/5, oltre che della natura e dei posteri. La traversata da una civiltà impregnata della gara per superare i limiti a una civiltà dell’autolimitazione, della frugalità sembra tanto semplice quanto immane. Basti pensare all’estrema fatica con cui il fumatore o il tossicomane o l’alcolista incallito affrontano la fuoriuscita dalla loro dipendenza, pur se magari teoricamente persuasi dei rischi che corrono se continuano sulla loro strada e forse già colpiti da seri avvertimenti (infarti, crisi…) sull’insostenibilità della loro condizione. Il medico che tenta di convincerli invocando o fomentando in loro la paura della morte o dell’autodistruzione, di solito non riesce a motivarli a cambiare strada, piuttosto convivono con la mutilazione e cercano rimedi per spostare un po’ più in là la resa dei conti.

Ecco perché mi sei venuto in mente tu, San Cristoforo: sei uno che ha saputo rinunciare all’esercizio della sua forza fisica e che ha accettato un servizio di poca gloria. Hai messo il tuo enorme patrimonio di convinzione, di forza e di auto-disciplina al servizio di una Grande Causa apparentemente assai umile e modesta.

Ti hanno fatto – forse un po’ abusivamente – diventare il patrono degli automobilisti (dopo essere stato più propriamente il protettore dei facchini): oggi dovresti ispirare chi dall’automobile passa alla bicicletta, al treno o all’uso dei propri piedi! E il fiume da attraversare è quello che separa la sponda della perfezione tecnica sempre più sofisticata da quella dell’autonomia dalle protesi tecnologiche: dovremo imparare a traghettare dalle tante alle poche kilowattore, da una super-alimentazione artificiale a una nutrizione più equa e più compatibile con l’equilibrio ecologico e sociale, dalla velocità supersonica a tempi e ritmi più umani e meno energivori, dalla produzione di troppo calore e troppe scorie inquinanti a un ciclo più armonioso con la natura.

Passare, insomma, dalla ricerca del superamento dei limiti a un nuovo rispetto di essi e da una civiltà dell’artificializzazione sempre più spinta a una riscoperta di semplicità e di frugalità. Non basteranno la paura della catastrofe ecologica o i primi infarti e collassi della nostra civiltà (da Cernobyl alle alghe dell’Adriatico, dal clima impazzito agli spandimenti di petrolio sui mari, e oggi del killer silente covid19) a convincerci a cambiare strada. Ci vorrà una spinta positiva, più simile a quella che ti fece cercare una vita e un senso diverso e più alto da quello della tua precedente esistenza di forza e di gloria.

La tua rinuncia alla forza e la decisione di metterti al servizio del Bambino ci offrono una bella parabola della “conversione ecologica” oggi necessaria.

Trasportando, o San Cristoforo, «il Bambino sulle tue spalle da una parte all’altra del fiume si capiva che quella era per te suprema fatica e suprema gioia».
È li, al limite, che si deve stazionare: “Restiamo tutti a casa!” perché: “Nulla sarà più come prima!” (cf. premier Giuseppe Conte).

 

(Liberamente ispirato dalla lettura di un articolo di Alex Langer, 1.3.1990, Per “Lettere 2000”, ed. Eulema)

Il Crocifisso nero nella cattedrale di Nardò

di Marcello Gaballo

 

…La prima impressione che si ottiene guardando il nostro Crocifisso è innanzitutto il rispetto delle partizioni anatomiche ed il rigoroso senso dell’ armonia, che presuppone grande sensibilità e capacità artistiche dello scultore.

Pur se evidente l’ influsso delle tradizioni religiose orientali, è uno dei modelli di Christus patiens medievali, sebbene l’ artista non ne abbia volutamente accentuato l’ aspetto patetico o tragico, sottolineando invece la serenità e sacralità.

La sua espressione, quieta e composta, come di rado si osserva in altri Crocifissi coevi, sembra più essere quella di un dormiente che di un martirizzato.

Nessuna tensione di tendini o vene, nessuna alterazione o smorfia che deforma il volto, non esagerati fiotti di sangue dalle ferite, non sopracciglia aggrottate né segni di flagellazione.

Al contrario un volto sereno, con bocca e occhi socchiusi e composti, un naso affilato che contribuisce ad ingentilire la bellezza del volto, intensamente espressivo.

“… morto senza transizioni di forme o stile, col corpo atteggiato in un composto dolore, disteso e con le braccia aderenti ai due lati della trave trasversa, col corpo afflosciato, il capo inclinato a destra, ma col volto di espressione singolare: occhi chiusi, “in beatitudine”, non glorificato ma aria di serenità in segno di magnanimo sopportamento del dolore, senza spasimo duro e prolungato; in modo che dimostrasse l’umanità veramente sofferente, con la divinità presente a sublimare l’infinito dolore ed umiliazione, volontariamente accettati”[1].

Nessuna spigolosità, anzi delicati trapassi di piani in tutta la scultura e perfino nella sottile barba, che incornicia le dolci fattezze.

Insolita la trattazione della capigliatura a ciocche ondulate, disposte ordinatamente in volumi ben definiti, ricadenti dai due lati della testa, dietro le orecchie e fin sopra le spalle[2].

Molto accurata anche la lavorazione dell’ ampio perizoma che avvolge i fianchi con una stoffa ritorta al di sotto dell’ addome e che si adatta alla linea delle gambe, senza pendere, come nella tradizionale iconografia. Vistosamente aderente al corpo, dalla parte sinistra ricade col suo lembo estremo dietro il ginocchio, che resta scoperto come l’ altro. I residui di colore rilevati nei restauri testimoniano che esso fosse di color verde e quindi anche la scultura, oggi pressochè monocroma, un tempo doveva essere di più colori[3].

Gli arti inferiori, leggermente flessi, poggiano coi piedi sul sostegno; i superiori non sono perfettamente orizzontali, mentre le mani sono inchiodate alla stesa altezza.

Le spalle sono leggermente incurvate in rapporto all’inclinazione della testa e tutto il corpo presenta una lieve curvatura rispetto all’ asse verticale della croce, quasi descrivendo una “S” a rovescio. Potrebbe trattarsi di un implicito rimando iconologico al serpente di bronzo, prefigurazione della Croce del Salvatore, innalzato da Mosè nel deserto.

Il capo dunque girato verso la spalla destra, con un riequilibrio dato dalla pendenza del bacino verso sinistra e delle gambe flesse verso destra.

E’ il corpo di un trentatreenne, modellato con estrema raffinatezza e, nonostante l’ infelice sorte, dolorosamente sereno…


[1] Discorso di S. E. Rev.ma Mons. Nicola Giannattasio, arcivescovo  di Pessinonte, nella commemorazione del  7° Centenario del Miracolo del Crocifisso “ Gnoro” di Nardò, in “Bollettino Ufficiale della Diocesi di Nardò”, gennaio 1955, a. IV n°1, pp.157-158.

[2] Il restauro ha rimosso la brutta tinteggiatura castana effettuata probabilmente il secolo scorso.

[3] Anche al di sotto della ferita del costato vi era dipinto sangue rosso vivo, per acuirne l’effetto doloroso, rimosso negli ultimi restauri.

 

(tratto da  “Il Cristo nero della Cattedrale di Nardò”, a cura di Marcello Gaballo e Santino Bove Balestra, Quaderni degli Archivi Diocesani di Nardò e Gallipoli, Nuova Serie, Supplementi II, Congedo Ed., Galatina 2005).

Libri/ Il monastero di S. Chiara in Nardò

 

Il monastero di S. Chiara in Nardò, quaderno degli Archivi Diocesani di Nardò e Gallipoli, apre la nuova serie di una produzione libraria, che si preannuncia sin da ora molto interessante.

L’auspicata promozione e valorizzazione del bene culturale, più volte propagandata da Mons. Garzia, ha trovato degno erede nel suo successore Mons. Vittorio Fusco, che ha incoraggiato e sostenuto questa ultima opera a stampa, curata da don Santino Bove Balestra e Marcello Gaballo.

Come è anche scritto in copertina, si tratta di una miscellanea di Studi nell’VIII Centenario della nascita di Santa Chiara d’Assisi, presentata in elegante volume di 325 pagine (edizioni Panico-Galatina), in ottavo, con numerosi disegni e foto in bianco/nero e colore, tra cui un prezioso ostensorio argenteo settecentesco, riprodotto in quadricromia sulla copertina e nell’interno .

Presentato da Mons. Fusco ed introdotto da d. Santino Bove, il volume si inserisce a pieno titolo tra le opere a stampa più prestigiose della giocesi, per essere, tra l’altro, corredato di numerosi documenti storici che avvalorano le tesi sostenute dai diversi Autori nei loro saggi.

Una particolare attenzione merita a tal proposito l’eccellente ed ampio contributo di Maria Rosaria Tamblè, che rivisita date e vicende della nostra storia religiosa, specie del periodo medievale, in più occasioni tramandateci artefatte e come tali riprese dagli Autori successivi.

Di taglio diverso, ma altrettanto importanti, sono i saggi dell’abbadessa Diana Papa e del prof. don Marcello Semeraro, per le considerazioni, e le riflessioni che spontaneamente derivano, riguardo la vita consacrata e l’ esempio sempre attuale della “pianticella” di Francesco, Chiara di Assisi.

Accrescono il pregio del volume i due contributi di Luisa Cosi e Marta Battaglini, l’uno concernente l’attività musicale tenutasi nella chiesa nei secoli XVII-XVIII, grazie alla partecipazione di musicanti ed orchestrali di tutta la provincia; l’altro mirante a descrivere e far conoscere l’inedito e prezioso paliotto del nostro monastero, gioiello dell’arte del ricamo.

Nuovi spunti per la ricerca offre il saggio di Marcello Gaballo su un’autentica cronotassi delle badesse e le origini familiari delle sorelle ospitate nel corso dei secoli, quasi tutte nobili “per censo e per titolo” ed in buona parte dirette discendenti dei duchi Acquaviva. Più tecnico, ma comunque interessante, il secondo contributo dello stesso Autore, che si sofferma sull’evoluzione dell’insegna francescana, sull’abito e sul sigillo delle monache.

Altri ausili per gli studiosi vengono poi offerti dall’indice delle scritture del monastero, finalmente reso noto, grazie al paziente e qualificato lavoro offerto da Alessandra Carucci e Paola Valentini, e dalla riedizione del catalogo del “Dono di S. Chiara”, scritto da Maria Teresa Tafuri da Melignano.

Altrettanto importanti, perché inedite, sono le riproduzioni delle bellissime tele conservate nel convento: le foto a colori di alcune di esse, buona parte di scuola napoletana sei-settecentesca, impreziosiscono ulteriormente il volume. Spiccano per la preziosità e la fattura quelle del Solimena e del Lucatelli, oltre a quella cinquecentesca del neritino Antonio Donato d’ Orlando (Vergine Maria con S. Domenico e S. Caterina).

Il lavoro, molto apprezzato e richiesto, più volte recensito sui giornali ed in televisione, è stato presentato nel pomeriggio del 4 aprile 1998, nella suggestiva sala d’accoglienza del monastero clariano, organizzato dall’Ufficio Diocesano dei Beni Culturali.

Di fronte a numeroso pubblico sono intervenuti Mons. Salvatore Palese, la Dott. ssa Porcaro Massafra ed il Dott. Antonio Cassiano, moderati dal Prof. Benedetto Vetere, che hanno sottolineato l’importanza del volume nei suoi contenuti e nelle diverse piste che esso offre per una ricerca solo apparentemente conclusa.

La Fondazione Terra d'Otranto, senza fini di lucro, si è costituita il 4 aprile 2011, ottenendo il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia - con relativa iscrizione al Registro delle Persone Giuridiche, al n° 330 - in data 15 marzo 2012 ai sensi dell'art. 4 del DPR 10 febbraio 2000, n° 361.

C.F. 91024610759
Conto corrente postale 1003008339
IBAN: IT30G0760116000001003008339

Webdesigner: Andrea Greco

www.fondazioneterradotranto.it è un sito web con aggiornamenti periodici, non a scopo di lucro, non rientrante nella categoria di Prodotto Editoriale secondo la Legge n.62 del 7 marzo 2001. Tutti i contenuti appartengono ai relativi proprietari. Qualora voleste richiedere la rimozione di un contenuto a voi appartenente siete pregati di contattarci: fondazionetdo@gmail.com.

Dati personali raccolti per le seguenti finalità ed utilizzando i seguenti servizi:
Gestione contatti e invio di messaggi
MailChimp
Dati Personali: cognome, email e nome
Interazione con social network e piattaforme esterne
Pulsante Mi Piace e widget sociali di Facebook
Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo
Servizi di piattaforma e hosting
WordPress.com
Dati Personali: varie tipologie di Dati secondo quanto specificato dalla privacy policy del servizio
Statistica
Wordpress Stat
Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo
Informazioni di contatto
Titolare del Trattamento dei Dati
Marcello Gaballo
Indirizzo email del Titolare: marcellogaballo@gmail.com

error: Contenuto protetto!