Cinquant’anni dopo…
di Pino de Luca
Ci siamo quasi. Tra due giorni inauguriamo la mostra sul cinquantenario delle vittime della “Rivolta delle Uve”. Eventi lontani nel tempo eppure molto vicini. Le Istituzioni allora furono lontane dai bisogni della popolazione, addirittura ostili e nemiche. Così maturò l’eccidio. Uno Stato che guardava al Sud come i nuovi schiavi da deportare nel nord industrializato e povero di manodopera.
Bisognava schiacciare quella voglia di riscatto, un filo unico che da Portella delle Ginestre attraversa tutto il mezzogiorno d’Italia, tenuto per decenni sotto il tallone del sottosviluppo, delle mafie cresciute con il silenzio e la complicità delle classi dirigenti, con personale politico pronto a vendere l’anima non per promuovere la propria terra ma solo se stessi.
A quella condizione si ribellavano i contadini ed i braccianti, chiedendo che il frutto del duro lavoro dei campi fosse considerato nel suo valore. Per questo scoppiarono i moti e vennero i morti.
Mario e Alfredo hanno promosso l’iniziativa nel paese di quei morti. Perché non bisogna dimenticare il proprio passato se si vuole comprendere il presente e capire da che parte è il futuro. Cosa abbiamo oggi? Il disinteresse più ampio di quella che si autodefinisce “classe dirigente”. Le adesioni che sono venute appartengono per lo più a persone che hanno scelto di mantenere il rispetto per il proprio territorio e per se stessi, e a persone che mantengono intatta la primarietà di una sfera ideale alla quale non sanno o non possono rinunciare.
Ma stiamo parlando di esigue minoranze, qui si partecipa, si ascolta, si studia. Non ci sono prebende, poltrone o strapuntini, e nemmeno battute salaci o volgarità gratuite. Qui si fa memoria e impegno, lavoro e seria concretezza, e allora la gran parte degli organi di informazione si estrania.
Non fa audience la vicenda di tre braccianti che cinquant’anni fa rimanevano a terra. E chi se ne frega delle lotte contadine, cose vecchie, passate. Adesso