di Brizio Montinaro*
Che il Salento sia una penisola estremamente pietrosa non sono più solo gli abitanti del posto a saperlo, non sono i contadini disperati e piegati in due dal lavoro a farne quotidianamente i conti, ma oggi lo sanno anche i tanti turisti che vengono in questa terra dal misterioso fascino, arcaica e piena di sole a trascorrere le loro feriae. italiani e stranieri. Il Salentino ha avuto sempre un rapporto stretto con la pietra. E non è casuale che sia proprio questa terra uno dei siti più ricchi di monumenti di pietra: i megaliti.
Dolmen, specchie e menhir a centinaia sono sparsi per questo estremo lembo d’Italia. Nel 1955 G. Palumbo in un suo ” Inventario delle pietrefitte salentine ” contò poco meno di cento soltanto di questi prismi di pietra alti e sottili. E poi ancora i dolmen, mai veramente contati, e le tante specchie il cui mistero mai e stato risolto. ” Congestio lapidum ” dicono gli antichi storici e stendono un velo. E intanto intorno a questi coni di pietre si intrecciano in una fitta rete storie di sudore contadino, di tesori nascosti, di diavoli che si presentano come grandi bisce nere, more, come more erano altre bestie nella fantasia popolare: i Saraceni che terrorizzavano le genti delle masserie e delle terre costiere nei tempi passati.
In questi ultimi decenni i megaliti hanno cessato completamente di “parlare” ai salentini o, forse meglio, i salentini non intendono più il linguaggio delle pietre monumentali, linguaggio oggi quanto mai difficile, criptico. Sono attratti da altro, da altri problemi, da altre terre. La campagna non li interessa e le pietre che li hanno per secoli angosciati non li toccano più. Sono le coste la loro meta, il loro interesse, la loro speculazione. Ma in tanta indifferenza c’è ancora una pietra degna di attenzione perché parla un linguaggio chiaro e comprensibile. E’ una pietra che almeno una volta l’anno è meta di visite, se non proprio di pellegrini e devoti, come avviene in altri Santuari salentini, di persone che in un certo qual modo la venerano e credono confusamente ad un suo magico potere.
Appena fuori dell’abitato di Calimera, un paesino di origine greca a 15 chilometri a sud di Lecce, ad est del cimitero, nei pressi del fondo detto Malakrito esiste una piccola cappella dedicata a San Vito, chiusa tutto l’anno. Intorno, piccoli apprezzamenti di terreno coltivati in massima parte a olivi e spesso a metà tra la campagna vera e propria e l’orto.
A pochissima distanza le querce di un bosco, del bosco di Calimera. Nell’interno della cappella, leggermente sulla destra, sporge dall’impiantito una grossa pietra calcarea. Su parte della superficie, tracce di colore di un dipinto difficilmente riconducibile ad un preciso momento storico e raffigurante forse l’effigie di San Vito.
Tutti gli anni, il giorno di Pasquetta, gli abitanti del vicino centro di Calimera andavano, e ancora vanno, a consumare la festa a ” Santu Vitu “, come oggi si